giovedì 19 ottobre 2023

22 Ottobre 2023 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
22, 15-21 
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 Possiamo definire la scena organizzata dai farisei nei confronti di Gesù con alcune incisive immagini: una riunione tra incapaci, un accordo subdolo e scellerato, un intervento di falsi discepoli, una richiesta untuosa e melliflua, una proposta trabocchetto per Gesù. 
È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù, proprio perché erano proprio i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, che si approfittavano apertamente della loro posizione per compiere i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, da lui indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai un nemico da combattere in ogni modo: per quella gente Egli è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, arriva a discreditarle apertamente! A questo punto, si riuniscono per decidere sul da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.
Ormai è guerra aperta, e riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di realizzare i loro progetti perversi, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune e, come dice il proverbio, “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con delle lodi chiaramente costruite, false, esagerate: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?” Anzi li paragona apertamente a satana, il tentatore: Matteo infatti utilizza qui lo stesso verbo “tentare” (peiràzo) usato nel racconto delle tentazioni (4,1).
Finiti i convenevoli, il gruppetto scopre immediatamente le carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento spinoso, controverso: “Dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente equivale a dire: “Devi dirci, qui davanti a tutti, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata: qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; dicendo “sì”, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse e quindi, riconoscendo l’invasore come “il signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); dicendo invece “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, scegliendo da solo la propria morte, veloce e sicura.
Vista la situazione, Gesù la capovolge immediatamente. E lo fa magistralmente, ignorando la loro provocazione e spostando i termini del discorso su un altro piano: “Mostratemi la moneta del tributo”.
Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio del “divino” imperatore.
Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa significa? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma la risposta continua: “Rendete a Dio quello che è di Dio”.
I doveri quindi sono due: uno nei confronti dello Stato, del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio.
Gesù non perde occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In altre parole, con un tono piuttosto irritato, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, che vi ritenete i depositari dell’alleanza con Dio, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi invece cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie; cercate di attirarlo a voi, predicando un Dio, che non è il vero Dio; subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo; vostro unico dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.
Il racconto ci offre infatti due spunti di meditazione, uno sulla domanda e l’altro sulla risposta di Gesù. Vediamoli nel particolare.
Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine incisa sulla moneta rappresenta la persona che l’ha fatta coniare, stabilisce quindi chi ne è il proprietario: quella di Cesare decreta che la moneta viene da lui, gli appartiene e a lui deve tornare.
Un discorso ovvio, che implica dei chiari riferimenti pratici: sappiamo infatti che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare! Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile dipendenza da Dio, significa tradire la vita che lui ci ha donato, significa vivere una non vita, cadere in un falso vivere, in una finzione esistenziale: per cui qualunque nostro legame ad altre realtà che non siano Dio, qualunque attaccamento a persone, a cose, al mondo intero, svilirebbe, deturperebbe la nostra somiglianza divina, ci renderebbe schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremmo mai più completamente liberi come prima.
Ci capita mai, guardando il cielo stellato, ammirando la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci “parte” di tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, una nostalgia di cose grandi, immense? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, a chi apparteniamo, chi è il nostro vero padre (Dio l’Altissimo).
Altra considerazione: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare, ciò che appartiene allo Stato”: è quindi nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi ci arricchiamo e gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere.
Ma la risposta di Gesù si presta ancora ad altre considerazioni: non basta restituire il dovuto a Cesare, non basta riconsegnare la nostra anima a Dio; c’è un altro dono essenziale, di proprietà divina, che Dio concede in uso all’uomo, e che gli deve essere restituito: la vita! Ogni giorno, infatti, Dio ci offre gratuitamente la meravigliosa possibilità di poter dire: “Sono vivo!”.
Purtroppo la vita per molti è un fatto scontato: non l’apprezzano, non sanno che farsene del tempo, delle giornate, mesi, anni che hanno a loro disposizione; continuano a lamentarsi con Dio per qualunque banalità, piuttosto che ringraziarlo umilmente per questo suo incalcolabile dono.
La vita è invece un dono che va custodito, onorato, amato: non ci è “dovuta”, non ci appartiene, un giorno dovremo riconsegnarla nelle mani di Colui che ne è il padrone assoluto. Finita la vita presente, non ne abbiamo un’altra di scorta con cui poter rimediare al tempo sprecato in questa: quello che non facciamo oggi non potremo farlo mai più.
Viviamola allora seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: abbiamo solo questa per amare, agire, provare, sentire, per realizzare i nostri ideali, per diventare insomma ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere pienamente. Rimaniamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ascoltiamo ciò che il nostro corpo ci grida: “Voglio vivere: voglio sentire la fragranza dei prati, della natura in fiore, il profumo del mare; voglio provare la gustosità del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi per i miei progressi, correre, ridere spensieratamente, svagarmi, accarezzare, abbracciare, amare; voglio piangere quando sto male, condividere il dolore degli altri, commuovermi per la loro gioia; voglio inseguire i miei sogni, lottare per un mondo migliore e sentire che il tempo che mi è stato concesso non sta fuggendo invano, ma ha un senso profondo e meraviglioso per me e per il mondo intero. Sì, voglio vivere!”.
Se arriveremo a tanto, quando moriremo saremo in grado di restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: ci troveremo ancora, cioè, nel pieno della vita. A Dio che ce l’ha consegnata, riconsegneremo allora una vita palpitante, con tutto il suo entusiasmo, con tutto il suo fascino: certamente non nella immobilità mortale dei rinunciatari, dei falliti, di quanti si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
Certo, l’uomo è un essere molto particolare: si lamenta, impreca, quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare, non sa viverle adeguatamente quando sono nella sua disponibilità; non capisce che all’amore si risponde con amore: che per amore ha ricevuto la sua vita, e con amore deve restituirla al suo proprietario. Amen.

 

 

giovedì 12 ottobre 2023

15 Ottobre 2023 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 22, 1-14 
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La parabola di oggi paragona il Regno di Dio ad un banchetto nuziale: un’immagine molto accattivante, molto conosciuta e comprensibile a tutti. Quale occasione infatti è più aggregante e gioiosa per parenti e amici di un matrimonio da favola, con un sontuoso pranzo di nozze? 
Le nozze celebrano l’unione di due persone, sanciscono l’amore, la comunione di due cuori; sono l’apertura di una finestra sul mondo della speranza, della novità di vita, della intensità di sentimenti.
Non a caso i contemplativi parlano di nozze dell’anima con Dio, per indicare l’incontro intimo, il matrimonio celestiale, l’unione mistica dell’anima col suo Sposo divino.
Ai nostri giorni, essere invitati al matrimonio di una personalità molto importante, è una circostanza impegnativa, di grande rilievo, molto ambita e apprezzata, un segno di particolare stima, di amicizia, di considerazione.
Lo era anche ai tempi di Gesù: le nozze erano considerate un evento importantissimo, duravano una settimana, il banchetto era fornitissimo, straricco, e per chi riusciva a malapena a mangiare una volta al giorno, era un’occasione imperdibile; il non andarci era impensabile, perché rifiutare l’invito significava, sì, perdere un lauto pranzo gratuito, ma soprattutto offendere gravemente gli sposi: era un affronto, cui spesso potevano seguire spiacevoli conseguenze. Tant’è che il re della parabola, indispettito per il rifiuto degli invitati, non capacitandosi di tanta stupidità, manda per ripicca i suoi servi nelle piazze, nei crocicchi, per le strade, per invitare a nozze chiunque incontrino.
Cosa vuol dirci Gesù con questa parabola? Il significato più semplice, quello evidente, è che tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, saremo un giorno invitati all’eterno banchetto celeste: ripeto, tutti! anche quelli più umili, quelli più poveri (gli straccioni), quelli, in una parola, che sono considerati il rifiuto della società. Tutti prima o poi verranno chiamati alla presenza di Dio e per tutti, indistintamente, varrà un’unica condizione: indossare la veste nuziale, la veste della “grazia di Dio, nuova, immacolata, o quantomeno lavata e stirata dal Sacramento della Penitenza e dalle “opere buone”.
Ma non basta: questa parabola ci offre, per l’immediato, anche un’altra interessante spiegazione: quel banchetto nuziale, cui tutti siamo invitati a partecipare, si tiene nell’anima di ciascuno: Dio, che la inabita, invita tutti ugualmente ad entrare in quella loro personalissima esperienza di amore, di felicità, di intimità con cui il Figlio celebra le sue nozze col nostro cuore, con la nostra anima.
Entrarvi, significa entrare nell’intimità con Dio, rapportarsi con Lui nel silenzio della nostra coscienza per dare un senso alla nostra vita.
Quando il cuore e l’anima dell’uomo entrano in simbiosi con Dio, l’unione mistica che si instaura tra di loro, non è altro che una pallida anticipazione dello stato di perenne beatitudine che proveremo nel banchetto paradisiaco.
Gesù pertanto ci invita insistentemente a “partecipare” a questo banchetto, a saziarci di Lui, a “vivere” la nostra anima, e questo fin da subito, immediatamente.
Viviamola allora questa nostra anima così dimenticata! Viviamola intensamente, non abbandoniamola, non ignoriamola, non oltraggiamola. Se oggi la gente è depressa, esaurita, non ha più voglia di vivere, è perché ha dimenticato di avere un’anima, ha dimenticato completamente di rifugiarsi in essa, di trovare in essa la soluzione di tanti problemi, instaurando un colloquio intimo, umile, sincero, con lo Spirito di Gesù, che l’ha scelta a sua stabile dimora.
Un quarto degli italiani prende farmaci contro l’ansia e la depressione: c’è chi li prende per dormire, chi per alzarsi la mattina, chi per non deprimersi, chi per controllare l’aggressività, chi per sopportare le contrarietà della vita. In una parola, cercano di trovare la forza necessaria per “sopportare” la vita. Ciò che dovrebbe essere fonte di felicità, è diventato un peso da sopportare: perché tutto appare vuoto, inutile, tutto è vertiginosamente proiettato all’esterno; l’introspezione, la meditazione, la riflessione, sono categorie sconosciute all’uomo moderno, sono “out”. Oggi la persona è continuamente proiettata all’estremo: attività estreme, sport estremi, viaggi estremi, esperienze estreme, vacanze estreme, sesso estremo. Il vivere “ordinario” non offre più nulla, non emoziona più, non ha più stimoli apprezzabili.
Solo che nessuno si accorge che dopo lo “sballo estremo”, segue il collasso interiore, la depressione, la disperazione: guardandoci alle spalle, ci rendiamo conto di aver ignorato e calpestato i limiti di un sano equilibrio, di aver sperperato ogni possibilità di ascoltarci nel profondo, di seguire quei suggerimenti che Dio, pazientemente, continua ad inviare al nostro cuore, all’anima, alla mente. Abbiamo, in poche parole, soffocato stoltamente la nostra anima.
Ma cosa vuole esattamente da noi quest’anima? Semplice. Vuole la nostra salvezza, il nostro star bene, il nostro andare incontro a Dio, lo Sposo; l’anima vuole il meglio per noi, per la nostra vita spirituale, vuole farci capire i veri motivi per cui valga la pena di vivere.
Ci siamo mai chiesto “perché” viviamo? Quale sia lo “scopo” ultimo della vita? Proviamo a chiederlo alle persone che ci stanno intorno, a quelle che incontriamo: “Perché vivi?”; vi assicuro che le risposte saranno tutte di una banalità spiazzante, perché nessuno conosce più la ragione per cui vive: la vera, l’unica, profonda, trascendente ragione, per cui merita veramente vivere: c’è chi vive per il lavoro, chi per il denaro, chi per fare carriera, chi per i figli, chi perché “questa è la vita che fanno tutti”! Nessuno si sognerebbe più di rispondere: “Per amare e servire Dio fedelmente”. 
Ma se ignoriamo questo motivo fondamentale, vuol dire che alla nostra vita manca autenticità, vuol dire che tiriamo a campare, trascinando i giorni, senza alcun mordente; vuol dire che siamo pronti a cogliere al volo qualunque occasione, anche quelle più astruse e inconcludenti, pur di dare una parvenza di senso alla nostra vita.
Non penso di esagerare: è sufficiente guardare le “moderne” trasmissioni televisione: un concentrato di nullità, che ogni giorno esibisce una folla di deficienti (nel senso che hanno un deficit di anima) orgogliosi di fare sfoggio della loro preoccupante insipienza; gente che si cimenta in comparsate insulse, che paga un prezzo esoso in termini di dignità, pur di “esserci”, di essere ammirati, notati, imitati: già, l’etichetta che oggi tutti i nullafacenti di professione ambiscono è “influencer”! Persone purtroppo che pur di raggiungere un soffio di notorietà, ancorché beota e insignificante, svendono la loro anima accettando qualunque compromesso.
Ma cos’è che fondamentalmente manca a questa società? Manca la percezione della presenza di Dio, manca l’ascolto dell’anima. Non la sentono più, non sanno neppure cosa sia. Non è un caso che oggi tantissima gente, giovani e meno giovani, amino così tanto le discoteche: quelle sale in cui una musica collassante stordisce, inebetisce, copre e annienta tutto: con migliaia di watt sparati nelle orecchie, in uno stato confusionale e catatonico per alcool e droga, non c’è discorso, non c’è emozione, non c’è ispirazione dell’anima che tenga: si immergono tragicamente nel loro nulla. Salvo poi apprendere dai telegiornali i tragici risultati di tale alienazione.
È una difficile e drammatica situazione: ma l’invito di partecipare alle nozze in casa del “Re” vale anche per loro, per tutti questi “storpi”, “zoppi”, “ciechi”; ma la loro veste nuziale? Ecco: spetta a tutti noi cristiani il compito di aiutare questi nostri fratelli nella ricerca di una loro veste nuziale, decorosa e appropriata: con il buon esempio, con l’umiltà, con la carità, con tutta la nostra buona volontà: proprio perché, in cuor nostro, sappiamo bene di non essere dei santi, di non essere più meritevoli di loro. Troppe volte infatti anche noi ci “perdiamo” per strada, viviamo da “frastornati”, in sbandamenti spiritualmente preoccupanti; capita purtroppo anche a noi di buttarci allo sbaraglio, di “fuggire” dalla “prigione” della nostra anima.
Dobbiamo fermarci! Tiriamo i freni, usciamo dall’autostrada invitante e comoda di questo mondo provvisorio, e imbocchiamo a piedi quel sentiero solitario e silenzioso che porta al nostro cuore: e ascoltiamoci! Facciamolo, perché il vero coraggio, quello autentico, non sta nel combattere contro i mulini a vento, contro un mondo vanesio e insignificante, ma nell’ascoltare la propria anima, nell’obbedire alla propria coscienza, al proprio cuore.
Oggi purtroppo, anche tra i cristiani, sono veramente pochi quelli che conoscono il piacere che viene dall’anima. Tutti cercano il piacere, nessuno cerca l’anima. Ci accontentiamo dei surrogati di felicità: ci copriamo di “giocattoli” costosi (auto, gioielli, telefonini, vestiti, ecc); cerchiamo esperienze inebrianti ai limiti dell’assurdo, ci tuffiamo nel virtuale (internet) isolandoci dal reale; cerchiamo ogni tipo di piacere: del sesso, della tavola, della gloria, della notorietà.
Purtroppo però, in profondità, la nostra anima urla per la mancanza di qualcosa che le dia “vita”. Sente e soffre per l’assenza di ciò che nessuno può comprare, che nessuno può regalare, se non Dio stesso: il soffio Vitale, la carezza dello Spirito.
E allora pensiamoci: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che serve?! Amen.

 


giovedì 5 ottobre 2023

08 Ottobre 2023 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
21, 33-43 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». 

Per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci ripropone il tema della vigna del Signore. Prima abbiamo visto la parabola degli operai dell'ultima ora e del padrone buono, poi quella del comportamento contraddittorio dei due figli all’invito di andare a lavorare; oggi abbiamo quella degli affittuari assassini che vogliono impossessarsi della vigna in cui lavorano e finiscono per uccidere, oltre agli incaricati alla riscossione, anche il figlio del padrone.
Da notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Il padrone di oggi, poi, va addirittura oltre ogni aspettativa, rasenta addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene ucciso.
L’allusione è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo eletto. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servitori sono i profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato nella sua “vigna” per richiamare il popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. Alla fine Dio ha inviato anche suo Figlio, e di fronte alla sua crocifissione e morte, ha trasferito altrove il suo Regno, fondandone uno nuovo con altri popoli. È il primo grande esempio, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio si ferma dove viene accolto, fa l'impossibile per farsi amare: se ciò non avviene, in punta di piedi se ne va.
La vigna è il segno dell’amore infinito di Dio, è la proposta di felicità completa, di vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli si rivolge automaticamente ad altri popoli, ad altri contadini: un fenomeno che puntualmente si è ripetuto lungo i secoli: quando la fede di un popolo si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quando quella fede muore, la Vigna di Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce altrove.
Questo dovrebbe preoccuparci seriamente, perché anche da noi la fede sta purtroppo perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo entusiasmo, la sua vitalità; di questo passo, tra breve, non ci sarà più traccia di quel cristianesimo profondamente vissuto e amato dai nostri padri. 
È una parabola tragica quella di oggi: una parabola che dovrebbe veramente farci riflettere, perché è la storia di Dio e dell’umanità: è la nostra storia, è la storia delle nostre incomprensioni; è la storia del dolore di un Padre per le nostre infedeltà, di quel dolore di Dio, che noi alimentiamo con i nostri continui rifiuti.
È la storia di questo nostro Dio sconsiderato, che continua a insistere, a ripetersi; la storia infinita di una Padre che continua a mettere a repentaglio la vita di suo Figlio, inviandocelo vivo ogni giorno nell’Eucaristia, pensando di suscitare in noi, con tale  sovrumana e impensabile prova d’amore, rispetto, adesione, cambiamenti che al contrario da noi non arrivano! Come i vignaioli perversi, noi continuiamo a rifiutarlo.
Ma perché? Forse Dio non è abbastanza buono con noi? Non dimostra di amarci abbastanza? Ci sentiamo ingannati? No, al contrario! Perché Egli ci guarisce sul serio, ci fa risorgere, ci sfama, ci perdona, ci illumina, ci fa sentire insomma perdutamente amati. Ma allora perché lo rifiutiamo? Cosa dovrebbe fare più di quanto ha fatto e continua a fare? Cosa dovrebbe promettere più di quanto ha già concretamente promesso? Cosa dovrebbe ancora dimostrarci, per essere accettato, amato, accolto nel nostro cuore? Assolutamente nulla! 
Abbiamo avuto e sentito tutto, sappiamo tutto; tutta questa sua “grazia”, incessante e continua, dovrebbe bastarci, come scriveva Paolo ai Corinzi (2Cor 12,9): solo che purtroppo, nella nostra “infermità”, rimaniamo impenetrabili, non assorbiamo nulla: siamo fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno grazie a Lui; non vogliamo vedere la bontà di chi ci aiuta, di chi ci sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i loro difetti, le loro lacune, le loro debolezze, senza mai riuscire ad apprezzare il bene, la cortesia, la gentilezza, la premura, di cui essi ci circondano. 
A volte ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno di essi viene a mancare. Soltanto quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse importante, di quanto ci amasse. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore, finalmente, si aprono: ma è ormai troppo tardi. Ma allora, perché non farlo prima? Perché rimanere talmente incentrati nel nostro ego da lasciare che anche un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, basti a distruggere migliaia di gesti d’amore? 
Siamo la copia esatta dei vignaioli: come loro, dimostriamo solo egoismo: vogliamo possedere, possedere, possedere tutto anche l’impossibile: ma la “vigna” non è nostra. Noi dobbiamo solo renderla fertile e fruttuosa: dobbiamo lavorarla, amarla, custodirla, senza poterla possedere. Non ci appartiene! La vigna è la nostra vita. Che non è nostra! Non ne siamo i padroni, non possiamo campare alcun diritto su di essa, prima o poi dovremo lasciarla, anche se in realtà ci comportiamo come se fossimo immortali.
Illusi! Non ci rendiamo conto che al massimo 
possiamo decidere come vivere, mai di vivere “per sempre”! Tutto è dono, tutto ci è gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo dobbiamo fidarci di Lui, abbandonarci a Lui, alla Vita; tutti noi siamo nelle sue mani: esistiamo, siamo vivi, ma non siamo “nostri”! 
Quanta pazienza ha Dio con noi! Anche quando, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, quando cerchiamo di sovvertire l’ordine, quando non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio non ci abbandona; anzi ci manda continui “messaggi”, degli avvertimenti importanti: “Stai attento perché le cose così non vanno!”. Ma noi molto spesso non ce ne curiamo, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di nulla. 
Già, siamo tutti concordi nel definire stupidi, cialtroni, assassini, quei lavoratori; ma noi? Forse che noi accettiamo con profitto i “messaggi” che Gesù ci manda? E non sono pochi, sono invece tanti e frequenti: così quando siamo insoddisfatti, quando siamo nervosi, irritabili, quando non proviamo più stupore, né gioia, quando non ci entusiasmiamo più per nulla; quando la vita cristiana è un peso, la Chiesa è un peso, la famiglia è un peso; ecco, sono tutti segnali della nostra anima che langue, che sta morendo. Sono messaggi importanti. Non illudiamoci attribuendoli al super lavoro, ad un periodo particolarmente critico, pensando che prima o poi tutto si sistemerà. Non è così,! I segnali che Dio ci manda, vanno ascoltati. Smettiamola di continuare a comportarci stupidamente da vignaioli omicidi. Amen.

 

 

giovedì 28 settembre 2023

01 Ottobre 2023 – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 21, 28-32 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Non ne ho voglia. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore. Ma non vi andò”. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

Non dobbiamo stupirci se Gesù oggi insiste, continuando la lezione di domenica scorsa, nell’impartirci ulteriori insegnamenti: uno in particolare, altrettanto provocatorio, altrettanto indigeribile, ma altrettanto essenziale. Dio, cioè, non gradisce l’esteriorità, il manierismo, i giochetti politici; non ama il doppio gioco, il nostro far vedere una cosa e pensarne un’altra, esibire in chiesa una grande devozione, espressione di fede profonda, e poi, appena fuori, far finta di nulla e rivestirci disinvoltamente di tutte le nostre misere furbizie. Sono accorgimenti che conosciamo molto bene anche noi! Ma conoscerle non basta!
Perché se c’è una cosa che manda su tutte le “furie” il nostro Padre misericordioso, una cosa che lo “irrita” profondamente, non è tanto il peccato, il mancargli di rispetto, ma il comportamento falso, l’ipocrisia come sistema farisaico di vita, l’essere cioè “sepolcri imbiancati”, belli all'esterno, ma dentro “pieni di ogni putridume” (Mt 23,27), in quanto pretendiamo di fargli accettare per buone, sincere e convinte le nostre intenzioni, le nostre azioni, la nostra vita, quando invece sappiamo perfettamente che non lo sono proprio.
Possiamo dire, quindi, che con la parabola di oggi Gesù stabilisce la fondamentale differenza tra il “dire” e il “fare”, tra “l’apparire” e “l’essere”: i due figli, di fronte all’ordine del padre di andare a lavorare nella vigna, si comportano in modo ambiguo: il primo dice “sì” ma “non ci va”, l’altro dice “no” ma poi, ripensandoci, obbedisce all’ordine del padre.
Entrambi, ovviamente, si comportano negativamente: tuttavia Gesù dimostra di preferire, tra i due, il ribelle, il contestatore, quello che impulsivamente dice “no”, quello che ha il coraggio di esprimere con franchezza il proprio pensiero, che non teme di esporsi, di mettersi in discussione; quello che poi, ragionando con calma, decide di obbedire e va a lavorare; per Gesù questi è decisamente più rispettabile dell’altro che, preoccupato di mantenere la sua immagine di figlio educato, rispettoso, perfetto, risponde prontamente “sissignore”, ma in realtà non muove un dito.
L’insegnamento che Gesù vuol qui trasmettere è chiarissimo: Egli non gradisce dai suoi figli, dalla sua Chiesa, risposte inconcludenti; non vuole cioè una religiosità di facciata, epidermica, senza senso, che si ferma superficialmente al rito, all’esibizione canora, all’omelia reboante, ad una fede ostentata, falsa, infruttuosa.
Purtroppo oggi, con la progressiva scristianizzazione della società, è in costante crescita il numero di persone che se ne fregano dell’esistenza di Dio, che vivono nell’indifferenza, nell’ignoranza religiosa più totale; di persone che credono anche, ma si comportano in costante contraddizione con quel che in chiesa professano di credere; in pratica di cristiani che adottano uno stile di vita inconcludente, amorfo, in netto contrasto con quel “Credo” che a voce alta professano ogni domenica davanti alla comunità; di quei cristiani, insomma, che esternamente rispondono sempre con un “sì”, e poi, nella realtà, lo traducono puntualmente in un “no”! Oggi sono tanti, tantissimi, troppi i cristiani sordi alla chiamata di Dio, insensibili alle vibrazioni spirituali dell’anima, indifferenti alla passione e all’amore di Dio.
Dobbiamo onestamente riconoscere che i due figli della parabola rappresentano in maniera perfetta i cristiani di oggi.
Un po’ tutti, infatti, assomigliamo a quel fantoccio di figlio che risponde sempre “si” al padre, senza mai fare nulla, a quella “icona”, a quella immagine deludente di cristiano superficiale e parolaio! Anche noi rispondiamo troppo spesso con un “sì”, forse trascinati dall’emozione di udire dentro di noi la voce di Dio che ci chiama; ma il nostro “sì”, sopraffatto dall’indolenza, fagocitato dalla pigrizia, dal disinteresse, si rivela inutile, nei fatti diventa un “no”, che annulla qualunque nostra debole e superficiale velleità.
Succede anche però che talvolta ci immedesimiamo con l’altro figlio, e alla chiamata di Dio che vuol affidarci un compito, reagiamo d’impulso con un rifiuto: “No, non lo faccio, non ci vado!”. E perché mai? Semplice: nella nostra fede ottusa, insignificante, rimaniamo sospettosi, diffidenti, non capiamo ciò che Dio ci chiede; nella nostra meschinità pensiamo si tratti di qualcosa troppo difficile, impossibile, di un impegno serio, pesante, che implica una costante applicazione, tantissimo sacrificio. No, meglio evitare; e ce ne stiamo immobili, bloccati dalle paure, dagli scrupoli, dall’egoismo, forse anche dalla vergogna di apparire “troppo credenti” di fronte agli altri: insomma non vogliamo correre rischi. Solo che subito dopo, rientrati in noi, rinsaviti, capiamo immediatamente l’enorme importanza di essere scelti da Dio, di essere considerati delle creature speciali, “amate” personalmente da Lui; ci rendiamo conto della nostra stoltezza, e reagendo al nostro indolente immobilismo, con ritrovata sincerità, con cuore aperto, gli esprimiamo il nostro “sì”: un sì, però, che ci procura anche timori, paure, insicurezze, preoccupazioni, a causa della nostra volubilità di cristiani tiepidi e incostanti.
Al contrario, quando sentiamo la voce di Dio, quando intuiamo ciò che Lui vuole da noi, impariamo a non fare calcoli: smettiamola di tergiversare, di far finta di nulla, usciamo coraggiosamente dal nostro guscio, abbandoniamo le nostre false e inutili sicurezze: riprendiamo in mano la nostra vita. Certo, abbiamo bisogno di una grande onestà, di un grande rispetto per la volontà di Dio: un rispetto profondo, umile, sincero, risolutivo. Lasciamo pure che siano le canne al vento, aride e secche, a fare chiasso sbattendosi tra loro per farsi notare. Noi, lavoriamo sodo, nel silenzio, nella riservatezza! Guardiamo l’uomo Gesù: autentico, trasparente, coraggioso, ben lontano dalle nostre piccole e grandi bugie, dalle nostre meschinità: seguiamo le sue orme e cerchiamo di essere anche noi come Lui, uomini “del sì” forte, inflessibile, definitivo. È vero: essere onesti, sinceri, trasparenti, non ci garantisce una vita tranquilla, lo sappiamo; ma ci farà sentire uomini e donne completi, realizzati, soddisfatti. Non ci farà guadagnare tanti soldi e forse neppure tante amicizie, ma conferirà alla nostra vita una dignità che nessuno potrà mai offrirci: quella di sentirci cristiani autentici, figli di Dio, amati e benedetti.
Evitiamo allora di indossare davanti a Dio il nostro vestito “della festa”, quello del perfetto cristiano, del credente fedele e devoto; indossiamo invece quello modesto e “rattoppato” del debole ma sincero cercatore di Dio, del discepolo innamorato che cerca di rispondere degnamente alla sua chiamata non a parole, ma con azioni concrete. Senza questa integrità, senza questa convinta e devota adesione, finiremo sicuramente col perdere la strada giusta, col tradire la fiducia che Egli ha riposto in noi; finiremo col costruirci un altro Dio da adorare, un Dio accomodante che ci assomiglia e ci accontenterà sempre e comunque; una religione fine a sé stessa, che si esaurirà nell’esteriorità della preghiera e del culto, nella menzogna e nel disinteresse! Non illudiamoci oltre: è ora di vivere finalmente da veri cristiani; smettiamo di celebrare il Dio della vita con azioni di morte!  Comportiamoci da persone autentiche con Lui. Preghiamolo da figli innamorati, non da esibizionisti ciarlatani: soprattutto non temiamo di presentarci a Lui nell’imbarazzante nudità dell’essere così come siamo: figli umili, fragili, certamente peccatori, ma animati da tanta buona volontà, consapevoli del suo aiuto e del suo immenso amore. Amen.



giovedì 21 settembre 2023

24 Settembre 2023 – XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 20,1-16
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 Può sembrare, in prima battuta, che Gesù con questa parabola, intenda condannare la logica umana della “ricompensa”, secondo cui Dio ci amerebbe e ci premierebbe solo in proporzione della “quantità” e della “durata” del nostro lavoro, della nostra fatica: in una parola, in base ai nostri “diritti” acquisiti. 
Ma non è così; Dio non ci premia per soddisfare un nostro “diritto”; Dio non usa alcun parametro sindacale: la sua giustizia e il suo amore non sono legati ad alcuna legge economica del tipo: “Hai lavorato tot, eccoti tot”. Quello che ci gratifica di fronte a Dio è solo ed esclusivamente la “qualità” del nostro lavoro, mai la sua “quantità”!
Purtroppo è proprio la mentalità meritocratica, radicata nell’uomo, che ci porta a pensare in questi termini: “Io sono sempre andato in chiesa, gli sono stato vicino, ho fatto tanto del bene; quindi è impossibile che Dio mi ripaghi allo stesso modo dei “lontani”, di quelli che nella loro vita non hanno mai fatto nulla per Lui! Dio per questo mi amerà sicuramente di più!”. No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri uomini tuoi fratelli.
Anche perché “essere vicini” a Gesù, “stare” con Lui, “accompagnarsi a Lui”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”, che è l’unico modo per rapportarci con Lui. Gli apostoli, per esempio, durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”, non si “compenetravano” con Lui: “seguire Gesù” infatti è capirlo, custodire nel proprio cuore i suoi insegnamenti, attivarsi concretamente per metterli in pratica: in una parola, “seguire” significa “amare e vivere il suo Vangelo.
Anche oggi, purtroppo, c’è troppa gente che “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge salmi e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. Quando però a fine “giornata” si presentano a Dio, convinti di essere fedeli lavoratori, assidui operatori del sacro, e si aspettano per questo la ricompensa, rimarranno delusi; perché in realtà è come se nella loro vita non avessero mai lavorato; in effetti non hanno mai sopportato alcun disagio, alcun “pondus diei et aestus”; non hanno mai amato veramente, non hanno mai capito cosa comportasse veramente la loro “sequela”, non l’hanno mai vissuta nel loro cuore e nelle loro opere, per cui non è possibile immaginare alcuna ricompensa: la loro aspettativa di premio è improponibile. Se comunque “paga buona” ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, dalle sue infallibili e amorose valutazioni, non certo dalle loro pretese.
Ora, pretendere davanti a Dio di superare nei meriti tanti nostri fratelli, che riteniamo meno dotati di noi, ricorrendo ad astiosi confronti, significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto rancore, condizionare il proprio cristianesimo, la propria fede, ad una stupida, inutile gara.
Ed è proprio su questo particolare aspetto che Gesù, con il vangelo di oggi, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”.
Già, l’invidia: le sue parole non sono un paradosso, non si riferisce a situazioni inverosimili, fantasiose; pensiamoci un attimo: non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci, se in qualche prova, in qualche esame, viene “scelto” e premiato un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché uno, che pensavamo amico, ha invitato altri e non noi a qualche evento importante? Ecco: tutti, in qualche modo, siamo “invidiosi”: e lo siamo perché, nel nostro innato egocentrismo, nel profondo del cuore e della mente, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici in assoluto meritevoli di considerazione.
Purtroppo l’invidia è il nostro peso quotidiano: è un sentimento malevolo, che effettivamente ci destabilizza, ci toglie ogni imparzialità, ogni visione realistica: non ci accontentiamo mai di ciò che abbiamo, non lo gustiamo, non lo viviamo, vogliamo sempre di più, con il risultato che questo continuo confrontarci con gli altri ci distrugge, ci rovina la vita, fino a portarci ad odiare stupidamente, senza motivo, il nostro prossimo.
Non ci rendiamo conto che questo continuo, maniacale, confronto con gli altri, è una competizione che continuerà ad evidenziare la nostra persistente inferiorità: perché nella vita ci sarà sempre qualcuno che è più di noi, che ha più di noi, che sa più di noi, che è più bravo, più apprezzato, più bello di noi. La vita a questo punto diventa un’ossessione, una irrazionale gara che non ci vedrà mai vincitori.
Ecco: è proprio questa esagitata ossessione che Gesù oggi condanna.
E lo fa perché ci invita a guardare unicamente noi stessi: perché ciò che conta nella vita è capire che davanti a Dio siamo tutti “figli unici”, siamo una realtà unica, persone irripetibili, siamo “noi” e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, più degli altri, decretiamo il nostro fallimento: ci dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore.
La “parabola” del vangelo di oggi ci dimostra infatti che Dio ama tutti indistintamente, sia coloro che lo “seguono” attivamente dal mattino della loro vita, sia quelli che rispondono alla sua chiamata a sera inoltrata. I primi non devono aspettarsi un trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che aumenta i meriti, Dio non ci premia, come pensiamo noi, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza più provata, più coerente. Il premio finale del suo amore eterno è destinato, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora, a condizione, unica e inderogabile, di essere “operatori” di “qualità”, di amore, non di “quantità”, di “numeri e durata”.
Noi battezzati, dobbiamo pertanto smettere di pensare come ci fa comodo: “è vero che Dio ama tutto il genere umano, ma sicuramente i “segnati”, i battezzati come noi, i prediletti, quelli che praticano il Vangelo di suo Figlio, i santi, sono amati da Dio sicuramente più degli altri”.
Quanti “cristiani”, pii e religiosi, continuano ancora a dissentire sull’insegnamento della parabola odierna; non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita intera passata nei bagordi, negli ozi e nel peccato, fregandosene di tutto e di tutti, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi, che abbiamo lavorato e “faticato” tutta una vita per questo!”.
Come abbiamo visto, però, niente è più falso: perché ammesso pure, per assurdo, che i “battezzati” siano veramente tutti “santi”, le parole di Gesù sono categoriche, non ammettono false sicurezze, escludendo “a priori” qualunque fraintendimento personale: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Questa è la verità, dobbiamo farcene una ragione e accettarla umilmente.
Evitiamo dunque interpretazioni personalistiche e fantasiose del Vangelo; rinunciamo all’assurda pretesa di essere comunque i più meritevoli. Guardiamo piuttosto negli altri ciò che realmente sono: “fratelli”, figli dello stesso Padre, che lavorano nella medesima vigna paterna, obbedendo anch’essi alla Sua chiamata. Accettiamolo con dignità, umiltà, e grande amore.
Non perdiamo tempo nelle meschinità: ringraziamo invece Dio, ogni giorno, per averci comunque chiamato a lavorare nella sua vigna, pur non disponendo di alcuna “specializzazione”, di alcun attestato di “merito”; ringraziamolo anche per la possibilità offerta a tutti gli altri “operai”, nostri fratelli (compresi quelli dell’ultima ora), di poter meritare, come noi, la sua stessa grazia trasformante. La bontà di Dio ci faccia finalmente uscire dalle ristrettezze di una fede “sindacalizzata”, e trasformi questa nostra breve “giornata lavorativa”, in una anticipazione, ancorché pallida, di quella gioia, di quell’immenso fuoco d’amore e di bontà, che un giorno Egli sicuramente riverserà nel cuore di ogni suo fedele e umile lavoratore. Amen.

  

giovedì 14 settembre 2023

17 Settembre 2023 – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
18, 21-35 
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita di “comunità”.
Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo.
Oggi ci offre un ulteriore approfondimento: “il perdono è uno dei modi più efficaci per esprimere l’amore”. 
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. “Quante volte devo perdonare? Fino a sette volte?”. Era il limite imposto dalla legge antica. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.
Il che significa, caro Pietro, che non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplicemente perché il “tuo” perdono non deve provenire dalla tua buona predisposizione caratteriale, ma deve essere la logica e consapevole conseguenza del fatto che Dio perdona te in ogni occasione, sempre, di continuo. Chi si guarda un po’ dentro, infatti, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta.
L’unica misura del perdono è quindi perdonare sempre: senza misura, senza calcoli; perché è quanto Dio fa con noi.
La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, dunque, non è quella che si basa sulla regola del “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti; Egli sostituisce cioè la giustizia della legge “che uccide”, con la sua, la legge dello Spirito che “dona vita”.
Perdono incondizionato: questo deve essere il nostro riferimento. Ma in cosa consiste il perdono? Come viverlo? Come si giustifica? Sono le domande che ci nascono spontanee.
Ecco allora che Gesù, con la parabola del servo “graziato”, ci porta a fare le dovute considerazioni pratiche: questo servo doveva al suo re una somma esorbitante, “diecimila talenti”, una cifra enorme, incalcolabile, poiché per raggiungerla avrebbe richiesto l’intero salario giornaliero di duecentomila anni di lavoro. Un’assurdità. Consapevole di questo, il servo tenta il tutto per tutto: va dal suo creditore, si getta ai suoi piedi e lo supplica tra le lacrime. E il re prova compassione per lui; si immedesima talmente nella sua angoscia, nella sua disperazione, da condonargli, in uno slancio di misericordia, l’intero debito. Un condono tombale, senza alcuna penalità.
Bene: quel servo, ottenuta la grazia per il suo mostruoso debito, uscito dalla residenza reale, incontra un suo pari che gli doveva poche monete; da notare la precisazione di Matteo: “appena uscito”, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito!”: e, nonostante fosse ancora nel pieno dell’emozione e della gioia per la cancellazione del suo debito, in preda ad una collera improvvisa, assale quel poveretto e lo strangola gridando “rendimi ciò che mi devi!”: una inezia rispetto ai miliardi che gli erano stati appena condonati! E senza pietà alcuna, sordo alla richiesta del meschino di pazientare, lo fa gettare in prigione.
Certo, di fronte alla legge egli avrà agito anche correttamente, ma ha comunque dimostrato di essere un uomo spregevole, senza pietà, senza il minimo senso di giustizia, poiché non ha saputo riconoscere al compagno, che gli doveva una somma irrisoria, quella stessa misericordia che poco prima il re gli aveva accordato condonandogli un debito smisurato, incalcolabile.
Talvolta, purtroppo, capita anche a noi cristiani moderni, di reagire d’impulso contro insignificanti offese o inadempienze ricevute e, come quel servo, rivendichiamo con cattiveria i nostri diritti, esigendo l’immediato risarcimento dei danni, ancorché irrilevanti. È innegabile! 
Ma questa è una scelta che non paga mai, che non risolve in alcun modo i nostri problemi, poiché introduce un meccanismo perverso con cui il male richiama altro male, la violenza genera altra violenza, chiamando in causa famiglie intere, moltiplicando all’infinito odio e avversione: la sete di vendetta infatti corrode l’anima, fa vivere nel tormento, porta l’inferno nel cuore.
Nondimeno, non è raro imbattersi quotidianamente in situazioni del genere: vicini di casa che litigano per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza riprendere un dialogo, una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono drasticamente qualunque rapporto per motivi puerili, banali, distruggendo in tal modo l’armonia familiare; persone di chiesa, cristiani convinti, che dilaniandosi l’anima per immaginarie ingiustizie o critiche subite dai fedeli o dai preti di turno, abbandonano sdegnosamente la loro comunità ecclesiale; laici e consacrati che, in intimo contrasto tra loro, pur assistendo quotidianamente all’Eucaristia, incuranti dell’invito di Gesù di praticare amore e misericordia, insistono nel vivere schiavi del loro rancore. Sono tutte persone che preferiscono rimanere orgogliosamente arroccate sulle loro posizioni, pur sapendo che il perdono è l’unica strada che consente di vivere un’esistenza feconda, autentica, serena e felice.
Certo, si tratta di una strada difficile da percorrere, questo sì. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto.
L’impegno inderogabile per noi cristiani, ci dice dunque Gesù, è quello di perdonare, sempre e comunque, proprio perché sappiamo che Dio lo fa continuamente con noi. Dobbiamo cioè perdonare perché siamo dei “perdonati privilegiati”: siamo cioè noi per primi che, continuamente e gratuitamente, senza merito alcuno, sperimentiamo il perdono divino.
Può succedere anche che talvolta il nostro perdonare come Gesù ci ha insegnato, rischi di essere ridicolizzato dalla gente, ci venga rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità.
Poco importa: perché chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può più astenersi dal trattare comunque tutti come fratelli, con sincerità, con amore, con la massima indulgenza. Possiamo allora dire che una comunità è “osservante”, “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti, immacolati, non sbagliano mai e non si permettono di offendere gli altri; ma perché si sentono dei “perdonati” e in quanto tali amano e perdonano i fratelli.
Il male reciproco che, nella loro debolezza, inevitabilmente fanno, non costituisce quindi un elemento “dirompente”, ma nel reciproco perdono diventa il “collante” che li unisce tutti saldamente in Cristo, santificandoli.
Davanti a Dio siamo tutti peccatori, debitori insolvibili, perché mai, in tutta la nostra vita, potremmo restituirgli l’amore che Egli, con la sua infinita misericordia, ci dona continuamente: quell’amore che, dal canto nostro, disinvoltamente, calpestiamo continuamente con le nostre intemperanze. Sì, perché anche noi, come il servo del vangelo, spesso e con facilità siamo “giusti” ma spietati, “corretti” ma cattivi; siamo persone magari rispettose del diritto e della giustizia umana, ma molto meno inclini alla carità, alla pietà e alla misericordia. Dobbiamo quindi capire, una volta per tutte, che il perdono guarisce, ripaga, matura e fortifica chi lo esercita, non chi lo riceve; e che quindi, perdonando, facciamo prima di tutto un atto meritorio per noi stessi! Amen.


giovedì 7 settembre 2023

10 Settembre 2023 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
18,15-20 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

I cinque “grandi discorsi” del vangelo di Matteo, sono stati elaborati dall’autore con lo scopo evidente di offrire alla giovane comunità cristiana di allora, una raccolta ben ordinata di regole precise, di norme, di consigli, per consentirle di tradurre in comportamenti di vita, le novità fondamentali della predicazione di Gesù. Il brano che oggi la Liturgia ci propone, è tratto appunto dal capitolo 18 del vangelo matteano, dal cosiddetto “Discorso ecclesiale” o “comunitario”. 
Ovviamente al giorno d’oggi noi non dobbiamo prendere alla lettera i suoi contenuti, poiché sono stati scritti per uomini di oltre duemila anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, con una mentalità e una cultura molto diverse dalla nostra. L’importante per noi non è tanto di rimanere fedeli a delle “regole” comportamentali dell’epoca, soggette a mutare nel tempo, quanto di fare nostro il messaggio spirituale di Gesù, che è quello che rimane fermo e immutabile nei secoli.
Cosa ci raccomanda allora “lo Spirito di Dio”, qual è il messaggio profondo del testo di oggi? Che dobbiamo riservare agli altri un comportamento di sollecitudine, di attenzione, di umiltà, di discrezione, perché il nostro primo dovere è, e rimarrà, quello di amare il nostro prossimo. Quante persone invece che si dichiarano osservanti, che frequentano chiesa e sacramenti, continuano a conservare nel loro cuore sentimenti di odio nei confronti di parenti, amici, conoscenti? Quante persone litigano per anni e anni, sempre per lo stesso futile motivo? Ciò vuol dire che non vivono il vangelo, non hanno imparato nulla dalla vita, dalle loro esperienze, non si sono mai domandati il perché del loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nell’odio, oltre che a screditarli come cristiani, non serve a nessuno, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; con il loro comportamento dimostrano di non voler migliorare spiritualmente, di non voler vivere la loro fede, di non voler imparare a crescere: in pratica vivono nell’indifferenza, preferiscono rimanere “tiepidi”: caldi di facciata ma freddi nel loro cuore, senza preoccuparsi delle parole tremende di Dio: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo, e poiché sei tiepido, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3, 15-16).
Anche la prima comunità cristiana non era perfetta: anch’essa doveva fare i conti con discussioni, conflitti, litigi: non per nulla l’evangelista ripete qui con insistenza (per ben 4 volte!) il verbo “ascoltare”, nel suo significato più ampio di capire, di sentire tutte le ragioni, di immedesimarsi in esse, di perdonare sempre con carità cristiana: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Punto.
Del resto, la convivenza umana, fin dalle sue origini, non è mai stata esente da tensioni, da lotte intestine, da scontri a volte cruenti: succedeva ai tempi di Matteo, è successo in tutte le comunità che da allora si son seguite, continua a succedere anche oggi, nelle nostre comunità moderne ed evolute.
È una situazione inevitabile, dovuta alla naturale conflittualità degli uomini, alla loro personale “mentalità” che li caratterizza come persone uniche, altamente insofferenti ad ogni genere di sopraffazione: “homo homini lupus” sentenziava, quasi due secoli prima di Cristo, il commediografo latino Plauto (Asinaria II, 4, 88).
Bene: col vangelo di oggi Gesù, proprio allo scopo di ovviare a tale degradante situazione, sottolinea l’importanza dell’amore nei rapporti interpersonali. Quindi, se litigare è facile, è inevitabile, ciò non deve assolutamente indurci ad escludere, per partito preso, qualunque tentativo di chiarimento, fatto ovviamente con carità e amore fraterno. Sono questi infatti gli elementi fondamentali, indispensabili, per ogni civile convivenza fondata sulla pace e sulla concordia. La libertà di esprimere apertamente le proprie ragioni è un diritto inalienabile per chiunque, è vero: ma ciò che determina unioni o separazioni, armonie o rotture, involuzioni o crescite, è soprattutto il “modo” con cui ci esprimiamo, la “qualità” del nostro interloquire: nulla infatti è più indisponente del voler imporre ad ogni costo le nostre vedute, con supponenza e sarcasmo, come unici e infallibili conoscitori della verità, dell’intero scibile umano! Sosteneva infatti a questo proposito il poeta Orazio (cito a memoria): “Ogni conoscenza delle cose, ogni sapere umano, ha dei confini di verità oltre i quali non abbiamo la certezza di trovarci nel giusto” (Cfr. Sermones–Satire I,1). E già da sola, questa saggia constatazione dovrebbe indurci a sentenziare con maggior cautela e umiltà.
Purtroppo, per imparare e praticare bene tutto questo, non c’è un manuale “ad hoc”, non c’è una scuola specifica che ci insegni a “cum-vivere”, a “convivere” serenamente con gli altri. 
Solo la vita cristiana, con i suoi consigli, può farlo: ma deve essere una vita convinta, rispettosa degli insegnamenti di Gesù, alimentata dal Suo Amore, orientata dalla pratica della Sua Parola. Amen.