«Io
sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv
10,11-18).
Il
vangelo di oggi indugia nel tratteggiare quelle che sono le qualità di un
pastore “buono”.
Pastore
buono è colui che segue le pecore, colui che si prende cura di loro: le
conosce per nome, una per una, le difende dai pericoli, le protegge dai lupi;
se si perdono, va a cercarle fino a quando non le trova; egli ama talmente le
sue pecore, da dare perfino la propria vita per loro. È l’opposto del pastore mercenario:
questi fa il “pastore” per lavoro, per soldi, per interesse, in cambio di un
tornaconto; a lui non interessano le pecore, ma l’utile che può ricavare da
esse. Non le ama, le sfrutta: esattamente come succede spesso anche a noi.
Invece di prodigarci per i fratelli, invece di aiutarli, noi spesso li usiamo
per noi stessi; approfittiamo di loro per controbilanciare le nostre carenze.
Abbiamo esempi continui di gente che abusa del prossimo: datori di lavoro,
politici, amici, colleghi: “pastori” che dimostrano un certo interesse nei
confronti delle loro “pecore”, soltanto se la pensano come loro, solo se sono
sottomesse, se eseguono passivamente gli ordini, se non creano problemi, se
sono produttive. E poi? Poi il nulla. Sono dei tiranni, degli egocentrici, degli
imbroglioni, mossi soltanto dalla fame di denaro.Tutti noi invece abbiamo bisogno di pastori “buoni”, di pastori autentici: persone che ci siano sempre, che ci diano la certezza di venire sempre accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone delle quali poter dire: “Sono tranquillo perché so che se anche tutto andrà male tu ci sarai sempre, non mi abbandonerai mai, sarai sempre con me”. Persone che ci rassicurano, che hanno un cuore che trabocca d’amore.
Sono questi i pastori che dobbiamo imitare: perché nella vita tutti siamo chiamati a rivestire un ruolo importante di “pastori”, di guide responsabili.
Prima di tutto siamo i pastori di noi stessi: il recinto è la nostra vita e dentro ci sono le nostre pecore: ci sono cioè le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, le nostre necessità. E come il buon pastore dobbiamo amarle, queste nostre pecore, dobbiamo conoscerle, sentirle nostre. Belle o brutte che siano, sono le nostre pecore e per esse dobbiamo affrontare qualunque contrarietà.
Essere allora dei “buoni pastori” di noi stessi significa non essere troppo intransigenti, troppo sicuri di quanto facciamo, troppo orgogliosi; significa aver pazienza quando sbagliamo, cercarci e ritrovarci quando ci perdiamo, saper aspettare quando qualcosa di noi zoppica, non va. Il nostro crescere, il nostro diventare migliori, ha bisogno di molto tempo, di umiltà, di seria applicazione, di costanza. Al contrario noi vorremmo risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile. Il che, in pratica, equivale a non affrontare per niente il problema, o quantomeno cercare una soluzione, un rimedio, una risposta, che non coinvolga più di tanto.
In secondo luogo, siamo i pastori anche dei nostri fratelli. E dobbiamo essere anche qui dei pastori veramente “buoni”.
Dobbiamo cioè stare attenti a quelle pecore che appartengono al nostro gregge, che ci sono più vicine; a quelle, in pratica, che abbiamo davanti tutti i giorni, con le quali dobbiamo relazionarci più frequentemente: non dobbiamo umiliarle, non dobbiamo usarle, perché come pastori, come guide, come maestri, come genitori, come leader, dobbiamo averne il massimo rispetto, la massima cura: sono le “pecore” nostre compagne di percorso, sono il nostro capitale umano.
Allora, essere “buon pastore” vuol dire credere nelle proprie pecore. Vuol dire credere che in ogni persona c’è un fondamento buono. Significa avere e trasmettere stima. Se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo ascoltare per primi. Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altra. Dirigere, guidare delle persone, significa stimolarle, incoraggiarle, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse, quello che hanno dentro, spronandole all’entusiasmo, alla creatività; vuol dire soprattutto amare le proprie pecore. E amare significa servire: mettersi cioè al servizio delle loro potenzialità, di ciò che esse sono, di ciò che possono fare, del loro bene; non significa uniformare gli altri a noi stessi, ma chiederci cosa è meglio per loro, per la loro persona. Vuol dire ascoltare, mettersi a servizio del loro mondo, di ciò che desiderano, mettendo in secondo piano ciò che invece vorremmo noi.
Attenzione però: questa importante “apertura”, questa sensibilità, non va assolutizzata: non deve cioè “condizionare”, sempre e comunque, il pastore: non deve influenzare il discernimento, le sue valutazioni. Egli deve in ogni caso conservare sempre intatta la sua libertà: chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni eventuale richiesta velleitaria, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una pecora finita fuori strada, va fatto, con carità, ma senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono dei genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno mantenere una posizione. Così il padre o la madre, per assecondare i figli, finiscono per litigare tra di loro: con il risultato che il debole, quello dei due più disponibile, passa per buono, l’altro per cattivo, intransigente. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi da tiranno, da despota, convinto di poter fare sempre nella vita ciò che vuole. È fondamentale sapere inoltre che il troppo buono, colui che non sa dire un “no” quando serve, non verrà mai apprezzato quanto merita.
Molti pastori non si oppongono mai nelle loro decisioni per paura di offendere, di ferire, di oltraggiare gli altri; pensano di essere considerati delle persone crudeli, in balia di pregiudizi. Ma non è così: il dispiacere, la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono decisamente positivi, costruttivi, obbligano a fare delle esperienze altamente educative, fanno capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto e lecito; che sulla strada da percorrere ci sono dei limiti, dei paletti, imposti dalla convivenza, dalla morale, dalla coscienza.
Altra prerogativa del buon pastore è quella di stare sempre davanti al gregge: la guida deve sempre precedere il gruppo: deve indicargli la strada percorrendola per prima, dando il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi le scorciatoie più agevoli e sicure.
Infatti, le regole che valgono per le “pecore”, valgono anche per i “pastori”, per le guide, per i formatori. Se vogliamo che gli altri ci ascoltino, dobbiamo noi per primi ascoltare gli altri.
Se vogliamo che le regole del convivere siano rispettate da tutti, noi per primi dobbiamo rispettarle. Chi pretende dagli altri ciò che lui per primo non fa, perde ogni autorevolezza, si scredita irrimediabilmente di fronte a tutti.
Purtroppo ci sono molti falsi pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) che non sono coerenti, non sono obiettivi, abusano volentieri del loro potere. Non sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano i loro fratelli come se fossero degli ingranaggi utili soltanto per fare soldi, per creare il loro benessere; li considerano oggetti privi di valore, di dignità. Al contrario un pastore “buono”, una buona “guida”, stimola, incoraggia, aiuta sempre gli altri: perché è convinto che questo è il suo compito, questa è la sua missione; che questo è l’amore; che questo è servire gli altri. Che questo, in particolare, è quanto ci ha insegnato Gesù. Amen.