«In quel tempo, Gesù disse: «Le
mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro
la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla
mia mano». (Gv 10,27-30)
Il
Vangelo di oggi contiene i quattro versetti finali del discorso detto del “Buon
Pastore”, incluso da Giovanni nelle catechesi di Gesù, fatte durante la sua
permanenza a Gerusalemme.
In
quelle poche parole è racchiusa tutta la personale e coraggiosa convinzione dei
primi cristiani di fronte a persecuzioni, lotte, conflitti, maldicenze e
difficoltà: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno
può rapirlo, nessuno può strapparlo dalla sua Mano. Per questo motivo essi
seguivano fiduciosi e impavidi le orme di Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono”.
Proiettiamo
come al solito il senso di queste parole sulla nostra vita contemporanea.
Dobbiamo
constatare prima di tutto che la maggior parte delle persone di oggi scambia l’ascoltare con l’udire. Udire è un fatto fisiologico, sensoriale, è percepire un
suono, un rumore. Ascoltare, invece, appartiene alla sfera psichica, implica un
atto consapevole della nostra volontà che provoca in noi una determinata reazione
psico-motoria, significa sentire, seguire, fare proprio ciò che udiamo, rendendoci
conto delle conseguenze che esso provoca in noi e attorno a noi. Ascoltare è coinvolgere tutta la nostra persona.
Udire invece ci lascia indifferenti:
noi infatti possiamo tranquillamente udire,
senza per questo ascoltare.
A
livello fisiologico l’orecchio è il responsabile del nostro orientamento
spaziale, della coordinazione dei movimenti di una persona. È l’organo dell’equilibrio,
del verticalizzarsi.
Nell’orecchio c’è tutto l’uomo. Il bambino
nel grembo materno ascolta, sente: se non riceve vibrazioni affettive
attraverso il tono della voce materna, rischia di restare emotivamente disturbato
per il resto della vita.
Come
uno ascolta, così parlerà. Come uno ascolta, così camminerà, canterà, agirà. Da
come uno parla, ma ancor di più da come uno ascolta, noi capiamo chi abbiamo
davanti.
Non si
può diventare adulti, maturi, consapevoli, senza la capacità di ascoltare se
stessi e gli altri. Da come ascoltiamo noi ci evolviamo. Quello che ascoltiamo
ci costruisce. Perché il nostro orecchio è lo strumento con cui costruiamo il
nostro cuore e la nostra anima.
Come la
bocca ci fa crescere materialmente, permettendoci di introdurre attraverso di
lei il cibo, così l’orecchio ci fa crescere intellettualmente, permettendoci di
introdurre, attraverso di lui, l’ascolto. È l’organo che ci fa imparare, perché
introduce dall’esterno ciò che non abbiamo in noi.
Abbiamo
due orecchie e una bocca perché dovremmo ascoltare molto di più e parlare molto
di meno. Abbiamo due orecchie e una bocca perché abbiamo bisogno almeno del
doppio di cibo dell’anima, spirituale, rispetto al cibo fisico, materiale. Se vogliamo
imparare, non abbiamo alternative: ascoltiamo! Non a caso si dice che la fede
nasce dall’ascolto: dall’ascolto, non dall’aver udito tante parole buone!
Una
delle espressione più usate nella Bibbia è: “Hanno
orecchi per udire, ma non odono” (Ez 12,2). Ogni giorno udiamo migliaia e
migliaia di parole, ma quante ne ascoltiamo?
In realtà
oggi sono rari quelli che “ascoltano”. Se ascoltassimo di più noi stessi, potremmo
scoprire che nel nostro intimo noi conserviamo una enorme quantità di suoni, di
voci, di personaggi, tutti in attesa di essere individuati, esaminati, selezionati,
capiti. Se ci ascoltassimo di più potremmo evitare di cercare altrove quelle risposte
agli interrogativi della vita che potremmo invece trovare dentro di noi. È
chiaro che per noi è più comodo e meno impegnativo trovare qualcuno che ci dia delle
risposte: chiedere pareri non costa nulla! Ma in questo modo le risposte che
riceviamo sono estranee a noi, sono di “altri”, vengono dall’esterno, sono
“diverse”; le domande invece sono le nostre, sono parte di noi, sono noi, sono
la nostra vita. Vogliamo un suggerimento, un incoraggiamento a fare qualcosa? Cerchiamolo
prima di tutto dentro di noi, nel silenzio della nostra anima! Se ci ascoltassimo
di più e più attentamente, potremmo renderci conto di quanto il silenzio parli;
a volte grida pure, in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo
accorgerci che la realtà non è tanto quella che ci fa comodo immaginare, ma è quella
che viviamo, quella che abbiamo davanti, quella che si aspetta il nostro
concreto coinvolgimento.
Se ci
ascoltassimo di più non condurremmo una vita così assurda; sentiremmo più
nettamente le esigenze dell’anima, i richiami del profondo, i richiami del
nostro cuore.
Se
sapessimo ascoltarci bene, capiremmo anche l’importanza della Parola di Dio, la
profondità e la forza del vangelo; sentiremmo l’energia e la potenza vulcanica
delle Sue parole.
Noi invece
udiamo tutto, voci infinite che entrano e che escono, ma non ascoltiamo nulla:
non tratteniamo nulla, non percepiamo alcuna vibrazione; sono soltanto voci che
non possono attecchire e mettere radici in noi. Siamo chiusi. E più siamo
chiusi, meno ci ascoltiamo, e sempre meno riusciamo a comprendere la vita, gli
eventi che ci circondano.
In
compenso parliamo; parliamo troppo, e troppo spesso a sproposito, tranciamo
giudizi affrettati su persone e avvenimenti, senza comprenderne la portata, il
valore: il nostro è un “vaniloquio” torrenziale, un parlare meccanico e vuoto,
un parlare solo perché abbiamo una bocca.
“Le mie pecore ascoltano la mia
voce e io le conosco ed esse mi seguono” (10,27).
“Conoscere”
per noi significa sapere chi è uno, dove abita, quanti anni ha e cosa fa nella
vita. Ma che conoscenza è questa? È una conoscenza di dati, di informazioni,
una conoscenza da carta d’identità. Per la Bibbia, invece, “conoscere” significa
“fare esperienza, incontrare, sentire, comprendere, percepire”.
Molte
persone credono di conoscersi, ma la loro conoscenza si ferma solo ad un
livello mentale. Per conoscersi, invece, dobbiamo percepire il nostro essere interiore,
dobbiamo sentirlo, ascoltarlo, sperimentarlo, dobbiamo sentire le sue vibrazioni,
la sua vita palpitante. Dobbiamo avvertire la sua potenza, la sua forza. Solo
se ci lasciamo coinvolgere e penetrare da Colui che ci inabita, potremo
cambiare. Perché qualunque cambiamento proviene sempre da una vera e autentica conoscenza.
“Io do loro la vita eterna e
non periranno mai; nessuno le strapperà (“arpàzein”) dalla mia mano (10,28). Se noi seguiamo il “buon
Pastore, nessuno mai potrà strapparci da lui. Il verbo greco “arpazo”, vuol
dire esattamente rapire, strappare via,
prendere, rubare.
Nella
nostra vita siamo tutti presi dalla paura di venire strappati via da qualcuno, da qualcosa che ci appartiene: paura di
perdere la nostra vita e quella dei nostri cari, paura di rimanere vittime di
incidenti stradali, paura di rimanere in balia di attentatori, di ladri, di
rapinatori, paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi… La
paura, l’ansia, è la nostra compagna di viaggio.
A guardar
bene, però, perché aver paura che ci venga rapinato,
strappato di dosso, un qualcosa che in fondo non è nostro, non ci
appartiene? Cosa abbiamo infatti di veramente “nostro” in questa vita? Di chi e
di che cosa possiamo veramente dire: “è mio”? Di nulla: perché tutto ciò di cui
disponiamo, tutto ciò che conquistiamo, lo abbiamo solo in “comodato d’uso”, in
prestito temporaneo: nudi di tutto siamo entrati in questo mondo e nudi di
tutto ce ne andremo. Verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto quello che
pensavamo fosse “nostro”. È la fine di questa vita, è la morte. E questa prospettiva
ci disturba, ci turba non poco.
In
effetti Dio non vuole la morte dell’uomo, così, per principio, per un suo
puntiglio personale: la morte in questo mondo l’abbiamo introdotta noi col
peccato, e Dio l’ha lasciata per un motivo pratico: perché ci ricordasse
continuamente, perché da lei imparassimo concretamente, che l’unica certezza nella
nostra vita è Lui, solo Lui.
Ci
piaccia o no, verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto, dovremo
abbandonare famiglia, parenti, amici; verrà un giorno in cui non potremo più
contare su di noi, sulle nostre forze, sul nostro prestigio, sulle nostre
ricchezze; verrà un giorno in cui potremo solo stendere le nostre mani per
afferrare le mani che Egli ci tende: “Signore, non ho più nulla, ho solo Te. Mi
fido di Te e mi lascio andare”.
Ecco
allora che seguire Gesù in questa vita significa liberarci dall’illusione di
possedere o trattenere qualcosa di nostro: perché la vita stessa non è nostra.
Nulla mai potrà essere nostro, ma il dato consolante è che noi siamo di Dio.
“Io sono di Dio; mi sento nel palmo della Sua mano, soltanto lì mi sento al
sicuro, lì nulla può farmi più paura. Soltanto se viviamo con Lui e in Lui,
possiamo vivere serenamente.
Infatti,
chi ha paura di vivere è perché ha paura di morire e chi ha paura di morire ha
paura di “perdere” qualcosa. Chi ha paura di vivere è perché non conosce ancora
Dio e non ha ancora capito chi è Lui, e cosa rappresenta per noi. Noi siamo
Suoi e con Lui non abbiamo nulla da perdere, perché niente e nessuno può
strapparci dal Suo abbraccio. Amen.