«In
quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta
giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).
Con il vangelo di oggi che fa riferimento al deserto e alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. È in questo istante che Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Com’è possibile?” ci chiediamo perplessi: “perché lo Spirito si comporta in maniera così apertamente contrastante, incoerente!”. Se pensiamo così, però, dimostriamo di non aver capito Dio, dimostriamo di esserci fatta di Dio un’idea completamente sbagliata. Noi umani, in proposito, siamo abituati a interpretare le cose a modo nostro: se la cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che proviene direttamente da Dio, che è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è può essere Dio che ce la manda, lui che è solo così buono e misericordioso! ma deve essere sicuramente un castigo, una punizione che viene dal demonio, dal male.
Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene sempre da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: se poi è negativa, preoccupiamoci piuttosto di capire il vero motivo di quella “prova” che Dio ci manda: perché sempre di una “prova” si tratta, mai di una “ingiustizia”, di una “cattiveria”, di un “male” fine a se stesso. E allora, invece di prendercela con Dio, cerchiamo di capire cosa Lui vuol dirci, cosa vuole insegnarci, su cosa dobbiamo lavorare; cerchiamo quindi di individuare qual è la strada giusta da imboccare, dov’è lo strapiombo da evitare, la difficoltà da superare, quale il comportamento da mantenere.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori. Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: il male, il peccato sono le nostre azioni, sono il prodotto della nostra libertà, la scelta di fare quanto lui ci prospetta; Satana, è il tentatore, colui che cerca di portarci lontani da Dio, colui che ci sottopone a continui “esami di maturità”, è un’esperienza che è parte fondamentale della nostra vita di creature decadute, un “passaggio obbligato” attraverso cui tutti dobbiamo passare per evolvere, per maturare, per poter liberare l'energia e le potenzialità enormi che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, l’avversario, svolge soltanto una funzione tutto sommato necessaria, positiva, costruttiva, utile alla nostra crescita; un intervento il suo molto importante per la nostra educazione, per poter maturare, per renderci responsabili nell’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro indolenza, della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi e prendere le dovute decisioni: un comportamento facile facile, perché se è il demonio che vuol “punirci”, noi, cosa possiamo fare? Assolutamente nulla!
Se però consideriamo le difficoltà della vita, le contrarietà, le tragedie, se consideriamo il male, le sofferenze, le angosce non come “punizione” di Dio, oppure opera del demonio, ma come espressione della volontà di Dio finalizzata esclusivamente al nostro bene, allora arriveremo a capire che il “male” è semplicemente una prova da della vita, una situazione che dobbiamo affrontare in vista di un “bene” decisamente superiore, impensabile: la visione continua e totale dell’Amore assoluto, il suo godimento eterno.
Allora arriveremo a capire che Dio non può volere il nostro male. E come lo Spirito, dopo l’attestato di stima e amore, costringe l’uomo Gesù nel deserto, nelle prove, nella sofferenza, così continua a fare anche con noi, “abbandonandoci” nel “deserto” della nostra umanità; e lo fa perché dobbiamo imparare a combattere i nostri demoni, a confrontarci faccia a faccia con loro e uscirne vincitori, purificati, dimostrando di essere dei figli in grado di conservare la fede, la fiducia, nel proprio Padre.
La funzione di Satana, quindi, esercitata mediante la tentazione (peirasmos), è soltanto quella di “verificare”, di fare una “prova”, “un test”, sulla nostra autenticità di cristiani, sulla consistenza del nostro “credo”, sulla coerenza della nostra vita. È semplicemente un “esame” cui non possiamo esimerci. Non è Dio che vuole “bocciarci” a tutti i costi.
Assolutamente no. Sono le nostre libere scelte che lo decidono; scelte espressamente volute, mediante le quali dimostriamo, documentiamo, riveliamo ciò che siamo in realtà: quali sono le nostre capacità, la nostra volontà, la forza della nostra fede, la potenza del nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità, la nostra “maturità” spirituale.
La tentazione in sé non è il male; è semmai l’opportunità che abbiamo per capire cos’è il male, un male che essa ci propone come un bene assolutamente desiderabile; è la possibilità che abbiamo di confrontarci col nostro “alter ego”, quel nostro “io” segreto che non vogliamo vedere né tanto meno far vedere, quell’io che preferiamo ignorare.
Ebbene, la tentazione ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla sua zona d’ombra dentro di noi: ne seguirà uno scontro, una lotta interiore a volte molto impegnativa, ma solo uscendone vincitori riusciremo a far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha posto dentro di noi. E allora tutto sarà più bello, tutto sarà più luminoso, tutto nella nostra vita sarà più sopportabile, più facile, più entusiasmante.
Come infatti ci rivela il Vangelo, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Da quel momento non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione.
Una conferma che le tentazioni, dono di Dio, ci infondono quella forza irresistibile, quella maturità, quella convinzione che altrimenti mai avremmo raggiunto.
Ecco allora la necessità di entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Perché ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, ottiene sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nelle zone d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere, di coltivarle, di valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente, dobbiamo scontrarci col male per uscirne vincitori. Non a caso il vangelo parla di “deserto”. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo, fatica, costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una iniziativa, vuol dire che quel progetto non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.