mercoledì 31 ottobre 2012

4 Novembre 2012 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28-34).
E Gesù di rimando, come al solito, senza esitazioni: «Shemà Israel, ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza». Una risposta che soddisfa anche l’interrogante, “hai detto bene”; una risposta che contiene il cuore palpitante della fede biblica. Il primo e più importante comandamento. I rabbini avevano condensato la Legge di Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa (“non devi…”), considerati lievi, e 248 in forma positiva (“devi…”), che erano invece ritenuti gravi. Una giungla di prescrizioni, tra le quali anche i più esperti studiosi della Torah, si muovevano con difficoltà.
Il “sapiente” di turno, dunque, uno scriba che forse vuol saggiare la preparazione di Gesù, o forse mosso anche da sincera voglia di sapere, gli rivolge una domanda secca: fra tutti questi precetti, qual è il primo, quello più importante?
Gesù lo lascia perplesso, lo prende in contropiede, ripetendogli prontamente quella stessa professione di fede deuteronomica che lui, da buon israelita, ha il dovere di recitare tutti i giorni, più volte al giorno. Una professione di fede chiara, intoccabile, intramontabile. È come il Padre Nostro per noi Cristiani.
Sono parole semplici, ma di grande interiorità, con le quali si proclama e si riconosce la stretta relazione del popolo con il suo Dio, la sua appartenenza a Lui, anzi l'appartenenza reciproca: siamo del Signore e il Signore è nostro: «Il Signore è il nostro Dio». È per questo che Israele rinuncia a rendere qualunque forma di culto alle divinità pagane, inesistenti, dedicandosi interamente al suo Dio e all'osservanza della sua Legge. Perché solo affidandosi esclusivamente a Lui, egli sa di non aver bisogno più di nulla da nessun altro.
Ma nonostante la validità e l’universalità della risposta, Gesù non si ferma qui. Egli va oltre; vuole integrare l’antica legge, completandola, mettendosi sulla linea della grande tradizione profetica e rabbinica: «Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi».
Il comandamento dell'amore è fondamentale, unico: prima di tutto l’amore a Dio, indiscutibilmente; poi l’amore verso il prossimo. Il primo non può esistere separato dal secondo.
Pur rimanendo distinti, i due comandamenti si intrecciano, si richiamano a vicenda. Non possiamo amare Dio, se non amiamo anche quelli che Egli ama. Se ci impegnassimo ad amare Dio soltanto, escludendo il nostro prossimo, la nostra relazione con Dio sarebbe semplicemente falsa, inesistente e quindi illusoria. Se investissimo ogni nostra energia nell'amare gli uomini, fossero pure i più bisognosi, i derelitti, gli abbandonati, escludendo espressamente Dio dal nostro orizzonte, il nostro rapporto con loro sarebbe semplicemente esibizionismo, voglia di emergere, amore non genuino. Ogni nostro gesto di amore nei confronti del prossimo è autentico soltanto se è mosso anche dall’amore verso Dio. L’amore è unico, inscindibile.
«Shemà Israel, ascolta Israele». Da questa solenne esortazione Gesù prende lo spunto per rivelarci quel rapporto totalizzante con Dio e con il prossimo, che Egli condensa in un’unica parola: amore.
«Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze; amerai come stesso». Non c’è possibilità di fraintendimenti: il “cuore, l'anima, le forze” non sono tre facoltà separate, ma costituiscono l'uomo nella sua completezza: il “cuore” è il centro profondo della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l' “anima” indica la sua intera esistenza permeata dal divino soffio vitale; le “forze” dicono anche il coinvolgimento della totalità del suo corpo vivente, di tutte le sue energie e risorse fisiche.
In pratica Dio non si accontenta di una parte: o solo quella spirituale oppure solo quella materiale. Egli vuole che l’uomo sia interamente, completamente, esclusivamente suo. Non gli basta di essere servito, onorato, pregato dall’uomo: Egli vuole essere amato, e non di un amore qualsiasi, ma di un amore esclusivo, completo.
Ecco: la novità e l'originalità di Gesù sta nell'avere rivelato e insegnato l'unità, l’inscindibilità dei due comandamenti dell'amore; e sta anche nel fatto, che nessuno è mai riuscito a viverli in maniera così perfetta di come ha fatto Lui. La novità sta anche nel fatto che un tale amore, impossibile alle sole nostre forze umane, ci viene comunicato gratuitamente da Gesù e dal Padre attraverso il dono del loro Spirito. Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo significa chiedere proprio tale capacità d'amare.
La religione di Gesù, dunque, è la religione dell'amore, non della paura; la religione della fiducia, non del timore; la religione del cuore e non delle pratiche esteriori. È soprattutto la religione dell'amore, in quanto in essa noi scopriremo sempre di più che Dio ci ama di un amore infinito, pieno di tenerezza, di bontà, di misericordia, di fiducia. Perché Dio è Amore; e anche noi, nel nostro piccolo e con tutti i nostri limiti, siamo chiamati a diventare amore. Gesù, infatti, nella pienezza della sua missione, non si accontenta di dire: Ama il prossimo come te stesso, come puoi o come vuoi; ma ci invita ad amare secondo la misura del suo Cuore: “Amatevi gli uni gli altri, come Io vi ho amati”. E Lui non ha posto limiti, ci ha amati offrendo tutto se stesso per noi, fino al sacrificio della sua vita. Ecco, questo deve essere “il nostro” comandamento, il comandamento “nuovo” omologato da Gesù stesso.
Certo, fratelli, parlare di amore è abbastanza facile. Ma l'amore non lo si dimostra con le parole, con i grandi discorsi, con programmi grandiosi: l’amore si pratica con i fatti. Anzi dobbiamo imparare a parlare poco, a non esibirci, a non pubblicizzarci in iniziative straordinarie, ma a compiere invece molte piccole azioni di amore autentico, generoso, disinteressato; verso tutti, ma con particolare attenzione verso le persone che hanno più bisogno, anche quelle che non ci sono simpatiche o verso le quali non ci sentiamo portati. Gesù ci ha detto di amare perfino i nemici... “perché se amate coloro che vi amano, che merito ne avete?”
Se vogliamo intraprendere la strada dell'amore, non dobbiamo riempirci la bocca di belle parole, ma dobbiamo riempire la nostra vita di fatti concreti. Dobbiamo prendere coscienza che, nonostante tutto ciò che ci ha detto Gesù e che noi stessi conosciamo quasi a memoria, è molto facile sbagliare e peccare contro la carità e l'amore del prossimo. È infatti soprattutto verso il prossimo che noi siamo peccatori. Basti pensare alle mancanze che facciamo con le persone che ci sono più vicine, in casa nostra, nel lavoro, nelle relazioni con gli altri: egoismo, parole, giudizi, critiche... Basti pensare anche ai peccati tra noi cristiani: le divisioni, le critiche, i personalismi, le incomprensioni... In fondo anche le divisioni, i giudizi malevoli, i protagonismi all’interno della chiesa, della parrocchia, sono peccati contro la carità, contro l'amore. E dire che Gesù ci aveva raccomandato solo questo! Lo aveva anzi posto come nostro “distintivo”: «Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».
Allora, fratelli, non basta la preghiera, non basta la messa domenicale, la comunione, le elemosine, la caritas... Dobbiamo amare veramente! Ma è possibile amare veramente? Sì è possibile, fratelli! Ed è la cosa più bella, più facile, più vera: basta provarci ogni giorno. E la preghiera, la messa, la comunione ecc. saranno non il punto esclusivo di arrivo, ma il punto di partenza per chiedere a Dio di aiutarci a diventare sempre più cristiani in grado di amare con tutto il nostro cuore Lui e il prossimo. Questo ci porta pertanto ad essere umili, a chiedere perdono, a essere molto concreti nei nostri propositi.
Se noi chiediamo umilmente a Gesù: “Qual è il senso ultimo della nostra vita?” Sono certo che la sua risposta sarà: “lasciatevi amare, amatevi, amate”. Prima di tutto “lasciatevi amare” da Dio; Dio ci ama tantissimo, fratelli, quando lo capiremo? Ci ama senza condizioni, senza possesso, senza fragilità. Ci ama non perché siamo meritevoli, ci ama non perché siamo buoni; è Lui che, amandoci, ci rende buoni.
Capisco che a volte è difficile, fratelli. So bene che il nostro cuore talvolta è indurito, rinchiuso in una gabbia di dolore, non riusciamo a vedere questo Amore perché la rabbia di non essere stati amati ci ha intossicato il cuore e la mente. Fidiamoci di Lui, lasciamoci andare. Dio sul serio ci ama, sul serio desidera per noi il bene; davvero: Gesù è morto per affermare questa certezza, ci ha creduto e ne è morto.
La seconda condizione per cui vivere è “amarci”. Accettarci cioè così come siamo, con i nostri limiti, le nostre parti oscure. Un falso cristianesimo ci impedisce di gioire di noi stessi, vedendo in questo atteggiamento un atto di egoismo da parte nostra. L'egoismo è, invece, non accettare i propri limiti, voler accaparrare, prendere, impossessarsi, piuttosto che fare della propria vita un dono. L'egoista appare, si sforza di vendere un'immagine di sé che gli impedisce di rientrare in se stesso e gioire. Ci amiamo, fratelli? Ci perdoniamo? Siamo convinti che possiamo trasformare ciò che siamo in un capolavoro di amore? Certo, per imparare ad amare ci vuole tutta una vita, tutta la nostra vita. Ma possiamo farcela, sul serio; guardarci come ci vede Dio, non come il mostro delle nostre paure e neppure come l’eroe dei nostri sogni, ma come la persona che Dio ha pensato e amato. Allora possiamo amare dell'amore che abbiamo ricevuto e che ha trasfigurato il nostro cuore, allora possiamo davvero vivere, riconciliati nel profondo con i nostri fratelli.
Infine la terza condizione è: “amate”. Amiamo Dio perché ci scopriamo teneramente amati, amiamolo perché ce ne innamoriamo, amiamolo come riusciamo, ma tutto, interamente. Non potremo amarlo in maniera assolutamente pura, non avremo forse mai la forza di un gesto totale; il nostro amore, spesso, è vincolato, fragile, appesantito. Non importa, fratelli, amiamolo con tutto ciò che riusciamo, come riusciamo, amiamo senza paura. È questo il segreto, fratelli: scoprire di essere amati, di essere amabili, di diventare capaci di amare nel nostro modo un po' grossolano e fragile. Dio ci rende capaci di amore, di luce, di pace, di essere segno e dono, di donare, di contrastare la logica di questo mondo. È difficile, vero. Abbiamo l'impressione di nuotare controcorrente. Ma l'esempio di tanti santi ci conforta. Come loro, anche noi, entro le nostre possibilità, possiamo vivere l'amore; molti di noi già lo fanno: basti pensare alle mamme e ai papà accanto ai loro figli, le famiglie accanto ai propri anziani, i cristiani accanto a chi nella società è malato, povero, emarginato, solo.
E allora coraggio: ciascuno di noi, in questo momento, può certamente offrire a tante persone atti di bontà, di generosità, di incoraggiamento, di aiuto, sia morale che materiale. Facciamolo col cuore, con disinteresse, anche con sacrificio, ma soprattutto con amore sincero. Perché alla fine della vita, saremo giudicati proprio su questo, sull'amore.
E concludo. Esaminiamoci spesso, fratelli; chiediamoci con tutta sincerità, nell’intimo del nostro cuore: “In questo momento, sto amando veramente o mi sto illudendo di amare? Amo realmente Dio più di tutto il resto? Dio è realmente il mio tesoro più caro? Amo concretamente il prossimo, vale a dire voglio il suo bene e lo compio, direttamente o indirettamente?”
Ecco, cerchiamo di ricordare ogni sera se abbiamo compiuto durante la giornata qualche atto di amore genuino a Dio e al prossimo. Proviamo a recitare lentamente l’«atto di carità» (ce lo ricordiamo ancora?), cercando di coglierne il significato; esaminandoci se siamo sinceri nel fare a Dio una tale dichiarazione d'amore: «Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità…; per amor tuo amo il prossimo mio come me stesso…, perdono le offese ricevute… Signore, che io ti ami sempre più». Facciamolo, fratelli: così, umilmente, semplicemente, come l’hanno fatto e come ci hanno insegnato i nostri genitori, i nostri nonni. Perché la cosa più bella che possiamo fare nella nostra vita è amare Dio e tutti i nostri fratelli: questo ci rende persone di luce, di gioia, di pace; persone che fanno trasparire anche dal proprio volto una pallida sembianza della bontà di Dio. E la gente, fratelli miei, ha proprio bisogno di questo! Solo di questo. Amen.

mercoledì 24 ottobre 2012

28 Ottobre 2012 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: Che cosa vuoi che io faccia per te?. E il cieco gli rispose: Rabbunì, che io veda di nuovo! E Gesù gli disse: Va', la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 46-52).
Abbiamo visto nel vangelo di domenica scorsa come i discepoli si siano dimostrati ciechi nei confronti di Gesù e della sua missione. Ebbene: oggi Marco torna sul tema della cecità ponendo l’incontro con il cieco Bartimèo immediatamente prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: come a dire che per comprendere il senso della Sua vita e della Sua sofferenza, dobbiamo avere gli occhi penetranti della fede, dobbiamo vedere perfettamente e soprattutto dobbiamo saper cosa vedere; perché non basta avere gli occhi, anche se buoni, per dire “ci vedo!”.
E sono i lontani, quelli con cui Gesù ha che fare occasionalmente, che riescono a “vederlo” nella maniera giusta: è il cieco del vangelo di oggi, che riacquistata la vista, si mette spontaneamente come discepolo al suo seguito, unico a seguirlo ad occhi aperti e consapevoli nel cammino della passione e della croce; è il centurione sul Golgota che, subito dopo la morte di Gesù ci vede improvvisamente chiaro quando esclama: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (15,41); il giorno dopo la morte, saranno delle pie donne “a vederci” e a capire tutto. Al contrario i più vicini, gli apostoli, i prescelti, i chiamati per nome, arriveranno “a vedere” dopo, molto dopo. La loro “storia” della passione è la storia di uomini che “non hanno visto niente”. Non sono riusciti, cioè, a penetrare il mistero, sono rimasti ciechi. Esattamente come succede nella nostra vita quando rimaniamo indifferenti, quando ci fermiamo alla superficie delle cose e degli eventi
Gesù dunque sta per lasciare Gerico quando improvvisamente, al suo passaggio, un uomo si mette a urlare: è Bartimèo, un cieco che chiede l’elemosina ai margini della strada. Dal suo nome gli esegeti risalgono alla sua personalità (Bar-timeo = figlio di Timeo; ora “tìmeo” = aver paura; quindi: figlio della paura); si tratta cioè di uno che è cieco nell’anima più che negli occhi; è uno che ha paura, che teme di affrontare la vita, che non crede più in sé, che si ritiene incapace di affrontare da solo la vita: e questa sua insicurezza, questa sua paura, lo costringe a fermarsi lungo la strada, a mendicare, a chiedere l’aiuto degli altri. È cieco, è vero. Ma un cieco che non vuol vedere.
Né più né meno di come siamo anche noi quando non vogliamo affrontare la realtà: chiudiamo gli occhi, rimuoviamo gli ostacoli; siamo convinti di vedere, ma brancoliamo nel buio. Ci comportiamo irrazionalmente: se non vediamo una cosa, pensiamo che non ci sia. Soltanto, fratelli, che questo metodo non funziona. Lo sappiamo che non funziona: eppure di fronte a certi dolori, a certe sofferenze della vita, alle quali non possiamo sottrarci, continuiamo a chiudere gli occhi. E non c’è niente che ce li faccia aprire: così ci lasciamo andare, diventiamo preda della depressione, ci diamo all'alcool, alla droga, agli eccessi: ci alieniamo, mendicando la carità altrui. Abbiamo paura di conoscerci, fuggiamo da noi stessi, dalla nostra anima. Ma il problema rimane, perché non potremo mai sfuggire a noi stessi. Diventare “ciechi”, per paura della sofferenza, della vita, è perfettamente inutile!
Il cieco è seduto lungo la strada: è ovvio perché quando non sappiamo chi siamo realmente, non sappiamo neppure dove andare, cosa fare. Allora chiediamo ansiosamente a destra e a sinistra: “Chi sono? Cosa devo fare? Come devo vivere?”; ci sentiamo persi, ci sentiamo impossibilitati a vedere; se guardassimo dentro di noi, non avremmo certo bisogno di elemosinare opinioni e consigli. Non volendolo fare, ci accontentiamo di vegetare: non abbiamo una direzione da seguire, siamo senza una meta precisa, non sappiamo come muoverci nella vita; ci accasciamo e vaghiamo stupidamente di qua e di là.
Il cieco mendica: quello che non vediamo in noi, lo chiediamo agli altri. Abbiamo bisogno di continue conferme, ci serve che qualcuno si sostituisca a noi. In questo modo gettiamo via quello che siamo e accettiamo supinamente qualunque soluzione gli altri ci propongano. Ci accontentiamo delle briciole, ci svendiamo, scendiamo a compromessi terribili. Siamo convinti di trovare fuori di noi, quello che invece abbiamo già dentro e non vogliamo vedere.
Quando passa Gesù il cieco comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me».
Il cieco sa di aver sbagliato; si rende conto che se è finito in quella condizione è perché non ha voluto vedere certe cose e chiede perdono: “Abbi pietà di me”. E lo fa gridando; non si rassegna, non demorde. Gridare aiuto, indica la volontà di uscire da una certa situazione negativa, vuol dire che uno è disposto a tutto pur di venirne fuori. Significa avere fede. E sarà proprio la fede che salverà Bartimèo.
Al suo urlare la folla lo zittisce. Talvolta proprio chi è più vicino a noi ci distoglie dai nostri propositi, dal nostro desiderio di guarigione. Per questo dobbiamo “urlare”, dobbiamo far sentire a tutti la nostra voglia di vivere; per fare questo, dobbiamo però credere nuovamente in noi, nella nostra fede; dobbiamo cioè “riconoscere” il passaggio di Gesù nel nostro cuore. Perché è lui che ci sentirà e ci salverà. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di sfidare il giudizio della gente “perbene”, dobbiamo creare scompiglio nella “folla” che ci rallenta; insomma dobbiamo fare di tutto per bloccare il passaggio di Gesù. Se non siamo convinti di poterlo fare, se non ci crediamo noi stessi con tutte le forze, non succederà mai nulla. Noi infatti riusciamo ad ottenere solo ciò che siamo convinti di volere, ciò in cui crediamo fermamente: se non crediamo di guarire, non guariremo; se non crediamo di poter cambiare, non cambieremo; se non crediamo al nostro sogno, non arriveremo mai a realizzarlo; se non crediamo nella forza del nostro cuore, non arriveremo mai ad amare. Se non crediamo nel Dio che abita in noi, non saremo mai felici. Insomma, se non crediamo in noi, non realizzeremo mai niente.
Bartimèo vuole riottenere la vista con tutte le sue forze, a tutti i costi; lo vuole così tanto che non gli interessa di fare brutta figura, di essere ripreso dai presenti, di essere deriso o di sfigurare. Non chiediamoci mai, fratelli, se vogliamo una cosa; chiediamoci piuttosto quanto la vogliamo; quanto siamo disposti a giocarci, quanto siamo disposti a rischiare; fino a che punto siamo disposti a lasciarci coinvolgere. Invece purtroppo noi vorremmo tutto, ma senza privarci di nulla, senza faticare; vorremmo guarire dai nostri difetti, ma continuando a vivere con le nostre abitudini. Vorremmo conoscere Dio, ma senza troppi coinvolgimenti, senza sconvolgere la nostra quieta esistenza. Vorremmo conoscere noi stessi, ma senza correre il rischio di capire che così non va, senza soffrire, senza provare delusioni. Vorremmo amare, ma senza esporci, senza sbagliare, senza perdere, senza cadere.
Allora Gesù si ferma e lo chiama. È l'unico caso del vangelo in cui Gesù viene fermato da qualcuno: Egli non si lascia condizionare dalla folla, non ascolta i giudizi della gente: in questo caso forse non lo aveva neppure visto o sentito, il cieco; o non aveva intenzione di fermarsi; ma di fronte al suo gridare, di fronte a un desiderio così grande, non può che cambiare i suoi piani. E si ferma. La fede dell'uomo cambia il destino, sconvolge la vita.
Appena si sente chiamato da Gesù, il cieco Bartimèo si comporta come se avesse già riacquistato la vista, come se ci vedesse da sempre: getta via il mantello, balza in piedi e corre da Gesù.
Diverso è invece il comportamento della folla: prima lo sgrida (10,48), poi, all’invito di Gesù, si fa in quattro per agevolarlo, per farlo avvicinare (10,49). All'improvviso tutti diventano gentili, bravi, caritatevoli e santi. Prima fanno di tutto per scoraggiare il pover'uomo; poi tutti ad incitarlo ad avere coraggio, a farsi avanti, a congratularsi con lui per essere stato notato da Gesù. Le famose “pacche” sulle spalle! Di fronte al prete o al vescovo tutti diventiamo buoni cristiani. Davanti al capo tutti i dipendenti sorridono. Quando invece c’è da esporsi, da dire come le cose dovrebbero andare, tutti si dileguano.
Quando Gesù si accorge di lui e “lo guarda”, Bartimèo trova improvvisamente la forza di fare ciò che non aveva mai fatto prima: scatta e corre. È umano: quando ci sentiamo importanti per qualcuno, anche la nostra vita cambia di prospettiva. È per questo che abbiamo bisogno di sentire che per qualcuno siamo veramente importanti, che valiamo. Sappiamo di essere importanti, ma se nessuno ce lo dice, se nessuno ce lo fa vedere, se nessuno ce la fa sentire, ci sentiamo comunque inutili, pensiamo che tanto, esserci o non esserci, è la stessa cosa. E allora, tanto vale non esserci. Almeno è più comodo.
Il cieco si alza in piedi (letteralmente “si lancia”): adesso trova la forza di contare sulle proprie gambe, ritrova la piena fiducia in sé. Butta vita il mantello da mendicante: ora non è più tale, non deve più occupare il suo tempo a elemosinare amore e rispetto.
Anche a lui, come domenica scorsa ai due discepoli (Mc 10,36), Gesù riformula la stessa identica domanda:  «Cosa volete che io faccia per voi?» - «Cosa vuoi che io faccia per te?». I suoi discepoli, i più vicini, avevano chiesto cose materiali (gloria, potenza, successo, fama); Bartimèo chiede solo la Luce, chiede di vedere.
Grande lezione anche per noi! E allora smettiamo, fratelli, di chiedere a Dio solo cose materiali, cose terrene: non ce le può dare. Dio non può darci i soldi; Dio non può darci la ricchezza, Dio non può darci questa o quella cosa preziosa, questa o quella persona. Dio può concederci la fiducia, la consapevolezza, la luce, la verità, il senso della nostra strada, la fiducia nella Vita. Il resto dipende da noi. Ma molti, purtroppo, non sanno cosa farsene di tutto questo.
«Cosa vuoi che io ti faccia?». La domanda di Gesù, a noi superficiali, fa un po' sorridere: l’uomo è cieco; sa che Gesù opera miracoli, cosa vorrà mai? È ovvio, vuole guarire! Ma la domanda di Gesù non è affatto superflua. Perché non è importante sapere ciò che Gesù deve o non deve fare, egli lo sa perfettamente; Gesù invece vuol sapere ciò che l’uomo “vuole” esattamente: quanto cioè egli voglia guarire dalla sua cecità.
E l'uomo senza esitare risponde: «Fammi vedere». Il verbo greco “anablepo” indica l’azione di “vedere in su, alzare lo sguardo”. Quest'uomo nella sua vita ha sempre abbassato lo sguardo per paura. Ora vuole poter finalmente guardare in alto, senza timore. Quante volte anche per noi basta una semplice osservazione per farci guardare in basso, per toccarci sul vivo, per farci chiudere in noi stessi, per farci sentire senza valore, in colpa. Siamo succubi dell'opinione altrui. Dobbiamo invece “alzare lo sguardo”, avere un altro punto di riferimento, un riferimento ben più alto; dobbiamo cioè “guardare” solo a come Lui “ci vede”, non a come ci vede il mondo. Dobbiamo guardarci con gli occhi di Gesù, perché solo negli occhi di Dio possiamo vedere il nostro vero volto. Solo fissando il suo volto. Perché se giriamo le spalle al Sole, non vediamo altro che la nostra ombra!
Un’ultima annotazione: «E lo seguiva per la strada». In realtà anche i discepoli, gli apostoli, la gente, tutti, seguono Gesù: ma il vangelo per nessuno di loro si è mai soffermato a sottolineare che “lo seguivano”: lo fa solo per quest'uomo. Perché? Perché quelli che lo seguono abitualmente ci vedono tutti ma si comportano da ciechi. Quest’uomo invece, già completamente cieco, è l’unico che dimostra di vedere benissimo come seguire Gesù. Amen.
 

mercoledì 17 ottobre 2012

21 Ottobre 2012 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35-45).
È la terza volta che Gesù spiega ai suoi, in maniera chiara ed esplicita, quello che dovrà affrontare a Gerusalemme; finisce appena di dire testualmente, riferito al “Figlio dell’uomo”, a se stesso, «lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno, lo uccideranno…»(v.34), che immediatamente (v. 35), Giacomo e Giovanni danno prova, ancora una volta, di non aver capito nulla della vera missione di Gesù. Essi tornano ancora, con insistenza, sull’assegnazione dei posti d’onore nel Regno: e chiedono esattamente il contrario di quello che Gesù vuole per loro.
Non capiscono: andare a Gerusalemme, per loro, è tutt'altra cosa rispetto a quello che dice Gesù: per loro significa la grande occasione di una vita; significa l’occasione per acquistare potere, onori, prestigio, fama. E allora, perché non sfruttare il momento? Perché non mettere le cose in chiaro, e ottenere da Gesù la dovuta garanzia su ciò che si aspettano come riconoscimento finale? Sono purtroppo ciechi: non riescono a capire che Gesù non è il Cristo dei loro desideri, ma quello della promessa di Dio.
Essi lo amano: ma lo fanno a modo loro, senza preoccuparsi di conoscerlo veramente: non importa se si chiama Gesù o in qualunque altra maniera. L’importante è seguire uno che garantisca la realizzazione dei loro sogni, della loro voglia di emergere.
Ma il regno di Dio non è gloria e potere, ma “calice da bere” e “battesimo in cui immergersi”. Non si tratta di chiacchiere e di vuoto prestigio, ma di realtà concrete che implicano coinvolgimento, immersione, passione intensa, a volte anche dolorosa.
Seguire Gesù è fuoco, ardore, partecipazione piena e totale. Seguire Gesù non dà privilegi, dà solo vita vera.
Chi vuol vivere alla sequela di Gesù, fratelli, deve “bere”: deve cioè accogliere, incontrare, accettare tutto ciò che contiene il calice della sua vita. Sarebbe troppo bello sottrarsi ad alcune situazioni, evitare certe questioni dure e certe zone oscure. Ma non si può.
E come nel battesimo ci si immerge completamente nell’acqua, così chi segue il Signore deve lasciarsi andare a fondo, deve mettersi completamente nelle sue mani, deve confidare in Lui sapendo di fidarsi di Lui. Bisogna smettere di pianificare, di progettare, di decidere con la mentalità di questo mondo; bisogna al contrario abbandonarsi e lasciarsi portare da Lui.
Per Giacomo e Giovanni seguire Gesù significa sicuramente essere migliori degli altri, sentirsi superiori, ma non nel senso di Gesù: loro continuano a non capire, per cui Gesù è costretto a spiegarlo ancora una volta: il suo “regno” non è come quelli di quaggiù. Nei regni umani i sovrani abusano del loro potere, calpestano i popoli, li umiliano, li rendono schiavi, in ginocchio, così da sentirsi superiori, da sentirsi potenti e forti. Sfruttano i popoli e li usano per i loro scopi e per i loro interessi.
Nel Regno di Dio non è così. Nel Regno di Dio, il primo non è chi comanda ma chi serve. Nel Regno di Dio il primato non appartiene al potere ma all'amore; bisogna sentirsi come “schiavi”: non nel senso di appartenere a qualcuno, ma nel senso di sentirsi come quelli che sono ultimi, al gradino più basso della società, all’ultimo posto; non in senso negativo e statico, quindi, ma in senso positivo e dinamico: perché se è giusto non sentirsi superiori  ai propri fratelli, è altrettanto giusto non sentirsi troppo inferiori (doulos, sottomessi), chiudersi in facili commiserazioni; perché seguire Gesù vuol dire mettersi a fianco dei fratelli, alla pari, per amarli e servirli (diakonos) con gesti concreti , perché la Vita che è in loro, viva e si espanda.
È così che Gesù concepisce la sua vita: “Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
In che cosa consiste per Gesù il suo “servire” (diakoneo)? Nel rivelarci, nel farci finalmente capire mediante la sua vita, che il Padre lo ha mandato, gli ha fatto assumere la natura umana, a nostro esclusivo beneficio, per pagare il nostro “riscatto”.
Gli ebrei conoscevano perfettamente la procedura del “riscatto”. Era un’usanza molto comune a quel tempo: il lytron (riscatto) era infatti il denaro con cui potevano liberare uno schiavo dalla sua condizione servile, per ridargli dignità e autonomia.
Ebbene, noi eravamo schiavi del peccato: vivevamo nella “disarmonia” con le cose, con gli uomini e con Dio: vivevamo lontani da Dio, armonia dell’universo. Gesù accettando di assumere la nostra natura umana, non considerò irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma si “svuotò”, si annientò per diventare simile a noi (kenosis, Fil 2,7); e lo fece per riscattarci dalla nostra schiavitù.
Con la sua vita, Gesù ci ha dunque amati e “serviti”, ci ha dimostrato con i fatti che non c'è alcun motivo di aver paura di Dio, che non lo dobbiamo temere, che possiamo davvero fidarci di Lui, che non ci abbandonerà, che possiamo vivere questa vita anche rischiando, perché in ogni caso, Lui c'è e ci ama. Con la sua morte Egli ci ha liberati dalla paura della morte.
Leggendo questo vangelo ritroviamo molti punti in comune con la nostra vita; scopriamo che molti dei comportamenti dei discepoli, dai quali magari ci dissociamo, ci riguardano invece molto da vicino, fanno parte del nostro vivere quotidiano. E, ammettiamolo fratelli, vedere che perfino gli apostoli hanno vissuto e provato gli stessi nostri sentimenti, beh, un po’ ci consola.
Quante volte, fratelli, anche il nostro chiedere si esprime in questi termini: “io pretendo…, io voglio…, devi fare come dico io”. È chiaro che anche il nostro è egoismo, si tratta cioè di voler sopraffare gli altri ad ogni costo, di piegarli irrazionalmente al nostro volere.
L'amore invece chiede, non pretende. L'amore non modifica, non manipola l'altro. Pertanto, se abbiamo bisogno di qualcosa, se stiamo male, se c'è qualcosa che ci piacerebbe avere dagli altri, chiediamolo, serenamente. Possono dirci di sì o di no. Ma non possiamo pretendere niente, perché nessuno ci deve niente.
Spesso ci creiamo delle false aspettative. Spesso accusiamo il partner, il confratello, chi ci sta vicino, del nostro malessere, della nostra insoddisfazione. Ma se stiamo così, il più delle volte dipende solo da noi. Gli altri non ne hanno colpa. Non aspettiamoci dagli altri quello che noi stessi non siamo in grado di fare e di dare.
Anche nella preghiera, molto spesso ci comportiamo allo stesso modo: “Signore fammi questo, Signore fammi quello, Signore dammi...”. Noi non “preghiamo”, non chiediamo umilmente, pretendiamo, reclamiamo, esigiamo da Dio la risposta che vogliamo noi. “Ho pregato tanto, ma Dio non mi ha ascoltato”. No, non è vero: Dio ci sente e ci ascolta benissimo; soltanto che quello che noi chiediamo evidentemente non coincide con il nostro bene. La preghiera, fratelli, non funziona come al supermercato: prego, pago, ottengo. La preghiera deve essere disponibilità ad accettare ciò che Dio ritiene giusto per noi: “Sia fatta la tua volontà…”.
Giacomo e Giovanni sono uomini; sono come noi, molto vogliosi: cercano di trarre il meglio dalle situazioni. Sono ambiziosi: in latino “ambitio” significa appunto “andare attorno”, “circuire”, per ottenere qualcosa. L'ambizioso mira soprattutto a quei risultati che lo rendono importante; circuisce il potente di turno solo per stare in alto, per stare anche lui tra i potenti.
E se l'ambizione diventa sfrenata, automaticamente si accoppia con l’avidità: allora nulla ci basta, nulla ci appaga, nulla ci frena; la nostra aspirazione più grande, quasi maniacale, sta nell’ottenere riconoscimenti, nel sentirci i più importanti, nel considerare tutto e tutti a nostro servizio: persone, potere, denaro.
L’ambizioso, se avido, è sempre arrogante. Perché la sua arroganza nasce dalla sua insicurezza interiore; l'arrogante crede di avere sempre ragione, si crede forte, crede di non avere mai paura, crede di poter fare tutto e di sapere tutto. In realtà è un poveraccio che non riesce a gestire neppure se stesso: e questo lui, nel suo intimo, lo sa bene.
Con l'arrogante è impossibile dialogare, perché egli non sa dialogare, non vuole “dialogare”; non ha motivo di dialogare. Basta lui.
Per fortuna c’è anche il lato positivo dell’ambizione, un lato sano, che consiste nel cercare di migliorare noi stessi, di dare corpo ai nostri progetti di vita, di realizzare i nostri sogni: in altre parole significa essere attivi, tenaci, motivati, porci di fronte alla vita in maniera costruttiva: e questo, lo ripeto, è lodevole, encomiabile. Non vi è nulla di male se mettiamo a frutto i nostri talenti, combattendo contro l’indifferenza, l’apatia, il disinteresse.
Ecco, fratelli: questa settimana puntiamo l’attenzione proprio su questi comportamenti; interroghiamoci, esaminiamoci: noi, che magari abbiamo qualche compito di responsabilità all’interno della chiesa, noi catechisti, noi ministri, noi animatori, come ci poniamo nei confronti di Dio e dei nostri fratelli? A cosa miriamo?
Nel mio peregrinare per il mondo, fratelli, ho visto persone straordinarie, umili, consapevoli dei propri limiti e innamorate di Dio, consumare la vita nell'annuncio del Vangelo, senza mai nulla chiedere per loro stessi. Ho visto sacerdoti in età di pensione, pieni di acciacchi, portare ancora personalmente, tra le intemperie, l'immenso dono del Pane di Vita ai malati, in piccole comunità sperdute; ho visto monaci che solo passando, ti trasmettono con il loro incedere modesto e riservato, il loro intimo e incessante colloquio con Dio, la loro serenità e tranquillità, nella consapevolezza di essere un nulla nelle mani di Dio; ho visto nelle periferie giovani preti passare tutto il loro tempo libero ad educare ragazzi, magari giocando pazientemente con loro in un polveroso e improbabile campo di calcio. Persone che hanno capito l'importanza del "servire" evangelico.
Ma ho visto anche ecclesiastici in rosso molto sensibili alla tentazione dell'applauso e della gloria, preoccupati più di rispolverare vecchi titoli e privilegi che di dedicarsi alla carità e alla cura spirituale del prossimo. Ho visto preti oltremodo “esuberanti”, convinti che bastasse la loro costante e pavoneggiante presenza mediatica per confermare i fratelli nella fede e dare credibilità alla chiesa. Ho visto collaboratori laici, molto attenti a quantificare e pubblicizzare i loro insignificanti risultati, desiderosi solo di riconoscimenti umani. Ho visto catechisti offendersi per un richiamo, lettori incupirsi per una minore attenzione loro riservata, educatori stancarsi al primo soffio di vento.
Purtroppo, fratelli, anche questo è prestare il fianco alla ricerca di potere, alla propria affermazione personale, senza pensare che qualunque forma di potere, qualunque ricerca di prestigio, è contraria al “servizio”. Nel servizio noi “serviamo”, e basta; ci mettiamo cioè a disposizione dell'altro; nella ricerca di potere, invece, nella ricerca di gloria, nella superbia, noi pretendiamo solo, esigiamo che sia l'altro a servire noi, che sia l’altro a mettersi sempre a nostra disposizione, che sia sempre lui a riconoscere la nostra superiorità assoluta.
Ecco, fratelli: penso che tutti (io per primo) abbiamo ancora tanta strada da fare; penso che tutti dobbiamo stare attenti a non cedere al richiamo della mentalità del mondo, della vanagloria, del prestigio personale; dobbiamo invece guardare sempre e solo a Gesù, al Maestro che ha amato tutti, in assoluta umiltà e mitezza.
E concludo con la preghiera del Salmista: “Signore, assolvimi dalle colpe che non vedo, dalle colpe delle quali non mi rendo conto. Salvami dall'orgoglio; fa che esso non abbia mai alcun potere su di me; perché solo così mi renderò irreprensibile, solo così potrò liberarmi dal grande peccato”. Amen.
 

mercoledì 10 ottobre 2012

14 Ottobre 2012 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» Mc 10,17-30.
Il vangelo di oggi racconta di un uomo. Un uomo, ricco, che non ha un nome: così come tutti i ricchi del vangelo, che non hanno mai un nome; del resto anche nella vita essi dimostrano, in genere, più interesse per le loro ricchezze che preoccupazione per non essere riconosciuti con la loro identità!
L'uomo dunque va da Gesù. Anzi: gli corre incontro; prova nel suo cuore un grande desiderio, è molto motivato. L'uomo è alla ricerca di qualcosa che gli manca, sente che nella vita c'è un di più da raggiungere. Fosse stato felice, soddisfatto di come viveva, sicuramente non si sarebbe dato così tanto da fare, non avrebbe corso. Ma egli sente un grande vuoto dentro di lui.
E quest'uomo s'inginocchia come si faceva una volta con i personaggi illustri, con i maestri di vita: inginocchiarsi fa capire infatti il sincero desiderio di sapere, di imparare, mette in luce l'umiltà e la disponibilità dell’animo a ricevere consigli. Chiama Gesù “buono”, e non si accorge che tale complimento tradisce in lui il desiderio di farsi subito benvolere, tanto che Gesù quasi si indispettisce: “Perché mi chiami buono?”. “Non adularmi, non farmi troppe moine, troppi complimenti gratuiti”. Gesù si schermisce di fronte a tanto entusiasmo. «Nessuno è buono, se non Dio solo». La sua risposta potrebbe però essere fraintesa: non è anch'Egli Dio? mette forse in dubbio la sua bontà? No, le sue sono parole che vanno oltre l’immediato significato; egli vuole qui metterci in guardia dalla nostra faciloneria di dare troppo credito al primo arrivato; di affidarci acriticamente a qualunque “predicatore di verità”: «Nessuno è buono…». Gesù, in altre parole, ci apre gli occhi: “non dovete prendere per oro colato tutto ciò che i vari “guru”, i vari santoni vi predicano; non dovete dipendere completamente da gruppi “speciali”, da leader invasati, da movimenti, associazioni, che propongono idee più sante del vangelo stesso. Dovete essere adulti; non comportatevi da neonati deboli e fragili, che dipendono in tutto dalla mamma. Avete un cervello, conoscete me e i miei insegnamenti, ragionate e agite di conseguenza”.
Noi invece siamo naturalmente portati ad attaccarci a qualcuno o a qualcosa; e lo facciamo più per indolenza, per pigrizia, che per convinzione: lo facciamo per evitare responsabilità dirette, per non far la fatica di essere noi a dover esaminare, valutare tutto ogni volta, e quindi dover scegliere; molto meglio andare a ricasco degli altri. Salvo poi, se ci accorgiamo di aver preso una cantonata, a scaricare immediatamente su di loro ogni responsabilità: “Me l'hai detto tu! Mi avevi garantito che…! Il prete mi aveva detto che … nel catechismo c'era scritto che…”. “No, amico mio - ci dice Gesù – non trovare scuse, la vita è tua, soltanto tua. Gli altri possono dirti qualunque cosa, tutto ciò che vogliono, ma tu, tu solo, sei responsabile delle tue scelte”.
Gesù dunque, di fronte a tanta foga, propone a quest’uomo la cosa più semplice e ovvia: “osserva i comandamenti”; ma la risposta che si sente dare è che egli lo fa già, li osserva tutti fin da bambino. E non lo dice per vantarsi: è uno che parla seriamente, onestamente, con umiltà. Non si tratta di un megalomane, di uno sbruffone; è una persona che sta cercando veramente qualcosa di più, che vuole veramente placare la sua sete di vita, di vivere ad alta quota; è uno con una grande anima, e se si butta ai piedi di Gesù per avere un consiglio, vuol dire che non è soddisfatto di quanto gli altri maestri gli hanno trasmesso, detto, insegnato; non lo hanno convinto nel cuore. Lui vuole cose vere; è deciso ad andare al centro delle cose.
Gesù stesso rimane colpito da tanta determinazione: si ferma e lo fissa (il verbo greco “em-blepsas” dice letteralmente gli “penetra dentro”, lo scruta nel profondo, per sincerarsi della sua buona fede.
E qui il vangelo sottolinea un particolare stupendo: Gesù “lo amò”. Perché Gesù lo ama? Perché quest'uomo è uno di quelli che fanno sul serio, uno di quelli che non si accontentano di osservare solo esteriormente regole, norme, precetti: vogliono andare oltre, oltre i comandamenti, oltre la normalità; perché sentono nel loro cuore una speciale “chiamata” a dare un qualcosa “di più”. Persone, insomma, che non cercano il riconoscimento umano, l’approvazione della gente, ma vogliono entrare sinceramente nel grande mistero della Vita.
Gesù “lo amò” perché aveva capito che quell’uomo era spinto veramente e convintamente dal cuore. E proprio perché lo ama, gli offre la possibilità di realizzare in pieno queste sue aspirazioni, dedicandosi al totale servizio di Dio: “Va', vendi quello che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Sconvolgente. Una doccia fredda. Il nostro uomo rimane di stucco, perplesso, sorpreso. Non se l’aspettava: se Gesù si fosse fermato a qualcosa di ragionevole, di attuabile, certo, egli era prontissimo a fare di più. Ma quando gli chiede di fare una scelta così radicale, di dare un taglio netto al suo presente, quando gli propone di fare un salto nel vuoto, decisivo e senza ritorno, non se la sente; rinuncia, e se ne va triste. Ma perché Gesù è stato tanto severo ed esigente con lui, pur amandolo? Perché questo, fratelli, è l'amore del Maestro. È l’amore speciale con cui Egli tratta i suoi discepoli, coloro che lo seguono senza voltarsi indietro, quelli che lavorano tutto il giorno nella sua vigna, sopportando il caldo torrido, senza avanzare alcuna pretesa. Gesù scorge le potenzialità che queste persone hanno dentro, e le chiama non a divertirsi, ma a prestare un faticoso servizio; le “advocat”, le chiama a sé, le “convoca” una per una; le ama dando loro la grazia speciale della “vocazione”: “Tu hai qualcosa di grande, di speciale – dice loro -. Abbi fiducia in ciò che hai dentro. Tu puoi volare molto in alto, non accontentarti di strisciare per terra; rischia, buttati, segui di slancio ciò che io ti suggerisco, lascia il facile, scegli il difficile, entra tra i chiamati a lavorare esclusivamente per me, vivi nel mio amore e il mio amore ti trasformerà”.
Troppo spesso leggiamo questo vangelo in maniera riduttiva; come: “Se sei ricco non puoi seguire Gesù”; oppure: “Se non dai ai poveri tutto quello che hai, tutti i tuoi averi, non puoi seguire Gesù”. Ma Gesù qui non si riferisce tanto ai beni materiali: per Lui qui la “ricchezza” è qualsiasi nostro attaccamento morboso; credere fermamente cioè che una determinata cosa, e solo quella, sia in grado di darci la felicità: anche se sappiamo bene che niente al mondo, può renderci felici, all’infuori del regno di Dio.
L’uomo del vangelo dunque se ne va triste; perché si rende conto che quello che gli chiede Gesù è troppo rischioso; la paura lo frena.
E questo può capitare anche a noi, fratelli: perché un conto è lavorare tranquillamente, senza farci mancare nulla, magari cercando di migliorarci, di fare le cose per bene; ma tutt’altra cosa è fare un salto decisivo; smettere improvvisamente di fare quel poco di bene che facciamo, e di operare scelte decisive, spesso traumatiche. E se all’invito di Gesù anche noi rispondiamo “no”, come quell’uomo, anche noi proveremo la stessa profonda tristezza: la tristezza per aver detto “no” anche a noi stessi, per esserci dichiarati inadatti alle cose sublimi, al servizio di Dio .
Gesù aveva visto qualcosa di grande in noi, aveva fatto dei progetti. Per questo ci ha chiamati. Noi abbiamo sentito il suo richiamo, ma non abbiamo avuto il coraggio di prendere il largo. Più che a Gesù, ripeto, abbiamo detto “no” a noi stessi: ci siamo accontentati dei nostri sogni mediocri. Potevamo vivere al Suo fianco alla grande; potevamo vivere esprimendoci “divinamente”; potevamo volare ad alta quota, ma per paura, per ignavia, abbiamo scelto la polvere.
È questo, fratelli e sorelle, che ci rende tristi: quando cioè rinunciamo a ciò che potremmo essere, a ciò che potremmo diventare, a dare corpo alla forza divina che abbiamo dentro, e che col nostro “no”, blocchiamo sul nascere.
Una grande tristezza allora accompagnerà la nostra scelta; una tristezza che non passerà mai; una tristezza che ci segnerà per tutta la vita. Una spina costante che ci logorerà l’anima: potevamo essere aquile, seguire il richiamo delle vette immacolate, librarci liberi incontro al sole. Abbiamo preferito invece il basso profilo, molto meno impegnativo, nascosti tra le aride pietraie.
Ci sono cristiani che pensano ancora di garantirsi il Regno di Dio facendo carità, facendo sostanziose offerte alla Chiesa, tante buone azioni, tante preghiere, una vita onesta. Un po' come sono soliti fare con la raccolta dei punti ai supermercati o dal benzinaio: se raggiungono un numero tot di bollini, hanno diritto al premio. Ma non è così, fratelli. Entrare nel Regno dei cieli è un’altra cosa. Questo “non solo è difficile - dice Gesù - ma è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago” (a proposito: cammello in greco è “kàmelon”; alcune trascrizioni usano invece “kàmilos”, che significa “grossa fune, gomena da barca”, rendendo le parole di Gesù più comprensibili al suo pubblico di pescatori). Ora che un “cammello”, oppure se si preferisce una “gomena”, passi per la cruna di un ago, non solo è difficile ma impossibile. Qui non dice “è molto raro, ma possibile”; vuol dire proprio: “È impossibile!”.
È quindi categoricamente impossibile pretendere il Regno, se non ci sbarazziamo delle nostre “ricchezze”, dei nostri “amori” morbosi, dei nostri attaccamenti maniacali alle persone e alle cose. Dio ci offre continuamente la possibilità di affrancarci: e lo fa gratuitamente.
Del resto questo attaccamento smodato alla mentalità, alla vita, ai piaceri di questo mondo, questa forma di “ricchezza” per dirla col vangelo, non solo non ci salva, ma non ci fa neppure vivere. Perché diventa una forma di schiavitù. Una dipendenza totale che inibisce ogni nostra iniziativa. Diventiamo succubi del pensiero altrui, delle usanze, delle abitudini, delle apparenze.
Sentite questa: ogni sera, un guru indiano si sedeva con i suoi discepoli per pregare; il gatto dell'ashram ne approfittava e si cacciava fra i piedi degli oranti, distraendoli. Perciò il guru ordinò che il gatto venisse legato durante l'adorazione serale. Dopo la morte del guru, il gatto continuò ad essere legato tutte le sere durante l'adorazione. E quando il gatto morì, un atro gatto fu portato nell'ashram per essere puntualmente legato durante l'adorazione serale. Qualche secolo più tardi, gli ammiratori del guru, scrissero dei libri e dei dotti trattati sul profondo significato liturgico dell'usanza di legare un gatto durante l'adorazione!
Vi fa ridere? Eppure c'è da piangere se pensiamo a tutto quello che facciamo semplicemente perché lo abbiamo sempre fatto o perché non ci domandiamo se ciò che facciamo abbia ancora un senso.
E concludo: non attacchiamoci all’apparenza; non lasciamoci sopraffare dall’ansia del risultato: sono anche queste delle “ricchezze” che non portano a nulla. Ci sono persone che passano da una “ricchezza” all'altra: prima era quella donna; poi quell'auto; poi quel posto di lavoro; poi la casa in montagna o al mare; poi quell'altra posizione sociale più affascinante. E così passano ad inseguire, traguardo dopo traguardo, qualcosa che non c'è e che non raggiungeranno mai.
Non cerchiamo affannosamente di possedere tutto, non attacchiamoci alle persone e alle cose, perché non potremo mai possederle, non potranno mai essere completamente “nostre”, non ci daranno mai la felicità.
Facciamo in modo di non essere mai “posseduti” dal desiderio di “possedere”: perché solo così saremo pronti a seguire Gesù; e con Lui troveremo la felicità e la pace del cuore, quelle vere, quelle che non avranno mai fine. Amen.
 

giovedì 4 ottobre 2012

7 Ottobre 2012 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie… Per la durezza del vostro cuore [Mosè] scrisse per voi questa norma. Ma dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,2-16).
In questo vangelo i farisei vanno da Gesù per tendergli una ennesima trappola. Ad essi in realtà non interessano affatto le questioni matrimoniali, se sia lecito o no il “divorzio”; vogliono semplicemente sapere se Gesù condivide e giustifica il loro comportamento. Ancora una volta invece di mettersi in discussione, cercano giustificazioni. Vogliono cioè far passare per giuste e corrette le loro inique azioni.
A quel tempo in Israele era pacifico che un uomo potesse ripudiare la propria moglie. Era un non-problema, qualcosa ormai di tacito, qualcosa che non meritava più alcuna attenzione. Se qualcuno ne parlava ancora, non era certo sulla liceità o meno di ripudiare la propria moglie, quanto piuttosto sul motivo per cui cacciarla: era cioè necessario appellarsi alla sua infedeltà o bastava molto meno?
Si era infatti arrivati al punto di cacciare la moglie anche per i motivi più banali: perché usciva con i capelli sciolti; perché scambiava qualche parola con un estraneo; perché le era capitato di bruciare la cena, ecc. Insomma, se un maschio voleva, poteva “scaricare” la propria moglie quando e come voleva.
Ma anche questa volta Gesù, come sempre, non accetta la provocazione: risponde a tono, e le sue parole si scontrano con la loro mentalità maschilista, condannando apertamente l'abitudine ormai istituzionalizzata di ricorrere al “ripudio” matrimoniale: “Mosè ce l’ha permesso”, dicono. “Sì – risponde Gesù – ve l’ha permesso, ma non perché sia giusto, ma perché voi siete di testa dura, avete un cuore di pietra, arido e insensibile. Ve l’ha permesso perché altrimenti trasformate il vostro matrimonio in un inferno, spingendo vostra moglie alla follia, ad uno squilibrio mentale insanabile. Ve l’ha permesso solo per non crocifiggere ulteriormente le persone che vi stanno accanto. Ma non perché questo sia il piano di Dio”.
Il “piano” di Dio. Ecco: Gesù sull'argomento rimanda proprio a questo principio innegabile e insopprimibile, che è l’intenzione originaria di Dio. In sostanza, possiamo così tradurre il suo insegnamento; che vale anche per noi: “Ve lo spiego meglio: nel piano di Dio, maschio e femmina sono due entità distinte, ma di pari dignità. Lo scopo del loro incontro è che lascino le loro famiglie, i loro affetti, le loro sicurezze, per diventare una carne sola. Ma attenzione: non può esserci unione dei corpi, se non c’è unione delle anime; non c’è unione fisica, se non c’è l’unione dei cuori. Quindi se la legge vi permette di cacciare le vostre mogli è solo perché voi - che non le amate, voi che le dominate, che le maltrattate, che le considerate al pari di un oggetto - rendete la loro vita un autentico inferno. La legge ve lo permette, è vero, ma non è questo il piano di Dio. Il piano di Dio è che i due nel matrimonio siano per sempre una “carne sola”, cioè un’unione di cuori, un’unione di anime, un'unione di vita, di amore, in una reciprocità (maschio e femmina), in cui nessuno domina, nessuno si sente superiore”.
È evidente che Gesù si schiera qui in maniera decisa contro quella superiorità maschile, capricciosa e insensata, che calpestava impunemente i più elementari diritti delle donne. Egli si scaglia contro lo strapotere dei maschi nei confronti delle donne; una prepotenza considerata purtroppo naturale, ovvia; era un diritto acquisito di cui addirittura vantarsi; quando invece divorziare equivaleva abbandonare la donna al suo destino, privandola di tutto, figli compresi, esponendola ad una vita miserabile, ad una fine certa.
Gesù sa che pronunciando queste parole, introduce per quel tempo, una novità rivoluzionaria. Egli cioè riconosce apertamente dignità e diritti alle donne; eleva cioè la donna allo stesso livello sociale del maschio: incredibile! Forse anche per questo le donne lo hanno così tanto amato. Con Lui si sentivano considerate, accettate. In Lui trovavano speranza, fiducia, carità.
Noi pensiamo che situazioni simili siano oggi improponibili, ben lontane dalla nostra civiltà; pensiamo che il pensiero maschilista sia ormai un fatto anacronistico, un fenomeno d’altri tempi, universalmente superato: ma non è proprio così, fratelli. Non dimentichiamo infatti che le donne, per esempio nella nostra civilissima Italia, hanno iniziato a votare soltanto nel secolo scorso! Che la violenza sulle donne, in questa nostra società del 2000, uccide più del cancro e più degli incidenti stradali. Che un miliardo di donne, cioè una su tre, sono picchiate o stuprate o mutilate o assassinate per mano del marito, del fidanzato, di un familiare o di un amico. Che le donne sottoposte a mutilazioni genitali sono più di 120 milioni. Che in India, solo nel non lontano 1998, sono state bruciate almeno 6000 donne per questioni di dote. Che in Russia l’anno successivo ne sono morte 14.000 per violenza domestica. Che negli Usa viene violentata una donna ogni 90 secondi. Che sempre in Italia sono 715 mila le donne che hanno dichiarato di aver subito uno stupro o un tentato stupro, nel corso della loro vita. E allora con che coraggio andiamo orgogliosi quando parliamo di “pari opportunità” per le donne?
Non è vero, anche oggi non siamo tutti uguali: aveva ragione George Orwell quando, nel 1984, scriveva: “Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”. C’è ancora chi va fiero di appartenere al “sesso forte”. Ma, se ci pensiamo bene, quanta insicurezza, quanta debolezza, quanti complessi ci devono essere nella mente di chi ha bisogno di un simile riconoscimento! Essere considerati “forti”, superiori! Rispetto a chi? Nessuno è più forte, fratelli; nessuno è migliore degli altri, tutti siamo mortali, tutti siamo deboli, indifesi, peccatori. Tutti abbiamo la stessa identica dignità! Quella che ci è stata data da Dio. Perché siamo tutti sue creature.
A conferma di tale principio, Gesù rimanda alla Genesi (1,27) dove si dice chiaramente che «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Entrambi dunque, maschio e femmina, sono immagine di Dio; entrambi hanno la stessa impronta divina, la stessa “divinità”. Se poi approfondiamo meglio le parole, notiamo che in ebraico “uomo” (jsh) e “donna” (jswha) sono due lessemi che concorrono a formare il tetragramma divino (jhwh): in altre parole, è nell’unione, nella fusione, di “maschio” e “femmina” che Dio si fa presente. Potrebbe sembrare un giochetto esegetico, ma se ci pensiamo bene è una intuizione che ci indica come il matrimonio – unione, fusione, tra uomo e donna - abbia come fondamento Dio stesso. Non per niente la donna è l’altra “vita” del maschio (è questo il significato di “costola”). L’uomo, per essere pienamente se stesso, per realizzarsi completamente, deve integrarsi, confrontarsi, diventare un tutt’uno con l’altra sua “vita”; e così per la donna.
“Essere uno”, però, non significa “fondersi”, uni-formarsi, nel senso di fare le stesse cose; l’unione vera è tutt’altro, è “com-unione”, alleanza con l’altro componente della vita. È compenetrazione di sentimenti, di cuore. Perché solo così, maschio e femmina, potranno entrambi realizzare e completare la propria vita. Questo è il progetto di Dio. Ogni elemento è predisposto anche morfologicamente a questa unione e integrazione. E questo elimina automaticamente qualunque sostituzione di identità, qualunque confusione di ruolo e di immagine: il maschio deve essere maschio, la femmina deve essere femmina. Ognuno ha il suo ruolo preciso, secondo le leggi immutabili iscritte nella natura.
Pensate per esempio all’educazione dei figli: il papà non può essere la mamma e la mamma non può essere il papà. È quindi assurdo ipotizzare una “famiglia” con due “genitori” dello stesso sesso. La donna, nella famiglia, è colei che c’è, che è presente, che avvolge, che custodisce, che ama, che protegge. L’uomo è invece colui che fa', che costruisce, che ha il compito di mettere il figlio davanti alle proprie decisioni, alle proprie responsabilità, alla gestione della propria libertà.  Il padre inserisce il figlio nella società e lo costringe a confrontarsi con gli altri suoi pari; gli insegna le regole, il confronto, il rispetto per gli altri.
Sono ruoli diversi; richiedono due entità diverse. Ecco perché in casa, in famiglia, non possono esserci confusioni: né due papà né due mamme; ecco perché le pretese di riconoscimento legale in questo senso, avanzate oggi anche da molti cristiani e cattolici, sono puro squilibrio, coercizione della natura, incoscienza, un “accostamento”, mai una “unione”. Inutile girarci intorno: il papà è il papà e la mamma è la mamma: nessun surrogato, nessun miscuglio contro natura, perché la differenza c’è, eccome!
Poi Gesù pronuncia questa frase solenne, che incute quasi paura: «L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». Che sarebbe: “Questo è il progetto di Dio, questo è ciò che fin dall’inizio Dio ha pensato per l’uomo e la donna. Non allontanatevi mai da questo progetto. Non dividete, non separate, non isolate mai l’amore, la comprensione, la carità, nelle vostre relazioni di coppia, in quel matrimonio maschio-femmina che Dio ha istituito per voi”. Gesù praticamente ci rimanda all’essenziale, al significato più profondo del matrimonio, a come Dio l’ha pensato e voluto. Queste sue parole non sono un rimprovero, un avvertimento terribile, una minaccia. Vogliono dire semplicemente: “Se vengono meno le condizioni essenziali, prime, insostituibili, non c’è più “matrimonio”, non c'è più “comunione”. I due possono stare insieme, condividere una stessa esistenza, essere anche reciprocamente fedeli, ma la loro unione non è più alimentata da linfa vitale.
La fedeltà nel matrimonio non è tanto “non fare” qualcosa. Ridurre la fedeltà a non tradire l’altro, è banalizzarla. La fedeltà intesa da Dio non è solo uno “stare insieme”, un non separarsi; non è negativa, proibitiva, coercitiva; ma al contrario è positiva, concreta, propositiva: significa credere e vivere in un valore superiore, in un qualcosa di grande, di vivo, di soprannaturale.
Essere fedeli nell’amore è molto più difficile che essere fedeli nel corpo. Se, per esempio, proviamo nel più profondo dell'anima, sentimenti come questi: “Mi è difficile raccontarti quello che ho dentro, perché mi vergogno; eppure ti sono fedele. A volte mi è difficile non dare per scontato il mio amore: non te lo dico, non lo dimostro, me ne dimentico. A volte mi è difficile fermarmi e guardarti negli occhi e guardare il tuo cuore, ciò che sei dentro. A volte mi è difficile ascoltarti, soprattutto quando ce l’hai con me, o quando sono stanco. A volte mi è difficile parlare di certe cose: dei miei e dei nostri problemi, delle nostre incomprensioni, delle in-attenzioni; preferisco tralasciare. A volte mi è difficile vincere la pigrizia. A volte mi è difficile dire di “no” a me, per dire di “sì” a noi. A volte mi è difficile non pretendere l’impossibile da te o quello che tu non mi puoi dare. A volte mi è difficile accettare che tu mi dica di “no”. A volte mi è difficile rendermi conto che non mi sono ancora staccato da mia madre, dopo tanti anni, e che continuo a confrontarti a lei. A volte mi è difficile parlare di questioni spinose, sapendo che se sto zitto tu non le saprai mai. A volte mi è difficile sentire che ti amo e commuovermi per te, perché mi dico che non ho più l’età per certe emozioni. A volte è difficile non scaricare su di te le tensioni che accumulo altrove. A volte è difficile arrivare ad un compromesso tra i miei bisogni e i tuoi. A volte è difficile vedere che tu hai ragione e che io sbaglio. A volte è difficile accettare che abbiamo bisogno di aiuto reciproco, altrimenti la fiamma del nostro amore lentamente ma inesorabilmente muore”.
Ecco, riconoscere queste debolezze, significa “fedeltà”; soprattutto rimediare, mettere in pratica ciò che ci suggerisce il cuore, è onestà verso di noi e verso l’altro: perché questo è amore. Questo è curare, alimentare, rendere un rapporto vero, solido, sincero, trasparente, dove ci si dona e ci si accoglie. Perché non è l’unione e la fedeltà materiale che genera l’amore, ma è l’amore che genera l’unione.
Un’ultima riflessione: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio».
Dopo la catechesi sul matrimonio, a Gesù portano dei bambini. Forse è un caso, o forse no, ma l’aver inserito a questo punto il discorso su di essi, acquista un significato molto particolare: perché, fratelli miei, quando la simbiosi marito-moglie si spezza definitivamente, sono sempre i figli, i bambini a subirne le più drammatiche conseguenze. Checché ne dicano gli esperti, sono i bambini che subiscono in profondità, un trauma difficilmente superabile: perché – nonostante le mille assicurazioni, nonostante le dimostrazioni d’affetto, essi comunque si sentono rifiutati, messi da parte, tagliati via, estirpati dal loro habitat naturale che è la famiglia.
I bambini, ci fa capire qui Gesù, sono infatti l’immagine emblematica della fiducia, della speranza, del bisogno di accoglienza, del potersi abbandonare tra quelle braccia che offrono attenzioni incondizionate, sicurezza, tranquillità, amore vero. Ecco perché per essere accolti da Lui dobbiamo essere bambini: è questo che vuole Gesù; e lo vuole per tutti: anche per noi adulti, ormai scettici, provati dalla vita, sofferenti, stanchi, delusi. Dobbiamo accogliere questo suo invito, per poterci sentire nuovamente accolti tra le sue braccia, protetti, amati, al sicuro. Con Lui non c’è da aver paura, non c’è da temere; con Lui siamo a casa, non abbiamo da dimostrare nulla, perché siamo accettati per quello che siamo.
E noi lo sappiamo questo; lo sentiamo, lo percepiamo distintamente soprattutto quando ci rivolgiamo a Lui nella preghiera, nel silenzio, nella meditazione. È allora che avvertiamo il nulla che siamo, tutta la nostra debolezza, la nostra fragilità; è allora che ci rendiamo conto di essere, in fondo al nostro cuore, dei perenni bambini, impacciati e sprovveduti; è allora che sentiamo con commozione di aver bisogno del calore delle sue braccia; è allora che, con sincero sgomento, ci rendiamo conto che il bilancio della nostra esistenza è fallimentare; una esistenza la nostra, troppo spesso sorda e insensibile ai suoi continui richiami d’amore.
Ce ne rendiamo conto: Lui, anche ora, è sempre lì, con le sue braccia spalancate, e ci aspetta. Braccia che danno Vita, le sue; braccia che proteggono, che danno sicurezza, che allontanano ogni pericolo, ogni male, ogni nemico, braccia sempre pronte a sorreggere, a rialzare dopo le cadute, braccia tra le quali è possibile finalmente ritrovare la pace, l’Amore eterno. Ridiventiamo dunque bambini, fratelli, e corriamo tra quelle braccia. Amen.

 

martedì 25 settembre 2012

30 Settembre 2012 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa»( Mc 9,38-43.45.47-48).
Per inquadrare bene le proteste che Giovanni rivolge a Gesù, anche per conto degli altri discepoli, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più vicini a Gesù, non sono riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino. Figuriamoci come ci rimangono quando si accorgono che un tizio qualunque, uno che non è neppure dei loro, ci riesce, eccome! Capite? Cosa non fa la gelosia! Cosa non fa pensare l’invidia: “ Ma come, noi che siamo suoi discepoli, i “chiamati”, gli “addetti ai lavori”, non ci siamo riusciti; e questo qui, che nessuno sa chi sia, che neppure segue Gesù alla lontana, invece sì; il minimo che possiamo fare è di farlo smettere!” Giovanni e gli altri sono ancora fuori dalla logica del “servizio”, sono ancora succubi della mentalità del settarismo, che pretendeva il monopolio della salvezza.
Esattamente come ci comportiamo anche noi, oggi, dopo oltre duemila anni: Non vi sembra di riascoltare le nostre petulanti lamentele? “Ma come, noi andiamo sempre in chiesa, ci sforziamo di osservare le leggi di Dio, non rubiamo, non uccidiamo, eppure siamo considerati come tutti gli altri; anzi Dio ci ama allo stesso modo di quelli che ne combinano di tutti i colori! Non è giusto!”.
Ebbene, fratelli, questo vangelo mette veramente in crisi il nostro modo di pensare.
Un modo di pensare che ci poneva al di sopra degli altri: lungo i secoli infatti, la chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: fuori di lei non vi era possibilità di salvezza. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè dentro la chiesa, aveva la possibilità di salvarsi. Soltanto chi era battezzato. Ci sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. E in proposito si citava il vangelo: “Chi non è con me è contro di me”. Parole sacrosante: ma altrettanto sacrosante sono quelle di oggi: “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40) con cui Gesù, in sostanza, ci mette in guardia dal lanciare giudizi preconcetti, proprio perché un conto sono quelli che combattono, che sono ostili, che si schierano decisamente contro il Maestro, e un altro quelli che non fanno nulla di tutto questo, anzi che lo ammirano pur non appartenendo apertamente al “gruppo” dei discepoli.
L’appartenenza ad una “élite” esclusiva, non deve mai condizionare i criteri di giudizio. Dio non è questione di appartenenza, ma di spirito, di anima, di amore. Gesù abolisce decisamente il criterio: “Non è dei nostri”. Non è dei nostri, e allora? Gesù non guarda “con chi”; non ci chiederà mai a quale associazione apparteniamo, in quale movimento carismatico siamo impegnati; bensì cosa facciamo di buono per gli altri, come siamo dentro, nella nostra anima; con quanta carità trattiamo i nostri fratelli. Gesù non ha mai chiesto: “Tu sei dei miei? Sei cristiano? Da dove vieni? Di che nazionalità sei? Se non sei “dei nostri”, vattene, fuori, via. Sei un infiltrato maledetto!”. Al contrario non si stancava di insegnare: “Fa il bene, ama, sii disponibile, sii accogliente, ascolta, e Dio è sicuramente in te: tu sei benedetto”.
Quanto lontani siamo ancora da Gesù, fratelli miei: pensiamo solo per un attimo a cosa succede oggi intorno a noi: la corruzione dilaga, non esiste più la verità, non esiste più l’ascolto, il rispetto. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la faziosità, il preconcetto assoluto. Se chi parla appartiene ad uno schieramento diverso dal nostro, qualunque cosa dica, non ci va bene. Non ci interessa neppure sapere cos’ha da dire: ci basta sapere che è dell’altra corrente, che non è “dei nostri”. Viceversa se qualcuno della “nostra parte” delinque, ne combina qualcuna di veramente grossa, non ci tocca più di tanto, lo difenderemo sempre e dovunque ad oltranza, perché “è dei nostri”. Ma questa, fratelli, è legittimazione della falsità, del crimine, della delinquenza. E di esempi ne conosciamo a migliaia! Le pagine di cronaca di questi giorni ce ne offrono un triste e desolante florilegio.
È vero che l’attaccamento al proprio clan è un retaggio tribale; fondamentale, al pari dell’unione che si crea tra una madre e i suoi figli. Se una madre non sentisse come “suo” il figlio, il figlio non potrebbe sopravvivere. Solo se sentono “propria” la loro creatura, una madre e un padre affronteranno coraggiosamente ogni difficoltà e controversia per difenderlo da ogni pericolo. E in questo modo il piccolo si sentirà di appartenere a quella famiglia, si sentirà in qualche modo inserito nell’autorevole “proprietà” dei genitori. L’istinto di possesso, di attaccamento, di appartenenza è sicuramente fondamentale per la vita; senza di esso non ci sarebbe vita. Ma poi arriva il momento in cui ci viene chiesto di crescere. E sarà l’individuo che deciderà a quale gruppo, a quale famiglia, a quale comunità aggregarsi.
Gesù dice: “Anche se non è dei nostri, ma fa le nostre stesse cose, agisce cioè come noi, è comunque dei nostri”. Non apparterà fisicamente al nostro gruppo ma ha lo stesso nostro spirito. È comunque spiritualmente “uno” con noi; “Dio” e “Spirito”, in effetti, sono Uno.
Si può, allora, essere uniti a Gesù pur non appartenendo alla comunità dei discepoli.
Dio è anche fuori. Dio è anche negli altri, tanto quanto in me. Dio è anche in chi non si definisce cristiano. Il Bene è anche fuori della chiesa. Chiunque fa il bene viene da Dio: “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, né per salvarsi, né per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio, di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo spirito” (Gv 3,8). Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte venga, la verità è originata dallo spirito”. Dovunque c’è il bene; dovunque c’è qualcuno che ama; dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto, lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Troppo spesso succede invece che noi ci comportiamo come dei bambini capricciosi: solo quello che facciamo noi va bene; solo come lo facciamo noi è fatto bene; solo il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro Dio è vero. Solo noi, solo io, solo così, ecc. Il nostro punto di vista è soltanto la vista da un solo punto!
Eppure non è detto che le vedute degli altri siano tutte sbagliate; a volte semplicemente non sono come le nostre. Ecco perché dobbiamo innanzitutto ascoltare tutti, capirli, avvicinarci con rispetto e confrontarci. La religione (etimologicamente “legare insieme strettamente”) dovrebbe aiutarci proprio a questo: a legare insieme tutte le esperienze di vita, a trovare ciò che abbiamo in comune, a trovare ponti,collegamenti, riferimenti, a illuminarci su ciò che ci unisce e su ciò che ci divide, per farci finalmente incontrare.
Dobbiamo imparare a dire: “Non è migliore o peggiore di noi; è solo diverso”. Dobbiamo arrivare a pensare che le stesse cose possono essere fatte in molti modi e in modi completamente diversi dai nostri. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli, l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere concepite in molti modi. E non è detto che un modo sia migliore o peggiore dell’altro; che uno sia giusto o sbagliato; che uno sia buono e uno cattivo. È un modo semplicemente diverso.
Poi il vangelo parla dello scandalo, di essere – come dice altrove – una pietra d’inciampo. Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di camminare. “Scandalo” per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con il sesso; è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di procedere nel nostro cammino.
E Marco qui riporta alcune situazioni estreme, riservate a ciò che è causa di scandalo: esempi molto semplici e chiari che comunque non vanno presi alla lettera, ma capiti nel loro senso profondo. Vogliono dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male, che ti impedisce di continuare il tuo cammino di vita, che non ti fa libero, che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo, eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Sono indicazioni, quelle di Gesù, che mettono comunque l’accento sulle caratteristiche che devono contraddistinguere le nostre scelte:
1. La scelta comporta un “taglio”; bisogna cioè cambiare rotta, modificare, recidere nettamente per neutralizzare ciò che ci fa male; da qui nasce l’importanza del discernimento, dell’esame personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo in realtà, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
2. La scelta è dolorosa; certe decisioni non sono certo facili, non si fanno a cuor leggero; ci possono far soffrire al punto da maledirci per averle prese. Esperienza insegna che le scelte indolori non sono importanti, fondamentali, non sono essenziali e di assoluta necessità per poter conseguire un risultato certo. Sono normalmente dei palliativi. Le scelte vitali straziano invece il cuore e l’anima.
3. La scelta è radicale. Non si può transigere. Non si può giocare. Quando bisogna operare, incidere, bisogna farlo. Senza anestesia. Non è bello, non è piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere risoluti, decisi e fermi, altrimenti si muore. «Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna…». “Chi ha orecchi da intendere, intenda”. Amen.

mercoledì 19 settembre 2012

23 Settembre 2012 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà... Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,30-37).
Gesù è stato un uomo che durante tutta la sua vita aveva ben presente l’idea della morte; in particolare la” sua” di morte: un evento drammatico, l'estrema dimostrazione del suo amore per l’umanità. Nel Vangelo di Marco, per ben tre volte, Egli torna esplicitamente sulla tragica conclusione della sua vita terrena, introducendo comunque la visione della sua vittoria finale sulla morte stessa. E puntualmente i discepoli reagiscono in maniera ottusa, dimostrando di non aver capito nulla: domenica scorsa Pietro si preoccupava di rimproverare Gesù, insegnandogli a fare il messia; oggi i discepoli discutono tra loro su chi sia il più grande; al terzo annuncio, Giacomo e Giovanni si avvicineranno a Gesù e gli chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra nel suo regno”. Poveretti, sono ancora lontani anni luce dallo stravolgimento della loro vita e delle loro idee per opera dello Spirito, per cui ogni volta danno prova della loro impossibilità di capire e di immedesimarsi nelle parole di Gesù.
Purtroppo quello della morte è un discorso che anche noi non amiamo molto; cerchiamo in tutti i modi di evitarlo; è tabù. Eppure verrà un giorno in cui non ci saremo più; un giorno in cui dovremo abbandonare i nostri cari, il lavoro, le nostre attività, le nostre passioni, le cose più care; saremo costretti a fare un salto nel vuoto, verso l’ignoto, assolutamente da soli.
Per questo la morte ci crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il problema non pensandoci: si ubriacano di presente, per non pensare al futuro inesorabile. Ma anche così non funziona. Questo continuo lavorare, questo continuo affannarsi per tutto e per niente, questo continuo aggrapparsi in ogni cosa all’attimo fuggente è il loro inefficace antidoto contro la paura della morte.
Possiamo ricorrere ad ogni mezzo per non pensare, ma questo non cambia la realtà. Perché questa è la vita, la “nostra” vita, che deve fare i conti con una indiscutibile realtà: “Tu ora vivi ma prima o poi morirai”.
La morte purtroppo è angosciante, è una realtà che non vorremmo esistesse, ma c’è! E non possiamo vivere senza confrontarci con essa. Dobbiamo essere consapevoli che vivere giorno dopo giorno è avvicinarci alla fine, è un po’ come morire a piccoli passi. Il celebre psicologo Carl Gustav Jung diceva: “Un uomo che non si ponga seriamente il problema della morte, e non ne avverte il dramma, è un uomo che ha bisogno di essere curato”.
Un confronto profondo e onesto con la morte ci farà vivere in maniera più intensa, più vera: è un confronto che sviluppa in noi la saggezza del vivere. Il filosofo Montaigne diceva: “Insegnando all’uomo che deve morire, gli si insegna soprattutto a vivere”.
Viviamo dunque l’essenziale: che senso hanno infatti tutte le nostre “paranoie”, le nostre “fisime”, dal momento che dobbiamo morire?”. Lavoriamo e diamoci da fare. Ma ricordiamoci sempre che un giorno “lasceremo qui tutto!”. Evitiamo allora, fratelli, di vivere solo per lavorare, perché è da stupidi. Accumulare denaro e ricchezze per il piacere di possedere, è l’atto più insensato che un uomo possa fare: che senso ha? Non porterai nulla con te dopo la morte. Lavoriamo invece per vivere onestamente e dignitosamente.
Se oggi fosse l’ultimo giorno della nostra vita, cosa faremmo? Forse che sistemeremmo la casa? Puliremmo il bagno? Ci preoccuperemmo dei nostri soldi in banca? O cercheremmo piuttosto di stare con le persone che amiamo? Di gustare fino in fondo le ultime ore, apprezzando ogni singolo minuto di vita?
Dobbiamo pertanto individuare quelle che sono le cose essenziali nella nostra vita, e tenerle sempre presenti ogni giorno e ogni ora.
Sulla tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Questa piccola fossa basta ora all’uomo cui non bastava il mondo intero”. Di fronte a certe ambizioni, a certe competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere. La morte è la “grande livella”, come scrisse il comico Totò, che rende tutti uguali, che tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi.
Viviamo oggi le piccole cose che rendono felice la nostra vita. Se non lo facciamo oggi, domani forse non lo potremo più fare. Chi vive intensamente tutte le emozioni del suo cuore non teme di morire. È solo chi è sterile, chi conduce una vita arida e inutile che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: perché la morte gli preclude qualunque possibilità di cambiare. Ecco perché, fratelli, tutto quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare oggi: il tempo passa, meglio non sprecarlo.
Sistemiamo oggi tutte le questioni che abbiamo in sospeso, domani potrebbe essere tardi. Diciamo oggi ai nostri figli quanto siano preziosi per noi e quanto sia bella la loro presenza, cosa sarebbe la nostra vita senza di loro. E ringraziamoli per tutto ciò che ci hanno dato, soprattutto per la felicità che hanno portato nel nostro cuore e nella nostra casa. E non ci importa nulla se a volte è stato faticoso! Diciamo oggi al nostro sposo, alla nostra sposa: “Ti amo. A volte non lo faccio capire, ma ti amo tanto”. Diciamo oggi ai nostri amici, ai nostri fratelli, a quelle persone che ci sono vicine, che sono state importanti per noi, che ci hanno in qualche modo aiutato a crescere: “Grazie: perché tu hai contato molto nella mia vita”. Cosa aspettiamo? Aspettiamo di non avere più tempo? La vita passa.
Cominciamo a vivere per qualcosa che abbia veramente senso. Ma facciamolo in fretta, facciamolo già da oggi, perché il tempo a disposizione è limitato. E allora più che preoccuparci di “quanto” dobbiamo vivere, preoccupiamoci di “come” dobbiamo vivere! Vivere tanto per vivere, senza pensare il fine per cui si vive, significa sprecare inutilmente il dono del tempo che ci è concesso.
Se i nostri giorni finiscono, dobbiamo trovare un significato profondo da dare alla nostra vita. La nostra vita deve essere un dono da lasciare ai nostri cari, ai nostri fratelli. Se siamo un frutto che nessuno vuol mangiare, allora non serviamo a nulla; allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Dobbiamo essere invece un frutto appetibile e gustoso, che altri potranno mangiare; e allora ci sentiremo utili, importanti, necessari. Allora anche se moriamo, non moriremo invano.
Vale la pena di osare, fratelli. Salire sulla barca della nostra vita e dire: “Duc in altum, Prendi il largo”. Poter dire al termine della vita, con Paolo: “Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7)”. In altre parole potremo dire: “Ho vissuto”.
Allora non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non abbiamo fatto. Non lasciamoci condizionare dal rischio di sbagliare, di morire, di essere deriso o giudicato; pensiamoci bene: non è forse maggiore il rischio di non vivere? E non è forse vero che chi non vive, è già morto dentro?.
Dio ci ha fatto un dono preziosissimo: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.
Quante persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto, non ci hanno mai provato.
Ricordate la parabola dell’uomo con un solo talento (Mt 25,14-30)? Il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.
Abbandoniamoci e abbiamo fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli, vulnerabili. È una lotta impari: vince sempre lei. Allora dobbiamo imparare a fidarci. Dobbiamo imparare che non possiamo controllare tutto; che non possiamo gestire tutto; dobbiamo fidarci senza avere garanzie, non possiamo avere certezze o assicurazioni. Dobbiamo solo fidarci.
Penso che ogni uomo, sul punto di nascere, abbia detto tra sé: “Oddio che sta succedendo? Dove sto andando? No, no, no, non voglio uscire da qui, non voglio lasciare questo mondo, sto così bene qui dentro! Fuori è la fine!”. E invece no, fratelli miei: fuori era non la fine ma l’inizio della vita. Ci fidiamo e sentiamo che sarà così.
Ma torniamo al nostro vangelo di oggi. Dunque: mentre Gesù sta parlando della sua morte – e capite che angoscia doveva avere dentro – che fanno i suoi amici, i discepoli? Discutono su chi fra di loro potrà sedersi nel Regno al posto d’onore, su chi sarà il più grande, il migliore.
A questo punto a Gesù cadono le braccia, si deve sedere; deve cioè interrompere il suo cammino, il suo andare, perché i suoi discepoli, pur seguendolo, di strada ne hanno fatta ben poca; sono ancora molto indietro e belli fermi. E deve spiegare loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino, accoglierete me e mio Padre”.
Il bambino (dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo), non aveva nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua, doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo in assoluto.
Allora: “se tu accogli un bambino”, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più al di sopra di qualcuno, non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli altri e che si ritengono indegni di tutto. Gesù era l’ultimo, ma non era inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per tutti cioè non sentirsi superiori, avanti a nessuno.
I discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si considerano più dei altri, superiori agli altri. Essi cercano cioè lo stesso potere del loro “padrone”.
Il padrone (dominus: signore, padrone, proprietario) domina. Il padrone (dominus) gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, superiore agli altri, che considera chiaramente inferiori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide lui, perché lui si sente “di più”.

Ma noi non dobbiamo essere di questi padroni: dobbiamo essere servi perché nessuno ci è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è colui che si umilia, ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente superiore a loro.
Noi tutti siamo in qualche modo padroni: abbiamo cioè il potere di gestire, di dominare sugli altri. Dobbiamo quindi stare molto attenti quando esercitiamo questo potere. Pensate al potere che hanno i genitori con i propri figli; di un capo con i suoi operai; di un dirigente con i suoi dipendenti.
Ci sono persone che si sentono autorizzate di infierire sugli altri, fanno fare loro quello che vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi anche solo iniettiamo un senso di colpa nell’altro, stiamo facendo una mossa subdola e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.
L’amore non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se abbiamo bisogno di mettere in rilievo la nostra superiorità, vuol dire che stiamo nascondendo la nostra inferiorità e che la camuffiamo con il bisogno di superiorità. Quando facciamo pesare e “notare” agli altri quello che abbiamo fatto per loro, stiamo tentando di dominarli. Cerchiamo di gestirli, di aver potere su di loro.
Quanta gente incontriamo che “se la tirano”, fanno i preziosi, non ci danno mai una risposta o devono essere pregati per darci una mano? Quante persone ci fanno notare che loro “hanno”, che “sono laureate”, che possono permettersi questo e quell’altro: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoci notare la nostra inferiorità. Sono padroni. Si domina anche facendo notare sempre all’altro i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre da inferiore, da incapace.
E allora concludo: il nostro comportamento è da “signore”, o siamo dei “signori”? Abbiamo rispetto per tutti, o ci sentiamo “più” degli altri? Siamo come il Signore che non gestiva nessuno, che non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o siamo signori, padroni, che vogliono, pretendono, decidono per gli altri, li manipolano? Dunque: Signore o signori? Amare o possedere? Riflettiamo. Amen.