mercoledì 14 gennaio 2015

18 Gennaio 2015 – II Domenica del Tempo Ordinario

In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!» (Gv 1,35-42).

Il Vangelo di oggi ci descrive la vocazione dei primi due discepoli di Gesù. Di uno conosciamo il nome: è Andrea; l’altro dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Entrambi sono discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonano il loro maestro e si mettono silenziosamente al seguito di Gesù. E in cuor loro sono felici, sono entusiasti di poter vivere questa inaspettata avventura.
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la sua diffidenza: Simone infatti non mostra né contentezza, né felicità, né interesse, né curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia in “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che al primo impatto era piuttosto “corazzato”, impenetrabile, sospettoso; ma una volta superata questa barriera, era in grado di raggiungere vette di pensiero, di amore e di intuizioni, assolutamente irraggiungibili dagli altri discepoli.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna lasciarsi entusiasmare, bisogna lasciarsi prendere, bisogna appassionarsi. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza compromessi, senza fare calcoli, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere Chiesa? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile vedere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo invece capire l’importanza del farci coinvolgere emotivamente da Gesù: solo se noi dimostriamo il nostro entusiasmo, il nostro essere convinti, la nostra gioia, potremo compiere quello stesso ruolo di intermediari, descritto per i primi discepoli nel vangelo di oggi. Il Battista infatti fa da intermediario per Andrea e l'altro discepolo; Andrea poi diventa intermediario per suo fratello Simon Pietro. Il giorno dopo, quando Gesù incontra Filippo, questi sarà intermediario per Natanaele. E così via. Uno incontra qualcosa di bello, di grande, di intenso, di vero e invita l’altro: “Vieni anche tu a vedere!”. Del resto è una cosa naturale: quando incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, vogliamo che anche gli altri facciano la stessa esperienza; se incontriamo qualcosa che ci fa vivere, vogliamo che anche gli altri provino quanto questa cosa sia vitale; se incontriamo qualcosa di vero, vogliamo che anche altri respirino questa stessa verità e questa stessa luce.
La vera evangelizzazione, la vera missione, avviene infatti per contagio: “Oh, sapessi cos'ho incontrato!? Vieni anche tu!”. E noi li seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché sentiamo tutto il loro entusiasmo, la loro gioia, la loro energia: sentiamo cioè che quella esperienza ha fatto loro un gran bene. E siamo colpiti dalla loro “testimonianza”.
Perché allora non fidarci? Perché non provare? Perché non sperimentare anche noi? A volte invece preferiamo rispondere: “No, no, grazie, non fa per me!”. Ma se non abbiamo neppure provato! Non è vero che non fa per noi: è che abbiamo paura, è che temiamo di metterci in gioco, è che siamo già morti dentro!
Col battesimo, con i sacramenti della iniziazione cristiana, abbiamo espresso la nostra volontà di seguire la chiamata di Gesù. Poi, diventati adulti, Egli ci ha rivolto la grande domanda: “Che cosa cercate?” Attenzione, non “chi” cercate, ma “cosa” cercate; sembra ininfluente, ma la differenza è fondamentale: perché alla fine ognuno otterrà solo ciò che ha ardentemente cercato; ognuno cioè non avrà niente di più di ciò che ha desiderato. Se il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta non andremo oltre; se il nostro desiderio e di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì. Il desiderio praticamente se da un lato è la nostra spinta iniziale, dall’altro è anche il nostro limite massimo raggiungibile. Un uomo è ciò che desidera. Se desideriamo poco avremo poco. Se desideriamo molto, avremo molto. In genere l’uomo desidera soprattutto “cose”: l'auto nuova, l’ultimo modello di telefono, un grosso conto in banca, un buon lavoro, una casa signorile. Ma le cose non soddisfano il suo desiderio (sembra, ma non lo fanno!). Perché raggiunto quell’obiettivo, egli continuerà ad essere insoddisfatto, continuerà a cercare ancora “cose” nuove.
Il vero desiderio è qualcosa di grande (de-siderio, letteralmente vuol dire: “disceso dal cielo”, “de-sidus”): un progetto per cui appassionarsi, un sogno da realizzare, una chiamata, un qualcosa di grande, cui il nostro cuore anela. In altre parole qui Gesù dice: “Se cercate vita, pienezza, felicità, libertà, verità, umanità, allora potete venirmi dietro, perché Io offro solo questo. Se cercate altro, se cercate solo le “cose”, non è questo il percorso da seguire”.
Per questo i due discepoli gli chiedono: “Maestro, dove abiti?”. In greco: pù mèneis? “dove rimani?”. Sembra la stessa cosa, ma il significato è molto diverso. I discepoli sono ad un livello più superficiale, e gli chiedono: “Dove stai?, Dove abiti?”. Pensano ad un posto fisico, ad un luogo. Ma quel verbo (mèno) è un verbo che Giovanni mette più volte in bocca a Gesù (c. 15) quando dice: “Chi rimane in me (o ménon)... se non rimane in me (éan mè tis méne)... se rimanete (èan mèinete)... rimanete (mèinate) nel mio amore” (Gv 15,5-9).
Gesù in pratica parla di un rimanere sostanzialmente diverso, che non si riferisce ad un luogo ma ad un modo di vivere. Si tratta cioè di vivere e di essere in un certo modo. E mentre i discepoli vogliono conoscere il luogo in cui Gesù “abita”, non hanno capito che Egli “rimane” dentro di loro. Loro lo cercano fuori ma Lui è dentro di loro da sempre, e intende rimanervi per sempre.
Questo è il grande passaggio della vita: smettere di cercare fuori quello che va cercato dentro. Le persone che cercano solo fuori, pensano: “Quando avrò ottenuto quella cosa sarò finalmente felice”. Ma non funziona così. La felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, ma nell’essere qualcuno. La felicità non sta nel possedere tante cose e neppure tante persone: la felicità è uno stato d’animo che noi raggiungiamo vivendo con il Qualcuno che è dentro di noi. E ciò dipende solo ed esclusivamente da noi! Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete”. I due si aspettavano una risposta circostanziata, un luogo preciso e riconoscibile; ma Gesù non dà alcuna indicazione precisa: “Vuoi sapere dove abito? Vieni e vedi! Vuoi conoscermi meglio? Vieni e vedi. Sei tu che ti devi buttare. Non hai altre possibilità. Non te lo posso insegnare io, ma lo devi scoprire tu da solo. Per questo vieni e seguimi!”.
“Venire”, “seguire” sono infatti verbi di movimento, sono dinamici: Gesù non invita nessuno a starsene seduti a pensare, aspettando che passi il tempo: il suo è un invito a muoversi. Vuol dire: “Esci dalle tue posizioni, dalle tue idee, dalle tue convinzioni; muoviti, datti da fare!”.
Quante volte ci capita di incoraggiare delle persone a fare qualcosa: “Fai quell'esperienza... prova a seguire quel corso... vai a quell'incontro... frequenta quel gruppo... dai, provaci!... fai qualcosa di diverso...” ma poi sistematicamente quelle persone non fanno niente.
C'è chi dice: “Ma sì, tanto i miei problemi devo risolvermeli da solo!... non ho bisogno di altri... cos'avrà mai da dirmi?... nessuno mi cambia la vita... non ho tempo per queste cose... sto bene così!”. Oppure: “Ho paura... e se poi è troppo?... e se poi devo cambiare tutto?”.
Insomma spesso la nostra sequela è un “vorrei, ma non voglio”. Ma “andare”, seguire Gesù, vuol dire muoversi, cambiare, evolvere, spostarsi. Per questo chi non vuol camminare, chi è pigro, chi preferisce starsene tranquillo, non potrà mai conoscere veramente Dio. “Vieni e vedi!”. Dio ci chiama perché dobbiamo fare un nostro percorso di vita, ci vuole decisamente lontani dalle nostre posizioni di partenza. Di sicuro è proprio per questo che Dio ci fa paura. Perché ci coinvolge. Ci butta giù dal letto. È un fuoco che ci brucia dentro: non ammette mezze misure, compromessi, non tollera “distinguo” o astuzie mentali: è tutto o niente. Con lui dobbiamo mirare sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non avere neppure quello. Dobbiamo “vedere”, dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di come ci vuole: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”; ciascuno deve “verificare”, deve controllare personalmente. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Fare esperienza di Dio, vederlo, constatarlo: è questo che fa la vera differenza in chi vuole essere discepolo.
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’amore, vivere l'amore è tutt'altra cosa. Solo quando siamo stati innamorati, solo quando abbiamo vissuto gioie e dolori, sappiamo esattamente cosa vuol dire amare. Essere laureati in medicina o in psicologia, non ci rende automaticamente medici o psicologi. È l'esperienza, l'incarnarsi nel ruolo, il continuo provare che ci fa capire cosa vuol dire essere medici o psicologi. È come aver studiato a memoria tutto il manuale della patente: ma se non guidiamo, se non proviamo, se non ci esercitiamo, non sapremo mai cosa voglia dire guidare un'auto.
Esperienza vuol dire: “Lasciarsi coinvolgere”. Letteralmente “uscire da sé (ex) per comprendere una cosa da tutti i lati (perì)”. Quello che vediamo, quello che sappiamo, è soltanto un raggio di luce. Non è il sole! Un punto di vista è la vista da un punto. “Esperienza” vuol dire invece: “solo provando, entrandoci, capirò tutti i lati, ogni aspetto, di questa cosa”. Ma per arrivare a tanto, dobbiamo “Ex-per-ire”, dobbiamo cioè – come dice la parola latina - “Uscire da noi stessi (ex) per viaggiare/andare/conoscere (ire) nella vita”. Dobbiamo muoverci, dobbiamo camminare nella vita, altrimenti non conosceremo mai la grandezza della vita.
Quante volte ci permettiamo invece di parlare di cose o di persone che non conosciamo, che non abbiamo “sperimentato”. “Se non sappiamo, tacciamo; se vogliamo sapere, informiamoci, andiamo a vedere, controlliamo personalmente”.
È per questo che per seguire il vangelo ci vuole coraggio. Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così. Dio è rassicurante perché ci dice: “Non aver paura, ci sono io!”, non perché ci garantisce: “Non avrai mai problemi, tutto finirà bene!”.
“È la vita che guarisce la vita”. Solo vivendo, solo immergendoci nella vita, solo entrando dentro la vita, sentiremo e sperimenteremo cos'è la vita. Non possiamo conoscere gli interni di un palazzo, rimanendo fuori, all’esterno.
Tutti noi vorremo che la vita fosse un viaggio senza bufere, senza pericoli o rischi. Per questo cerchiamo di evitare il più possibile esperienze e coinvolgimenti.
Ma la vita è proprio coinvolgersi, entrare dentro, provarci: altrimenti non la conosceremo mai. Quando gli apostoli andavano da Gesù e gli dicevano: “Ecco, noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che cosa avremo in cambio? che garanzie avremo?” (Mt 19,27) Egli rispondeva: “Nessuna!”.
Dio non ci promette una vita tranquilla senza pericoli, “serena e in pace” (come la maggior parte della gente chiede): Gesù promette al contrario intensità, vita alla grande, esporsi, vibrare, coinvolgersi, lottare, essere al centro del mondo, vittorie e sconfitte; Gesù in poche parole prometta la Vita (Gv 14,6; 10,10), una vita vera e abbondante, ma con molti rischi.
Le società assicurative fondano i loro profitti proprio sulla nostra voglia di sicurezza: “Se poi succede questo? meglio che mi assicuri! E se poi succede quest’altro?... E se poi sbaglio?... E se poi non è come pensavo?”. Certo, ciò è possibile; tutto è possibile; ma dobbiamo correre i rischi; perché altrimenti l’unico grande rischio che corriamo è di sprecare una vita senza vivere. Chi vive corre il rischio di morire; chi spera corre il rischio di disperare; chi tenta di fare corre il rischio di fallire. Ma questo è vivere, questo è rischiare. L’altro grande rischio nella vita è quello di non rischiare nulla. Ma chi non rischia nulla, è una nullità, non diviene nulla. Solo la persona che rischia vive liberamente. La vita è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta intensamente è il nostro dono a Lui; una vita sprecata è il più grave peccato di ingratitudine. Amen.
 

venerdì 9 gennaio 2015

11 Gennaio 2015 – Battesimo del Signore

«In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci la figura di Giovanni Battista che nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Il suo è un battesimo di “conversione”, un battesimo cioè fondato sulla metànoia, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Il battesimo del Battista altro non è quindi che il segno, il simbolo dell’avvenuta conversione: le acque del Giordano provvedono solo a “lavare”, a “ripulire” il convertito da tutti i suoi peccati. Ovvio che a monte deve esserci la conversione, il cambiamento di vita; altrimenti il battesimo avrebbe perduto ogni suo significato; in pratica, il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che voi veniate da me per un semplice lavaggio esteriore che senso ha? non serve assolutamente a nulla”.
Il punto focale è infatti proprio questo: il battesimo di Giovanni poggia tutto sull’individuo, sulla sua ferma volontà di non peccare oltre, di astenersi in futuro da ogni altra colpa. E non è cosa di poco conto, perché il convertirsi sul serio, il cambiare i propri modi di vivere e di pensare, è molto impegnativo, è difficilissimo.
Il Battista tuttavia conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle volte al passato, ma con il dito puntato in avanti, indica l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
Viene dopo di me colui che è più forte di me”: egli ne è consapevole. Gli altri devono capirlo. L’annuncio di Giovanni presuppone la fede, il suo è un appello che suscita ed esige la fede.
Inutile continuare a vedere Dio assiso solitario nell’alto dei cieli, al di fuori della nostra vita e della nostra storia. Il Cristo, Figlio di Dio, è uomo tra gli uomini, si trova ormai nella storia, nelle singole situazioni concrete, in tutti gli uomini. Qui si vede la superiorità e la infinita potenza che distingue Gesù, il Messia, da Giovanni il precursore. E qui si nota anche la differenza tra i due gesti battesimali: Giovanni usa l'acqua soltanto, mentre Cristo manderà il suo Spirito che assieme all'acqua toglie radicalmente il peccato dal cuore dell'uomo.
Ma procediamo per gradi: il Battista dunque sta portando avanti la sua missione predicando la conversione del cuore e della mente. Einstein diceva: “E' più facile spezzare l'atomo che le abitudini di un uomo”. Difficile ma non impossibile.
Poi però, improvvisamente, succede qualcosa che ha sul serio dell’impossibile; qualcosa di imbarazzante. Cosa succede? Che mentre il Battista sta “lavando” nel Giordano i peccati e le colpe di quanti vanno da lui per ricevere il battesimo, gli compare davanti lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che ha messo non poco in difficoltà i presenti e più tardi i primi discepoli della giovane Chiesa: “ma come, che bisogno aveva Gesù di “lavarsi”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazaret”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell'antica alleanza: non a caso Gesù ha lo stesso nome di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Gesù raggiunge il Battista sul Giordano provenendo da Nazaret di Galilea: Marco, che ha scritto il vangelo più antico, non fa alcun riferimento a Betlemme e ad una sua nascita lì. Quindi Gesù non nasce in Giudea, a Betlemme, ma in Galilea, a Nazaret. E siccome per la Bibbia non era possibile che lui nascesse in una regione pagana e disprezzata come la Galilea, forse è per questo che la sua nascita è stata spostata a Betlemme di Giudea, esattamente come aveva preannunciato la Bibbia (lì doveva nascere il Salvatore).
Quindi Marco dice che Gesù si fa battezzare. Egli si presenta, cioè, all’inizio del suo ministero, in tutto solidale con gli uomini: in fila come tutti gli altri peccatori. Ma egli non confessa i suoi peccati, come tutti gli altri: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita. Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c'è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Questo è il battesimo del Battista. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare tutto questo, ricorrendo ad un verbo particolare: una volta cioè che si trova immerso nelle acque del Giordano, Gesù anabàinon, salendo, vide aprirsi i cieli…”: ci saremmo aspettati un “uscendo dall'acqua, vide… ecc.”; uno entra dentro e poi ne esce fuori. Marco invece descrivendo l'uscita dalle acque di Gesù, usa lo stesso verbo “salire”, utilizzato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Egli “sale” finalmente in cielo. Stesso verbo, stesso significato. Lo scopo del Battesimo di Gesù pertanto non sta tanto nell’eliminazione del peccato originale, nella purificazione dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere su di Lui, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, lacerati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni varco. Dio non si concedeva più, non si comunicava più, al suo popolo. Non c'era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia diceva: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l'uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l'interposizione di altre chiusure.
Questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l'uomo, torna a donarsi all'uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: come si sono aperti, infatti, così potrebbero anche rinchiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di una deflagrazione. La differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio infatti è un’apertura definitiva, violenta; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso”. Nel tempio un velo enorme lungo 25 metri copriva l’accesso ad una stanza vuota in cui non c'era nulla. Lì entrava il sommo sacerdote, una volta all'anno, per pronunziare il nome impronunciabile, il nome di Dio. E si credeva che in quella stanza vi fosse la gloria di Dio, la sua presenza. Ebbene, che succede? Appena Gesù muore, questo velo si squarcia. E se si è “squarciato” non sarà più possibile rammendarlo. Il Dio che era nascosto dal velo del tempio, il Dio velato, il Dio nascosto nel tempio, si è definitivamente rivelato in Gesù, in Gesù crocifisso. È lui l'immagine visibile di Dio. È il Crocifisso, il segno ormai visibile dell'amore di Dio; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, neppure se lo rifiutiamo, neppure se non lo vogliamo più, neppure se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più ritirare il suo amore nei confronti dell’umanità.
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L'articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore de “lo Spirito”. In Gesù si manifesta, non un qualcosa della divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità. “Scese su di lui come colomba”.
Per questo, quando si analizza il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare lo stretto contatto che esiste con il racconto della sua morte. Quando Gesù muore (Mc 15,37) si dice che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non muore mai: non si dice mai infatti, che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Osservando meglio però, vediamo che il verbo ek-pneuo usato da Marco, ha la stessa radice di Spirito, di Pneuma. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) e alla sua “morte” egli emette, Spirito che continua a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui. Pertanto, qui nel battesimo entra quindi in Gesù lo stesso Spirito che Lui poi donerà a tutti nella Pentecoste: il suo spirito d'Amore passerà in eredità a tutti noi, alla sua Chiesa.
E la colomba? È un'immagine, chiaramente. Un proverbio ebraico decantava l'attaccamento della colomba al suo nido, la sua fedeltà. Lo Spirito che scende su Gesù come colomba, vuol dire che scende su di lui con lo stesso attaccamento di una colomba che ritorna al suo nido; lo Spirito di Dio, la forza di Dio, rimarranno in perenne simbiosi con la persona di Gesù.
Poi Marco dice: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito”, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34).
È la voce dell'amore di Dio. La voce dell'amore e della vittoria sono infatti all'inizio e alla fine della vita di Gesù. Tutta la vita è nell'amore, immersa nell'amore di Dio che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare ciò che deve realizzare.
È infatti quest'amore, questa voce che ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti, che sarà la forza che ci condurrà ovunque. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre, in ogni caso; un amore che non si ritragga mai per nessun motivo; un amore che non si perda, che non si possa mai perdere. Allora, forti di questo amore, possiamo fare tutto.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce.
Poi, dobbiamo “volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché spesso abbiamo proprio paura di sentire quello che Dio potrebbe dirci; preferiamo non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo calarci in tutti i rumori di questo mondo. E invece no. Dobbiamo al contrario creare intorno a noi il silenzio dell’ascolto! Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le altre voci. Vi ricordate Elia? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12). Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell'amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L'amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché sappiamo contraccambiare. Dio ci ama perché siamo “noi”. Quando in collegio, dovevamo andare a colloquio col Padre spirituale, avevamo imparato che bastava non raccontargli certe cose, e lo facevamo contento, evitando così di ricevere interminabili ramanzine e severe “penitenze”.
Ma con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Noi dobbiamo soltanto dirgli: “grazie, Padre!”. Amen.

lunedì 5 gennaio 2015

6 Gennaio 2015 – Epifania del Signore


«Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12).

«La Provvidenza misericordiosa, avendo deciso di soccorrere negli ultimi tempi il mondo che andava in rovina, stabilì che la salvezza di tutti i popoli si compisse nel Cristo.
Un tempo era stata promessa ad Abramo una innumerevole discendenza che sarebbe stata generata non secondo la carne, ma nella fecondità della fede: essa era stata paragonata alla moltitudine delle stelle perché il padre di tutte le genti si attendesse non una stirpe terrena, ma celeste.
Entri, entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell'universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque in Israele sia grande il suo nome (cfr. Sal 75, 2).
Figli carissimi, ammaestrati da questi misteri della grazia divina, celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l'inizio della chiamata alla fede di tutte le genti. Ringraziamo Dio misericordioso che, come afferma l'Apostolo, «ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E' lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12-13). L'aveva annunziato Isaia: Il popolo dei Gentili, che sedeva nelle tenebre, vide una grande luce e su quanti abitavano nella terra tenebrosa una luce rifulse (cfr. Is 9, 1). Di essi ancora Isaia dice al Signore: «Popoli che non ti conoscono ti invocheranno, e popoli che ti ignorano accorreranno a te» (cfr. Is 55, 5).
«Abramo vide questo giorno e gioì » (cfr. Gv 8, 56). Gioì quando conobbe che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, cioè nel Cristo, e quando intravide che per la sua fede sarebbe diventato padre di tutti i popoli. Diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto il Signore aveva promesso lo avrebbe attuato (Rm 4, 20-21). Questo giorno cantava nei salmi David dicendo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome» (Sal 85, 9); e ancora: «Il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia» (Sal 97, 2).
Tutto questo, lo sappiamo, si è realizzato quando i tre magi, chiamati dai loro lontani paesi, furono condotti da una stella a conoscere e adorare il Re del cielo e della terra. Questa stella ci esorta particolarmente a imitare il servizio che essa prestò, nel senso che dobbiamo seguire, con tutte le nostre forze, la grazia che invita tutti al Cristo. In questo impegno, miei cari, dovete tutti aiutarvi l'un l'altro. Risplendete così come figli della luce nel regno di Dio, dove conducono la retta fede e le buone opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo che con Dio Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen».
 
(Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa; Disc. 3 per l'Epifania, 1-3.5; Pl 54, 240-244)
 


 

venerdì 2 gennaio 2015

4 Gennaio 2015 – II Domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,1-18).
Il Vangelo di Giovanni e la Bibbia iniziano entrambi con la stessa parola: “in principio”. Ma con una differenza: mentre nella Genesi leggiamo: “In principio (in ebraico berescit) fu creato il cielo e la terra”, al contrario Giovanni dice: “In principio (in greco en arché) c’era il Verbo!”. Punto. Quindi il Verbo, la Parola, esiste da sempre, precede tutto e tutti. Ma cos’è esattamente questo Verbo, questo Logos eterno? Il termine greco, Logos, significa sia Parola (Dio) che Progetto. Possiamo quindi tradurre anche con: “All'inizio c'era un Progetto”. In altre parole, prima di creare ogni cosa, Dio nella sua mente aveva un progetto, un'idea: sapeva cioè, già nei minimi particolari, come realizzare ogni singolo elemento del creato. Non è meraviglioso? Certamente, soprattutto se pensiamo a noi creature, alle nostre persone, al fatto che ci troviamo qui, in questa nostra vita, calati in un determinato habitat: noi, singole persone, non siamo qui per caso, ma solo ed esclusivamente perché rientriamo nel progetto iniziale, elaborato da Dio, per ciascun uomo. La nostra vita è sbocciata in funzione di questo progetto divino: Dio ci ha pensati e voluti, perché in qualche modo ha bisogno di noi per completare il suo progetto. Un fatto questo che implica per noi una enorme responsabilità. Non possiamo rimanere indifferenti. Dobbiamo dargli assolutamente una mano. Non gli altri, ma proprio noi. Qui e ora.
Nell’Antico Testamento le “Dieci Parole” di Dio si identificavano con i dieci comandamenti: ma nel Vangelo Gesù dice: “No, prima di qualunque obbligo, prima di qualunque parola, c'è la Parola”. In un istante, con una precisazione, Egli la Parola, ridimensiona le antiche parole: “Vi do un comandamento nuovo (=kainos), amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Sintomatico che Giovanni abbia usato qui, per indicare questa novità, il termine greco kainos: si tratta cioè di una novità assolutamente rivoluzionaria, un comandamento – quello dell’amore - che non si pone come aggiunta a quelli già esistenti (in tal caso avrebbe usato neos) ma che sconvolge, annulla, tutti gli obblighi precedenti; una novità che stravolge i valori di una legge millenaria.
Ricordate cosa dicevano i Dieci Comandamenti? “Io sono il Signore tuo Dio... non avrai altri dèi all'infuori di me... Non pronuncerai il nome di Dio invano... Ricordati di santificare i giorni del Signore ecc...”. Ebbene, Gesù non dice nulla di tutto questo. Dice semplicemente: “Se amate veramente Dio, lo si vede non dalle vostre preghiere o da quello che dite di fare per Dio, ma da quello che realmente fate per gli altri uomini”. Dio neppure viene nominato da Gesù. È chiaro a questo punto perché Gesù è stato ucciso: perché in un attimo ha annullato una tradizione che per millenni si preoccupava più dell’apparire che dell’essere, dell’avere piuttosto che del dare. Come potevano accettare questa rivoluzione, ad esempio, coloro che avevano dedicato tutta la loro vita ad opprimere, ad annientare, a distruggere gli altri? In un attimo tutta la loro vita crollava, falliva, non aveva più alcun senso: potevano forse accettare una cosa del genere?
Egli era in principio presso Dio, e tutto è stato fatto per mezzo di Lui…”. Una ripetizione che sottolinea l’importanza del progetto iniziale di Dio. Tutto è stato fatto per volontà divina: un concetto che va ribadito. Anche per noi: “Tu ci sei per volontà di Dio. Magari i tuoi genitori non ti volevano... magari la gente ora ti rifiuta e ti respinge... magari tu stesso non ti vuoi e ti fai schifo... ma Dio ti vuole e ha un progetto ben preciso su di te, ha bisogno di te, per questo ti ha creato”.
Lui (cioè nel Logos-Progetto) era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Eccolo finalmente il progetto: è la Vita; è avere ed essere Vita. Questa è la caratteristica prima degli uomini. Non per nulla in Giovanni il termine “vita” (zoè) appare ben 37 volte.
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi dobbiamo fare a Dio è di vivere questo dono. Lui vuole solo questo. “Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza”.
Dobbiamo cioè essere uomini interamente di Dio. Prima di Gesù gli “uomini di Dio” erano gli uomini di preghiera, quelli che si mortificavano, quelli che rinunciavano al mondo, quelli che conducevano una ferrea vita ascetica. Ma dopo Gesù gli “uomini di Dio” sono i “vivi”, quelli che hanno la vita e la vivono, che sanno piangere, indignarsi, commuoversi, emozionarsi, che provano amore, misericordia, che si innamorano, che hanno slanci, che sanno stupirsi: perché più un uomo è vivo, più trasmette vita agli altri, e più è pieno di Dio.
Ecco allora, finalmente chiaro, il perché del nostro essere qui. Il perché Dio ci ha voluti in questo particolare contesto. Semplicemente perché dobbiamo “vivere”.
Questo è il messaggio del Natale: un bambino che nasce, una vita che sboccia.
È vero: nella vita, a voler essere buoni, c’è anche il rischio di passare per sentimentali, sciocchi, ingenui: se amiamo c’è il rischio di non venire corrisposti, se viviamo intensamente corriamo il pericolo di morire, se speriamo troppo c’è il rischio della disperazione; qualunque cosa ci proponiamo di fare, c'è sempre il rischio di fallire. Ma se vogliamo vivere, dobbiamo affrontare i rischi, perché il rischio più grande nella vita, è proprio quello di non rischiare nulla. Chi non rischia nulla, è un nulla, diventa un nulla. Può evitare la sofferenza, l'angoscia, è vero, ma non potrà mai imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta in pieno è il nostro dono a Lui. Una vita sprecata è il peccato.
Allora cosa aspettiamo a vivere? Non diamo anni alla nostra vita, ma diamo vita ai nostri anni.
L'uomo che vive (= che ha accolto la luce), è colui che, accettato il progetto di Dio (=la vita), si apre, risplende, brilla. Le tenebre odiano la luce, non la vogliono: sono i “morti”, quelli “senza vita”, che vivono chiusi, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Dovrebbero portare la luce e invece preferiscono le tenebre: il potere, l’orgoglio, la superiorità, la mancanza d'amore, la rigidità, ecc. E non capiscono che le tenebre non possono conoscere Dio.
Anch’essi sono creature di Dio, “divine”, impregnate di Dio: ma si sono, come dire, dimenticate di chi sono veramente, hanno rinunciato alla loro dignità, si sono dimenticate di avere l'impronta di Dio, di essere a sua immagine, e vivono senza potersi riconoscere, senza poterlo riconoscere più. Che tristezza: essere re e vivere da schiavi!
Venne fra la sua gente ma i suoi non l'hanno accolto”. È una denuncia terribile. Chi non accoglie la vita e non la fa vivere, uccide Dio, che è Vita!
L'esame che Gesù fa al nostro cuore, non è più sui comandamenti, ma sulla vita: “Sei vivo? Ti lasci vincere dalla paura? Sei bloccato dal timore del giudizio? Come mai la tua vitalità è frenata? Cos'è che blocca la tua creatività e la tua fantasia? Ti commuovi? Sai gioire delle gioie degli altri? Sai entusiasmarti, appassionarti?”.
A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Chi lo ha accolto? È incredibile come nei vangeli quelli che l’hanno accolto siano stati proprio i più lontani da Lui; quelli invece che erano i più vicini alla religione, che frequentavano il tempio, si sono rivelati i più ostili, i più contrari ad accoglierlo.
Ecco perché dobbiamo fare nostro il progetto di Dio: solo accogliendo la sua “Parola”, il “Progetto” che Lui ha pensato per ciascuno di noi, potremo “Diventare figli di Dio”.
In passato ci hanno insegnato che lo scopo della vita è soprattutto quello di “servire” Dio, di diventare suoi “servi”: Dio è il padrone, noi i servi. Meglio ubbidirgli perché, se non stiamo attenti, nella sua potenza può punirci con l’inferno o con qualche altro tremendo castigo già in questa vita.
Ma noi non siamo i servi di Dio; siamo piuttosto i serviti da Dio. È Dio che serve l'uomo, non più l'uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, fioretti per lui: è Lui che è venuto su questa terra per mettersi amorevolmente e completamente al nostro servizio. Dimostrare la nostra fede in Lui, non consiste più nel fare qualcosa per Lui, ma accogliere tutto quello che Lui fa per noi. “Non sono venuto per essere servito ma per servire(Mt 20,28).
Non siamo figli di Dio per nascita, per diritto, o perché apparteniamo ad una determinata élite: dobbiamo invece diventarlo, dobbiamo cioè meritarlo, esserne degni. Come? Amando gli altri. Non con parole, non con esibizioni, non con promesse, ma solo ed esclusivamente con l'amore.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”; letteralmente, piantò la sua tenda in mezzo a noi. Dio non è più nel tempio tra i sacerdoti, ma nella tenda in mezzo al popolo.
È una teologia “trasgressiva” questa di Giovanni: Dio non è più soltanto nelle chiese, nei luoghi di culto, ma “in mezzo” al popolo. Dio non è più fermo, fisso, ma in continuo cammino insieme alla sua gente. Meglio: Dio non è più un luogo ma un tempo: nell'esatto momento in cui c'è l'amore, lì c'è Dio. L'amore è Dio, e viene da Dio: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.
Quando la gente parla di Dio, dice tutto e il contrario di tutto. Invece solo amando come ha amato Gesù noi possiamo vedere e capire Dio: “Chi vede me vede il Padre”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui. Impariamo a vederlo.
Il vangelo del resto è molto chiaro e ci fornisce il criterio valido per poter fare le nostre scelte: se Dio è come Gesù, noi che cerchiamo di conoscerlo, dobbiamo guardare, dobbiamo imitare, dobbiamo diventare come Gesù. Tutto ciò che non è Gesù, non è Dio, e non ci porta né a vederlo, né a conoscerlo.
Tante nostre forme di religiosità non vengono da Dio perché non le troviamo in Gesù, non gli appartengono. Egli è semplicemente “pieno di grazia e di verità”, cioè “pieno di amore vero”. Questa è la caratteristica di Dio: Lui ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi cerchiamo di allontanarci da Lui, anche se noi lo tradiamo.
Ancora oggi molti temono di aver perso l'amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile nei suoi confronti, di essere indegni di Lui...: smettiamola! Lui non è così! Dio è più grande del nostro cuore! Lui continua a rimanere al nostro fianco, Lui è fedele, per sempre! Se non lo vediamo, dipende solo da noi, dalla nostra carenza di amore. Ricordiamocelo bene. Amen.

 

martedì 30 dicembre 2014

1 Gennaio 2015 – Maria SS.ma Madre di Dio


«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,16-21).
Maria a Nazareth. La sua famiglia. Nell’intreccio dei vicoli, profumati di minestre quotidiane e disturbati dalle urla dei fruttivendoli. Tra le fanciulle che, rimbalzando le loro melodie di balcone in balcone, parlavano d’amore. Nel cortile dove gli anziani prolungavano nell’ultimo sbadiglio i racconti della sera prima che risonasse il tintinnio dei chiavistelli. Maria è stata scoperta lì. Non sotto i flash dei gossip ma in un villaggio di pecorai sconosciuto dall’Antico Testamento e disprezzato dalle borgate vicine. «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria». Mi piace scrutare quella donna fuori dalla Scrittura, senza tutti i riflettori puntati, senza quell’aureola di santità tutta meritata. Mi piace inseguire Maria dentro la casa di Nazareth dove, tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli di Scrittura, “con arpa e cetra per svegliare l’aurora” ha sperimentato gioie senza malizie, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni. Se potessi mi siederei accanto a lei non m’alzerei più. Vorrei sapere tutto da lei. Vorrei che mi dicesse in quali campagne si recava nei pomeriggi di primavera per udire il silenzio dell’Eterno. In quali fenditure della roccia si nascondeva adolescente… Su quali terrazze della Galilea abbeverava le sue veglie di salmodie mentre il gracidare delle rane la disturbava appena appena. Maria! Che discorsi facevi seduta sul ciglio della fontana? Cosa raccontavi a Giuseppe quando al crepuscolo, prendendoti per mano, ti conduceva sulla spiaggia di Tiberiade a farti accarezzare dal sole. Oltre allo Shemah Israel e alla monotonia delle piogge nelle grondaie, di quali altre voci, magari rauche, risonava la bottega del tuo falegname preferito?
Maria, il tuo viso fa impazzire, la tua dolcezza fa naufragare, la tua semplicità è disarmante perché sei  acqua e sapone, senza trucchi spirituali. Perché, pur benedetta tra tutte le donne, saresti passata inosservata in mezzo a loro se non fosse per quel vestito che Dio ha voluto confezionarti su misura. Le “boutiques” di Nazaret non erano alla tua portata, gli “ateliers” d’alta moda di Gerusalemme non facevano per te. Lei, semplicissima ragazza, cresceva come un’anfora sotto le mani del vasaio e tutti s’interrogavano sul mistero di quella trasparenza e di quella freschezza senza ombre. Persino l’angelo s’è sprecato regalandoti un saluto tutt’oggi senza ombra di concorrenza: «Ti saluto, piena di grazia, il Signore è con te (...) Concepirai un Figlio». E tu subito al contrattacco. Hai intascato il saluto, ma, puntandolo in faccia, hai messo le cose in chiaro: «Non conosco uomo». Lucente, perché al tuo Dio hai rinfacciato di non essere una tra tante, hai difeso la tua fatica d’essere ragazza vergine, profumata di bellezza e ricamata di un’eleganza trasparente. Hai ragione Maria: bisogna sudare per salvare la propria purezza. Ma dimmi la verità: quanta gioia era nascosta dietro quel «non conosco uomo»? Che incantesimo pensare di non esserti svenduta per un sogno da sabato sera, che emozione mettere nelle mani del tuo Dio il profumo della tua verginità strappata ad occhi ingordi e mani rapaci.
E quell’angelo lo sa: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». Per questo dovresti raccontarmi di quell’uomo cresciuto modellando e interpretando il legno, annusando le sue vernici e i suoi colori, barattando una panca appena piallata con una bisaccia di grano. Giuseppe, l’uomo dei tuoi sogni. Era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni, ne capiva le ansie, ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un Natale che ormai non doveva tardare a venire. Da te, nelle lunghe sere dipinte nel retrobottega, ha intuito che fermarsi sotto la tenda, per ripensare la rotta, vale molto di più che coprire logoranti percorsi senza traguardo. Io non so se ai tuoi tempi s’adoperassero gli stessi messaggi d’amore, teneri come preghiere e rapidi come graffiti, che le ragazze incidono sui libri di storia, sugli zaini di scuola, sui jeans strappati. Ma penso che anche te, magari con uno “scriba di stilo veloce”, magari su una corteccia di sicomoro, avrai inciso amore per quell’impareggiabile falegname: “Giuseppe, ti voglio bene!”.
Potessi ritoccare con la mia fantasia la sacralità dei vangeli, intitolerei il primo capitolo del libro di Luca “l’annuncio dell’angelo al Signore”, più che “l’annuncio dell’angelo a Maria”. Mi piace pensare che l’angelo ha fatto ritorno in cielo recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio d’andata. Ha portato nell’agenzia dell’Eterno un contratto principesco: «Eccomi, sono la serva del Signore». “Eccomi”: per essere insostituibili nella vita!

Gesù è rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo periodo così: Gesù «era loro sottomesso [cioè a Maria e Giuseppe]». E uno potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in quella periferia malfamata?” Ha perso trent’anni! Lui ha voluto questo. Il cammino di Gesù era in quella famiglia. «La madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (2,51-52). Non si parla di miracoli o guarigioni, di predicazioni - non ne ha fatta nessuna in quel tempo - di folle che accorrono; a Nazaret tutto sembra accadere “normalmente”, secondo le consuetudini di una pia e operosa famiglia israelita: si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camice: tutte le cose da mamma. Il papà, falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni. “Ma che spreco, Padre!”. Le vie di Dio sono misteriose. Ma ciò che era importante lì era la famiglia! E questo non era uno spreco! Erano grandi santi: Maria, la donna più santa, immacolata, e Giuseppe, l’uomo più giusto. La famiglia. (Francesco, Udienza generale, 17 dicembre 2014)
L’altro giorno, davanti alla lavatrice, sono andato in tilt guardando mia madre. Papa Francesco ha detto di te che stiravi le camicie di Giuseppe e Gesù. Come la mia mamma: le camicie mie, di mio papà e di mio fratello. Allora ne ho approfittato e t'ho immaginato così. Però, Maria, ti chiedo scusa se per un attimo ho osato toglierti l’aureola, ma è perché volevo vedere quanto sei bella a capo scoperto, perché mi sembra di misurare meglio la grandezza di Dio che dietro ad un volto di fanciulla ha nascosto la sorgente della bellezza. Lo so che tu navighi in alto mare, io veleggio sotto costa ma sentirti vicina alle mie spiagge mi fa sentire il sapore della mia normalità. Vedi, laggiù è spuntata una stella. Io me ne vado. Tu siediti qui alla fermata dell’autobus e conquistali tutti con la tua bellezza.

(Fonte: don Marco Pozza, Sulla strada di Emmaus, 19 dicembre 2014)

 

mercoledì 24 dicembre 2014

28 Dicembre 2014 – Santa Famiglia

«Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, e anche a te una spada trafiggerà l’anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,22-40).
Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo.
Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per due distinte prescrizioni della legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito.
Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge religiosa. Luca sottolinea la cosa nominando per ben cinque volte la parola “Legge”. È difficile anche per noi staccarci dalle tradizioni impostateci. È difficile seguire la nostra strada seguendo il proprio cuore; è difficile dar voce a ciò che sentiamo dentro; è difficile prenderci le responsabilità delle nostre scelte. È difficile staccarci da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti fanno.
Maria e Giuseppe dunque salgono al Tempio. E qui incontrano un personaggio strano: Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Non è detto che fosse vecchio. Si dice che era un uomo giusto e timorato di Dio. Potrebbe far pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti non hanno mai lo Spirito Santo!). Simeone non è un sacerdote ma un profeta, non un uomo del culto ma della vita.
Maria e Giuseppe dovrebbero trovare un uomo della Legge per riscattare il primogenito. Invece, trovano un uomo dello Spirito. Le sue parole non riportano nessuna regola o prescrizione: sono parole piene di vita. Essi rimangono attoniti di fronte alle parole di Simeone: già i pastori avevano parlato di un “salvatore”, già l’angelo aveva parlato di lui a Maria come il Figlio dell’Altissimo, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”... ma cos’è tutto questo? Cosa sta dicendo quest’uomo?
Erano andati al tempio pensando che il sacerdote purificasse la madre del bambino e invece hanno trovato quest’uomo che annuncia che quel bambino purificherà Israele. Gesù sarà la “pietra d’angolo” su cui molti dovranno costruire, su cui molti dovranno gettare le loro basi; ma per molti altri Gesù sarà la “pietra di scandalo”, la pietra d’inciampo che li farà cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).
Seguire Gesù infatti non è indolore. Gesù non è un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con fontanelle d’acqua, molte panchine su cui sederci tranquillamente.
Gesù ci mette davanti scelte, crocevie, rotture; Gesù ci pone davanti verità dure e radicali; Gesù ci mette di fronte a noi stessi, senza poterci fuggire. Gesù è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento. Gesù non ci lascia sonnecchiare tranquilli. Per questo il vangelo se per alcuni è Vita, per altri è “morte”.
Simeone predice a Maria ciò che verrà: non le dice niente eppure le dice tutto. Maria ascolta anche se non capisce tutto ciò che le viene detto.
Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva sant’Ambrogio “Maria è il tempio di Dio e non il Dio del tempio”. Maria nel corso dei secoli è stata talmente ricoperta di privilegi e di titoli da impedirci di vedere quel che Maria era, quando ancora non sapeva di essere Madonna.
Per tre volte in questo capitolo viene detto che Maria non comprende. Ella accolse il messaggio di Dio, senza capire cosa esattamente l’aspettasse. Maria non capì neppure suo figlio Gesù. Semplicemente lo seguì. E questo fu il suo grande merito: da madre divenne discepola di suo figlio.
La religione le aveva sempre insegnato che la salvezza sarebbe arrivata solo per tutti gli ebrei fedeli al Signore. Ma Simeone dice cose ben diverse: Lui è venuto per tutti: “luce per illuminare tutte le nazioni”, e nello stesso tempo “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Il Messia cioè non è come tutti se l’aspettavano, e gli ebrei, popolo prediletto, non sono gli unici che saranno salvati. Inoltre le sue parole saranno “una spada che le trafiggerà l’anima”. Le parole del Figlio, cioè, saranno difficili da capire, le causeranno dispiacere, sconforto, incomprensione e derisione. Ben presto si renderà conto che le aspettative riposte in questo figlio si realizzeranno in maniera ben diversa da come lei pensava.
Ma il dramma di Maria sarà ancora più profondo: quelli del suo paese proprio non lo vogliono, lo rifiutano: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo ecc.?”; per dire: “Ma chi si crede di essere? Sappiamo bene chi è!”. Quelli di casa lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un pazzo perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16).
E si accordano per farlo perire (Mc 3,6). Gesù insomma è considerato pazzo, matto, da ricovero in psichiatria, da internare: e questo dai suoi familiari!
E Maria? Cosa può provare una donna che vede suo figlio odiato da tutti, non capito. Tutti cercano di prenderlo; tutti cercano di “farlo fuori”, tutti dicono la stessa cosa: “E’ posseduto dal demonio; è pazzo”. Non è una spada che trafigge l’anima?
La spada per Maria non è la sofferenza naturale di una madre per il figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada per Maria è che, seguire il Figlio nella sua missione, viene prima anche del legame più forte, naturale e di sangue, che c’è tra madre e figlio. Maria ha dovuto rinunciare al “privilegio” di una posizione di favore in quanto madre. Se infatti Gesù la accoglie è perché Maria è sua discepola.
La spada è quando la sequela del Signore ci porta a rinnegare i rapporti di sempre, quelli familiari e quelli dei nostri cari: non perché vogliamo loro male, ma semplicemente perché non parlano più di libertà, di autonomia, di osare, di prendere il largo. Allora ci si divide (padre contro figlio, suocera contro nuora, madre contro figlia): i rappresentanti del vecchio (padre, madre, suocera) contro i rappresentanti del nuovo (figlio, figlia, nuora).
Ecco perché dobbiamo vivere con spirito nuovo la nostra famiglia.
In questi tempi dobbiamo avere il coraggio di parlare di più e meglio della famiglia, delle nostre famiglie. La famiglia è in crisi, ci dicono i sociologi. Ma senza scomodarli, ci rendiamo conto che qualcosa non funziona nella nostra società: sempre di più sono le coppie che si sfasciano, che non credono più nel matrimonio cristiano, nella possibilità di un rapporto duraturo.
Quanta sofferenza e disillusione possiamo vedere negli occhi di coloro che cercano una certezza affettiva! Dobbiamo forse arrenderci e concludere che è impossibile amarsi? No: La festa di oggi ci ricorda il sogno che Dio ha sulla coppia. Amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere in un progetto di famiglia è possibile. Ce lo hanno insegnato Giuseppe e Maria: nel loro amore pieno di tenerezza e di fatica, ci dicono che Dio ha scelto di nascere proprio in una famiglia, di soggiacere alle dinamiche famigliari, di vivere le fatiche del rapporto di coppia.
Riscopriamo allora questo nuovo modo di essere famiglia: nell'autenticità, nella fede, nel cammino di amore e di comprensione reciproca. Maria e Giuseppe ci aiutino veramente a riscoprirci famiglia sul loro esempio. E perché il Natale possa tornare ad essere la nostra festa, la festa di ogni famiglia, noi genitori dobbiamo affrettarci a presentare i nostri figli al “Tempio”: se poi questi sono cresciuti, e al Tempio non vogliono più venire, non scoraggiamoci: portiamoli ugualmente, mediante la nostra preghiera e la nostra fede; poniamoli ugualmente nelle mani del Padre, e attendiamo da lui, con fiducia, una particolare benedizione. E vedremo che essa non si farà attendere. Amen.
 

25 Dicembre 2014 – Natale del Signore

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

«Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.
Il Figlio di Dio infatti, giunta la pienezza dei tempi che l'impenetrabile disegno divino aveva disposto, volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l'assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava. Così alla nascita del Signore gli angeli cantano esultanti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Essi vedono che la celeste Gerusalemme è formata da tutti i popoli del mondo. Di questa opera ineffabile dell'amore divino, di cui tanto gioiscono gli angeli nella loro altezza, quanto non deve rallegrarsi l'umanità nella sua miseria! O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia, con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5) perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani.
Deponiamo dunque «l'uomo vecchio con la condotta di prima» (Ef 4,22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo».

(Dai “Discorsi” di san Leone Magno, papa: Disc. 1 per il Natale, 1-3; PL 54, 190-193)