giovedì 28 maggio 2009

31 maggio 2009 - Domenica di Pentecoste

La Chiesa per la sua missione e ogni cristiano per la propria esistenza ricevono vigore grazie al dono dello Spirito: il Paraclito, l’avvocato, colui che guida i credenti alla scoperta della verità. È il maestro interiore che insegna, fa ricordare, testimonia, convince il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, guida alla verità tutta intera e annuncia le cose future, glorifica il Cristo.
I discepoli saranno in grado di affrontare la missione che è stata loro affidata dal Risorto? Sono persone fragili: lo hanno dimostrato in occasione della passione e morte di Gesù. Solo lo Spirito può trasformarli in missionari coraggiosi, pronti a soffrire ed a correre ogni rischio pur di portare dovunque il Vangelo.
Questa è la novità della Pentecoste cristiana: l’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio.
Si comprende allora come senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, e l’agire morale un agire da schiavi.
Ma nello Spirito Santo il cosmo è nobilitato per la generazione del Regno, il Cristo risorto si fa presente, il vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale e anticipazione, l’agire umano viene deificato.

La Pentecoste, dunque, non è finita; essa continua nelle situazioni in cui vive la Chiesa; tutta la vita dei cristiani si svolge sotto il segno dello Spirito. A Pentecoste tutti i discepoli di Cristo sono chiamati a diventare testimoni. Questa missione ha alla sua origine un dono, il dono dello Spirito, che rende testimonianza al Cristo e trasforma chi lo segue in un testimone, attrezzandolo per saper affrontare ogni prova lungo il suo cammino. Un cammino che è ricerca, ricerca della verità, non è cosa facile, perché sono necessari da parte del credente silenzio e impegno.
Lo Spirito ci porta alla verità e alla libertà; ci libera dalla schiavitù di sentirci condannati sotto il peso dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze, pesi questi che possono appesantire drammaticamente il cammino della nostra vita, e prende la nostra difesa manifestandoci l’Amore che Dio nutre nei nostri confronti.
Non è possibile celebrare la Pentecoste riducendola ad un avvenimento di duemila anni fa’, da ricordare. Pentecoste è realtà di oggi, esperienza dei cristiani di oggi perché lo Spirito continua a guidare coloro che si aprono a lui. Li conduce a comprendere le Scritture, ad interpretare la storia di oggi, a percorrere strade inusuali e talora difficili, che hanno esiti insperati di speranza e di felicità.
Con la solennità di Pentecoste, il tempo di Pasqua si compie, ossia giunge alla sua pienezza e la Chiesa celebra la sua “nascita missionaria”. Lo Spirito di Gesù, che il Padre ha risuscitato dai morti, colma della sua presenza i discepoli. L’evento è una vera e propria Buona Notizia. Non solo per gli apostoli di ieri, ma anche per i testimoni di oggi. La venuta dello Spirito, annunciata dai profeti, si compie; le promesse di Gesù si realizzano. C’è una “creazione nuova” ed un nuovo popolo che si mette in cammino. Ecco quanto dovrebbe manifestare l’intera Celebrazione.

giovedì 21 maggio 2009

24 maggio 2009 - Ascensione del Signore

Ascensione vuol dire salita, ascesa verso gli spazi più alti e questo già è sufficiente a chiarire il senso della liturgia che oggi stiamo celebrando: la risalita al Cielo di Gesù, la sua scomparsa dal piano terreno, sensoriale, immediato per entrare nella sfera del divino - trascendente.
Una volta risorto dai morti, Gesù ha vissuto altri 40 giorni fra i suoi discepoli, è apparso agli apostoli e a tante altre persone, ha esortato alla perseveranza nella fede e soprattutto al ministero di annuncio della sua Parola ("Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura") e adesso sta salendo verso la dimensione del divino.
Ma che cosa comporta per gli apostoli l'avvenimento della salita al Cielo del loro Signore? Innanzitutto gli undici avvertono un certo senso di smarrimento e di angoscia per cui, attoniti e sconsolati, continuano a guardare la volta celeste fino a quando due (probabili) messaggeri di Dio non intervengono per rassicurarli con la promessa del ritorno di Gesù: si trovano in preda alla solitudine come orfani senza padre né madre mentre lo sconcerto e la preoccupazione si impossessano di loro al punto da ritrovarsi inceri e indecisi quanto al futuro. Chi non rimane deluso e sgomento quando nota l'assenza improvvisa di una persona che per lui era stata sempre importante? In simili circostanze chiunque avvertirebbe il peso del disorientamento e della solitudine, e gli apostoli ora non fanno eccezione sicché l'assenza di Gesù costituisce per loro una dura prova di non facile superamento. Ma la sparizione del Signore è tuttavia per loro anche uno sprone perché progrediscano più speditamente nella virtù e soprattutto nella maturità e nella responsabilità personali. Adesso che il loro Signore non sarà più riscontrabile con l'immediatezza dei sensi esterni, dovranno percepire la sua presenza, comunque certa e attiva, attraverso le prerogative della fede e dell'umiltà abbandonandosi alla speranza scaturita dalla Parola da Lui precedentemente annunziata; ora che non sentiranno più la sua voce materiale che li orientava e li indirizzava sul ministero e sulle scelte di organizzazione interna, dovranno provvedere essi stessi ad organizzare sotto tutti gli aspetti l'andamento della vita comunitaria e le varie iniziative per l'annuncio del messaggio di salvezza; ora che il Signore non è materialmente accanto a loro come quando compiva prodigi, dovranno essere essi stessi a dare segni della Sua presenza in mezzo al popolo attraverso la predicazione, la fermezza dell'apostolato e la carità.
Adesso insomma è il tempo della creatività e della spigliatezza missionaria che scaturisce dal previo, indispensabile, senso di formazione e di responsabilità personale nonché dal buon senso e dall'onestà nell'agire e dallo zelo operativo per il quale la causa del Vangelo assume priorità su tutto, anche sulla prospettiva di dover subire percosse e ritorsioni da parte dei nemici.
Come affermano gli esegeti, questo è il Tempo della Chiesa, in cui si è chiamati ad annunciare il Vangelo con coraggio e verve apostolica fino a quando il Signore Asceso non ritornerà alla fine della storia, esternando tutto il vigore che emerge dalla fede in Lui, esso non è limitativo ai primi apostoli ma interessa anche tutti e ciascuno di noi, che in forza dell'azione dello Spirito Santo, sulla scia e sull'esempio dei primi apostoli, siamo invitati a recare l'annunzio del Signore in ogni angolo della terra e d incarnare il Vangelo in tutte le circostanze del vissuto, specialmente in questo secolo confuso che più volte è stato tacciato di areligiosità e di indifferentismo etico e religioso per il quale si impone una nuova evangelizzazione. L' Ascensione del Signore comporta quindi per noi non la passività vuota dell'attesa ma l'entusiasmo attivo della missione e non può non vederci coinvolti in prima persona.
Oltretutto, come più volte si accennava nelle righe precedenti, l'Ascensione di Gesù non equivale alla sua assenza giacché egli, pur non immediatamente percepibile ai sensi, garantisce la sua costante vicinanza attraverso molteplici forme a addirittura ci rende certi della sua presenza reale e sostanziale nel Sacramento dell'Eucarestia che in modo del tutto speciale riafferma nella prassi quanto egli stesso aveva detto in precedenza:"Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" Si tratta certo di una presenza non tattile, che si richiede il ricorso fiducioso alla fede, e tuttavia pur sempre di una presenza reale, certa ed edificante che incoraggia il nostro stesso agire missionario e qualifica il vivere quotidiano da cristiani e per ciò stesso nell'Ascensione noi vediamo un monito all'esercizio delle virtù che ci responsabilizzano di fronte al Gesù non visibile eppure presente.

giovedì 14 maggio 2009

17 maggio 2009 - VI Domenica di Pasqua

"Amiamoci gli uni gli altri". E l'imperativo che l'apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l'amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un'esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l'esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l'ampiezza che giungeva sino all'amore per i nemici anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: "Amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (I Gv 4,7). L'apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L'amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco "eros". L'apostolo usa, invece, la parola "agape" per indicare l'amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.
Per comprendere l'amore di Dio (l'agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell'amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell'uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant'Agostino applicava all'uomo: "Inquietum est cor meum...". Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del "cuore inquieto di Dio": egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l'amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l'amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l'uomo. E lo è a tal punto "da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore di Dio, potremmo dire, "è in discesa", si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, "sino a dare la vita per i propri amici" come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: "In questo sta l'amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (I Gv 4, 10). E' Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. E', in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28).
Se l'intera Scrittura è la storia dell'amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell'amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l'amore è Gesù. L'amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito... L'amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L'amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito... Questo è l'amore di Dio. Davvero altra cosa dall'eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori... Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell'agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d'amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L'egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull'attrazione "naturale" sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L'eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d'essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l'agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell'io c'è l'altro. Gesù ce ne ha dato l'esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell'amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l'amore di Dio si incrocia, quasi sino all'identificazione, con l'amore vicendevole.
L'uno infatti è causa dell'altro. Un noto teologo russo amava dire: "Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!". Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L'amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L'agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l'amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11).

giovedì 7 maggio 2009

10 Maggio 2009 - V Domenica di Pasqua

C'è un'immagine estremamente espressiva: la vite e i tralci. Il tralcio è fatto per portare frutto. Se non porta frutto viene tagliato e si secca. Il tralcio che porta frutto viene potato perché porti più frutto, frutto abbondante. La stessa cosa è per noi: solo uniti a Cristo siamo vivi, portiamo frutto. E questo nella misura in cui accettiamo la potatura: così si può portare veri frutti, non a parole, ma coi fatti (come ci ha detto la lettera di Giovanni). Senza di me non potete fare nulla: così ci dice Gesù con amore e con chiarezza. Possiamo avere la sensazione o la illusione di fare tante cose da soli, anche senza Cristo. Queste parole a noi potrebbero sembrare presuntuose. "Non potete fare nulla". Nulla? A noi può sembrare il contrario: chi non crede in Gesù fa soldi, carriera, successo... Ma dobbiamo fare attenzione: il vangelo non lo si può addomesticare o dimezzare. Gesù è molto chiaro e va preso sul serio, perché in Lui c'è la verità e non le illusioni. Ci può essere anche un pericolo: di rimanere in unione con Cristo in qualche momento, quando preghiamo o facciamo qualche riflessione. Non è possibile per un tralcio essere un po' unito e un po' staccato, tanto più non è possibile per noi riferirci a Cristo ogni tanto, qualche volta, quando ci viene e in me o quando ci piace. "Rimanete in me e Io in voi": dobbiamo rimanere ed essere sempre uniti a Cristo, sempre e in ogni azione della giornata. E' una cosa pesante, difficile, noiosa? E' pesante, difficile, noioso respirare continuamente, o essere sempre sotto l'influsso del sole per vivere? Non c'è nulla di più facile, di più immediato, di più naturale. E' più difficile fare diversamente, lasciarsi andare ai propri capricci, se ne portano tante conseguenze di sofferenze e di morte: il tralcio secco, che non porta frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Senza di me non potete fare nulla. Con Cristo possiamo fare tanto, possiamo fare tutto. "Tutto posso in Colui che mi dà forza". "Nulla è impossibile a Dio". Abbiamo l'esempio di tanti Santi, i quali uniti a Cristo, hanno potuto fare cose grandi e hanno offerto alla Chiesa e all'umanità frutti prodigiosi di bene. La Parola ci aiuta a capire e a vivere il nostro rapporto con Dio: tralci uniti alla vite. Ci aiuta pure a capire e a vivere il nostro rapporto con gli altri, perché tutti facciamo parte dell'unica vigna del Signore, vigna curata dal Signore e dal suo Spirito che viene. S. Giovanni ci presenta la vita della comunità cristiana e ne sottolinea gli elementi più importanti. Ci invita ad amare non con parole, ma con i fatti e nella verità. Questo è il comandamento: che crediamo nel nome del Figlio Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri. Credere in Gesù e amarci gli uni gli altri: questo è vivere il suo comandamento per dimorare in Dio. "Rimanete uniti a Me" dice il Signore. E' importante partire dall'esperienza della preghiera e dell'amore davanti a Dio: momento forte di unità, di vicinanza con Lui, dove si trova luce, forza e si impara a rimanere uniti a Lui nella vita di ogni giorno. "Voi siete i tralci". I tralci sono persone concrete, di ogni giorno, persone che si incontrano al lavoro, nella strada. Nel mondo ci sono tralci che rivelano la presenza di una vite che è Cristo? Se la parola di Cristo è vera, ci devono essere persone nelle quali si possa vedere la vita di Cristo, il Risorto. Guardiamoci attorno: oggi quanti tralci vivi si vedono! Non fanno chiasso, come fa' chiasso il male: "Un albero che cade fa più rumore di un'intera foresta che cresce". Pensiamo ai cristiani che vivono e costruiscono le più varie forme di bene, nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle opere di carità, nel volontariato, negli impegni sociali. Pensiamo agli uomini straordinari del ventesimo secolo: Padre Pio, Don Luigi Orione, Raoul Follereau, il dottor Schweitzer, Padre Kolbe, Madre Teresa, Giovanni Paolo II e tantissimi altri... Domenico Mondrone ha pubblicato sei volumi col titolo significativo: "I Santi ci sono ancora". Sono tutte brevi biografie di donne e uomini straordinari di questo nostro tempo. Ecco allora un pensiero consolante: non è possibile questa fioritura di tralci senza una vite: non sono possibili questi uomini e queste donne senza una presenza di Cristo! Ma Gesù continua: "Ogni tralcio che in me non porta frutto il Padre lo toglie; e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto" (Gv 15,2). Questa potatura è il mistero che talvolta ci chiude gli occhi, perché non lo vogliamo accettare. E il motivo è questo: siamo tutti un po' materialisti; accomodati nel mondo e non pellegrini e forestieri in questo mondo. Ecco allora le prove, il dolore, le persecuzioni, la croce...: sono la strada erta e difficile che porta alla salvezza; sono la potatura, che se accettata, ci matura, ci fa portare frutti abbondanti, ci libera da tante mondanità. Nella prima lettura si è parlato di Paolo. Paolo non dubita di Cristo che l'ha chiamato sulla strada di Damasco. Sarà lui a dire un giorno: "lo sovrabbondo di gaudio in tutte le mie tribolazioni" (2 Cor 7,4). "Non ho niente eppure possiedo tutto" (2 Cor 6,10). "Completo in me la passione di Cristo" (Col 1,24). "Sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza" (Fil 4,12-13). L'esperienza di Paolo e quella ti tante anime belle e generose ci fa vedere che non sono parole, ma fatti. E' la storia di tante esistenze luminose, veri fari di bontà e di solidarietà, che dal legame con Cristo hanno tratto la forza necessaria per affrontare momenti difficili, per dare buona testimonianza, che hanno affrontato con coraggio - essi, tante volte semplici e poveri – situazioni gravose e hanno fatto risplendere la potenza e la vittoria di Cristo.