giovedì 27 dicembre 2018

30 Dicembre 2018 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ


“Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,41-52).

Nella prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Noi immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita.
Al contrario il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene, non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro unico Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la santa famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che i figli erano cresciuti, che avevano soprattutto bisogno della loro indipendenza.
Il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; come tutti i genitori non erano preparati a vedere il piccolo figlio in prospettiva del suo domani; anche a loro è accaduto e continua ad accadere a tutte le famiglie del mondo.
È la ruota della vita: i figli ne sono il centro. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, cerchiamo di essere il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Stiamo perdendo i nostri figli e non ce ne rendiamo conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma quel bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro proprietà”: pensarlo è un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima. 
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li unisce, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
In realtà è veramente difficile accettare che i figli siano grandi; è difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è difficile lasciare loro spazio; è difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non li aiutiamo a crescere, non facciamo il loro bene.
Quando finalmente Maria e Giuseppe trovano Gesù nel Tempio, gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, il richiamo dello Spirito, la Voce della Sua missione; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
Possiamo dire che la storia di Maria e di Giuseppe è costellata dal non capire, dal non comprendere, da un mistero incomprensibile: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Come mai allora noi vogliamo capire sempre tutto? Perché vogliamo avere sempre una risposta, una spiegazione? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere tutto sempre chiaro? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? Se smettessimo di voler capire tutto, se ci fidassimo un po’ più di Dio?
Una cosa fondamentale dobbiamo capire: che la nostra vita ha un compito ben preciso da assolvere: quello di tornare al Padre, con i frutti della nostra missione.
Per rispondere alla “vocazione” di Dio noi abbiamo delegato molto volentieri alcune persone (preti, suore, frati ecc.), come se loro soltanto avessero il compito di collaborare al grande Progetto di Dio. In questo modo ci siamo sicuramente messi a posto la coscienza, ma non il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti, soprattutto quando siamo soli e nel silenzio, siamo tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è infatti scoprire e realizzare ciò per cui esistiamo, il compito affidatoci dal Padre, attuare ciò per cui siamo stati pensati da Dio. 
Siamo agli sgoccioli di questo anno solare.
Porgo a tutti gli amici che mi seguono i miei migliori auguri per un radioso 2019.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita.
Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, Lui sì ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.



giovedì 20 dicembre 2018

23 Dicembre 2018 – IV Domenica di Avvento


«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica che precede il Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per ciò che sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze straordinarie; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno in grembo figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna sola, a quel tempo, era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, nemica secolare dei Giudei. Insomma, era un’impresa impensabile per chiunque volesse farla da solo.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di riservatezza, di umiltà, di silenzio: una donna dimessa che ubbidisce a tutti e se ne sta zitta e tranquilla, nella sua stanzetta; una madre insomma tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: Maria è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere accusata come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entrò “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. La fretta di abbracciare la cugina è talmente forte da farle dimenticare un saluto al padrone di casa Zaccaria: possibile che durante il viaggio sia diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa che è successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era muto a causa della sua incredulità all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto, immediatamente. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che solo loro due possono condividere: una intimità che Zaccaria non può né provare né capire.
In estrema sintesi, Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la felicità può capire la gioia.
Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha lo stesso cuore delle due donne.
Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed aver fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Il saluto di Maria, piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. È piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno, nella propria vita, trasmette ciò che ha, comunica quello che è.
Il loro saluto è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È un incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime delle due donne si sfiorano e si toccano.
Ebbene, sull’esempio di Maria permettiamo anche noi allo Spirito del Signore di incontrarci nel profondo del nostro cuore? O lo blocchiamo in superficie, a confrontarsi solo con le nostre esibizioni, col nostro apparire, con le nostre maschere esteriori? Non è certo così che dobbiamo incontrare Dio. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi e Lui. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda al panico, all'angoscia. Tutto questo non ha nessuna importanza, perché se riusciamo a incontrarLo nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo. 
Solo infatti incontrandoLo nella completa nudità del nostro cuore, possiamo trovare la serenità, confidargli le nostre paure, esternargli ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessargli le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo incontrandoLo possiamo aprirci e raccontargli i nostri sogni, spiegargli le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi.
Insomma: è la nostra vita interiore che dobbiamo comunicare a Dio, non vuote parole di comodo; è l’anima che dobbiamo offrirgli quando lo incontriamo nella preghiera, non squallide cerimonie. Allora, e solo allora, avverrà il nostro incontro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità di una vita in unione con Lui. E anche se ciò risultasse talvolta difficile, ci costasse fatica, ci facesse star male, ci facesse soffrire, pazienza, perché solo uniti saldamente a Lui è vivere una Vita vera. Amen.

giovedì 13 dicembre 2018

16 Dicembre 2018 – III Domenica di Avvento: Gaudete


“Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,10-18).

Nel vangelo di oggi la gente va dal Battista per porgli una domanda fondamentale: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi una grande quantità di persone si pone molto spesso: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un’iniziativa, un’associazione, un gruppo, qualcuno, a cui rivolgermi per risolvere i miei problemi?”
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare un personaggio veramente carismatico in grado di risolvere i loro problemi! Purtroppo abbondiamo invece di personaggi fasulli che si spacciano per “illuminati”, inviati di Dio, dotati di poteri soprannaturali, paranormali, extrasensoriali; e siccome nei deboli, sia la pressione emotiva della sofferenza, che il desiderio di sollievo spirituale, sono grandi, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per star bene spiritualmente, per risollevare la propria anima; si illudono cioè che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci intorno, per renderci conto di quanto ricco sia il mercato del sacro: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare messe, rosari, preghiere, secondo le nostre intenzioni, per le nostre necessità materiali e spirituali (ovviamente con offerta adeguata); c'è il tour operator che organizza, sempre ovviamente a pagamento, gite e pellegrinaggi nei luoghi sacri, volendo anche, per un ossequio personale, con i rispettivi “mistici” del momento; c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita che abbiamo vissuto prima dell’attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è il santone, in contatto diretto con qualunque santo a nostra scelta, che guarisce a distanza qualunque malattia, previo versamento di un'offerta; c'è una vasta gamma di gruppi carismatici sempre pronti ad accogliere chiunque a braccia aperte, assicurando felicità e benessere, purché facciano donazioni alle loro chiese; c’è infine una folla oceanica di maghi, indovini, fattucchieri, stregoni che vendono i numeri vincenti del lotto, che predicono il futuro, che fanno incontrare l'anima gemella, e via dicendo. 
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Quante persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile.
Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe.
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa.
Noi siamo tutti indistintamente per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è! Vorremmo che una preghierina ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile! Vorremmo che ci fossero delle formulette da recitare ogni tanto, per stare a posto con Dio e con la nostra coscienza; ma non c’è! Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte le nostre difficoltà sia sociali che economiche, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, la sua soluzione deve arrivare soltanto da te”. 
Alcuni si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile girare a vuoto: le occasioni e i punti per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi che in famiglia non ci si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché, ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. Il vangelo è chiaro in proposito: il contadino che divide il grano dalla pula, raccogliendo il primo e bruciando la seconda, è un’immagine molto dura ma emblematica, perché colui che tiene in mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva che deve farci pensare seriamente.
Tuttavia non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la causa della nostra poca carità: siamo noi che sopravvalutiamo le nostre buone azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo modo.
Se nella vita insistiamo ad affrontare tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere ignorando i principi fondamentali dell’esistenza, non capiremo mai che siamo noi gli unici responsabili della nostra vita, che spetta solo a noi, e a nessun altro, dirigerla, coltivarla, indirizzarla!
Giovanni battezza con l’acqua: figura di quei cristiani un po’ tiepidi, che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi scossoni.
Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello di Cristo, quello che sconvolge la vita, che si impadronisce dell’anima, che proietta il cristiano nel divino. È un battesimo di fuoco perché brucia dentro, infonde passione, forza, energia per andare sempre avanti, giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove possiamo appoggiare il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo tanto seguire; un battesimo che ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché porta allo scoperto, fa crescere, irrobustire quel soffio divino che ci portiamo dentro, trasformandolo in una forza impetuosa di vita.
Perché il grande “sacrificium” (da sacrum facere, fare una cosa santa), la grande “opera” dell'uomo, è di trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita spirituale, interiore, piena, vera, sorretta dall’Amore divino.
In una parola, come ci insegna il Vangelo, dobbiamo “rinascere nello Spirito”. Amen.



giovedì 6 dicembre 2018

9 Dicembre 2018 – II Domenica di Avvento


“La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,1-6).

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia, ci “invia nel deserto”, in noi stessi. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, non siamo più la stessa cosa.
Durante la giornata ascoltiamo un numero incalcolabile di parole! Ma la parola di Dio è un’altra cosa. Nella nostra vita abbiamo detto migliaia e migliaia di parole, molte anche buone ed edificanti, ma la parola di Dio è un’altra cosa. In Chiesa abbiamo “ascoltato” innumerevoli volte il vangelo: ma la parola di Dio è un’altra cosa. Sì, perché la parola di Dio è quella Parola che non scivola via come le altre, ci penetra in profondità, ci scuote, ci spiazza, ci destabilizza, ci tocca l’anima, ci colpisce il cuore. È quella Parola che sconvolge la mente, anche se non sappiamo spiegarci il perché; è quella Parola che ci risuona insistentemente nell’anima, che ci vibra dentro, che ci chiama in causa con un invito perentorio che non possiamo ignorare. È quella parola che ci è impossibile ignorare. È quella parola che pretende da noi una risposta concreta: e prima o poi dovremo dargliela. È quella parola insomma che una volta entrata, una volta che ci ha catturati, ci costringe a girare pagina: non possiamo più permetterci di rimanere quelli che siamo.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a sé stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone cercano il “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati
Predicare: kerysso, vuol dire urlare, dire ad alta voce. La radice ker indica il cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione per il perdono dei peccati.
Conversione è meta-noeo (“tornare indietro”) e indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare, il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo (in greco baptizein, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È la legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose, di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio, vittoriosi.
Il mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri, quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino, confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio, vittoriosi.
Il cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno di noi.
Siamo già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo diventare tali veramente.
Siamo un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E tutto questo “storto”, questo irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di noi?
Come possiamo essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene, se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra immagine originale in tutta la sua bellezza pura, naturale, divina: perché l’immagine che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o domande, perché quando si vede, quando c’è la Luce, tutto appare luminoso! Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo, bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e chissà cosa, Lui sorride e ci protegge. Amen.