“Gesù
rispose loro: In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete
visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la
vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio,
ha messo il suo sigillo” (Gv 6,24-35).
Domenica
scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il
vangelo ci racconta quel che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di
Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati
tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che può prendersi cura di loro;
uno pertanto che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo
punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo
ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono
avere assicurato ogni giorno quel pane che li sazia.Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il pane spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
“Vita eterna”: in greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bios”, che indica la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoè” che si riferisce alla vita interiore, alla vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. Ed è esattamente questo il termine che Giovanni fa dire qui da Gesù.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bios), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma è altrettanto naturale e ovvio che se non nutriamo la nostra vita interiore (zoè), la nostra anima muore. Semplice, elementare!
Eppure, quanti di noi si preoccupano oggi di nutrire la loro vita spirituale? A chi sta veramente a cuore? Se ci capita di interpellare le persone con un banale “Come stai?”, tutti, indistintamente, rispondono riferendosi alla salute, al lavoro, agli affari. E si fermano qui. Per loro la vita è una sola, quella fisica. Dimostrano di ignorare di avere un’anima. Oppure sanno benissimo di averla, ma non ci pensano, si vergognano di parlarne, hanno paura di ammettere qualunque riferimento con Dio, con il soprannaturale, perché conoscono bene i doveri e le problematiche che poi ne derivano.
Se però ad un certo punto della nostra vita, tutto sembra andare a rotoli, se la salute viene meno, se i nostri progetti di vita si infrangono, immediatamente ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, gli rinfacciamo la sua bontà e le sue promesse di costante aiuto. Cadiamo in depressione, piangiamo, ci sentiamo abbandonati da tutti e non riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Soltanto che, invece di prendercela con Dio, dovremmo prendercela con noi stessi per aver dissipato il nostro tempo, per non aver seminato nulla di spirituale, di eterno; ci siamo occupati solo del nostro star bene, dei piaceri della vita, della carriera, del denaro, della gloria. Per Dio, per la nostra anima, non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla.
La vita spirituale non è a sé stante, autonoma, indipendente da noi: al contrario essa è strettamente subordinata alle nostre opere, alle nostre scelte: se non la coltiviamo, non la alimentiamo, non curiamo quel piccolo seme che Dio ha seminato in noi, essa morirà, si seccherà, la perderemo strada facendo. All’inizio c’era, è sbocciata con il soffio divino che ha generato la nostra vita, doveva crescere, irrobustirsi, doveva diventare la guida sicura nel nostro inutile vagabondare nel tempo, ma noi l’abbiamo ignorata: senza alcun nostro interesse, senza le nostre cure salutari, è deceduta, si è spenta.
Se causare
la morte di qualcuno, ancorché involontariamente, lo riteniamo un dramma, una
tragedia incalcolabile, perché causare la morte dell’anima, opponendoci a Dio
di vivere in noi, non preoccupa ormai più nessuno? Forse che la morte spirituale
è meno drammatica di quella corporale? Che l’essere esclusi dalla visione
finale di Dio, dal suo amore eterno, è meno tragico?
Non
facciamoci illusioni fuorvianti: anche se riuscissimo a raggiungere il massimo
del benessere, anche se la nostra vita terrena fosse ai massimi vertici, privi
di una concreta vita spirituale, continueremmo a non apprezzare nulla, ci
sentiremmo incompleti, perennemente insoddisfatti, dei falliti. Nulla di questo
mondo potrà mai appagarci, nulla riuscirà a soddisfarci completamente; non ci
basta il tempo che abbiamo per vivere: cinquanta, settanta, novant’anni: quando
saremo giunti al dunque, vorremo sempre altro tempo. La fine ci sembrerà sempre
troppo prematura; la cruda realtà dei limiti umani, un’ingiustizia. Perché noi
siamo stati pensati da Dio per l’eternità, per un tempo senza fine, per un mondo
infinito “al di là” di questo. Non ci sarà mai in questo mondo abbastanza
ricchezza che ci appaghi, che ci soddisfi. Più ne abbiamo, ancor più ne
vorremmo: i soldi saranno sempre il nostro tarlo quotidiano, non ci basteranno
mai. Se avessimo tutta la terra, vorremmo la luna; se avessimo la luna
cercheremmo l’intero sistema solare; perché noi siamo fatti per godere di una
ricchezza in grado di colmare la nostra anima e non le nostre case, le nostre
tasche, i nostri conti bancari. Noi siamo fatti per una ricchezza che non passa
mai, per la Ricchezza che resta. Nessun successo sarà mai in grado di renderci veramente felici. Possiamo essere famosi, osannati, rispettati, emulati e applauditi. Possiamo far in modo che tutti dicano bene di noi. Possiamo essere dei “miti”, ma questo non basterà mai a renderci davvero felici. Abbiamo un bisogno costante di nuovi e più grandi successi, perché nell’intimo cerchiamo un’altra felicità: una Felicità che non è di questo mondo, che non possiamo raggiungere qui, poiché la nostra vita spirituale, quel seme dello Spirito che è dentro di noi, ci spinge continuamente all’eterno.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
La fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono ancora completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. I discepoli vogliono conferme, prove, altri segni. Chi ancora non crede, chiede miracoli, cerca all’esterno quella spinta, quell’impulso, che non trova dentro di sé; chiede cioè qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere. Ma non capisce che Dio non vuole dei “costretti”, non gli interessa gente che crede perché non può farne a meno; egli non ama le persone “tappetino”: vuole uomini liberi, uomini che lo seguano non perché obbligati da una legge o affascinati da miracoli o visioni soprannaturali, ma perché lo amano, perché lo sentono palpitare vivo nel loro cuore.
Gesù è chiaro: il miracolo che mi chiedete, l’opera di Dio che voi volete imitare, è una sola: “che crediate in colui che egli ha mandato”. Tutto qui: “fides sufficit”, basta la fede in Dio; per fare “miracoli” non serve nient’altro. Una fede però che deve essere vera, profonda, autentica, animata dall’amore; perché solo così sarà possibile fare, in suo nome, opere “divine”, sensazionali. Niente esibizionismi funamboleschi, niente spettacoli da baraccone: il divino non si rivela su ordinazione, ad un nostro cenno; Gesù non sopporta le false commedie da palcoscenico. Se sono i miracoli che servono oggi nel mondo, se di “segni” c’è bisogno, siamo noi che dobbiamo diventare “miracoli” umani, “segni” viventi di Dio. Come? Credendo sul serio in Lui: aderendo a Lui, alla sua volontà, con una fede libera, sincera, convinta, espressione del nostro sincero e umile amore per Lui; una fede che deve essere il nostro sostentamento, quel cibo divino, quel “pane” quotidiano che unico può dare vigore alla nostra anima.
“Io sono quel pane”, dice Gesù. Ecco perché ogni giorno dobbiamo aver fame di lui, ogni giorno dobbiamo sentirne un bisogno assillante, ogni giorno dobbiamo avvertire la necessità vitale di rimangiarlo. Lui è sempre a nostra disposizione, continua ad aspettarci ogni giorno; la sua è un’offerta costante di amore, perché conosce questo nostro insaziabile bisogno di Lui.
Allora, ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia diciamogli: “Ti aspettavo, Gesù, ho bisogno di te!”, e sentiremo Lui che, entrando nel nostro cuore, ci risponderà dolcemente: “Sono qui solo per te, non vedevo l’ora di venire per aiutarti, per darti una mano, per amarti, per guarirti, per servirti, per tenerti stretto a me”. Amen.