martedì 29 luglio 2025

03 AGOSTO 2025 – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,13-21 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo; forse centinaia o migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; al contrario verrà tradito, “sconfessato”, portato davanti ai tribunali; ma non deve mai temere di nulla, perché Dio si preoccupa di lui, pensa personalmente a lui; a Dio non sfugge nulla di quanto lo riguarda, ha contato perfino i capelli del suo capo! 
Sono considerazioni profonde, di interesse generale: ma improvvisamente un tale lo interrompe per porgli una questione personale, specifica, di nessun interesse per gli altri, completamente fuori tema. Ciò che preoccupava il tizio era infatti un problema di ordine economico: per poter espandere i suoi commerci, incrementare i suoi utili, le sue ricchezze e darsi finalmente alla bella vita aveva cioè urgente necessità di ampliare i suoi magazzini, insufficienti a contenere i raccolti eccezionali dei suoi poderi; ma c’era un problema: suo fratello non voleva cedergli proprio quella parte di eredità comune, indispensabile all’ampliamento. È chiaro a questo punto che al tizio stanno più a cuore i suoi interessi economici che non gli insegnamenti di Gesù: in pratica gli dice: “Mio fratello sta commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”.
Ma Gesù, che gli legge dentro, di rimando: “Sono forse io il giudice che deve sentenziare tra te e tuo fratello?”. In altre parole: “Tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché sei avido, sei geloso di chi è più ricco di te. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non interrompermi per i tuoi interessi inutili. Perché ammesso anche che tu ottenga l’intera eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono a nulla; e non ti servono a nulla perché il tuo cuore non è libero, vivi solo per i soldi, vivi solo per accumulare, sei schiavo delle tue ricchezze”.
Attenzione: Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Al contrario Egli vuol sottolineare una triste realtà: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che si comportano come voi, tutti quelli che pensano come voi solo ad arricchirsi, a voler tutto in questa vita, alla fine, quando moriranno, perderanno tutto: perderanno la vita, le ricchezze e soprattutto perderanno l’anima, la parte più produttiva, più feconda, più vera della loro esistenza: poiché era l’unica che poteva assicurare loro la gioia eterna di un’intima relazione d’amore con Dio.
Le parole con cui Gesù spiega questo concetto, sembrano quasi una maledizione divina: “Visto che tu hai accumulato tutto, io ti tolgo tutto!”. È invece una triste considerazione, una anticipazione di quanto realmente accadrà a tutti quelli che durante la loro vita hanno ignorato completamente di “arricchirsi” anche e soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno avuto alcun interesse per la propria anima, che hanno svenduto la propria esistenza soltanto per il lusso, le ricchezze, i “magazzini” stracolmi, le cose materiali: “Chi vive così, finirà così!” sentenzia Gesù. Le illusioni passeggere del presente devono fare i conti con il futuro, con una realtà che abbiamo volutamente ignorato, con quelle certezze che in vita non abbiamo voluto prendere in considerazione.
L'uomo della parabola, preoccupato solo di arricchirsi, è “anonimo” come tutti i “ricchi” descritti nel vangelo. Non viene identificato con un nome proprio, perché non merita una identità personale: tutta la sua attenzione è infatti concentrata unicamente all’esterno; la sua vita è una continua ricerca di quelle ricchezze che ancora non possiede, e che forse mai potrà possedere, ma che egli comunque vuole a tutti i costi; per essi ha svenduto la sua anima, la sua personalità, in cambio di beni effimeri, temporanei. E in questa affannosa ricerca finisce col perdere l'unica cosa preziosa che possiede: sé stesso. 
Gesù l’ha detto chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la crescita dei nostri figli, la forza trainante di una vera amicizia? Significherebbe vivere come l’uomo descritto subito dopo dalla parabola, in una situazione tragicamente irreale, con una visione del tempo totalmente sfasata: per lui il presente non esiste, parla e pensa unicamente al futuro: “Farò così, farò colà, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, tutto passerà, perché tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive per sempre. La vita ha una sua durata temporale ben definita e immutabile: inizia, cresce, raggiunge il suo apice, finisce. Ciò che in questo percorso abbiamo rinviato, scartato, perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Incurante di ciò, quell'uomo  continuava ad illudersi: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. 
Quante persone continuano a rimandare continuamente i momenti più importanti della vita, perché c’è il lavoro, la carriera, l’affermazione sociale, i guadagni da aumentare, la corsa al benessere economico. Purtroppo, per l’uomo di ogni tempo, il meglio, quello che conta, quello che desidera nel proprio cuore, è sempre quello più lontano, quello più difficile, più proibito, quello che egli vuole e deve ad ogni costo raggiungere. Tutto il resto, molto più appagante, più a portata di mano, come vivere in pace con la propria coscienza, con Dio, con sé stessi, con la famiglia, con gli amici più cari, tutto può aspettare: per cui rimandano, rimandano, rimandano! Poi, un giorno, improvvisamente, tutti i loro progetti, i loro sogni, i loro traguardi, si frantumano: di fronte ad un evento tragico, ad un contrattempo imprevedibile, ad una malattia fulminante, alla morte! Dalla sera alla mattina, ogni loro ambizioso progetto si rivela una inutile, stupida, irrazionale illusione. 
Purtroppo, per natura, noi siamo portati a desiderare tutto ciò che non abbiamo, e non ci rendiamo conto che possediamo già il meglio, tutto il desiderabile, che dentro di noi abbiamo già “il tesoro” più grande e prezioso al mondo: la nostra anima, lo Spirito che ci inabita.
Inutile illuderci, inutile sprecare il nostro tempo: nessuna ricchezza terrena, nessun prestigio, nessun riconoscimento esteriore potrà mai farci sentire importanti, appagati, se non siamo coerenti, se non siamo spiritualmente onesti, sicuri di noi stessi: nessun “Dio” di questo mondo, infatti, può farci sentire più vivi, più realizzati, più vincitori di quanto riesca a fare la nostra coscienza, quando riusciamo a compiere quelle indicazioni di “vita” che il “nostro” Consigliere, lo Spirito di Dio, con infinito amore, puntualmente ci suggerisce. 
Amen.

 

martedì 22 luglio 2025

27 Luglio 2025 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 11, 1-13 
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era infatti naturale, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile.
Qui Gesù spiega ai discepoli e a noi non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.

«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Ecco, Dio è proprio così, figlio mio!”.
Ebbene: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio.
È Gesù stesso che ci ha parlato di Dio come di un Padre. E come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che deve soprattutto imparare ad amare come ama Lui, con la sua stessa apertura e accoglienza.
Quella che Gesù ci propone è l’immagine di un Dio decisamente nuova: a Dio infatti non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù propone come modello di credente, un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto, poiché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, gli osservanti della legge, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza materiale, stretta e letterale, a tutte le leggi (il sacerdote e il levita) ma vuole che l’amore che noi riceviamo da Lui, non rimanga infruttuoso, ma al contrario dobbiamo sentirlo, percepirlo, accettarlo, in modo da condividerlo, espanderlo, riversarlo su tutti i nostri fratelli, come fece il samaritano: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Con Gesù, dunque, tutto è cambiato rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, ma è Lui che serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se le religioni dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù (“to eu anghelion” - la “buona notizia”), dice invece ciò che Dio fa per l’uomo: lo ama spontaneamente aldilà di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.

«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva. Noi infatti non “santifichiamo il nome di Dio”, cioè già lo “bestemmiamo”, quando sprechiamo la nostra vita con i suoi doni; bestemmiamo Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; bestemmiamo Dio tutte le volte che i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite prescindendo da lui, senza amore, senza fondamenta, senza ideali: sono vite inconsistenti, inutili, superficiali, banali. Allora possiamo anche confessare di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio: ma dobbiamo anche e soprattutto chiedere perdono quando con la nostra vita ci rifiutiamo di compiere quelle cose che Dio si aspetta da noi, disprezzando la loro grandezza, la loro bellezza, la loro delizia. Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto conosciamo di Dio. Allora adoriamo il suo mistero; non abbassiamolo, per cercare di capirlo, alle microscopiche possibilità della nostra mente. Dio è infinitamente più grande di ogni nostra possibilità, Dio è oltre, Dio è una tale esperienza d’amore che noi non riusciremo mai di conoscere, di capire, di sperimentare; per quanto ci sforziamo di capirlo, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà continuamente, ci sbalordirà sempre e in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.

«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun sovrano ne fu all’altezza! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, si è rivelato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la intransigente osservanza delle leggi (i farisei). Infine venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è vicino a noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più autentica la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.

«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù, alludendo al pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il pane “che costruisce”; un concetto che (tradotto in greco “epiousion”, e in latino “super-substantialem”), caratterizza quindi un pane che va ben oltre il semplice “cibo quotidiano”, il pane del fornaio; noi chiediamo infatti a Dio un qualcosa di soprannaturale, di decisamente più importante: è quel pane sostanzioso, quel pane vero, miracoloso, che sfama l’anima. Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di questo cibo “particolare”: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi stessi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegnino qualcosa, che ci facciano riflettere; un abbraccio che ci faccia sentire “compresi”, amati; un po’di preghiera con cui rasserenare le nostre preoccupazioni, ascoltando il canto dell’anima che si sente al sicuro, tra le Sue braccia. Noi in questo modo possiamo pian piano nutrire la nostra vita, plasmarla, darle la forma che desideriamo.
Tocca a noi scegliere questo cibo “nutriente”, spirituale: non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Dobbiamo fare molta attenzione al nostro disimpegno, perché non voler scegliere, è già una scelta, e spesso problematica!
Non è vero che tutto è uguale, che una cosa vale l’altra: avere per amico una persona o un’altra, non è la stessa cosa; così, se ciò non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere prodotti solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’igiene della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita ciò che abbiamo sottomano, qualunque cosa ci capiti davanti; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Se invertiamo l’ordine delle lettere alla parola “pane(lehem), essa diventa meleh, cioè “sale, saggezza”: è la “saggezza”, quindi, che deve essere il nostro nutrimento quotidiano, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, pieni di gusto, di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio, dell’universo.

«E condona (afìemi) i nostri peccati…»
Se poi al termine “saggezza-meleh” (traslitterazione di lehem-pane), sostituiamo la vocalizzazione, allora otteniamo la parola mahol, che vuol dire “perdono”.
Per cui, anche il perdono è il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che noi abbiamo fatto e continuiamo a fare, nonché la forza di perdonare quanti fanno del male a noi. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare sempre che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Ma in particolare dobbiamo perdonare anche gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che prò continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che ognuno possa pensare come meglio crede, accettando la possibilità anche di venire feriti?
“Perdono” in ebraico oltre che mahol si dice anche kafor, che letteralmente vuol dire “coprire una ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono.
Il perdono deve essere il nostro “habitus” giornaliero, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.

«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Noi possiamo condonare, perdonare tutto ai nostri fratelli, solo se noi stessi abbiamo fatto personalmente esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “condonare”.

«Non abbandonarci alla tentazione».
Ritengo più corretta e pertinente l’antica traduzione che diceva “non ci indurre in tentazione”: infatti il verbo greco eisenènkes, e quello latino inducas, esprimono entrambi esattamente lo stesso concetto, cioè non “in-ducere, indurre, introdurre, portare dentro, nella tentazione”.
Nell’Antico Testamento il termine tentazione inoltre non indica mai una “sollecitazione al male”. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo. Pertanto la tentazione, la prova, altro non è che un passaggio obbligato attraverso cui crescere, maturare, e poter andare avanti, ricchi delle nostre esperienze. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, la nostra anima si illumina di una luce, di una consapevolezza, di una potenzialità, di una forza, prima completamente nascosta, segreta. Il suo significato quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, la generosità che c’è in noi.
Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”; Dio non tenta nessuno! Gli chiediamo invece di risparmiarci qualunque situazione pericolosa; come a volergli dire: “sai che sono debole e povero; vigila tu su di me, affinché le tentazioni e le prove non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che la tentazione del maligno abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano e fa’ che non cada sotto un peso troppo grande per me”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente in linea con la misericordia e l’amore di Dio.
Infine, dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: con la prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo “sfacciato”. A Dio, cioè, possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo, tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà. Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio come “padre”: ogni padre infatti sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non permetterà mai che la vita ci riservi contrarietà tali da risultare per noi insuperabili. Essere convinti di ciò, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde alle nostre aspettative; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito, perché in ogni caso noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, mi ama, e questo mi basta”. Consapevoli di ciò, anche noi allora fidiamoci di Dio: tranquillamente. Amen.

 

mercoledì 16 luglio 2025

20 Luglio 2025 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 10, 38-42 
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» 

Continuando il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante. Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un messaggio “nuovo”. 
Storicamente dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania: è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide di fermarsi a casa delle due donne.
A questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia perfetto, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica, “esteriore”.
Maria, invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta, ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo, quello di Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo insegnamento.
Marta non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.; tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi.
Marta questo non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le dà una mano; ella purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: lei quindi si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto dando da fare per te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di cuore!”. Ma non succede…
Lei non ha dubbi: Gesù in casa sua deve sicuramente trovarsi bene: è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua, per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco perché dobbiamo imparare a conoscere le nostre necessità, a conoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle sugli altri, pretendendo che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede. Perché Marta non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù dalla sua parte contro di lei?
Purtroppo troppe persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire.
Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che deve decidere ciò di cui Egli ha bisogno. Quando Egli arriva, lei non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta, e svuota il suo cuore, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.
Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di cosa parlare. Impariamo ad ascoltare, e tutto viene da sé. Non pretendiamo di indottrinare e di cambiare la gente secondo i nostri gusti.
Facciamo come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque possa entrare, portare sé stesso, sentirsi a proprio agio e mostrarsi serenamente per quello che è. Offriamo agli altri quella stessa accoglienza che tutti noi vorremmo ricevere.
Il vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù: stava cioè a contatto con la terra (humus), e ciò indica prima di tutto un suo atteggiamento di umiltà (humilitas). Ed è così che dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quello spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni impossibili; avranno insomma la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati.
A loro insomma dobbiamo offrire la stessa opportunità che Gesù ha concesso a Maria: di sperimentare ascolto, carità, amore vero, amore autentico.
Sono queste le cose vitali di cui ha veramente bisogno il mondo; e sono proprio queste, le virtù essenziali che ci impediscono di morire da egocentrici, accartocciati nella nostra arida insensibilità. Amen.

  

giovedì 10 luglio 2025

13 Luglio 2025 – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 10, 25-37 
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 Il vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento, puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “Maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano seduti e in silenzio le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”. 
Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: il classico verbo, usato proprio per descrivere le tentazioni del maligno
La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua, oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della gente comune, non particolarmente religiosa: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutta la vibrazione del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è semplicemente l’osservanza delle regole, “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo tentatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: se osserverai la legge, sicuramente otterrai la ricompensa prevista dalla legge”. Chiuso. Tutto chiaro! 
Ma l’esperto dottore non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”. 
E qui Gesù lo confonde completamente: la sua risposta questa volta, per essere capita, richiede una mentalità ben diversa da quella legale, tipicamente fredda, statica, razionale. Egli non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni legali, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri erano esclusi! L’esatto contrario dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque: punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina di amare, non la legge! 
Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico dei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta! 
Il dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”
Un racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe preferibile evitarla, ma quell’uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto, abbandonandolo sulla strada mezzo morto, solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel poveretto per essere soccorso? 

È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”. 
Questo in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col “ruolo”, continuiamo a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica. 
Evitiamo allora di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita. 
Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il samaritano. 
Egli non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.
I due che l’hanno preceduto (sacerdote e levita) vedono entrambi l’uomo ferito, ma continuano per la loro strada. Non così il samaritano: il vangelo sottolinea in lui un particolare, che volutamente ignora per gli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.
Come poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di nulla? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e del levita, invece, erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Noi tutti, del resto, possiamo incorrere nella nostra vita in due tipi di morte: quella fisica e quella spirituale: con la morte fisica, quella che segna la fine della nostra esistenza, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale, invece, viviamo sì all’esterno, ma siamo morti nell’anima. Non dimentichiamoci mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.