giovedì 24 settembre 2015

27 Settembre 2015 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare» (Mc 9,42).

 Il vangelo di oggi ci mette di fronte ad un vero e proprio “peccato” della prima comunità cristiana: la presunzione cioè di possedere in esclusiva la verità, la perfezione e tutte le facoltà soprannaturali; in pratica: “Gesù è nostro!... noi abbiamo la vera sapienza... solo noi possiamo”. Una forma di devianza che conferma come i discepoli ragionassero sempre con la stessa bacata mentalità: la stessa di quando, domenica scorsa, litigavano tra loro su chi doveva essere il più grande, in quel nuovo regno di Gesù che essi si ostinavano a vedere solo come soluzione politica.
Il peccato più grande di questo gruppo era dunque la convinzione di avere il monopolio esclusivo su Gesù e i suoi insegnamenti, come se fossero i padroni della persona stessa di Gesù. Ma Gesù non è di nessuno; è di tutti. Non è di nessuno perché Lui è un uomo libero.
Fino a pochi anni fa si diceva: “Extra ecclesiam nulla salus”: fuori dalla chiesa non c’è salvezza. Cioè: solo noi abbiamo Dio e la salvezza. Ma il vangelo di oggi non dice affatto così. Dice: “Chi fa il bene, di dovunque sia, viene da Dio”. Una falsa certezza, quella di allora, che ha contribuito a innescare un fenomeno intramontabile, un fenomeno peraltro negativo sia ieri che oggi: quello della invidiosa competizione.
I discepoli vedono dunque uno che scaccia i demoni, dimostrando di essere molto più bravo di loro, e pensano: “Come è possibile che uno qualunque, un uomo della strada, riesca a fare quello che noi, i seguaci più stretti di Gesù, e quindi gli unici abilitati, non riusciamo ancora a fare? Vuol forse dimostrare a tutti che noi non valiamo nulla?”. Una constatazione che li mette in serio imbarazzo, li fa sentire in uno stato di netta inferiorità: non li sfiora neppure il pensiero che, se non riescono a farlo, dipende soltanto da loro, in quanto non sono liberi. Nessuno infatti può scacciare i demoni degli altri, se prima non sa scacciare i suoi. Nessuno può guarire un altro se prima non è capace di farlo con se stesso. Non si può dare agli altri ciò che non si ha. Non si può fare agli altri ciò che non si è in grado di fare a se stessi. Come possiamo amare, se non sappiamo amare noi stessi, non sappiamo difenderci, non sappiamo avere cura di noi, stimarci, volerci bene, valorizzarci, migliorarci, accettarci insomma per quello che siamo? Come possiamo insegnare “Dio” agli altri, se noi stessi non lo conosciamo? Se non lo sperimentiamo, se non ci lasciamo trasformare da Lui, se non lo seguiamo? Come possiamo perdonare gli altri se nel nostro cuore non conosciamo cos’è il perdono?
Tutte considerazioni che i discepoli non fanno: per cui decidono su due piedi di annullare il loro senso di inferiorità, eliminando colui che ne è stato la causa scatenante; si lasciano cioè trascinare in quella che è la forma più insana della competizione, quella più negativa, che consiste nella eliminazione dell’avversario: “Visto che tu, a differenza di noi, sei così bravo, riesci in tutto, sei brillante, hai successo, ecc., noi troviamo subito una buona scusa per metterti a tacere: ti giudichiamo, ti mettiamo in cattiva luce, ti mettiamo tutti contro; in pratica ti distruggiamo moralmente e fisicamente”.
Nonostante tutto, però, la competizione è in sé una cosa buona, positiva, perché risponde al bisogno naturale di affermarsi, di arrivare primi, di essere i vincitori; è il desiderio innato di trovare il nostro spazio, il nostro posto, la nostra realizzazione; è il desiderio buono che tutti abbiamo. Solo che è più facile, più comodo, più sbrigativo, distruggere semplicemente gli altri.
Poi il testo riporta quella frase terribile, che tutti ricordiamo: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare” (Mc 9,42).
Cerchiamo di approfondirne un po’ il senso. Il termine “piccoli” usato oggi da Marco, è stato spesso inteso come “bambini”. Ma non è così: il termine micron, “piccolo”, era il termine dispregiativo con cui i rabbini definivano le persone che vivevano al di fuori della legge, o quelle che non riuscivano a praticarla per intero. Erano in sostanza delle persone di scarto.
Di fronte ad un Gesù che parla e attua la misericordia, il perdono, la tenerezza, l’accoglienza per tutti, è naturale che questi lontani, questi emarginati, queste nullità, in una parola questi “micron”, si sentano attratti da Lui, si avvicinino a Lui e al suo seguito, pensando di trovare qui un clima diverso da quello in cui trascinavano la loro triste esistenza. Purtroppo però una delusione attendeva quei “piccoli”: anche qui, tra i discepoli di Gesù, prevalevano identiche gravi scorrettezze: rivalità, invidia, gelosia, rancore, competizione, arroganza, ambizione di occupare i posti più prestigiosi (Mc 9,34). Inizialmente affascinati dall’amore di Gesù e dalla sua misericordiosa accoglienza, una volta a contatto con siffatta comunità di seguaci, rimangono talmente scandalizzati, traumatizzati, delusi, da decidere di allontanarsi definitivamente da Lui e dal suo Vangelo: ebbene, per Gesù, il comportamento traumatizzante dei suoi è a dir poco vergognoso: è ripugnante e scandaloso infatti che nella Sua comunità, nella Sua “Chiesa”, prolifichino ambizioni, grettezze, meschinità, risentimenti, odio. È impensabile, ma ci sono! In tal caso, Egli dice, urge un taglio netto, deciso, a qualunque altezza…
Unica soluzione cioè, per quelli che ne sono causa, è di farla finita una volta per tutte. In altre parole la soluzione migliore per loro è quella di buttarsi a mare, legandosi al collo una “macina da asino”.
Ma per suicidarsi in mare, non bastava “legarsi al collo” una semplice pietra? Perché specificare proprio “una macina d’asino?” (Mc 9,42). Perché a quel tempo, alla portata di tutti, c’erano due arnesi in pietra, esattamente due “macine” che servivano a triturare il grano: la prima, non troppo pesante, era azionata a mano dalle donne: mettevano cioè il grano dentro al foro e la giravano per frantumarlo. La seconda, invece, era la classica macina da frantoio, pesantissima, inamovibile, al punto che per farla girare era necessario l’intervento di un animale da soma. Quindi: non una zavorra qualunque al collo, ma data la gravità della situazione, la scelta obbligata era per quella che avrebbe garantito una fine assolutamente certa. Inoltre perché “gettarsi in mare”? (Mc 9,42). Non bastava buttarsi giù da un qualunque precipizio? Gettarsi in mare legati ad una “macina d’asino” era per gli ebrei la fine peggiore che potesse loro capitare, in quanto il corpo bloccato dall’enorme peso non sarebbe mai più riemerso e non avrebbe potuto avere la prevista sepoltura in terra di Israele, unica condizione per essere poi ammessi alla resurrezione finale.
In altre parole, Gesù vuol farci capire che con persone di questo genere, così arroganti, invidiose, gelose, competitive, Egli non vuole avere nulla a che fare. Gesù nella sua bontà non rifiuta nessuno, accoglie tutti, anche quelli che sono immaturi, pieni di paura o che proiettano i loro disagi interni sulle relazioni con gli altri. Ma non tollera che una comunità che si professa “cristiana”, che dice di vivere nel Suo nome e del Suo vangelo, si produca in simili atteggiamenti. Egli non sopporta chi distorce il suo messaggio e la sua immagine di Dio. Chi dice di annunciare Dio, e cerca invece di assicurarsi benessere materiale, ricchezza, gloria, notorietà, agiatezza, non solo non annuncia Dio, ma provoca grave scandalo; si comporta cioè in maniera intollerabile per Gesù. Per cui Egli ordina in maniera categorica: “Se la tua mano... il tuo occhio... il tuo piede, sono motivo di scandalo, tagliali” (Mc 9,42-48). Non a caso Egli cita questi tre componenti del corpo umano: infatti nominando la mano, Egli intende tutte le azioni, le opere; con l’occhio, i suoi criteri di giudizio, il suo discernimento; con il piede, il suo cammino, la sua condotta, il suo comportamento. In una parola l’intera entità umana è interessata: per cui se qualunque azione, qualunque pensiero, qualunque comportamento fossero motivo di scandalo, devono essere tagliati e gettati nella Geenna.
La Geenna (c’è tuttora a Gerusalemme) è il luogo dove venivano scaricate tutte le immondizie di Gerusalemme per essere bruciate. Era in pratica l’immondezzaio di Gerusalemme.
Allora, qual è il grande pericolo? Il grande pericolo è che se viviamo in un certo modo, finiamo col vivere nella Geenna, saremo morti dentro; vivremo da schifo; vivremo senza vita. Ecco perché dobbiamo tagliare via per tempo tutto ciò che ci potrebbe portare a  vivere in questo stato.
Queste del vangelo di oggi sono ovviamente delle immagini limite, che non vanno prese alla lettera. In pratica ci fanno capire che se noi, la nostra attività (mano), i nostri modi di pensare (occhio), i nostri comportamenti (piede), offrono scandalo (lo “skandalon” era la pietruzza dentro al sandalo che impediva di camminare), dobbiamo “tagliarli”: non si tratta cioè di tagliare letteralmente una parte del corpo, ma di eliminare definitivamente l’elemento che ci impedisce di crescere, di essere vivi, di fare il nostro cammino sulla strada del Signore.
Abbiamo visto che il motivo scatenante di queste parole è l’ambizione dei discepoli (Mc 9,34). In pratica quindi Gesù dice loro: “Dovete eliminare, estirpare, rimuovere, “tagliare”una volta per tutte la vostra ambizione. Altrimenti morirete dentro, morirete nell’anima. Perché l’ambizione è la radice dei mali, uccide il cuore, avvelena il sangue, annienta qualunque relazione. E queste stesse parole Gesù oggi rivolge anche a noi. Amen.

 

mercoledì 16 settembre 2015

20 Settembre 2015 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

“Partirono di là e attraversarono la Galilea, ma non voleva che alcuno lo sapesse, perché istruiva i suoi discepoli” (Mc 9,30-37).
 
Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
«Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione» (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarà “il più grande” al seguito di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue parole. Sono completamente fuori.
Gesù, che pensa sempre in positivo, interpreta invece il loro parlare un semplice scambio di opinioni, un’amichevole reciproco riflettere su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghizo”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo, quando invece, noi sappiamo, la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa: non un “dialoghizo”, quindi, ma un autentico “dialego”; due modi diversi di affrontare le cose: Gesù è mosso dall’amore, essi invece covano nei loro animi ambizione, voglia di successo, desiderio di gloria mondana. Una differenza chiarissima, per cui, dice il vangelo, “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente e inequivocabilmente di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre l’oggetto del loro contendere.
Loro infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”. Due situazioni differenti: perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se uno solo dei discepoli può diventare il “più grande”, al contrario tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo” non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo schiavo no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, il distruggerci, l’umiliarci, l’esaurirci, l’arrivare fino quasi a morire per “servire” gli altri; ancora: non vuol dire spersonalizzarci, non vuol dire che dobbiamo obbedire sempre e passivamente, stare sempre zitti, essere comunque accondiscendenti, soprattutto quando non dovremmo: soprattutto non vuol dire arrivare ad essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare. Perché questa è una forma di spiritualità esasperata, inutile e dannosa. Significa non tenere in nessun conto la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una persona importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei loro confronti; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi non avere potere. Il vero potere è l’amore: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: equivarrebbe cioè gestire gli altri, tenerli in pugno, farli girare intorno a sé; farli sentire in colpa, tenerli legati a noi per poterli manipolare.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non rivolge loro la parola, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere coinvolgendo tutta la nostra autorità: unicamente verso noi stessi: e questo per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare tutto il nostro potere per questo fine, equivale solo a comportarci come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.

 

giovedì 10 settembre 2015

13 Settembre 2015 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,27-35).
 
Gesù va verso Gerusalemme. Sa i pericoli che corre e sa l’ostilità che troverà.
Per tre volte Gesù fa questo annuncio: “Vado a Gerusalemme e lì soffrirò e sarò rinnegato”. Ma ogni volta i suoi discepoli rifiutano tale prospettiva: non accettano in pratica chi Lui effettivamente sia e cosa dica. Per essi è troppo difficile accettare la sua debolezza. Non è così che lo vedono: lo vogliono forte, potente, liberatore, ma Gesù non è così. Lo amano, è vero, ma con le caratteristiche che essi vogliono.
L’amore invece non pone condizioni. L’amore non dice: “Io ti amo ma tu devi essere come dico io”. L’amore dice: “Io ti amo per quello che sei, non ti voglio cambiare”.
È l’autorità, non l’amore, che ci vuole come vuole lei; l’amore ci lascia essere sempre ciò che siamo. Chi vuole cambiarci non ama noi, ma ama se stesso; solo chi ci accetta per quello che siamo, ama solo noi.
Il vangelo inizia dicendo che Gesù parti verso i villaggi vicini (Mc 8,27).
Inizia il suo viaggio verso Gerusalemme. Gesù non va a Gerusalemme per caso, per sbaglio, ma è lui che decide di andarci. Andarci è la sua missione. Il suo compito, la volontà del Padre, lo vuole lì. E lì lui deve andare. E durante il cammino, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”. Quando in Marco si parla di “uomini” si intende quelli che non appartengono al gruppo di Gesù. Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Mentre per gli scribi, per i religiosi e i capi del Tempio Gesù è un demonio, un belzebul, un posseduto, per la gente che incontra è un profeta, un buon uomo, uno “in gamba”. Non hanno capito chi è, ma per loro, è uno “buono”, anche se non hanno capito la novità di Gesù: lo pensano come un altro dei grandi profeti. Mentre la gente ha capito qualcosa di Gesù, gli unici a non capirlo per niente erano proprio i sacerdoti, i religiosi del tempo!
Poi Gesù chiede ai discepoli: “E voi chi dite che io sia?” (Mc 8,29). Gesù vuol sapere ora se loro, i discepoli, lo hanno capito. Essi erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli, ad essi egli aveva più volte parlato di sé. Ora vuole una verifica: “Vediamo: cos’avete capito?”. Gesù cioè vuol vedere se anche loro lo vedono come uno grande profeta, un altro dei tanti, oppure se colgono in Lui qualcosa di più.
Interviene “il Pietro”: Marco, quando lo chiama così, lo fa per dimostrare la sua ottusità, la sua testa dura. Quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, gli premette il nome “Simone”; in pratica “Simon Pietro” è colui che crede, anche se la sua fede è ancora imperfetta, ha dei dubbi; Pietro invece è colui che ha le sue idee, che è ostile, contrario a Gesù.
Tra l’altro osserviamo che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è Pietro che parla per tutti. Si fa portavoce del pensiero comune, condiviso anche da tutti gli altri.
Pietro dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: vogliono entrambi dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una premessa: il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gentaglia. Pietro aveva visto Gesù con la gentaglia? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana (il Messia li avrebbe distrutti i pagani)? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Eppure... I suoi occhi hanno visto tutto questo, ma tutto questo non ha intaccato per nulla la sua idea. Aveva visto tutto con gli occhi ma non con il cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere quando invece si è ciechi.
Pietro pertanto, ripetendo pari pari la descrizione del Messia ebraico(l’unto, il Cristo), nonostante Gesù davanti a lui avesse dato prove concrete di non esserlo, dimostra chiaramente di non conoscerlo, di non saper spiegare chi sia realmente Gesù. Per Pietro il Cristo è quello che divide buoni e cattivi, ebrei e non ebrei, meritevoli e non meritevoli. Ma un Dio così è totalmente opposto al Dio di Gesù, al Dio dell’amore per tutti.
Gesù infatti si definisce semplicemente il “Figlio dell’Uomo”; non il Cristo o il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. E questo è sconvolgente. Gesù il Figlio di Dio non si identifica con il Cristo, il Messia, ma come il “Figlio dell’Uomo”. Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, totalmente umano”. Noi pensiamo invece che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, in-umani. Ma qual’è il “modello di Dio” che Gesù ci ha presentato? Il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo (Lc 10,29-37). “Divino” non è quanto preghiamo, ma se sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, non è assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che possa diventare”. In pratica non ci limiteremo a far vedere ai nostri fratelli quant’è bello il cielo, ma insegneremo loro che hanno le ali e che possono volare per raggiungerlo. Questa è la vera carità.
Per molte persone amare significa possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché tu sei come me, pensi e fai come me; perché stai con me, sei legato a me; perché anche tu mi ami e sei d’accordo con me”. Ma l’amore non è questo. L’amore è volere il vero bene per l’altro, qualunque esso sia.
“Insegnerai a Volare, ma non voleranno il Tuo Volo. Insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo Sogno. Insegnerai a Vivere, ma non vivranno la Tua Vita. Ma in ogni Volo, in ogni Sogno e in ogni Vita, rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto” (Santa Teresa di Calcutta).
Tutto ciò che è umano è proiettato al divino. Le persone vorrebbero decisamente scavalcare la loro umanità: vorrebbero cioè essere sempre felici, non star mai male, non doversi guardare dentro, non avere niente a che fare con emozioni, paure, blocchi, schemi familiari, copioni che si ripetono, sogni, desideri, istinto, sessualità. Non sono argomentazioni psicologiche. No, questi siamo noi! Non possiamo sfuggire la nostra umanità, non possiamo eluderla. Dobbiamo invece prenderci cura di noi, di quello che siamo, della nostra umanità, della nostra debolezza. È facile amare gli altri. Difficile è amare se stessi.
Poi Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità molto rigida e distorta. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio solo a soffrire in maniera disumana per espiare i nostri peccati. Nell’opera redentrice di Cristo sono state messe soprattutto in risalto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso amore di un Padre, che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per redimerci; un amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità, come unico esempio di vita, a tutta l’umanità.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? “Tre giorni” va letto nella cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a perdere i tratti fisionomici e a puzzare, sopraggiungeva la morte. Lazzaro infatti era morto da quattro giorni (Gv 11,39). Dopo tre giorni quindi uno era morto per davvero, definitivamente, senza speranza.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il fallimento, non hanno alcun potere su Gesù. Cioè: la Vita è più forte. Gesù poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma Lui, in quanto Vita, avrebbe vinto, Lui, la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù quando muore, risorge subito: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da osservare: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti e cerca di isolare Gesù. “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu!”. Nel farlo, Pietro dimostra tutta la sua arroganza di presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che pensa solo come gli uomini! Sei Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario, colui che in tribunale rappresenta l’accusa. E qui Pietro è satana perché si oppone a Gesù e ai suoi piani, gli sbarra la strada, vuole che Gesù faccia ciò che lui ha già deciso. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”. Quando lo aveva chiamato gli aveva già detto infatti : “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù e non Gesù che deve seguire l’uomo.
Quindi il vangelo dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Una frase portata anch’essa a giustificazione di quella spiritualità della sofferenza, per la quale seguire Gesù voleva dire esaurirsi, distruggersi per gli altri, non avere nessun piacere (“rinnegare se stessi”) e soffrire. Più si soffriva, più si era santi (“croce”).
Così per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose gratificanti della vita: divertimenti, viaggi, cinema, tv, ballo, amore, coccole. Bisognava annientarsi, strisciare, diventare vermi.
Ma questo non è Dio: Dio è il Dio dell’uomo, della vita, della festa, della gioia, dell’umanità: Egli è venuto non per deprimere questa umanità ma per esaltarla, per guarirla, espanderla, amplificarla.
Ma cosa significa “rinnegare se stessi”? Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù possibilità di potere, di prestigio, di forza, di autorità, di ricchezza. È questo che dobbiamo rinnegare se lo vogliamo seguire. Non è possibile seguire Gesù pensando in questo modo. Per trovare la Vita vera, dobbiamo quindi perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo prima lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo prima lasciare quella falsa. Amen!

 

giovedì 3 settembre 2015

6 Settembre 2015 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,31-37).
 
Dopo l'attacco diretto da parte dei farisei e degli scribi sulla questione del puro e dell’impuro, delle abluzioni del corpo e del lavarsi le mani, Gesù capisce che sta rischiando molto. Così scappa e si nasconde in territorio pagano. Non solo fugge, ma cerca proprio di non farsi più vedere da nessuno. Una decisione calcolata, la sua; una decisione che in seguito non prenderà più, ma in questo momento egli sa bene che non è ancora giunto il momento di affrontare il giudizio delle autorità civili e religiose. Egli dunque decide: questo lui vuole, e questo lui fa.
Quante volte sentiamo la gente che dice: “Voglio fare questa cosa!”. D’accordo: ma è all'altezza di poterla fare? Non basta volere, non basta desiderare una cosa; bisogna avere anche la capacità di farla, la convinzione di portarla avanti, di sostenerla. Altrimenti la nostra decisione si rivelerà un fallimento.
Quante volte per esempio noi ci diciamo: “Voglio ascoltare la voce di Dio”. Benissimo! Ma siamo in grado di ascoltare prima di tutto noi stessi? No! Siamo in grado di fermare il flusso dei pensieri che ci frullano continuamente in testa? No! Siamo in grado di emozionarci, di piangere, di sentire la voce del nostro cuore, di provare per tutti amore e misericordia? No! E allora dove vogliamo andare? Come possiamo “sentire” Dio dentro di noi con tali premesse? Prima lavoriamo sodo su queste: creiamo cioè le condizioni di base, creiamo l'ambiente idoneo perché ciò accada, e poi ci accorgeremo che tutto avverrà da sé, tutto accadrà spontaneamente.
Gli orientali dicono: “Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva”. Le cose spirituali accadono quando è il loro momento, quando cioè ci sono le condizioni perché accadano. Non prima.
Gesù dunque decide di fuggire: e dove va? In terra pagana e ostile ovviamente, dove nessuno si sognerebbe di seguirlo. E invece no, i suoi ammiratori lo trovano anche lì. D’altronde è sempre così, ed è ovvio che sia così: dove c’è verità, guarigione, amore, spiritualità, le persone pie accorrono, la folla devota assedia quei luoghi e quelle persone. Dove non c’è nulla, invece, non ci va nessuno.
Un fatto naturale, che però nel caso di Gesù non vale: i vangeli ci dicono infatti che più la gente era lontana da Dio, più era disponibile ad accoglierlo. Più la gente era invece religiosa, più lo rifiutava.
Perché? Semplice; perché quando le persone hanno già un’idea di Dio, e poi lo incontrano, succedono due cose: o Lui coincide con la loro idea di Dio, e allora lo accolgono; altrimenti lo rifiutiamo in ogni caso. In Israele avevano le idee molto chiare su Dio: era una popolazione estremamente coinvolta nella “loro” religione: ma per la nuova religione di Gesù non c’era spazio. Per accoglierlo bisognava essere completamente “liberi” dentro.
Scoperto dunque dove si trova Gesù, la folla gli porta un uomo, pregandolo di imporgli le mani. Di questo uomo si dice che è un sordomuto. Marco utilizza due parole per dire sordomuto: Kophos che vuol dire non solo sordo ma anche ottuso, spento, senza energia, stolto, pazzo, insensibile; un uomo che non sente, non è in contatto con i suoni, con la sua energia interiore; è vuoto, spento; e Moghilalos che vuol dire non solo muto ma anche balbettante, che fa fatica a parlare. In ogni caso si tratta di un uomo con dei grossi problemi di comunicazione.
Marco ci fa subito notare un particolare: “Glielo portarono” (Mc 7,32). Cioè l’uomo non va da Lui di sua iniziativa, sono gli altri che lo portano. Questo è interessante, perché ci dice che l’uomo non ha poi tanta voglia di guarire: uno che è sordomuto, ha comunque le gambe buone, e se vuole è in grado di andare da solo da Gesù; un paralitico no, ma un sordomuto sì.
Questo ci dice che per guarire bisogna prima di tutto voler guarire, bisogna cioè “voler andare”, essere cioè disposti a fare tutto ciò che c’è da fare.
In questo caso, forse, l’uomo si è abituato alla sua malattia: tutto sommato preferisce rimanere così piuttosto che guarire. Come mai? Perché per guarire è necessario “cambiare”, voltare pagina rispetto a prima, e questo gli fa paura, non sa cosa gli comporti. Se continua a fare quello che ha sempre fatto, sa di ottenere quello che ha sempre ottenuto: ma se da sordomuto viveva in un certo modo, da guarito cosa dovrà affrontare?
Arrivato dunque davanti a Gesù, inizia il rito della sua guarigione. Gesù fa quattro cose; e tutte hanno un significato simbolico, terapeutico.
Marco è molto dettagliato nei particolari. Prima di tutto “lo porta in disparte”, lontano dalla folla: quindi, condizione essenziale per la guarigione è l’essere se stessi, non confondersi con gli altri. Nei vangeli succede continuamente che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40). Nel caso del paralitico, che non può arrivare da Gesù col suo lettino a causa della troppa gente assiepata, lo calano giù dall’alto nella stanza dove Lui si trovava (Mc 2,4). Il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25). Al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22). L’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla anonima, a mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i malati dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere se stessi. Per questo motivo Gesù, anche in questo caso, porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te e del tuo volto”.
Per guarire, dobbiamo quindi “individuarci”, venir fuori dalla massa. A Lazzaro Gesù dirà: “Vieni fuori!”, “Emergi” (Gv 11,43), che letteralmente vuol dire: “Esci, vieni fuori dal tuo nulla”. Osa con il tuo pensiero, con la tua vita, con le tue scelte: sii te stesso.
Poi “gli pose le dita negli orecchi”: un gesto che indica la necessità di “ascoltarsi” (Mc 7,33).
Le persone spesso non si ascoltano perché non lo sanno fare. È fondamentale invece imparare ad ascoltare le proprie emozioni, perché solo così ci impadroniremo della nostra identità, impareremo chi siamo e cosa vogliamo. Se non lo facciamo noi, ci saranno altri che vorranno intromettersi nella nostra vita. In altre parole se non ci ascoltiamo noi e non dirigiamo noi la nostra vita, altri lo faranno per noi, e non sappiamo con quali risultati.
Dopo di ciò gli “toccò la lingua con la saliva (Mc 7,33). Un segno con il quale Gesù ci dice che dobbiamo imparare ad esprimere ciò che abbiamo dentro. Se abbiamo qualche preoccupazione che turba profondamente il nostro animo, dobbiamo esprimerla, condividerla, altrimenti ci porteremo dentro il suo peso per tutta la vita e nessuno potrà mai aiutarci.
Infine Gesù pronuncia una parola, secca, decisa e forte; impartisce un comando: “Effatà, apriti” (Mc 7,34). In quante occasioni Gesù ha detto al nostro cuore: “Apriti!”? Ogni qualvolta abbiamo paura di amare, di aprirci alla vita, trattenuti dalla paura di poter soffrire ancora, di innamorarci nuovamente dopo esperienze negative, Gesù, la Vita, ripete ogni volta al nostro cuore: “Apriti!”; alla nostra coscienza che prova vergogna per tante infedeltà, Gesù ripete: “Apriti, torna a vivere e perdonati. Io l’ho già fatto!”.
Alla nostra mente confusa e indecisa, Gesù ripete: “Apriti. Impara, conosci, scopri, accetta le novità. La mente è come il paracadute: se non è aperta non serve”.
“Aprirsi” significa accettare che le cose evolvano. Significa "vivere". Perché ciò che non evolve è morto; ciò che vive, invece, diviene, si concretizza, si realizza. Perché ogni anno è diverso dal precedente?  È normale. La vita diviene, è viva, si modifica, cambia. Apriamo la nostra mente alla vita, manteniamola sempre in movimento.Soprattutto “apriamoci” con gli altri. Alcune persone non si rendono conto di quanto sia importante la loro presenza per noi; non sanno quanto bene ci faccia anche solo vederle; non sanno quanto conforto ci arrechi il loro benevolo sorriso; non sanno quanto sia benefica la loro vicinanza; non sanno quanto saremmo più poveri senza di loro. Alcune persone non sanno tutto questo: non sanno di essere per noi un dono del cielo. Lo saprebbero, se noi ci aprissimo e glielo dicessimo. Amen.