«Gesù si trovava in un luogo a
pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Ed
egli disse loro: Quando pregate, dite, Padre…» (Lc 11,1-13).
«Padre…». Un giorno un bambino chiede a
sua madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prende in braccio, lo stringe forte
al suo cuore e gli dice: “Cosa senti?”. “Sento che mi vuoi bene”. E la mamma:
“Ecco, questo è Dio!”. Ed è vero. Dio è nostro Padre e ci ama così. Se quando
ci rivolgiamo a Dio, non proviamo l’intima sensazione di un amore infinito e avvolgente,
un senso profondo di pace, di tranquillità, di sicurezza, di misericordia, di
perdono, di libertà, di accoglienza, vuol dire che ancora non conosciamo Dio;
vuol dire che non lo sentiamo ancora come “nostro” Padre; vuol dire che viviamo
ancora nell'ignoranza più totale di Dio.
«Sia santificato il tuo nome». Molte persone di fronte a
questa preghiera pensano subito alle bestemmie, al parlar male di Dio,
all'usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi bestemmiamo (non santifichiamo)
Dio in maniera ancor più grave, quando viviamo al di sotto delle nostre
possibilità; bestemmiamo Dio, quando ci lasciamo vivere ai margini dell’amore;
quando ignoriamo Dio; quando - per paura, per ignoranza, per egoismo - smarriamo
la strada che ci conduce all’Amore; quando non sappiamo accorgerci della Sua
presenza amorosa al nostro fianco. Certe vite sono un’autentica bestemmia a Dio
perché sono aride, non si costruiscono, si lasciano andare; perché rinnegano
con la loro inesistenza la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali,
banali. Allora possiamo anche confessare parolacce e bestemmie, ma dobbiamo soprattutto
chiedere perdono e convertirci, quando la nostra vita è rinnegamento della
grandezza, dell’entusiasmo, dell’amore, della meraviglia e dello stupore di
fronte al bello, che Dio ha immesso in noi; quando cioè la nostra vita è
completamente indifferente a questi valori. Ogni volta che viviamo al di sotto
della nostra grandezza e dignità di figli di Dio, noi non solo non lo “santifichiamo”
per averci creato “grandi”, a sua immagine e somiglianza; ma lo abbassiamo stupidamente
alla nostra visione gretta e ristretta della vita. Dio è infinitamente più
grande; Dio è oltre, Dio è un'esperienza personale che non finiremo mai di
scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare. Questo è il mistero di Dio:
di fronte a Lui non ci resta che inchinarci umilmente e fare silenzio, perché
Lui è Santo, Altro, Oltre...
«Venga il tuo regno»: si realizzi, accada, si
compia in me ciò che tu vuoi. Il regno di Dio è la possibilità che abbiamo di
instaurare in noi la viva presenza di Dio. Noi possiamo trasformare questa
possibilità in realtà: sta a noi fare in modo che ciò si attualizzi, si realizzi,
accada; che cioè Lui sia in noi, sia evidente a tutti; che tutti lo possano
vedere nella nostra vita, attraverso le nostre scelte, le nostre azioni, i nostri
impegni sociali, i nostri progetti. Altrimenti, pur essendo una possibilità
reale, vicina, alla nostra portata, il regno di Dio continuerà a rimanere per
noi un bel progetto, un sogno vagheggiato, una realtà incompiuta, accantonata. Quando
ci impegneremo veramente perché la nostra vita diventi autentica, vera, allora il
regno accadrà in noi; quando il nostro amore diventerà meno possessivo e
condizionante, quando diventeremo più aperti e meno giudicanti, allora il regno
si realizzerà in noi; quando lotteremo per l'ingiustizia nel nostro ambiente di
lavoro, nella società, nella famiglia, quando alzeremo la voce di fronte alle
ipocrisie, quando con il nostro silenzio e la nostra indifferenza non permetteremo
agli altri di umiliarci e di umiliare i nostri sentimenti, la nostra fede, i
nostri principi, allora il regno si realizzerà in noi; quando ci esporremo,
quando non indietreggeremo di fronte alle sfide, alle provocazioni, ai
conflitti, al male invadente, quando metteremo in gioco la nostra vita per la
solidarietà, la comunione fraterna, la verità, allora il regno accadrà in noi. Ecco:
ogni volta che preghiamo “venga il tuo
regno” noi chiediamo a Dio di renderci suoi “strumenti” attivi, in modo che
tutto ciò che Lui vuole per il mondo si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane
quotidiano».
Come il cibo naturale ci fa vivere, ci nutre, ci irrobustisce, oppure ci
intossica, così tutte le cose di cui “ogni giorno ci nutriamo” ci fanno, ci costruiscono,
ci completano, ci formano, oppure ci “de-formano”. Così “mangiare” esperienze
positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, vivere in ambienti
mentalmente aperti e affettivamente ricchi, perdonare, cambiare in meglio, andare
a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, tutto
questo è il “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma, ci
alimenta, delinea la nostra fisionomia. “Mangiare” esperienze negative,
rimanere in ambienti di chiusura totale, di scelte meschine e ignoranti, di
odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati, non darsi
occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d'amore; essere sempre rigidi,
controllati e prevenuti; vivere maledicendo la vita, sono le cose che ci “costruiscono”
negativi, che ci “de-formano”, che progressivamente ci distruggono. Non è la
singola domenica che ci fa cristiani ma domenica dopo domenica, un giorno dopo l’altro.
Se continuiamo a privarci dell’unico cibo che ci da sostanza, del cibo vero che
è Dio e tutto ciò che lo riguarda (il canto, la comunità in preghiera, il
vangelo, il clima fraterno, la partecipazione al banchetto eucaristico, il
coinvolgimento) rinsecchiamo, diventiamo sterili e vuoti. Noi diventiamo ciò
che facciamo. Noi diventiamo ciò che mangiamo, ciò di cui ci nutriamo;
diventiamo le persone e gli ambienti che frequentiamo; diventiamo le cose che
facciamo, le esperienze che scegliamo. Tutti siamo condizionabili, tutti sono
condizionati; ma sta a noi decidere da chi e da che cosa farci condizionare.
Tutti devono mangiare, tutti mangiano, ma sta solo a noi decidere cosa
mangiare. Sta a noi decidere da cosa farci nutrire. Per cui una grande e
responsabile scelta, nella nostra vita, è quella di “conservare” coscientemente
il “cibo” che ci fa bene, che ci costruisce, che ci da forza; ed eliminare
quello “guasto”, quello che ci fa star male. Se un cibo ci fa male - è ovvio – noi
non lo mangiamo: eppure ogni giorno continuiamo incoscientemente a cibarci di
robaccia, di cibi avariati, di cibi vecchi, scaduti, malsani. Attenzione:
perché noi, come ho detto, diventeremo esattamente quello di cui ci nutriamo
ogni giorno: teniamolo a mente e non incolpiamo nessuno della nostra situazione.
«Perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Il perdono deve essere il nostro
pane quotidiano (perdono e pane in ebraico hanno le stesse consonanti);
ciò di cui ogni giorno dobbiamo nutrirci, alimentarci, perché le nostre energie
siano libere e vitali e non incatenate nel risentimento e nell'odio. Pertanto ogni
giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri
sentimenti di odio e tutto ciò che ferisce noi e gli altri. Ogni giorno dobbiamo
alzarci sapendo che il pane sostanzioso, quello che ci nutre per tutta la
giornata, sarà il perdono. Dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per gli
errori che abbiamo fatto, anche per quelli inconsapevoli; dobbiamo perdonare le
persone che ci fanno del male, che esprimono giudizi sommari e falsi sul nostro
comportamento, sul nostro modo di fare, su come parliamo, su come viviamo; le
persone che parlano a vanvera, che non sanno ma calunniano, che malignano su
tutto. Più che reagire, non sappiamo mai dove una reazione vada a parare, dobbiamo
perdonare.
Il
verbo “perdonare” in ebraico significa letteralmente “ricoprire una ferita”. Ecco,
ogni giorno noi dobbiamo ricoprire le ferite nostre e dei nostri fratelli: è
così che vivremo serenamente. Il perdono è il “vestito” che dobbiamo indossare
tutti i giorni per andare nel mondo; il perdono è la nostra unica possibilità
di essere spiritualmente fecondi, propositivi, utili; di essere in una parola
“generatori” di felicità.
Questa
in sintesi è la preghiera che Gesù ci insegna nel Vangelo di oggi. In che modo poi,
e con quali disposizioni dobbiamo pregare, ce lo chiarisce subito dopo, per
mezzo di due parabole.
La
prima ci racconta di un uomo che, nel bel mezzo della notte, riceve la visita inaspettata
di un ospite. Ovviamente, colto di sorpresa, il poveruomo non ha nulla da offrirgli:
cosa molto imbarazzante per un orientale che considera l'ospitalità un onore,
un bene preziosissimo. Si affretta allora, e va a sua volta a bussare dal
vicino, già a letto anche lui: e lo fa pur sapendo di procurargli un grande fastidio:
deve infatti alzarsi, aprirgli la porta già sprangata, rischiando che il
trambusto procurato svegli anche tutti quelli che già dormono. Nonostante tutto
però, egli non rinuncia, lo importuna comunque, perché in questo suo amico
ripone una piena e incondizionata fiducia. Ecco: Gesù ci invita a rivolgerci a
Dio proprio così, come ad un vero amico, anche in modo inopportuno, anche in
modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, sempre, in qualunque momento; possiamo
raccontargli tutto; a Dio possiamo aprirci e mostrarci nella nostra totale miseria,
possiamo far vedere come siamo, cosa pensiamo; tutto, completamente tutto: anche
ciò che è brutto, ciò che è indecoroso, ciò che è meschino, vergognoso; anche i
nostri pensieri più intimi, più nascosti, più cattivi, più ripugnanti, più
aggressivi. Egli, come un vero amico consolatore, ci ascolterà, ci accoglierà. Non
dobbiamo avere timori o riguardi: nella nostra preghiera a Dio, c'è spazio per
tutto.
La
seconda parabola ci spiega poi cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre conosce
(dovrebbe!) cosa è il meglio per i propri figli. Nessun padre, al figlio che
chiede, gli darà mai una pietra al posto del pane, un serpente al posto di un pesce,
uno scorpione al posto di un uovo: è ovvio, è naturale. Allo stesso modo Dio,
che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa farci male, nulla che possa
nuocerci. Questo è molto importante da capire: perché essere convinti di questo,
vuol dire entrare nella giusta “valutazione” della nostra vita; vuol dire
capire e accettare che tutto ciò che ci succede ha un senso, un suo significato,
un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo; o non lo vediamo; o addirittura
lo rifiutiamo perché lo consideriamo un male. Al contrario in tutto ciò che ci
succede, Dio ci parla, ci insegna, ci ammaestra: vuol farci entrare nella sua “logica
divina”. Quando chiediamo, Lui risponde sempre alle nostre domande: anche se lo
fa in maniera diversa da come noi vorremmo. Quando lo cerchiamo, Lui c’è; è
sempre pronto a farsi trovare, anche se spesso non ci accorgiamo di lui. Quando
bussiamo, Lui ci spalanca immediatamente porte e strade, anche se non sempre coincidono
con quelle che vogliamo noi. Una cosa ci deve sempre confortare e rassicurare: che
Lui non ci farà mai del male, non ci ferirà mai: anche quando non lo capiamo, noi
dobbiamo fidarci ciecamente di Lui; perché noi, in realtà, non sappiamo nulla, non
vediamo oltre il nostro io, non sappiamo cosa sia veramente buono per noi, soprattutto
non sappiamo cosa ci riserverà il nostro domani: sarà un domani radioso? Oppure
sarà un domani irto di prove e di contrarietà? Abbandoniamoci allora a lui, e lasciamo
fare a Lui, a Dio. Un mio amico monaco era solito ripetere: “Io so che Dio mi è
padre... questo mi basta”. Amen.
«Gesù entrò in un villaggio e
una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la
quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era
distolta per i molti servizi» (Lc 10,38-42).
Continuando
il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a
casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si
tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai
tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e
convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene
altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali
e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo
è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una
mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante.
Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con
l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana
ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra
che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo
che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare
che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un
messaggio “nuovo”.
Storicamente
dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania:
è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide quindi di fermarsi a casa delle
due donne.
A
questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli
da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia
in ordine, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica,
“esteriore”.
Maria,
invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta,
ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un
comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo quello di
Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due
diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo
insegnamento.
Marta
non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una
ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a
Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche
Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua
parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è
lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel
momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le
necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con
i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che
fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.;
tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di
stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con
naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo.
Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno?
Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere
accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di
confidarsi.
Marta questo
non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le da una mano.
Marta purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono
sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: ora,
di fronte ad una così, che si disfa letteralmente nei lavori di casa, che lavora
per noi, che ci prepara da mangiare, che lava e stira, che ci fa trovare tutto
in ordine, come facciamo a chiederle ancora qualcos’altro per noi? Quante volte
infatti abbiamo sentito da queste persone lamentele del tipo: “Che volete ancora
di più? Ho dato tutta la mia vita per voi! Ci ho rimesso la salute! Ho vissuto solo
per voi! Ho lavorato anche sedici ore al giorno per farvi stare comodi!”. Hanno
sicuramente ragione, ma sono persone che così dicendo vogliono soprattutto farci
sentire in colpa, vogliono farci pesare tutto quello che fanno per noi. È un
modo inconscio per eludere qualunque tipo di colloquio, per non farsi
coinvolgere su un livello più confidenziale, più intimo, più personale: “Mi
pare di aver fatto abbastanza per voi: non chiedetemi altro, non chiedetemi anche
di accogliervi, di farvi le moine, di ascoltarvi, di esaudire i vostri capricci”.
Marta quindi
si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto distruggendo per
te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di
mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a
Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere
riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non
lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse
contro la sorella e Gesù. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia
per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava
che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di
cuore!”. Ma non succede…
Quante
volte capita anche a noi di non essere chiari con noi stessi e con il prossimo!.
Quante volte diciamo una cosa e ne pensiamo un’altra; vorremmo una cosa, ma non
abbiamo il coraggio di chiederla apertamente. Così, per esempio, quando diciamo:
“Non mi telefoni mai!”, in realtà vorremmo dire: “Avrei piacere di sentirti;
avrei piacere di parlare con te, vorrei che fossi tu a cercarmi qualche volta!”.
Invece di dire: “Non sei mai a casa!”, vorremmo essere più chiari e dire: “Vorrei
che tu ed io stessimo più insieme! Ho bisogno del tuo aiuto. Ho bisogno che tu
ti sieda qui, che mi ascolti, che mi dia un po’ del tuo tempo. Ho bisogno di
te; ho bisogno che tu stia con me; ho bisogno di sentire il tuo amore; ho
bisogno di sentirmi dire che valgo, che sono importante per te”. È chiaro che
troppo spesso ci comportiamo così per paura: perché essere più chiari, più
espliciti, ci farebbe sentire anche più deboli, più vulnerabili. E allora
facciamo come Marta: accusiamo. Spesso è infatti più facile accusare che
manifestare i nostri sentimenti, i nostri bisogni interiori, le nostre
aspirazioni; è molto più semplice attaccare, colpire gli altri, che mostrarci noi
vulnerabili e bisognosi.
Marta
non ha dubbi: Gesù in casa sua deve trovarsi sicuramente bene: è lei che gli ha
messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di
sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di
bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché
non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così
semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua,
per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata,
perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma
tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco
perché, fratelli, dobbiamo imparare a riconoscere i nostri bisogni; a
riconoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle
sugli altri, pretendere che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede.
È evidente che Marta e Maria non si parlano, non si dicono nulla. Perché Marta
non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di
darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù
dalla sua parte contro di lei?
Quante
persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi!
Vanno dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con
gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo
da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un
altro non serve a nulla, se non a farci compatire. Così la moglie si sfoga con
le amiche di quanto il marito sia insensibile, chiuso, egoista, uno che pensa
solo a quello. E il marito dal canto suo si sfoga con gli amici su quanto lei sia
paranoica, una che pensa sempre e solo all'ordine in casa, una a cui non si può
mai dire niente. Parliamone tra noi, invece! Diciamoci ciò che non va! Cercare consensi
dagli altri significa volersi sentir dire che siamo noi dalla parte del giusto,
della ragione; che è l'altro ad avere torto. Bella soddisfazione: non è certo
questo che ci risolve la questione.
Maria,
al contrario di Marta, coglie subito il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei
che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola,
lo ascolta semplicemente, si fa vuoto, spazio, perché Gesù entri e si senta
pienamente accolto.
Quando
dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci a priori: “Che gli dirò?
Riuscirò a sostenere un discorso? E se mi chiede qualcosa cui non so
rispondere? Riuscirò a capirlo? Sarò efficace?”. Impariamo ad ascoltare. Il
resto viene da sé. Non pretendiamo di cambiare le persone secondo i nostri
gusti.
Facciamo
come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego
onnipresente, creiamo spazio perché possano entrare, portare se stessi, mostrarsi
per quello che sono. Offriamo loro quella stessa ospitalità che tutti noi vorremmo
ricevere.
Il
vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù. Stare a contatto con i piedi,
con la terra (humus), indica prima di tutto un atteggiamento di umiltà
(humilitas). Ed è così, come Maria, che dobbiamo accogliere i nostri fratelli;
dobbiamo far capire che siamo lì completamente per loro. Essi lo sentono, lo
percepiscono: e in quel nostro spazio d'amore essi potranno esprimere le loro
paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro
contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni
impossibili; lì avranno uno spazio dove piangere e dove ridere; uno spazio dove
disperarsi ed essere abbracciati; uno spazio dove sentirsi al sicuro, protetti,
dove rifugiarsi. Perché incontrare noi, per loro, deve essere come per Gesù incontrare
Maria: incontrare cioè l'amore vero, l’amore autentico.
Invece
di costruire case e palazzi, costruiamo invece “amore”, e tutto il mondo diventerà sicuramente
migliore. Perché soprattutto di amore noi abbiamo bisogno. Poi verrà anche Marta,
con il lavoro, la casa, il cibo, le cose da fare, i problemi, le pulizie, il riordinare
e quant'altro. Ma prima di tutto c’è la carità, l’amore, c’è Maria: questa è
l'unica cosa di cui il mondo ha veramente bisogno. Questo è l'essenziale, è ciò
che non può esserci tolto; altrimenti soffriremo e moriremo tutti dentro,
accartocciati nella nostra aridità. Amen.
«Maestro, che cosa devo fare
per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25-37).
È la
domanda classica del cristiano quella che il dottore della legge rivolge a Gesù.
Una domanda che tutti, prima o poi ci poniamo: ma è anche una domanda
tendenziosa, provocatoria: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso? Come
devo comportarmi per essere un buon cristiano? Io so già cosa mi dicono le
regole, ma tu, Gesù, tu cosa mi dici?”. È chiaro che si tratta di una domanda
comunque inutile, perché tutti sappiamo perfettamente come dobbiamo comportarci,
cosa dobbiamo fare, cosa evitare.
Certo,
in questi ultimi anni le cose sono molto cambiate: da un comportamento
cristiano rigido e severo, regolamentato da norme e prescrizioni, si è arrivati
ad un lassismo preoccupante: tutto è permesso, tutto lecito; è l’individuo stesso
che determina la moralità dei suoi atti. Tanto, ci troviamo di fronte ad un Dio
“super” misericordioso: la sua bontà infinita, il suo amore smisurato, la sua compassione
senza limiti, hanno avuto decisamente la meglio sulla sua severità di giusto giudice.
Entrambe le posizioni sono ovviamente sproporzionate. La virtù come al solito sta
nel mezzo. Ed è questo che Gesù intende dirci tra le righe.
Non so
se ricorderete, ma una volta le persone arrivavano addirittura a trasferire su
Dio lo stesso ruolo inquisitore e vessatorio, tipico di gran parte dei “genitori”
e dei preti vecchio stampo: si era in regola, si andava bene solo se il “Grande
Genitore” (Dio) era contento di noi. Per questo abbiamo obbedito, ci siamo
piegati a regole che oggi definiremmo assurde, abbiamo (forse?) svenduto la nostra
“gioia” di vivere spensieratamente, pur di “essere in regola” con Dio. Insomma
i tempi avevano contribuito a trasformare Dio in un “Grande Fratello”, la trasmissione
voyeuristica che tutti abbiamo criticato: quel Dio (che decisamente non è il
Dio del vangelo) era un po’ “guardone”, uno che spiava sempre tutti, vedeva e
sentiva ogni cosa; sapeva quindi perfettamente quando uno sbagliava, perché tutto
era registrato chiaramente sul suo “monitor”. Una visione angosciosa che
terrorizzava la gente di allora: aveva paura di sbagliare, di non essere in
regola, di far peccato, di essere esclusa, di non essere ammessa in paradiso,
insomma di non andare bene, di essere sbagliata. Lo scopo primo della vita non
era pertanto quello di “vivere”, non era amare, non era entrare nelle relazioni
interpersonali con la forza piena dei sentimenti, con tutta l'intensità
possibile dell’amore, con tutte le vibrazioni possibili del cuore. No, lo scopo
primario della vita era “la regola”. Per questo nessuno cercava veramente Dio,
nessuno cercava di vivere serenamente la “propria” vita. Ciò che contava era vivere
“in regola”, da “bravi cristiani”. Pensare diversamente, scostarsi appena dalle
“regole”, significava essere decisamente dei cattivi cristiani.
Bene: colui
che si rivolge tendenziosamente a Gesù è intriso di questa mentalità, è un “esperto
in regole”: «Cosa devo fare per ereditare
la vita eterna?». Ma Gesù, sapientemente, elude il tranello, e gli rivolge
una contro domanda (nasce quasi una sfida tra i due!). «Che cosa sta scritto nella Legge?». Come a dire: “Ma come? Proprio
tu che sei un esperto della legge chiedi a me una cosa del genere? Dovrei
essere io a chiederlo a te!”. E in questo modo Gesù lo smaschera: “Visto che tu
conosci perfettamente le leggi fondamentali dell’amore verso Dio e il prossimo,
osservale e basta!”. Ma il dottore della legge non demorde: dopo la brutta
figura, cerca di “rimettersi in piedi”. E gli fa un'altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». È chiaro che questo
tizio non arriverà mai a capire la nuova mentalità di Gesù: viaggia su un
livello diverso, è sintonizzato su una stazione diversa. È limitato,
impastoiato nelle sue prescrizioni. Con Gesù non ci sono limiti all’amore: non esiste
più il “fino a dove”, il “fino a quando”. Se uno ha un cuore, deve seguirlo
pienamente. Chi ama non fa distinzioni su chi ha davanti: chi ama segue solo il
proprio cuore. Chi pone delle differenze, dei distinguo - “tu sì” e “tu no” - è
ancora “fuori”, è condizionato dall'esterno, da regole esteriori, umane, spesso
di convenienza.
Il
dottore della legge non può capire. Perciò Gesù gli propone la parabola: «un uomo scende da Gerusalemme a Gerico...».
Gerusalemme distava ventisette chilometri da Gerico, con un dislivello di mille
metri. Era una strada conosciuta soprattutto per la sua pericolosità, piena di
agguati, rapine e imboscate. Beh, a tutti nella vita capiterà, prima o poi, qualche
imboscata. Tutti avremo a che fare con dei predoni e dei briganti: qualcuno ci
bastonerà, qualcuno ci spoglierà, qualcuno ci lascerà mezzi morti. Ora, il punto
non sta tanto sul “come evitare i briganti”, visto che l'unica soluzione è quella
di starsene sempre rintanati “in casa”, chiusi nel nostro io, rinunciando a
vivere; il punto sta piuttosto su come programmare la nostra vita: cioè se “vivere
o non vivere”; se rimanere a “Gerusalemme” (all’ombra delle sacrestie, delle
parrocchie) o provare ad uscire, andare incontro agli altri, a quelli che sono
più bisognosi, più feriti, più bastonati di noi.
D’altronde
Gesù nella parabola è chiaro: se qualcuno non interviene immediatamente, quell'uomo
muore. E chi l'ha ucciso? I briganti? Solo loro? O non l'hanno ucciso anche coloro
che, potendo fare qualcosa, non l'hanno fatto? Eppure quante persone si
giustificano con la famosa frase: “Io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in
certe situazioni, non fare nulla, non intervenire, vuol dire condannare.
Nel
racconto di Gesù emergono dunque tre personaggi diversi, ognuno soffocato dal proprio
ruolo specifico; compaiono tutti “per caso”, come del resto tutto (o forse
niente?) avviene per caso nella vita: si tratta prima di tutto di un sacerdote,
un addetto al culto e quindi di uno che viveva ad un livello superiore, un
livello cui non competeva “istituzionalmente” il doversi preoccupare di un
“ferito”, di un “moribondo”. Poi un levita, un sacrista diremmo oggi, anche lui
un uomo di chiesa: e anche lui convinto di essere al di sopra, estraneo alla
situazione. È sintomatico: quando non vogliamo fare qualcosa, tutti abbiamo
sempre una scusa pronta: il problema di questi due “ecclesiastici” è che sono così
presi dal loro “status”, da non accorgersi che la loro anima, il loro cuore, ne
sono rimasti soffocati: “Sei un sacerdote, non spetta a te fare queste cose!”, il
ruolo dice al primo. “Sei un levita, uno che è vicino alle cose di Dio; devi
comportarti in maniera adeguata”, dice al secondo.
C’è anche
un terzo personaggio, più defilato, ma non per questo meno arroccato nel
proprio ruolo: l'albergatore:. Quando il samaritano gli consegna il pover’uomo,
mezzo morto, si guarda bene dal dirgli: “Ma sì, non ti preoccupare per i soldi!
In una situazione del genere non se ne parla neppure: vai tranquillo, tu hai
fatto già fin troppo; ora mi prendo io cura di quest'uomo e non voglio
assolutamente nient’altro da te”. Nossignori, quando arriva, lui se ne sta
zitto e incassa tutto: incassa i due denari e, fiutato l'affare, gliene
chiederà di sicuro anche altri. Anche lui è vittima del suo ruolo distruttivo: “Io
non guardo nessuno in faccia, mi faccio gli affari miei”. Il suo ruolo gli
impedisce di provare amore, compassione, di sentire la vita.
È
così, dunque: anche nella nostra esistenza il ruolo può uccidere il nostro cuore,
può distruggere la nostra anima, la nostra vita. Quando noi ci identifichiamo
in un unico ruolo, costringiamo la nostra sensibilità su di un solo canale. È
come mangiare solo dolci tutto il giorno. Sì, buoni, ma a lungo andare ci producono
repulsione. Se non stiamo attenti il ruolo ci distacca da noi stessi, dal nostro
sentire, da ciò che abbiamo dentro; per cui di fronte ad una situazione improvvisa,
completamente diversa, non ascoltiamo il nostro cuore, ormai atrofizzato, e diamo
sempre la stessa risposta, preconfezionata, già fatta, già stabilita dal nostro
“ruolo”. Non siamo più noi che sentiamo e che agiamo, ma è lui, il nostro ruolo,
che agisce autonomamente e automaticamente.
Ebbene,
in questa parabola – ed è il più importante - c'è anche un uomo libero, un uomo
non imprigionato dal suo ruolo: il samaritano. È lui che ci viene proposto come
esempio da seguire. Il samaritano non ha maschere o ruoli da difendere: in lui,
nel suo cuore, la vita circola libera e vibrante. Sono in tre che passano per la stessa strada (sacerdote,
levita e samaritano); tutti e tre vedono l'uomo. Ma solo del samaritano il
testo dice qualcosa che non dice degli altri due: che ne “ebbe compassione”. Tutto
ciò che fa dopo, è solo la conseguenza di questo suo sentimento.
Compassione:
in greco, con la stessa radice, si indica “l'utero materno”: è quell'emozione
che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare: è l’amore di una madre
per il proprio figlio. Come poteva allora il samaritano tirare dritto? Come
poteva far finta di niente? Il sacerdote e il levita si sono appellati alle
loro regole: la “regola” giustificava il loro comportamento. Sì, ma il loro
cuore? La verità è che “non lo sentivano” più. Non “sentire” il cuore, significa
essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il
nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe
chiedere loro: “Sensibili come? a che cosa?”. Perché sentire suonare una cassa
di 500 watt di potenza, non è “essere sensibili”; significa non essere sordi
del tutto. Come la mettiamo sotto i 10 watt? Davanti a noi ci sono due tipi di
morte: quella del fisico e quella dell'anima. Con quella del fisico moriamo
dentro e fuori. Con quella dell'anima viviamo al di fuori, ma siamo morti
dentro. Facciamo in modo allora di “sentire” sempre; di essere sensibili in
ogni caso, per non correre il rischio di essere morti, prima ancora che arrivi la
nostra morte fisica. Amen.
«In quel tempo, il Signore
designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e
luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi
gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella
sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate
borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la
strada». (Lc 10,1-12.17-20).
Ci
troviamo dunque di fronte ad una impellente necessità: «La messe è molta, ma
gli operai sono pochi». Di fronte ad una “materialità” dilagante, di fronte ad
un progressivo allontanamento da Dio da parte del mondo, l’uomo ha bisogno sempre
più di nuovi inviati che gli offrano spiritualità, fiducia, amore. Nel nostro
immaginario, pensiamo spesso che – se avessimo tanti soldi, tanta ricchezza, tante
auto, tante possibilità, tanti amici - sicuramente staremmo bene; ci sentiremmo
completamente appagati, a posto di tutto.
Ma poi
ci accorgiamo che non è così, perché più abbiamo, più vorremmo avere. Più la
materialità, le cose caduche, effimere, ci assorbono, più cadiamo nello
sconforto; sentiamo il bisogno vitale di un altro tipo di ossigeno, di “spiritualità”,
di entrare in un rapporto interiore con Dio, poiché tutto quello che ci accaparriamo
in questo mondo, non influisce minimamente sulla nostra “anima”, non ci porta quella
linfa vitale, generatrice di autentica felicità e serenità. Siamo tutti “messe”
incolta, in attesa di essere curata, coltivata: una “messe” bisognosa
dell’intervento determinante di veri operatori di felicità.
La
cronaca nera ci riporta sempre più frequentemente di persone che, ricche e
fortunate, sterminano improvvisamente la loro famiglia, i loro cari, per poi uccidersi.
Avevano
tutto! Ma tutto ciò che avevano non li rendeva felici, non dava loro la voglia,
l’entusiasmo di vivere, di combattere per quella felicità vera e duratura, che
trascende le cose di quaggiù. Perché questa è una ricchezza che non si compra,
non è in vendita, non è di questo mondo: appartiene allo spirito, all’anima!
Guardiamoci
attorno: tutti si lamentano, tutti sono arrabbiati, tutti sono nervosi. Eppure oggi
economicamente stiamo molto meglio dei nostri nonni: c’è un maggior benessere, possiamo
permetterci vacanze, divertimenti, vestiti eleganti, ogni sorta di cibo e tanto
altro ancora. Se qualcuno ci chiedesse cosa ci manca, sinceramente non potremmo
che rispondere: “Niente”. Ma non è vero. Ci manca invece proprio quella voglia
di vivere che avevano i nostri nonni; ci manca il loro gusto del vivere, del
combattere; ci mancano le loro convinzioni profonde, la loro religiosità, i
loro ideali, nei quali trovavano veramente la forza per vivere e combattere.
Ecco
perché oggi in particolare, di fronte a tanta “messe” in sofferenza c'è tanto bisogno
di “operai”, di “uomini di Dio”, di preti “convinti”, che parlino al cuore
della gente, che indichino loro la strada che conduce a Dio; non servono “funzionari”,
“impiegati” della chiesa gerarchica, ma “inviati” innamorati della loro missione divina, fieri di
essere stati scelti da Lui, e completamente disponibili a fare la sua volontà. Non
possiamo avere tipi, magari culturalmente preparatissimi, ma in totale asfissia di
amore e di divino. Assomiglierebbero in qualche modo ad una dotta dichiarazione della Congregazione della
Fede o ad un articolo del Catechismo o del Codice: dottrinalmente perfetti, ma incapaci di riscaldare il
cuore, inadeguati a metterci in contatto diretto con l’amore del Signore, a
farci sentire che siamo i suoi “benvoluti”, quelli che per Lui hanno valore, quelli
importanti. Spesso finiamo per essere un “numero” anche per gli operatori di Dio,
per la Chiesa di Dio, oltre che per una società tritatutto come quella di oggi.
Eppure,
Dio vede la sua “messe” che langue, e manda continuamente nuovi operai: ma
questi operai, come si comportano?
I
settantadue del vangelo andavano, guarivano le malattie e annunciavano: “Il
regno è qui, in mezzo a voi; datevi da fare!”. Non andavano a dire: “Tu devi
fare così; tu sei in peccato, sbagli continuamente; il Signore di sicuro ti
punirà, perché non sei un bravo cristiano”. Dicevano invece: “Tu sei ammalato
nel cuore, ma se lo vuoi, puoi sicuramente guarire, perché il Signore ti ama e
ti aspetta nella sua casa”.
La gente
purtroppo è piena di malattie, ma non riesce a trovare dei validi “dottori” per
guarire. Forse anche perché continua a credere nell'onnipotenza del medico e
non si rende conto che la Vera Forza per guarire è dentro di lei, nel suo cuore.
Allora più che di cattedratici, ha bisogno di “medici” esperti di anima, capaci
di farle “riprendere conoscenza”, di infonderle fiducia, di iniettarle la consapevolezza
che Dio, la Forza vitale, è dentro di lei. “Medici” che la facciano pregare,
che tirino fuori il suo spirito, che la alimentino del pane celeste, dell’acqua
sorgiva che disseta.
Il
male che affligge l’umanità, la malattia che più la debilita, proviene
dall’anima, dallo spirito, dal suo interiore. Gran parte delle malattie
fisiche, provengono proprio dal fatto che è lo spirito ammalato, che è la
psiche che sta male. Ora, da dove viene la malattia, proviene sempre anche la
guarigione: il problema pertanto non è di trovare la pastiglia giusta, ma di guarire
il nostro spirito contaminato, di cambiare, di ritrovare ciò che abbiamo perso,
di riscoprire la sorgente vera della salute.
È in
questo modo infatti molti “mali” sparirebbero: l'odio, la collera, l'ira, la
paura, la vergogna, il senso di colpa che corrode…; che ce ne facciamo di
queste malattie che appestano l’anima? Ci va di guarire veramente? E allora,
fratelli, tiriamo fuori la grinta: il regno è qui, ora, diamoci da fare.
Gesù
prima di tutto dice: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate”: in altre
parole “Vai tu, muoviti!”. Invece noi normalmente ci fermiamo alla prima parola,
alla preghiera: “Fa' Signore che succeda qualcosa; manda qualcuno a guarirmi:
aspetto”. E sulla seconda, si tira indietro! Non vuole responsabilità.
Oggi in
giro si fa un gran parlare di “responsabilità”, che bisogna essere
responsabili, ecc. Ma responsabilità, da “respondeo”, comporta necessariamente
un “rispondere”. C'è la chiamata (“vocatus”, vocazione) e c'è la risposta
(responsabilità). Noi diventeremo grandi, adulti, quando alla chiamata della
vita risponderemo di sì: quando cioè assumeremo le nostre responsabilità. Altrimenti
rimarremo gli eterni bambini che delegano in tutto la mamma. L'adulto si fa
coinvolgere. Il nullafacente chiama sempre in causa gli altri.
Ci
lamentiamo perché la politica fa schifo? Rispondiamo noi in prima persona, facciamo
le nostre scelte con coscienza, secondo i nostri principi, la nostra fede. Ci
lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare di più? Rispondiamo in prima
persona: “Eccoci”, siamo disponibili: siamo pronti a fare il messaggero,
l’animatore, il catechista, e perché no, anche a pulire per terra. Ci lamentiamo
perché le cose non vanno come dovrebbero? Andiamo avanti! Insomma noi, oltre
che criticare e lamentarci, cosa facciamo? Vogliamo un mondo migliore?
benissimo, diamoci da fare!
La
vita, Dio, ci interpella continuamente, ha bisogno di noi. Egli ci ha “chiamati”
all'esistenza, per consentirci di dargli una risposta. Appena ci ha visto, ci ha
detto: “Tu! Ho bisogno di te!”. E noi che facciamo? Continuiamo a trastullarci
con i nostri inconcludenti teoremi mentali? Dio non sa cosa farsene delle nostre
teorie, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri “fioretti”. Egli vuole
noi. Punto. Ed è ovvio: un innamorato, una innamorata, non sa che farsene dei
regali, dei fiori, dei biglietti, delle telefonate, delle promesse, se poi non ottiene
l’amore. Dio è innamorato di noi, vuole il nostro amore, la nostra risposta.
Tutto il resto non conta!
Bene:
noi cosa “portiamo” in questa chiamata? Cosa diamo, cosa trasmettiamo, quando incontriamo
le persone, i fratelli, la messe? Alcuni si dicono soddisfatti: “Io sono sempre
pronto per gli altri; io do tanto”. Sì, è vero, ma cosa diamo? Non basta dare;
l’importante è “cosa” diamo; “cosa” trasmettiamo, quali sono i “messaggi” che portiamo!.
Sarebbe
interessante andare dalle persone che frequentiamo e chiedere loro: “Senti
dimmi la verità, quando stai con me, cosa ti passo?”. Mah!
Un
fiore non ha bisogno di “portare” profumo: ci inonda di fragranza perché lui è
così. Così siamo anche noi. Se nel nostro cuore abbiamo la pace, dovunque andremo
ne lasceremo il profumo. Se abbiamo guerra, lasceremo macerie.
I
settantadue inviati vanno, e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Come
hai fatto tu così riusciamo a fare anche noi!”. È solo questione di fiducia in
Lui, nelle sue Parole: se solo ne abbiamo un briciolo, scopriamo
improvvisamente che quello che Lui ha fatto lo possiamo fare anche noi:
l’importante è credergli e avere la sua forza dentro di noi.
Gesù è
felice nel vedere lo stupore, la gioia, dei suoi discepoli; ma raddrizza subito
il tiro: “Non siate felici per il potere che avete, per quello che potete fare.
Non siete voi ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate invece
felici per aver fedelmente risposto alla chiamata: non importa se non riuscite
a fare miracoli, a guarire gli ammalati, a resuscitare i morti; quello che
importa è che per la vostra “risposta”, i vostri nomi sono già scritti in cielo”.
Gli
uomini, noi, passiamo tutti: tempo qualche anno e i nostri nomi saranno
completamente dimenticati. Più nessuno si ricorderà di noi. Così è per i nomi
scritti sulla terra, quaggiù; svaniscono nel nulla.
Ma i
nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli” ci dice Gesù: “voi
mi avete seguito, avete risposto alla mia chiamata: non sarete abbandonati;
state tranquilli, nessuna paura, voi siete protetti, salvati; voi siete nel
palmo della Mano di Dio. Nessuno da lì potrà mai rapirvi”. Ebbene: nel cuore di
Dio nessun nome passa, nessun nome viene dimenticato. Nel cuore di Dio vivremo
per sempre. Amen.
«Gesù prese la ferma decisione
di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per
preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo…» (Lc 9,51-62).
L’azione
didattica di Gesù nei confronti delle numerose persone che lo seguono continua
anche durante il viaggio che dalla Galilea lo porta a Gerusalemme, dove è
diretto per celebrare con i suoi la festa di Pasqua. Si muovono in gruppo e si
sa, quando ci si sposta in molti, è indispensabile un minimo di organizzazione.
Così Gesù manda avanti alcuni discepoli per predisporre dove pernottare e ristorarsi.
Succede però che una città della Samaria, regione attraverso cui deve
necessariamente passare, si rifiuta di accoglierlo e di dargli ospitalità.
È un
imprevisto sgradevole per chiunque l’essere rifiutati: Gesù non si aspettava un
trattamento di questo genere, anche se per lui il “rifiuto” non costituiva una
novità: già fin dalla nascita, nei suoi primi giorni di vita, egli viene
rifiutato dai “potenti” del luogo; viene poi praticamente rifiutato e
perseguitato durante tutta la sua missione terrena; scribi e farisei lo
contrastano continuamente, cercando in tutti i modi un pretesto per catturarlo,
condannarlo, ucciderlo; infine è rifiutato dal suo stesso popolo, che al
momento finale del processo-farsa cui viene sottoposto, gli preferisce un
delinquente, decretando per lui una morte straziante di croce.
Se
guardiamo insomma Gesù sotto questo profilo, l’impressione che ne possiamo trarre
è quella di trovarci di fronte ad uno che ha fallito completamente la sua
missione: ha fallito con quelli di casa sua perché non gli hanno creduto
(dicevano che era un pazzo); ha fallito con i capi del popolo, religiosi e
politici (dicevano che era figlio del diavolo, di Beelzebul); ha fallito con la
gente che non ha accettato il suo regno (e lo ha lasciato solo come un cane nel
pericolo); ha fallito con i suoi stessi amici (gli apostoli) che se la son data
a gambe proprio quando era ora di difenderlo e di sostenerlo; ha fallito anche
con suo Padre che non è intervenuto a salvarlo, né ha mosso un dito per
evitargli una morte atroce.
Del
resto la società consumistica in cui viviamo, con la sua pubblicità
martellante, ci ha ormai abituato a guardare all'uomo solo come ad un “vincente”,
ad ammirare solo colui che “riesce” in tutto; nella vita di oggi, infatti, l’unica parola
che conta è “riuscire”, “sfondare”. Bisogna “arrivare” a tutti i costi. La
felicità sta nel sentirsi “realizzati”: avere una bella famiglia, dei figli di
successo, vivere nel benessere, una situazione economica florida, essere al top
della scala sociale. Ma sono illusioni che hanno vita breve. Ben presto la vita
ci insegna che la realtà non è questa: le famiglie falliscono, i figli si
ribellano, le economie, anche le più floride, vanno in malora; le persone finiscono
per “scoppiare”, “danno di matto”; quelli che erano gli ideali sublimi e le
mete ambiziose da raggiungere, si rivelano un groviglio di falsità e di imbrogli.
La felicità, una amara chimera. È il fallimento dell’uomo di oggi, il
fallimento di una società che si ostina a rifiutare Dio. Un fenomeno, il fallimento
che, anche se per motivi completamente diversi, anche Gesù ha provato: anche
Lui ha fallito; anche Lui è stato e continua ad essere rifiutato dalla società;
anche lui ha dovuto in qualche modo ridimensionare, cambiare i suoi programmi:
questo suo “fallimento” lo ha messo infatti di fronte ad una dura realtà: non basta
la chiarezza della Sua verità, né la profondità del suo animo; non basta la bontà
delle sue idee, né l’amore che lo spinge, per convertire e salvare il cuore
degli uomini. Ci vuole anche la loro volontà. Se uno non vuol convertirsi, purtroppo,
non si converte, nonostante tutto. È per questo Gesù si sente “impotente”: Egli
sente cioè che tutto il suo amore, tutto quello che ha sofferto, tutto quello
che ha fatto e continua a fare per la salvezza dell’umanità, non basta. Non
basta il suo messaggio, il suo annuncio, il suo Vangelo; non basta la sua
Chiesa: gli uomini continuano e continueranno a non accoglierlo, a rifiutarlo:
il suo amore continuerà ad essere calpestato, rifiutato, volutamente ignorato.
È questo il “fallimento” del suo amore.
Quanti
fallimenti nell’amore! Eppure continuiamo a fallire, anche se ogni fallimento ci
offre una forte lezione di vita, che dovrebbe aprirci gli occhi. Solo se faremo
tesoro di tali esperienze e impareremo a non ripetere continuamente i nostri
errori, solo allora cresceremo. Altrimenti nuovi fallimenti si aggiungeranno ai
precedenti. È solo questione di tempo. Dobbiamo fare tesoro delle esperienze
vissute, fratelli; non trasformiamo mai il niente in tutto, perché questo tutto si dimostrerà ben presto niente. Attacchiamoci a Dio: guardiamo a
Lui: Egli non vuole che noi falliamo nel nostro cammino di sequela; non vuole
degli sconfitti. Dio vuole solo che noi ne usciamo vincitori. Nulla ci deve
abbattere: anzi, dobbiamo mettere in conto qualche fallimento; fanno parte della
vita; e ci deve consolare il pensiero che anche Gesù ha dovuto confrontarsi con
questa realtà. Ogni volta che falliamo, stendiamo le mani e diciamo umilmente: “È
così!”. Cioè, accettiamolo questo fallimento, accogliamolo come segno della
nostra debolezza, non nascondiamocelo. Cerchiamo di non vergognarci, non è una
condanna a morte. Essere dei perdenti, non riuscire, fallire, non è mai stato piacevole
per nessuno, in nessun campo; è anzi molto doloroso, perché si tratta di
perdere quella bella immagine patinata, di facciata, che con tanta cura ci eravamo
costruiti per l’ammirazione degli altri. Se ci capita di fallire, dobbiamo imparare
la lezione; solo in questo modo il fallimento diventa un fattore evolutivo e
creativo; e ripartendo dal basso, possiamo rinascere; soprattutto se ci rimettiamo
a Lui, al Suo Abbraccio: perché Lui è sempre pronto ad accoglierci!
Il
vangelo prosegue poi definendo alcune condizioni per seguire Gesù. Gesù non
chiede a quanti lo vogliono seguire, di fare i voti di povertà, castità,
obbedienza: chiede solo la nostra “libertà” d’animo, un affrancamento interiore.
Nei tempi passati si diceva che le parole di questo Vangelo riguardavano solo i
preti e le suore. Invece sono insegnamenti che riguardano tutti: seguire Gesù, andare
dietro a Lui, vuol dire seguire la voce più profonda, la nostra personale
“vocazione”, ascoltando non le voci e i desideri di superficie, ma i bisogni
profondi della nostra anima. E non possiamo fare questo, se non siamo
interiormente liberi di muoverci.
«Ti seguirò ovunque tu vada», gli dice un
uomo. L'uomo è molto motivato e ben disposto. Ma Gesù smaschera subito i facili
entusiasmi e la superficialità: «Le volpi
hanno le loro tane, ma io no». La tana è il rifugio, la sicurezza, la
certezza che lì si è al sicuro e protetti. Gesù non garantisce questo; Gesù
garantisce la vita non la protezione, la copertura totale; garantisce la
felicità, non la tranquillità. Gesù non si fa abbagliare dalla nostra subitanea
disponibilità. “Non solo se lo vuoi (è la prima condizione), ma se lo puoi”; in
altre parole, “non solo se ti piace, se sei innamorato della proposta, ma anche
se ne sei convinto interiormente, se ne hai la libertà interiore, allora
seguimi”. “Io vorrei seguire il Signore... ma se poi qualcuno trova da ridire?
E se poi entro in conflitto con le persone? E poi… vorrei essere certo di non
sbagliare strada, di fare la scelta giusta per me. E se mi inganno? Se non ce
la faccio? Se rimango solo?”. La risposta di Gesù brucia ogni velleità di certezze
inconsistenti e infondate: “Chi ha il nido vi ritorna; e chi ha la tana vi si
rifugia lì”. Per seguire il Signore invece bisogna mettere tutto in discussione;
tutto deve essere vagliato. Nulla può essere dato per certo, anche ciò che
prima ci sembrava assoluto. Per Lui deve essere messo in gioco tutto. Vivere
così è vivere senza certezze interiori, riferimenti assoluti, senza “case, nidi
o tane”.
Gesù
lungo il viaggio si rivolge poi ad un altro e gli dice: «Seguimi», ma riceve un altro fallimento, un altro rifiuto, come già
con il giovane ricco. “Aspetta un attimo!”. L'uomo non dice di no, ma rimanda,
posticipa: “Guarda Gesù, vengo sicuramente, ma prima devo sistemare alcune
cosucce; prima devo laurearmi, devo sposarmi, devo sistemarmi e poi verrò;
quando sarò diverso, quando avrò più possibilità, più tempo; quando saranno
cambiate un po' le cose, quando avrò risolto i miei problemi e superate le mie
paure, allora ti seguirò”.
La
risposta di Gesù è tremenda: «Lascia che
i morti seppelliscano i loro morti». Cioè: “Tu sta con la Vita, non con la
morte. Stai dove c'è la Vita e vivrai; se stai dove c'è la Morte, morirai.
Lascia quindi che quelli che sono morti dentro, spiritualmente, stiano e
trattino con le cose morte, con le persone e le esperienze di morte; tu va' per
la tua strada. Vivi e sta dove c'è la Vita, dove si sente l'amore, il pulsare e
la vibrazione dell'esistenza”.
Un
altro ancora dice a Gesù: “Ti seguo ma lascia che prima mi congedi da casa mia”.
Egli vorrebbe l'approvazione e l'accettazione dei suoi familiari. Ma non si può
vivere dipendendo dal giudizio degli altri; non si può permettere agli altri di
determinare la nostra vita. Se non ci sottraiamo alle aspettative dei
familiari, non solo non possiamo seguire il Signore, ma non possiamo vivere,
non possiamo diventare noi stessi, non possiamo scoprire chi siamo realmente.
La
frase: «Nessuno che si mette all'aratro e
poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» ci illumina su un’altra
questione del nostro vivere. L'aratura in Palestina è un lavoro duro e anche un
po' pericoloso. Se guardiamo a destra o a sinistra, o peggio ancora se guardiamo
indietro, rischiamo non solo di non andare dritti ma di farci male. Quindi
bisogna guardare avanti e non guardare mai indietro. Questo lo portiamo scolpito
nel nostro corpo: i nostri occhi sono posizionati sul viso in modo da guardare
sempre avanti, non per guardare indietro (altrimenti li avremo anche nella
nuca).
Il
passato blocca. Quante volte ci diciamo: “Se non avessi fatto quella cosa... se
avessi agito diversamente... se potessi tornare indietro... se lo avessi saputo!”,
e continuiamo a pensare e a rammaricarci su quanto abbiamo fatto. Ma il passato
è passato. Non giriamoci continuamente indietro; andiamo avanti e basta!
Nella
Bibbia c'è un bellissimo episodio (Gn 19,1-29): quando vennero distrutte Sodoma
e Gomorra fu detto a Lot di non voltarsi indietro e di non guardare. Sua
moglie, invece, scampata dalla distruzione, si voltò a vedere cos'era successo,
e divenne una statua di sale. Gli occhi possono guardare in avanti o indietro
ma non nello stesso momento. Se ci soffermiamo a guardare indietro, a quello
che poteva essere e non è stato, alle scelte che avremmo dovuto fare e non
abbiamo fatto, non andiamo più avanti, diventiamo statici, immobili, morti; come
una statua di sale. Qualunque cosa ci succeda nella vita, dobbiamo avere sempre
fiducia; non giriamoci mai indietro. Ciò che è stato, fa parte del nostro
bagaglio di vita, lo porteremo sempre con noi sulle nostre spalle; davanti a
noi ora si apre un nuovo tratto di strada da percorrere, libero; dobbiamo
proseguire, andare e guardare avanti, sempre: perché Lui è lì che ci aspetta:
di fronte, non alle nostre spalle. Amen.
«Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).
Luca
oggi ci rivela un piccolo spaccato di quotidianità: gli apostoli stanno a
scuola. Gesù è il maestro, è chiaro; ma altrettanto chiaro è che il suo scopo didattico
non è tanto quello di fare dei seguaci, dei proseliti, dei fedeli ad ogni costo;
di gente insomma che “pende” dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone che lo
seguono siano invece adulte, autonome; vuol fare degli apostoli altrettanti
maestri come Lui. Per questo Egli li ha sottoposti ad un apprendistato di circa
tre anni.
C'è un
periodo nella nostra vita in cui dobbiamo imparare; un periodo in cui tutti dobbiamo
crescere e “divenire”; ma questo periodo non può essere eterno, non può essere
tutta la vita. È un periodo di maturazione necessaria, in cui dobbiamo “radicarci”
in ciò che crediamo, in ciò che viviamo, in modo da poter rispondere
personalmente delle nostre scelte, della nostra vita; in modo da decidere noi, autonomamente,
come vivere; in modo da non delegare a nessuno le responsabilità del nostro cammino.
Dobbiamo insomma imparare a vivere.
Il nostro
più grande peccato? Quello al quale Dio ci metterà di fronte, quando ci dirà:
“Sì, forse non avrai anche fatto niente di male, ma non hai vissuto. Non sei
stato te stesso. Hai sempre seguito gli altri, hai fatto quello che facevano
tutti; di tuo, di veramente personale, nella tua vita non c'è niente. L’hai interamente
sprecata la tua vita!”. E ci accorgeremo allora di tutta la nostra nullità, di tutta
la nostra codardia, del nostro “tiepidismo”, del non essere stati mai né caldi né
freddi, della nostra paura di crescere, di diventare adulti, di vivere coraggiosamente
e orgogliosamente la “nostra” vita cristiana. Ma allora sarà troppo tardi.
Ad un
certo punto della “lezione”, dunque, Gesù inizia a chiedere: «Le folle, chi dicono che io sia?». E gli
apostoli riportano alcune opinioni: “Giovanni Battista, Elia, un profeta”, cose
molto belle!; ma altrove ci sono anche altri che dicono: “Un mangione, un
beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare,
pericoloso), un eretico, ecc.”.
Certo,
sapere cosa dice il catechismo su Dio è sicuramente importante; è importante
sapere cosa si crede in giro di Lui; è importante farci raccontare le altrui esperienze di Dio. Ma ciò che conta veramente non è questo. Decisiva è la Sua domanda: “Tu, cosa
pensi di me? Chi sono io per te? Come sono presente nella tua vita? Quanto vibra
il tuo cuore quando ci incrociamo? In pratica, quanto vivo Io in te e tu di me?
Di quanto ho cambiato la tua vita, il tuo modo di pensare, di sentire, di
amare, di dare priorità alle tue scelte?”. Ebbene: tutte le nostre risposte
preconfezionate, le nostre “belle rispostine” già pronte e imparate a memoria, le
frasi fatte, qui non c'entrano nulla. Nella nostra vita non possiamo
rifarci sempre a qualcun altro, non possiamo nasconderci dietro agli altri, non
possiamo giustificare il nostro immobilismo, chiamando in causa quello che dicono o fanno gli altri, il
modo con cui essi vivono la loro fede. Ripeto, quello che conta è: “Noi cosa viviamo di Dio? Cosa conserviamo di Lui nella
nostra anima? Siamo disposti a lasciarci coinvolgere da Lui?”. Non svicoliamo, amici miei;
non cerchiamo sostituti o panacee: siamo noi che dobbiamo dare una risposta convinta; noi soli, nessun
altro.
Dio ci
ama anche se gli diciamo di “no”. Dio ci accoglie anche se gli diciamo: “Non mi
interessi; non voglio avere a che fare con te”. L'importante è essere chiari e
veri con noi stessi, l’importante è non mentirsi. Non diciamo “Io credo in Dio”
per poi vivere in maniera opposta, falsificando platealmente il nostro "credo", relegando
Dio nel ripostiglio più buio o in una soffitta abbandonata della nostra vita; non esibiamo sfacciatamente una fede che non abbiamo, nascondendo in questo modo il nostro tragico vuoto.
L'esperienza
cristiana è un incontro tra noi e Lui. Leggiamo pure la vita dei santi, proponiamoli
all’attenzione degli altri, andiamo pure a fare esperienze spirituali e
religiose in giro per il mondo, facciamo pure pellegrinaggi, frequentiamo pure
corsi di alta spiritualità carismatica, ma per cortesia non assolutizziamo, non
idolatriamo queste nostre esperienze, non rendiamole la quintessenza della
spiritualità, l’unica via larga verso la santità. Perché tutto questo, preso in
sé, non significa nulla, non ha alcun valore: ciò che conta invece, è che queste
esperienze ci diano la forza e la possibilità reale di incontrare Lui, personalmente;
di sceglierlo, di fargli spazio in noi, di trasformarci radicalmente in Lui, per
poter noi stessi diventare poi dei protagonisti, dei partners di Dio.
E Pietro
qui risponde: «Tu sei il Cristo di Dio».
Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli. Tutto ciò
che essi poi ci hanno trasmesso: Dio è Colui che ci accoglie in maniera
incondizionata, che ci ama al di là di ogni nostro errore, di ogni pecca, dal
quale potremo sempre ritornare con tutti i nostri fallimenti, le nostre pecche,
i nostri pianti: e ciò senza gesti eclatanti da parte nostra: non dovremo rimeritarci
l'amore; non dovremo fare qualcosa di eroico per dimostrargli che siamo ancora degni
del suo amore. Dovremo semplicemente stendere le nostre braccia e, consapevoli
e pentiti dei nostri limiti, farci abbracciare da Lui. Perché Lui ci ama nonostante
tutto. Questa è l'esperienza centrale della nostra fede. È l'esperienza che possiamo
vivere, osare, esporci, perché Lui per noi c'è sempre, e ci sarà sempre, in
ogni caso.
I
momenti delle difficoltà e delle prove sono inevitabili. Ci saranno addirittura
giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno
giorni in cui malediremo il momento in cui l'abbiamo incontrato; ci saranno
giorni in cui sarà rischioso seguirlo, in cui ci verrà chiesto di osare, di
buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli, i nostri programmi logici
per ogni cosa; ci saranno giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci
in prima linea; ci saranno giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo, di
credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno giorni in
cui proprio i “genitori” dell'amore, della fede - gli “scribi”, i “sacerdoti”, cioè
proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci - si
rivolteranno contro di noi.
E che
faremo in quei giorni? Solamente chi è radicato in profondità, solamente chi ha
fatto un incontro trasformante e decisivo, solamente chi Lo sente vivo per
davvero nella propria vita, nel proprio cuore, resisterà e avrà il coraggio di
non tradire la propria fede, la propria coscienza, gli slanci del proprio
cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui, e quindi
coinvolgente, rimarrà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C'è un
proverbio russo che dice: “Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non troverai
mai la strada di casa”. Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi
ha bisogno di essere continuamente “approvato” e non accetta di essere “riprovato”,
giudicato, considerato male, chi vive nella falsità, chi mostra al mondo una
facciata diversa da quella che ha nell'intimo, è uno che si allontana sempre
più da se stesso e da Dio.
Non abbiamo
altra scelta, fratelli: dobbiamo vivere seguendo ciò che Dio ha posto nel
nostro cuore; dobbiamo prendere le parti di ciò che è “vivo” in noi; dobbiamo trovare
il coraggio della verità e dell'amore, scoprendolo nella forza del nostro
cuore; dobbiamo soprattutto rinnegare tutte quelle maschere fasulle che ci
costruiamo per paura, per pusillanimità.
Le
persone in genere si augurano una vita piena di “serenità e salute”. È un modo
per dire che desiderano essere felici. Ma non c'è nessun supermercato che vende
la felicità; non c'è nessuna ricetta per essere veramente felici, per stare veramente bene:
nessun libro, nessun santone, nessuna formula magica, nessuna risposta decisiva.
Bisogna avere solo il coraggio e l’umiltà di vivere la propria vita in “sintonia”
con Lui; questo è tutto. Perché la felicità, deriva soltanto dal vivere la nostra vita
con la stessa intensità, con lo stesso amore, con la stessa dignità, con cui Lui
ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.
Le
persone dicono: “Io mi amo”. Ma “amarsi” non è cosa da poco: è un’impresa ardua,
difficile. È difficile rinnegarsi, dirsi di “no”: perché “amarsi” è proprio
questo, rinnegare se stessi, cioè spogliarci di tutte quelle false maschere che
ci impediscono di vedere come e chi siamo realmente, che ci impediscono di
prendere la nostra croce, di seguire la nostra strada, la nostra vita. È
difficile dire “no” alla maschera del sorriso a tutti i costi; del sembrare sempre
generosi e buoni con tutti. È difficile dirsi di “no” e abbandonare certi
atteggiamenti di superiorità. È difficile dirsi di “no” e non reagire quando
gli altri ci fanno del male: non possiamo far sempre finta di niente e “passare”
sopra a tutto. È difficile dirsi di “no” e smettere di chiamare amore ciò che
non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. È
difficile dire di “no” alla superficialità e fingere di essere sempre felici e
che tutto ci va bene. È difficile dire di “no” a certe abitudini di vita, anche
se sappiamo benissimo che ci fanno male, ci distruggono, ci alienano, ci
allontanano dalle persone, ci rendono insensibili. È difficile dire di “no” al
nostro sentirci vittime a tutti i costi: ci piace tanto adagiarci nel compatimento, nella
tristezza, aggrapparci all'illusione che sono gli altri i responsabili della nostra
vita, della nostra felicità o infelicità; perché in questo modo manteniamo le
cose così come sono, evitiamo la fatica di crescere e di diventare adulti. No, fratelli:
smettiamola di buttare sugli altri ciò che è soltanto “nostro”; smettiamola di
fare come i bambini che accusano sempre gli altri. Basta. Guardiamo una buona
volta dentro di noi. Iniziamo ad accoglierci,
ad amarci, non perché siamo più degli altri, ma perché siamo semplicemente
“noi”. Certo, è difficile dirsi di “no”: nessuno ha mai detto che “amarsi” sia
facile. Ma ci renderemo conto che ogni “no”, prelude sempre ad un “sì”. Ogni “no”
a ciò che ci fa male, è sempre un “sì” a ciò che ci fa bene. Nostra madre ha dimostrato
di amarci molto dicendoci “sì”; ma ha dimostrato di amarci molto di più dicendoci
“no”. Così dobbiamo fare noi con noi stessi. Se ci vogliamo bene dobbiamo dire “no”
a tutto ciò che ci fa male, a tutto ciò che ci allontana da noi stessi e da
Lui.
Dobbiamo
imparare da Gesù il coraggio di vivere la “nostra” vita, quell'unica vita che
Dio ci ha destinato. Dobbiamo seguire l’esempio che Lui ci ha dato, affrontando
quel viaggio che ci porta a conoscere il nostro cuore, noi stessi, la nostra
missione e il Dio che abita in noi.
Caricarsi
della propria croce, non è farsi del male, non vuol dire imporsi sofferenze o punizioni; è
invece accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua
radicalità, in tutta la sua compresenza di luci e ombre, in tutti i suoi
richiami, in tutte le sue contraddizioni.
Prendere
la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E
chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi per altre strade, irrimediabilmente si
perde. Chi vuol risparmiarsi, chi non vuole mettersi in gioco, chi vuole mantenere
tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, perderà la propria vita: è
ovvio, è inevitabile. È così! Chi vuol salvarsi dal crescere, dall'evolvere,
muore.
È proprio vero: di quante cose dobbiamo liberarci, se vogliamo raggiungere la salvezza!
Nella
prima parte della vita crediamo che “salvarsi” sia “ottenere”. Allora rincorriamo
la posizione sociale; accumuliamo soldi, denaro, posizioni, onorabilità; cerchiamo
di avere cose, case e quant'altro. Cerchiamo di salire nella scala sociale
dell'apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, rappresentano
la nostra unica salvezza.
Ma
nella seconda parte impariamo (meglio: dovremmo imparare!) che tutto questo non
ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non “ottenere” ma “perdere”.
Dobbiamo perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; dobbiamo
perdere le tante illusioni in cui ci siamo cullati; dobbiamo perdere i tanti
rivestimenti, le tante incrostazioni, per ritornare alla “nudità” originale, all'essenziale
della vita; dobbiamo spogliarci di tutto per ritrovare noi stessi.
E
allora finalmente capiremo che la vita più che un processo di acquisizione, di conquista,
è in definitiva un grande processo di rinuncia e di perdita. La piena felicità
della nostra vita poggia infatti sulla paradossale verità che per “trovare”
bisogna “perdere”. Amen.
«In quel tempo, uno dei farisei
invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a
tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si
trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso
i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con
i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-8,3).
Il
vangelo di oggi ci trasmette un messaggio profondo e consolante che ci invita
al ritorno a Dio, alla fiducia piena nella sua misericordia, al pentimento, ad
una nuova vita, al rientro nella sua grazia. L'uomo non è destinato a rimanere
nel male e nella morte, perché il Signore si è fatto vicino per salvarlo, per
rinnovargli la vita, per infondergli nuova fiducia, per elevarlo alla dignità
di figlio di Dio.
La
scena si svolge a casa di un fariseo, Simone, che aveva invitato Gesù a cena.
È
chiaro che questo suo invito è solo un pretesto: egli vuole farsi una sua idea
personale sul personaggio Gesù; vuole verificare di persona, stando faccia a faccia, se quel
predicatore itinerante, di cui ultimamente aveva sentito tanto parlare bene,
fosse realmente dotato di quelle qualità così straordinarie che gli venivano
attribuite. È un calcolatore, il fariseo: dai ragionamenti che egli fa in cuor suo, emergono evidenti i segni della sua ristretta mentalità: come cioè nel corso della sua vita egli si sia sempre lasciato
condizionare nei suoi giudizi, più dalla forma esteriore che dal contenuto, più dall’apparenza
che dalle reali motivazioni interiori del prossimo: uno insomma molto esigente
e severo sul comportamento morale degli altri, ma altrettanto permissivo e
benevolo con il proprio; né più né meno di come fanno anche oggi tantissimi
cristiani.
Così non
appena Gesù esce dallo schema di quello che per lui era “lecito”, il nostro fariseo vuole immediatamente
capirne le ragioni, rendersi conto del come e del perché.
E
a prima vista, i fatti sembrano confermare il suo pessimismo; sembra quasi che Gesù, lasciandosi avvicinare e facendosi toccare da una donna notoriamente peccatrice, si squalifichi da solo, offrendo spontaneamente il fianco alle sue critiche e mormorazioni: insomma, un errore “grossolano” quello di Gesù. «Se
costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo
tocca...!».
Simone
lo critica proprio per questo suo sprezzo delle convenienze sociali; e nel
contempo mette in dubbio la sua capacità di leggere dentro la coscienza altrui.
Ed è
proprio dal comportamento di questa donna peccatrice - una donna che senza dire una sola parola
entra piangendo e va dritta da Gesù, si getta ai suoi piedi, glieli bagna con
le lacrime, li unge con l’unguento e li asciuga con i capelli - che Gesù trae lo
spunto per il suo insegnamento.
È un
gesto importante quello della poveretta: un gesto con cui lancia un messaggio
disperato a Gesù: un grido che solo Lui afferra in tutta la sua gravità e importanza; e Lui
lo spiega a tutti, a partire dal padrone di casa: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Nella
mentalità del fariseo l'interesse, la convenienza, ha sempre avuto la meglio
sull’amore, sulla comprensione, sulla generosità, ha sempre soffocato gli
slanci del cuore: perciò Gesù inizia a parlare partendo giustamente da un
esempio “economico”: quanto più grande è la somma in denaro condonata ad un
debitore, tanto maggiore sarà il debito di riconoscenza nei confronti del suo benefattore.
Così,
dopo il giudizio scontato sulla donna e quello sospettoso nei confronti sul
Signore, il fariseo è costretto a riformulare un giudizio di merito su se
stesso: non aveva accolto il Signore nella sua casa con sincerità e disponibilità
perché si riteneva superiore a Lui; inoltre aveva
ulteriormente dimostrato questo suo pregiudizio giudicando superficialmente i gesti della donna,
rivelando così un cuore totalmente sprovvisto di amore.
Un
fatto grave e preoccupante, perché soltanto l'amore è in grado di farci conoscere
la gravità delle nostre colpe e di predisporci, riconoscendoci peccatori, a
riceverne il perdono. Solo l'amore autorizza il Signore a rimettere i peccati
di chi se ne accusa contrito.
Ecco,
fratelli: con questo episodio Gesù non si riduce semplicemente a dirci che la
superbia è un peccato più pericoloso della sensualità; ma ci mostra soprattutto
cosa dobbiamo fare per liberarci sia dell'una che dell'altra.
«I suoi molti peccati sono perdonati, perché
ha molto amato». A Dio non importa la nostra devozione se non è sorretta
dalla “passione”, dall’amore; non cerca “giusti” ma “figli”, a lui non interessa
la nostra “immagine” ma quello che siamo realmente nel nostro cuore. Esige da
noi suoi discepoli verità, passione, forza, apertura, entusiasmo, anche a costo
di sbagliare.
La
mansuetudine con cui il Signore ha accolto la donna è solo il segno esteriore
della sua enorme misericordia per l’uomo, del suo amore infinito, con
cui attira a sé le anime umili e pentite. Il nostro perbenismo e la nostra morale
sterile non possono assolutamente competere con l'infinito amore di Dio.
Questo
la donna peccatrice l’aveva percepito immediatamente, e non si era sbagliata.
Nei
piedi del Signore che si muovono per terra, a contatto con le asperità del
suolo, ella aveva intravisto la sua bontà e la sua “apertura” misericordiosa
nei confronti dell’umanità; ed è partendo da essi che manifesta tutto il pentimento
per la sua condotta peccaminosa; e poiché davanti a tutti aveva peccato,
davanti a tutti si prostra a chiedere il Suo perdono. E sono proprio questi gesti,
con cui si rivolge al Signore, che lasciano intravvedere il suo impegno di
conversione: d'ora in poi avrebbe cambiato radicalmente la sua vita. Il profumo
del suo amore di donna si sarebbe sparso solo per la gloria di Dio.
Ora, nel
nostro cammino di discepolato, le ombre del nostro peccato, viste alla luce
dell'amore di Dio, devono continuamente distoglierci da qualunque forma di
superbia: siamo un nulla, ci distinguiamo soltanto per il nostro egoismo,
per la nostra ingratitudine: il Signore ci chiede al contrario uno sguardo
sereno sulle cose, facendoci capire che con un po’ di umiltà, contando sul suo
aiuto, possiamo fare ancora tanto bene.
Quando
Gesù pronuncia le parole di perdono, non sta parlando al presente, come di
qualcosa che avviene in quel momento. Gesù semplicemente ricorda alla donna, al
fariseo e a noi, che il perdono viene concesso nel momento stesso in cui
riconosciamo le nostre colpe; nell'umiltà: il perdono della donna è legato infatti proprio alla sua umile azione
di lavare, asciugare, baciare e profumare i piedi di Gesù.
Un'esperienza
del perdono ricevuto, questa della donna, che a questo punto la trasforma, e la rende
testimone per il mondo della sua grande bellezza interiore ritrovata: è in lei,
infatti, che – pur rimanendo agli occhi di Simone una disprezzabile prostituta,
una peccatrice da allontanare e punire - Gesù vede una donna rinnovata, una
donna che ora ama col cuore.
Due
punti di vista diversi, quello di Gesù e del fariseo: due punti di vista che ci
provocano a ripensare profondamente il nostro modo di vederci gli uni e gli
altri. Amen.