giovedì 15 marzo 2018

18 Marzo 2018 – V Domenica di Quaresima


“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.  (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le grandi leggi dell’esistenza: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire; per diventare “grandi”, adulti, bisogna infatti morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Seguire la propria vocazione costa a volte enormi sacrifici. Anche Gesù, uomo come noi, vive la fatica di essere fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli vive la paura della morte, ma come il seme che cade in terra, sceglie di morire per portare quel suo frutto, che è la salvezza per il mondo.
Giunto dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme, dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che fino a quando agiva in periferia, la sua vita non era in pericolo; i suoi nemici non avrebbero avuto alcun motivo di perseguitarlo fino a quando il suo messaggio non avesse colpito in maniera esplicita e diretta i loro interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare la sua missione anche a Gerusalemme, nella città “santa”, centro della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: una volta presa, non sarà più come prima, mai più.
La vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte un po’ più complesse. Prima o poi, però, arriverà anche per noi il momento delle scelte difficili, di quelle senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte in quel particolare momento o mai più. Sono momenti decisivi in cui, con le nostre decisioni, diamo un senso alla vita, le diamo una forma, la nostra; la personalizziamo.
C’è un termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”, “gloria”, in greco doxa. Ora, quando noi lo leggiamo, pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli onori tributati ai vip, ai divi della tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio si rivela nella nostra vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. È in questo senso infatti che la “gloria di Dio” è in Gesù: Dio, cioè, si è reso visibile in Gesù, e lo ha fatto come in nessun’altra persona. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente vedere chi è Dio: in particolare Egli fa apparire Dio, la gloria, quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione, quando dice le beatitudini; ma lo fa soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, donandoci la sua vita perché noi potessimo vivere: «Se il “bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto…»; “bar” in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: Gesù, dicendo queste parole, alludeva a se stesso, sapeva perfettamente che era Lui, il “Figlio”, a dover morire per portare molto frutto. È Lui, infatti, che giorno dopo giorno, accetta questa sua missione dolorosissima, ma inevitabile. In qualche momento, è vero, viene assalito dall’angoscia, tentenna, perché Egli odia la morte: ma non arriva mai a pensare di potersi sottrarre, perché sa di dover dimostrare al mondo la “gloria” del Padre.
«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Gesù ci anticipa la fine alla quale sta andando incontro; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni non racconta il Getsemani, non descrive la passione, l’angoscia di Gesù, come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il turbamento, la passione, di Gesù. In questi pochi versetti, il vangelo concentra tutta la missione del Figlio di Dio, che è poi anche la nostra storia personale. Gesù è pronto ad annunciare agli uomini il nuovo messaggio di amore e speranza, di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un bivio: o fermarsi qui, tradire la sua missione evitando la croce, oppure proseguire fino in fondo e sacrificare la propria vita affrontando una morte orrenda.
Questo è il perenne aut aut di quanti vogliono seguire il suo esempio: essere fedeli alla volontà del Padre e alla propria vocazione costa più di qualunque altra cosa: perché ci sono momenti in cui tutto sembra finire, tutto sembra cadere, tutto sembra illusorio. Un solo conforto, sempre: la certezza dell’amore del Padre. Di “nostro” Padre.
Si, perché anche noi siamo “bar”, siamo “figli” dello stesso Padre di Gesù; ma soprattutto siamo come Gesù il “seme”, siamo quel “seme” che Egli ha piantato nel nostro cuore col Battesimo, il “seme” della Sua amorevole presenza: un atto d’amore il suo, che ci impegna seriamente durante tutto l’arco della vita: perché non possiamo vivere ignorando quel seme, o peggio, rendendolo inefficace, soffocandolo, uccidendolo: perché in questo modo siamo noi a crocifiggere nuovamente Gesù, siamo noi a soffocare Dio tra i rovi della nostra indifferenza, a uccidere la sua Voce.
È un seme, il nostro, che deve costituire la molla, lo slancio vitale che determina la nostra maturazione spirituale e umana: un seme quindi che dobbiamo metabolizzare, curare, che dobbiamo far crescere, che dobbiamo portare a maturazione.
È chiaro che per poterlo fare, dobbiamo “estirpare” dal nostro io, dalle nostre radici, qualunque erbaccia: il nostro narcisismo, il nostro egoismo, il nostro orgoglio; dobbiamo in una parola prendere coscienza della nostra “missione”, dobbiamo fare i conti con la nostra vita.
Purtroppo noi non amiamo misurarci troppo con la realtà, la temiamo, perché spesso ci sconvolge, distruggendo l’immagine di “persone brave e buone” di cui andiamo tanto fieri; molti di noi infatti vivono soltanto per loro stessi, sono semi” che marciscono senza portare frutto. Sprecano il loro tempo per cose inutili, senza alcuna importanza; sono esclusivamente concentrati su loro stessi: si credono bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di paura. La loro vita non è di aiuto a nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in loro nessuna saggezza, nessuna profondità. Passano senza lasciare traccia, sono vite inutili, vuote, senza significato; hanno ricevuto in dono la Vita, ma non l’hanno donata al prossimo. Moriranno tristi perché potevano essere alberi carichi di frutti e di vita, ma hanno lasciato intorpidire il seme dal gelo del loro egoismo; hanno avuto paura di esporlo al sole dell’amore. Frutti acerbi è il loro raccolto. Sono dei falliti.

Il vero servizio, la vera carità, è mettere in circolo i frutti che abbiamo dentro; ma se dentro non abbiamo niente, se la nostra anima è un deserto arido, cosa possiamo donare?
Noi siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo compiuti, solo così vedremo la nostra forza, il nostro seme, rinascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori di altra Vita; solo così ci sentiremo una piccola parte attiva di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.



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