giovedì 29 aprile 2010

2 Maggio 2010 - V Domenica di Pasqua

La parola che ritorna spesso nelle letture bibliche di questa domenica e che costituisce la nota dominante: è l'aggettivo "nuovo". Giovanni dice: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra... vidi la nuova Gerusalemme; e ancora la voce di Dio che dice: Ecco io faccio nuove tutte le cose; infine Gesù nel vangelo dice: Vi do un comandamento nuovo.
Questo annuncio ci viene dato nel contesto della pasqua, per dirci che è dalla Pasqua di Cristo che è sbocciata ogni novità; la Pasqua è questo fatto nuovo che permette a tutte le cose di rinnovarsi: Cristo è risorto da morte... perciò anche noi camminiamo in una vita nuova. I Padri della Chiesa dicevano che la Pasqua è la rinnovazione del mondo, un passaggio dalla vecchiaia alla giovinezza, che non è una giovinezza di età, ma del cuore. "eravamo cadenti per la vecchiaia del peccato, ma per la risurrezione di Cristo siamo stati rinnovati nell'innocenza dei bambini" (S. Massimo)
Che cos'è questa novità?
Gesù dice:Ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento novo: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amato. La novità è l'amore!
Ma perché Gesù chiama «nuovo» un comandamento che era noto fin dall'Antico Testamento e perché lo chiama il«suo» comandamento? La risposta è: perché solo ora, con lui, questo comandamento diventava possibile. In passato si amano le persone perché erano parenti, alleati, amici, perché appartenevano allo stesso clan o allo stesso popolo: si amavano per qualcosa che li legava tra di loro, distinguendoli da tutti gli altri. Ora bisogna andare al di là: amare chi ci perseguita, amare i nemici, quelli che non ci salutano e non ci amano. Amare, cioè, il fratello per se stesso e non per ciò che di utile può venirne a me. È la parola «prossimo» che ha cambiato contenuto; essa si è dilatata fino a comprendere non solo chi ti è vicino, ma anche ogni uomo al quale tu puoi «farti vicino», come insegna la parabola del samaritano.
Il comandamento di Cristo è nuovo per il suo contenuto, ma più ancora per la sua possibilità. Solo ora è possibile amarsi come fra¬telli e questo perché Lui ci ha amati. Il Figlio di Dio ha portato questo seme nuovo che era scomparso dalla faccia della terra con il peccato, e cioè l'amore. Dio ha tanto amato il mondo..., per questo anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri..
Gesù ha vissuto questo amore fino alle ultime conseguenze: fino ad amarci cosi come siamo, fino a perdonarci e a morire per noi. Aman¬doci così, Gesù ci ha redenti; ci ha fatti figli dello stesso Padre e fratelli, per cui dobbiamo e possiamo amarci.. C'è un motivo per cui ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, può e deve essere amato: il motivo è che egli è ama¬to da Dio e che Dio lo vuole salvare. Il motivo non è dun¬que l'apparenza; non è la bellezza, la simpatia, la giovinezza, ma la realtà «nuova» creata da Cristo. Ecco per¬ché tale amore nuovo avrà la sua manifestazione più ge¬nuina non nel salutare chi ci saluta, nell'invitare chi ci invita, ma nell'amare chi ha meno motivi naturali per essere amato: il povero, l'infelice, l'anziano; al limite, il nemico, proprio perché, in questo caso, è chiaro che non si ama il fratello per quello che ha o che può dare, ma solo per quello che è agli occhi della fede.
Il comandamento di Cristo è «nuovo» anche per un altro motivo: perché rinnova! Esso è tale da poter cam¬biare la faccia della terra, da trasformare i rapporti umani, come quel lievito di cui parla Gesti, che, inserito nella massa, la fa fermentare tutta, sollevandola dalla sua pe¬santezza. «Cristo ci ha dato un comandamento nuovo: di amarci gli uni gli altri, come egli ci ha amati. È questo amore che ci rinnova, rendendoci uomini nuovi... È questo amore che adesso rinnova le genti e raccoglie tutto il ge¬nere umano, sparso ovunque sulla terra, per fame un po¬polo nuovo, la grande famiglia dei figli di Dio" (S.Agostino).
Il mondo ha bisogno di questo amore, ne ha bisogno la Chiesa, ne ha bisogno ciascuno di noi.
Nei tormentati problemi della nostra storia è istintivo lamentarsi, puntare il dito su ogni forma di odio, di violenza, di cattiveria. Ma questo non serve a niente. Credo che ciascuno di noi può vivere e offrire a questo nostro mondo un po' di amore, scelte e gesti di amore, di giustizia, di verità, di pace: se il bene lo facciamo, quello c'è; e se ci uniamo a tanti altri possiamo contribuire alla trasformazione di tante cose.
Noi sappiamo che il Signore Gesù, non solo ci ha dato l'amore come comandamento, ma ci ha dato il suo Spirito, che è l'Amore stesso di Dio, potenza di Dio nella nostra debolezza.
Possiamo lasciare lo Spirito di Dio che ami in noi e attraverso noi. Questa è la novità ultima: è Dio che ama in noi, il suo Spirito di mitezza e di forza, di perdono e di pace.

venerdì 23 aprile 2010

25 Aprile 2010 - IV Domenica di Pasqua

Con la sua morte e risurrezione Gesù ha stretto con i suoi un legame forte, confermato e approfondito ad ogni eucaristia. Il vangelo odierno lo descrive.
Da un lato Gesù conosce le sue pecore e dà loro la vita eterna. Dall'altro le pecore lo ascoltano e lo seguono.
Gesù ci conosce non come massa ma uno ad uno, come persona. Abbiamo bisogno di questo: non essere trattati come gente anonima, numeri, intercambiabili con altri; ma riconosciuti nella nostra unicità (caratteristiche, qualità, storie, ferite, punti deboli). Quando questo avviene (anche al livello umano) scatta qualcosa di fondamentale che ci fa crescere e senza il quale moriamo: non avere nessuno che ti chiama per nome, che ti conosce e ti apprezza come persona, è una morte grande.
Gesù ci offre dunque un rapporto personale con lui. Per questo però è indispensabile saper cogliere la sua voce. Col battesimo e col suo Spirito il Padre ci ha dato la capacità di riconoscere la voce del pastore Gesù: un istinto, un fiuto spirituale che ci consente di cogliere quella voce dovunque egli ci parla, anche laddove la sua presenza è più nascosta sotto apparenze contrarie.
Questo istinto ci dice anche che di lui possiamo sempre fidarci perché è un pastore che tiene alla nostra vita ancora più che alla sua, ha dato la sua vita, non agisce nei nostri confronti per interesse proprio, ma solo per darci la vita. La conseguenza è che cerchiamo di fare quello che lui dice, di seguirlo.
E' questo il segno che siamo sue pecore: se ascoltiamo la sua voce e lo seguiamo. Come Maria, che ascolta l'annunzio e concepisce il Figlio.
Ognuno deve domandarselo: sono in ascolto del Signore? Questo non significa certo sentire voci misteriose o altre cose strane. Il primo mezzo attraverso il quale il Signore mi parla è il Vangelo e tutta la Scrittura. Poi, illuminata dalla Parola, tutta la realtà farà arrivare la voce del Signore: la propria interiorità, i fatti, le situazioni, le persone, la natura. A condizione però che prima venga l'ascolto della Parola, altrimenti tutto questo rimarrà muto, oppure farà arrivare altri messaggi, e le voci di altri falsi pastori.
Devo poi domandarmi se cerco di seguire il pastore, di vivere quello che sono riuscito a cogliere dalla sua voce. Questo non significa affatto essere perfetti. Ma l'ascolto da solo non basta anzi, senza l'impegno a vivere la Parola, diventa distruttivo: "Chi ascolta le mie parole e non le mette in pratica è simile ad un uomo stolto, che costruì la casa sulla sabbia". Se ascoltiamo e basta, tutto crollerà.
Invece chi ascolta Gesù e lo segue non ha da temere proprio nulla: dalla sua mano, dalla sua protezione, niente e nessuno potrà strapparlo. Nessuna potenza di nessun tipo sarà più forte della mano del Pastore, perché è la mano stessa del Padre.
Signore, aiutaci a stabilire un rapporto personale con te, a saper cogliere la tua voce e a seguirti con la vita.

venerdì 16 aprile 2010

18 aprile 2010 - III Domenica di Pasqua

La Parola di oggi si apre riportandoci i discorsi e la testimonianza coraggiosa degli apostoli e in particolare di Pietro davanti al sommo sacerdote e al sinedrio. "Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo ad una croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra, facendolo capo e salvatore per dare a tutti la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui". Qui si dimostra la chiarezza dell'annuncio della fede, il coraggio della testimonianza, il superamento di ogni paura, addirittura la gioia del sacrificio per il Signore: "se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù".
Questo è Pietro, il capo dei dodici. Che storia particolare quella di Pietro!
Fu chiamato da Gesù sulle rive del lago, mentre era intento alla pesca. "Vi farò pescatori di uomini." Seguì Gesù in tutta la missione operata nella vita pubblica. Momenti di fervore e di entusiasmo, momenti di debolezza. Momenti di adesione profonda a Dio, altri di mentalità umana, addirittura di tentazione, di rinnegamento.
Ricordiamo quando disse a nome di tutti: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", "Da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna". E Gesù a lui: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa". Ricordiamo anche quando protestava perché non voleva che Gesù parlasse della passione. E Gesù: "Allontanati da me, satana, perché tu pensi non secondo Dio, ma secondo gli uomini". Ma quando comprende di aver bisogno di purificazione si affida e dice: "Lavami non solo i piedi, ma anche il capo e tutto il corpo". Ricordiamo quando nel suo fervore e forse nella sua autosufficienza affermava: "Anche se tutti ti abbandonassero, io non lo farò mai". E Gesù: "Prima che il gallo canti, tu Pietro mi rinnegherai tre volte".
Difatti Pietro farà tutta l'esperienza della sua debolezza, della paura (non aveva ancora ricevuto la forza dello Spirito), della tentazione e della fragilità umana. Davanti ad una semplice donna, per tre volte protesterà: "Io non conosco quell'uomo (Gesù, col quale aveva vissuto per tre anni!). Gesù volle incontrario mentre lo conducevano al supplizio e lo guardò. Pietro sentì tutta la potenza di quello sguardo misericordioso e pianse il suo peccato.
Ed eccoci al vangelo di oggi. Gesù è risorto, lo hanno visto, ma ancora non sanno cosa fare. Ritornano alla vita e al lavoro normale, vanno a pescare. Ma sono ancora nella notte, con le loro forze umane non prendono nulla. Appare Gesù, arriva l'alba e la luce, li invita a pescare e con la sua grazia compiono una pesca grandiosa. Gesù si fa conoscere nella sua vita di risorto ma nella concretezza della sua persona: non è un fantasma, è il "Signore" e mangia con loro.
Poi c'è il dialogo intenso e commovente con Pietro, un capolavoro di grazia e di misericordia da parte di Gesù, un capolavoro di fervore, di umiltà, di fiducia, di abbandono, di affetto e amore sincero da parte di Pietro.
Per tre volte lo aveva rinnegato, per tre volte farà la sua professione di amore. Non solo professione di fede, ma di amore!
"Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?" "Certo, Signore, tu sai che io ti amo!"
Una seconda volta, una terza volta: "Mi ami tu?". Pietro, rattristato per la domanda fatta per la terza volta, si lascia andare all'umiltà e alla sincerità più grandi: "Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo!" E Gesù lo conferma nel suo compito di pascere il gregge, di guidare la Chiesa, di confermare i fratelli nella fede: "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle".
Questa è la misericordia del Signore, questa è la sua grazia. Dio non si ferma davanti al peccato di Pietro, non si ferma davanti al nostro peccato. Dio chiede amore. "Molto ti è perdonato, perché molto hai amato", dirà un giorno. Dio non toglie la sua fiducia, anzi rinnova ancora di più questa sua fiducia e autorizza alla missione più grande. Pietro vivrà il suo ministero nell'amore e nell'umiltà, sarà il capo della Chiesa e saprà compatire e incoraggiare, perché lui stesso sa di essere un peccatore.
Gesù si comporta così anche con noi. Anche a noi chiede: "Mi ami tu". Vogliamo rispondere: "Signore, sì, tu sai tutto, tu sai che io ti amo (nonostante le mie debolezze)". Ognuno di noi, nella nostra vocazione e nella nostra missione di cristiani ha tutta la fiducia del Signore, ognuno di noi è ricolmato di misericordia e di grazia. Dobbiamo essere umili e misericordiosi perché abbiamo tante volte fatto l'esperienza del peccato, ma dobbiamo essere ferventi e generosi per esprimere tutto il nostro amore al Signore e il nostro impegno nell'annuncio e nella testimonianza, perché Gesù ha dato anche a noi lo Spirito Santo e la sua forza. E la nostra vita trova la sua piena realizzazione nell'amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi.

giovedì 8 aprile 2010

11 aprile 2010 - II Domenica di Pasqua

La Pasqua di Cristo è l’atto supremo e insuperabile della potenza di Dio. È un evento assolutamente straordinario, il frutto più bello e maturo del "mistero di Dio". È così straordinario, da risultare inenarrabile in quelle sue dimensioni che sfuggono alla nostra umana capacità di conoscenza e di indagine. E, tuttavia, esso è anche un fatto "storico", reale, testimoniato e documentato. È l’avvenimento che fonda tutta la nostra fede. È il contenuto centrale nel quale crediamo e il motivo principale per cui crediamo.
La buona notizia della Pasqua, dunque, richiede l’opera di testimoni entusiasti e coraggiosi. Ogni discepolo di Cristo, anche ciascuno di noi, è chiamato ad essere testimone. È questo il preciso, impegnativo ed esaltante mandato del Signore risorto. La "notizia" della vita nuova in Cristo deve risplendere nella vita del cristiano, deve essere viva e operante - in chi la reca, realmente capace di cambiare il cuore, l’intera esistenza. Essa è viva innanzitutto perché Cristo stesso ne è l’anima vivente e vivificante. Ce lo ricorda san Marco alla fine del suo Vangelo, dove scrive che gli Apostoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20).

La vicenda degli Apostoli è anche la nostra e quella di ogni credente, di ogni discepolo che si fa "annunciatore". Anche noi, infatti, siamo certi che il Signore, oggi come ieri, opera insieme ai suoi testimoni.
La celebrazione del Mistero pasquale, la contemplazione gioiosa della Risurrezione di Cristo, che vince il peccato e la morte con la forza dell’Amore di Dio è occasione propizia per riscoprire e professare con più convinzione la nostra fiducia nel Signore risorto, il quale accompagna i testimoni della sua parola operando prodigi insieme con loro. Saremo davvero e fino in fondo testimoni di Gesù risorto quando lasceremo trasparire in noi il prodigio del suo amore; quando nelle nostre parole e, più ancora, nei nostri gesti, in piena coerenza con il Vangelo, si potrà riconoscere la voce e la mano di Gesù stesso.

Dappertutto, dunque, il Signore ci manda come suoi testimoni. Ma possiamo essere tali solo a partire e in riferimento continuo all’esperienza pasquale, quella che Maria di Magdala esprime annunciando agli altri discepoli: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). In questo incontro personale con il Risorto stanno il fondamento incrollabile e il contenuto centrale della nostra fede, la sorgente fresca e inesauribile della nostra speranza, il dinamismo ardente della nostra carità. Così la nostra stessa vita cristiana coinciderà appieno con l’annuncio: «Cristo Signore è veramente risorto». Lasciamoci, perciò conquistare dal fascino della Risurrezione di Cristo.

giovedì 1 aprile 2010

4 Aprile 2010 - Pasqua di Risurrezione di nostro Signore

Gesù è risorto, alleluia! La notte di Pasqua ci siamo trovati, abbiamo acceso un fuoco all'aperto, ad esso abbiamo attinto la fiamma per accendere il cero Pasquale e le nostre candele battesimali e abbiamo letto il Vangelo della Resurrezione. Sì, Gesù è vivo e da qui parte ogni fede, ogni gioia, ogni riflessione. Abituati a fissare lo sguardo sul dolore del crocifisso, siamo ora invitati a compiere un gesto molto più difficile: credere nella Resurrezione. Se è relativamente semplice credere in un Dio che con noi condivide il dolore, è molto più difficile condividere con lui la gioia: la gioia ci obbliga a guardare oltre, ad alzare lo sguardo, a non restare chiusi su noi stessi. Abbiamo tutti motivi per soffrire, ma per gioire occorre superare la nostra natura, saper vedere le cose con gli occhi di Dio.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro, le donne li hanno avvisati: Gesù è scomparso. Corrono lasciando alle proprie spalle il proprio sordo dolore, il senso di colpa di Pietro per avere rinnegato l'amico, per avere oltraggiato il Maestro. Ma ora che importa? Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente.
Gesù è vivo: non rianimato, né tantomeno reincarnato (la reincarnazione contrasta il modo assoluto con la visione cristiana della resurrezione) ma vivo in modo nuovo. E' lui: mangia, sorride, parla. E' diverso: non si riconosce subito, appare all'improvviso, consola e dona lo Spirito. No, gli apostoli non si aspettavano questo. Se Gesù è risorto, la loro consapevolezza su di lui cambia radicalmente: Gesù non è solo un grande Rabbì di Israele, né solo un Profeta, né il Messia tanto atteso. E' di più: è l'impronta di Dio, il suo volto luminoso, è Dio diventato noi perché noi diventassimo lui. Da quella tomba vuota inizia il cristianesimo, alla luce di quella tomba vuota noi rileggiamo la vita di Gesù, le sue parole. Per questa ragione san Paolo afferma che negare la resurrezione significa negare la fede stessa. Se Gesù non è risorto è solo uno dei tanti bravi personaggi della storia spazzati via dalla ferocia degli uomini. Se Gesù non è risorto è solo un grande saggio che ha portato avanti con coraggio una bella idea. Se Gesù non è risorto siamo qui a celebrare un rito, a pensare ad un cadavere...
Gesù è vivo, amici. Che ci creda o no, che me ne accorga o meno, è risorto, vivo, straordinariamente vivo e presente, ora, qui, accanto me, accanto a te, se lo vuoi. La tomba vuota restituita a Giuseppe di Arimatea è il cuore delle fede. I cristiani l'hanno conservata con cura nei secoli e nei secoli l'ira dei non credenti si è scagliata contro quel luogo: Adriano fece costruire sopra la cava di pietra del Golgota un tempio pagano sulla ricostruita Gerusalemme diventata Aelia Capitolina. Dopo avere ridato splendore al sepolcro grazie a Costantino, imperatore cristiano, la Basilica dovette sfidare la dominazione musulmana, non sempre illuminata, per giungere fino a noi con le tracce della devozione popolare di duemila anni. Entrare al sepolcro è sempre un tuffo al cuore, toccare con mano quella tomba vuota, quella pietra nascosta da pacchiani marmi moderni è sempre una conferma: la morte non è riuscita a imprigionare Dio.
Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede, le nostre parrocchie, le nostre messe troppe volte celebrano un morto e non un vivente? Avremo cinquanta giorni (10 in più della quaresima!) per vedere come Gesù – ora - è raggiungibile, attraverso quali segni si rende presente. Apriamo il cuore alla fede: Gesù è davvero risorto!