mercoledì 10 luglio 2013

14 Luglio 2013 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25-37).
È la domanda classica del cristiano quella che il dottore della legge rivolge a Gesù. Una domanda che tutti, prima o poi ci poniamo: ma è anche una domanda tendenziosa, provocatoria: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Io so già cosa mi dicono le regole, ma tu, Gesù, tu cosa mi dici?”. È chiaro che si tratta di una domanda comunque inutile, perché tutti sappiamo perfettamente come dobbiamo comportarci, cosa dobbiamo fare, cosa evitare.
Certo, in questi ultimi anni le cose sono molto cambiate: da un comportamento cristiano rigido e severo, regolamentato da norme e prescrizioni, si è arrivati ad un lassismo preoccupante: tutto è permesso, tutto lecito; è l’individuo stesso che determina la moralità dei suoi atti. Tanto, ci troviamo di fronte ad un Dio “super” misericordioso: la sua bontà infinita, il suo amore smisurato, la sua compassione senza limiti, hanno avuto decisamente la meglio sulla sua severità di giusto giudice. Entrambe le posizioni sono ovviamente sproporzionate. La virtù come al solito sta nel mezzo. Ed è questo che Gesù intende dirci tra le righe.
Non so se ricorderete, ma una volta le persone arrivavano addirittura a trasferire su Dio lo stesso ruolo inquisitore e vessatorio, tipico di gran parte dei “genitori” e dei preti vecchio stampo: si era in regola, si andava bene solo se il “Grande Genitore” (Dio) era contento di noi. Per questo abbiamo obbedito, ci siamo piegati a regole che oggi definiremmo assurde, abbiamo (forse?) svenduto la nostra “gioia” di vivere spensieratamente, pur di “essere in regola” con Dio. Insomma i tempi avevano contribuito a trasformare Dio in un “Grande Fratello”, la trasmissione voyeuristica che tutti abbiamo criticato: quel Dio (che decisamente non è il Dio del vangelo) era un po’ “guardone”, uno che spiava sempre tutti, vedeva e sentiva ogni cosa; sapeva quindi perfettamente quando uno sbagliava, perché tutto era registrato chiaramente sul suo “monitor”. Una visione angosciosa che terrorizzava la gente di allora: aveva paura di sbagliare, di non essere in regola, di far peccato, di essere esclusa, di non essere ammessa in paradiso, insomma di non andare bene, di essere sbagliata. Lo scopo primo della vita non era pertanto quello di “vivere”, non era amare, non era entrare nelle relazioni interpersonali con la forza piena dei sentimenti, con tutta l'intensità possibile dell’amore, con tutte le vibrazioni possibili del cuore. No, lo scopo primario della vita era “la regola”. Per questo nessuno cercava veramente Dio, nessuno cercava di vivere serenamente la “propria” vita. Ciò che contava era vivere “in regola”, da “bravi cristiani”. Pensare diversamente, scostarsi appena dalle “regole”, significava essere decisamente dei cattivi cristiani.
Bene: colui che si rivolge tendenziosamente a Gesù è intriso di questa mentalità, è un “esperto in regole”: «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Ma Gesù, sapientemente, elude il tranello, e gli rivolge una contro domanda (nasce quasi una sfida tra i due!). «Che cosa sta scritto nella Legge?». Come a dire: “Ma come? Proprio tu che sei un esperto della legge chiedi a me una cosa del genere? Dovrei essere io a chiederlo a te!”. E in questo modo Gesù lo smaschera: “Visto che tu conosci perfettamente le leggi fondamentali dell’amore verso Dio e il prossimo, osservale e basta!”. Ma il dottore della legge non demorde: dopo la brutta figura, cerca di “rimettersi in piedi”. E gli fa un'altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». È chiaro che questo tizio non arriverà mai a capire la nuova mentalità di Gesù: viaggia su un livello diverso, è sintonizzato su una stazione diversa. È limitato, impastoiato nelle sue prescrizioni. Con Gesù non ci sono limiti all’amore: non esiste più il “fino a dove”, il “fino a quando”. Se uno ha un cuore, deve seguirlo pienamente. Chi ama non fa distinzioni su chi ha davanti: chi ama segue solo il proprio cuore. Chi pone delle differenze, dei distinguo - “tu sì” e “tu no” - è ancora “fuori”, è condizionato dall'esterno, da regole esteriori, umane, spesso di convenienza.
Il dottore della legge non può capire. Perciò Gesù gli propone la parabola: «un uomo scende da Gerusalemme a Gerico...». Gerusalemme distava ventisette chilometri da Gerico, con un dislivello di mille metri. Era una strada conosciuta soprattutto per la sua pericolosità, piena di agguati, rapine e imboscate. Beh, a tutti nella vita capiterà, prima o poi, qualche imboscata. Tutti avremo a che fare con dei predoni e dei briganti: qualcuno ci bastonerà, qualcuno ci spoglierà, qualcuno ci lascerà mezzi morti. Ora, il punto non sta tanto sul “come evitare i briganti”, visto che l'unica soluzione è quella di starsene sempre rintanati “in casa”, chiusi nel nostro io, rinunciando a vivere; il punto sta piuttosto su come programmare la nostra vita: cioè se “vivere o non vivere”; se rimanere a “Gerusalemme” (all’ombra delle sacrestie, delle parrocchie) o provare ad uscire, andare incontro agli altri, a quelli che sono più bisognosi, più feriti, più bastonati di noi.
D’altronde Gesù nella parabola è chiaro: se qualcuno non interviene immediatamente, quell'uomo muore. E chi l'ha ucciso? I briganti? Solo loro? O non l'hanno ucciso anche coloro che, potendo fare qualcosa, non l'hanno fatto? Eppure quante persone si giustificano con la famosa frase: “Io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in certe situazioni, non fare nulla, non intervenire, vuol dire condannare.
Nel racconto di Gesù emergono dunque tre personaggi diversi, ognuno soffocato dal proprio ruolo specifico; compaiono tutti “per caso”, come del resto tutto (o forse niente?) avviene per caso nella vita: si tratta prima di tutto di un sacerdote, un addetto al culto e quindi di uno che viveva ad un livello superiore, un livello cui non competeva “istituzionalmente” il doversi preoccupare di un “ferito”, di un “moribondo”. Poi un levita, un sacrista diremmo oggi, anche lui un uomo di chiesa: e anche lui convinto di essere al di sopra, estraneo alla situazione. È sintomatico: quando non vogliamo fare qualcosa, tutti abbiamo sempre una scusa pronta: il problema di questi due “ecclesiastici” è che sono così presi dal loro “status”, da non accorgersi che la loro anima, il loro cuore, ne sono rimasti soffocati: “Sei un sacerdote, non spetta a te fare queste cose!”, il ruolo dice al primo. “Sei un levita, uno che è vicino alle cose di Dio; devi comportarti in maniera adeguata”, dice al secondo.
C’è anche un terzo personaggio, più defilato, ma non per questo meno arroccato nel proprio ruolo: l'albergatore:. Quando il samaritano gli consegna il pover’uomo, mezzo morto, si guarda bene dal dirgli: “Ma sì, non ti preoccupare per i soldi! In una situazione del genere non se ne parla neppure: vai tranquillo, tu hai fatto già fin troppo; ora mi prendo io cura di quest'uomo e non voglio assolutamente nient’altro da te”. Nossignori, quando arriva, lui se ne sta zitto e incassa tutto: incassa i due denari e, fiutato l'affare, gliene chiederà di sicuro anche altri. Anche lui è vittima del suo ruolo distruttivo: “Io non guardo nessuno in faccia, mi faccio gli affari miei”. Il suo ruolo gli impedisce di provare amore, compassione, di sentire la vita.
È così, dunque: anche nella nostra esistenza il ruolo può uccidere il nostro cuore, può distruggere la nostra anima, la nostra vita. Quando noi ci identifichiamo in un unico ruolo, costringiamo la nostra sensibilità su di un solo canale. È come mangiare solo dolci tutto il giorno. Sì, buoni, ma a lungo andare ci producono repulsione. Se non stiamo attenti il ruolo ci distacca da noi stessi, dal nostro sentire, da ciò che abbiamo dentro; per cui di fronte ad una situazione improvvisa, completamente diversa, non ascoltiamo il nostro cuore, ormai atrofizzato, e diamo sempre la stessa risposta, preconfezionata, già fatta, già stabilita dal nostro “ruolo”. Non siamo più noi che sentiamo e che agiamo, ma è lui, il nostro ruolo, che agisce autonomamente e automaticamente.
Ebbene, in questa parabola – ed è il più importante - c'è anche un uomo libero, un uomo non imprigionato dal suo ruolo: il samaritano. È lui che ci viene proposto come esempio da seguire. Il samaritano non ha maschere o ruoli da difendere: in lui, nel suo cuore, la vita circola libera e vibrante. Sono in tre che  passano per la stessa strada (sacerdote, levita e samaritano); tutti e tre vedono l'uomo. Ma solo del samaritano il testo dice qualcosa che non dice degli altri due: che ne “ebbe compassione”. Tutto ciò che fa dopo, è solo la conseguenza di questo suo sentimento.
Compassione: in greco, con la stessa radice, si indica “l'utero materno”: è quell'emozione che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare: è l’amore di una madre per il proprio figlio. Come poteva allora il samaritano tirare dritto? Come poteva far finta di niente? Il sacerdote e il levita si sono appellati alle loro regole: la “regola” giustificava il loro comportamento. Sì, ma il loro cuore? La verità è che “non lo sentivano” più. Non “sentire” il cuore, significa essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe chiedere loro: “Sensibili come? a che cosa?”. Perché sentire suonare una cassa di 500 watt di potenza, non è “essere sensibili”; significa non essere sordi del tutto. Come la mettiamo sotto i 10 watt? Davanti a noi ci sono due tipi di morte: quella del fisico e quella dell'anima. Con quella del fisico moriamo dentro e fuori. Con quella dell'anima viviamo al di fuori, ma siamo morti dentro. Facciamo in modo allora di “sentire” sempre; di essere sensibili in ogni caso, per non correre il rischio di essere morti, prima ancora che arrivi la nostra morte fisica. Amen.
 

giovedì 4 luglio 2013

7 Luglio 2013 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada». (Lc 10,1-12.17-20).
Ci troviamo dunque di fronte ad una impellente necessità: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi». Di fronte ad una “materialità” dilagante, di fronte ad un progressivo allontanamento da Dio da parte del mondo, l’uomo ha bisogno sempre più di nuovi inviati che gli offrano spiritualità, fiducia, amore. Nel nostro immaginario, pensiamo spesso che – se avessimo tanti soldi, tanta ricchezza, tante auto, tante possibilità, tanti amici - sicuramente staremmo bene; ci sentiremmo completamente appagati, a posto di tutto.
Ma poi ci accorgiamo che non è così, perché più abbiamo, più vorremmo avere. Più la materialità, le cose caduche, effimere, ci assorbono, più cadiamo nello sconforto; sentiamo il bisogno vitale di un altro tipo di ossigeno, di “spiritualità”, di entrare in un rapporto interiore con Dio, poiché tutto quello che ci accaparriamo in questo mondo, non influisce minimamente sulla nostra “anima”, non ci porta quella linfa vitale, generatrice di autentica felicità e serenità. Siamo tutti “messe” incolta, in attesa di essere curata, coltivata: una “messe” bisognosa dell’intervento determinante di veri operatori di felicità.
La cronaca nera ci riporta sempre più frequentemente di persone che, ricche e fortunate, sterminano improvvisamente la loro famiglia, i loro cari, per poi uccidersi.
Avevano tutto! Ma tutto ciò che avevano non li rendeva felici, non dava loro la voglia, l’entusiasmo di vivere, di combattere per quella felicità vera e duratura, che trascende le cose di quaggiù. Perché questa è una ricchezza che non si compra, non è in vendita, non è di questo mondo: appartiene allo spirito, all’anima!
Guardiamoci attorno: tutti si lamentano, tutti sono arrabbiati, tutti sono nervosi. Eppure oggi economicamente stiamo molto meglio dei nostri nonni: c’è un maggior benessere, possiamo permetterci vacanze, divertimenti, vestiti eleganti, ogni sorta di cibo e tanto altro ancora. Se qualcuno ci chiedesse cosa ci manca, sinceramente non potremmo che rispondere: “Niente”. Ma non è vero. Ci manca invece proprio quella voglia di vivere che avevano i nostri nonni; ci manca il loro gusto del vivere, del combattere; ci mancano le loro convinzioni profonde, la loro religiosità, i loro ideali, nei quali trovavano veramente la forza per vivere e combattere.
Ecco perché oggi in particolare, di fronte a tanta “messe” in sofferenza c'è tanto bisogno di “operai”, di “uomini di Dio”, di preti “convinti”, che parlino al cuore della gente, che indichino loro la strada che conduce a Dio; non servono “funzionari”, “impiegati” della chiesa gerarchica, ma “inviati” innamorati della loro missione divina, fieri di essere stati scelti da Lui, e completamente disponibili a fare la sua volontà. Non possiamo avere tipi, magari culturalmente preparatissimi, ma in totale asfissia di amore e di divino. Assomiglierebbero in qualche modo ad una dotta dichiarazione della Congregazione della Fede o ad un articolo del Catechismo o del Codice: dottrinalmente perfetti, ma incapaci di riscaldare il cuore, inadeguati a metterci in contatto diretto con l’amore del Signore, a farci sentire che siamo i suoi “benvoluti”, quelli che per Lui hanno valore, quelli importanti. Spesso finiamo per essere un “numero” anche per gli operatori di Dio, per la Chiesa di Dio, oltre che per una società tritatutto come quella di oggi.
Eppure, Dio vede la sua “messe” che langue, e manda continuamente nuovi operai: ma questi operai, come si comportano?
I settantadue del vangelo andavano, guarivano le malattie e annunciavano: “Il regno è qui, in mezzo a voi; datevi da fare!”. Non andavano a dire: “Tu devi fare così; tu sei in peccato, sbagli continuamente; il Signore di sicuro ti punirà, perché non sei un bravo cristiano”. Dicevano invece: “Tu sei ammalato nel cuore, ma se lo vuoi, puoi sicuramente guarire, perché il Signore ti ama e ti aspetta nella sua casa”.
La gente purtroppo è piena di malattie, ma non riesce a trovare dei validi “dottori” per guarire. Forse anche perché continua a credere nell'onnipotenza del medico e non si rende conto che la Vera Forza per guarire è dentro di lei, nel suo cuore. Allora più che di cattedratici, ha bisogno di “medici” esperti di anima, capaci di farle “riprendere conoscenza”, di infonderle fiducia, di iniettarle la consapevolezza che Dio, la Forza vitale, è dentro di lei. “Medici” che la facciano pregare, che tirino fuori il suo spirito, che la alimentino del pane celeste, dell’acqua sorgiva che disseta.
Il male che affligge l’umanità, la malattia che più la debilita, proviene dall’anima, dallo spirito, dal suo interiore. Gran parte delle malattie fisiche, provengono proprio dal fatto che è lo spirito ammalato, che è la psiche che sta male. Ora, da dove viene la malattia, proviene sempre anche la guarigione: il problema pertanto non è di trovare la pastiglia giusta, ma di guarire il nostro spirito contaminato, di cambiare, di ritrovare ciò che abbiamo perso, di riscoprire la sorgente vera della salute.
È in questo modo infatti molti “mali” sparirebbero: l'odio, la collera, l'ira, la paura, la vergogna, il senso di colpa che corrode…; che ce ne facciamo di queste malattie che appestano l’anima? Ci va di guarire veramente? E allora, fratelli, tiriamo fuori la grinta: il regno è qui, ora, diamoci da fare.
Gesù prima di tutto dice: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate”: in altre parole “Vai tu, muoviti!”. Invece noi normalmente ci fermiamo alla prima parola, alla preghiera: “Fa' Signore che succeda qualcosa; manda qualcuno a guarirmi: aspetto”. E sulla seconda, si tira indietro! Non vuole responsabilità.
Oggi in giro si fa un gran parlare di “responsabilità”, che bisogna essere responsabili, ecc. Ma responsabilità, da “respondeo”, comporta necessariamente un “rispondere”. C'è la chiamata (“vocatus”, vocazione) e c'è la risposta (responsabilità). Noi diventeremo grandi, adulti, quando alla chiamata della vita risponderemo di sì: quando cioè assumeremo le nostre responsabilità. Altrimenti rimarremo gli eterni bambini che delegano in tutto la mamma. L'adulto si fa coinvolgere. Il nullafacente chiama sempre in causa gli altri.
Ci lamentiamo perché la politica fa schifo? Rispondiamo noi in prima persona, facciamo le nostre scelte con coscienza, secondo i nostri principi, la nostra fede. Ci lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare di più? Rispondiamo in prima persona: “Eccoci”, siamo disponibili: siamo pronti a fare il messaggero, l’animatore, il catechista, e perché no, anche a pulire per terra. Ci lamentiamo perché le cose non vanno come dovrebbero? Andiamo avanti! Insomma noi, oltre che criticare e lamentarci, cosa facciamo? Vogliamo un mondo migliore? benissimo, diamoci da fare!
La vita, Dio, ci interpella continuamente, ha bisogno di noi. Egli ci ha “chiamati” all'esistenza, per consentirci di dargli una risposta. Appena ci ha visto, ci ha detto: “Tu! Ho bisogno di te!”. E noi che facciamo? Continuiamo a trastullarci con i nostri inconcludenti teoremi mentali? Dio non sa cosa farsene delle nostre teorie, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri “fioretti”. Egli vuole noi. Punto. Ed è ovvio: un innamorato, una innamorata, non sa che farsene dei regali, dei fiori, dei biglietti, delle telefonate, delle promesse, se poi non ottiene l’amore. Dio è innamorato di noi, vuole il nostro amore, la nostra risposta. Tutto il resto non conta!
Bene: noi cosa “portiamo” in questa chiamata? Cosa diamo, cosa trasmettiamo, quando incontriamo le persone, i fratelli, la messe? Alcuni si dicono soddisfatti: “Io sono sempre pronto per gli altri; io do tanto”. Sì, è vero, ma cosa diamo? Non basta dare; l’importante è “cosa” diamo; “cosa” trasmettiamo, quali sono i “messaggi” che portiamo!.
Sarebbe interessante andare dalle persone che frequentiamo e chiedere loro: “Senti dimmi la verità, quando stai con me, cosa ti passo?”. Mah!
Un fiore non ha bisogno di “portare” profumo: ci inonda di fragranza perché lui è così. Così siamo anche noi. Se nel nostro cuore abbiamo la pace, dovunque andremo ne lasceremo il profumo. Se abbiamo guerra, lasceremo macerie.
I settantadue inviati vanno, e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Come hai fatto tu così riusciamo a fare anche noi!”. È solo questione di fiducia in Lui, nelle sue Parole: se solo ne abbiamo un briciolo, scopriamo improvvisamente che quello che Lui ha fatto lo possiamo fare anche noi: l’importante è credergli e avere la sua forza dentro di noi.
Gesù è felice nel vedere lo stupore, la gioia, dei suoi discepoli; ma raddrizza subito il tiro: “Non siate felici per il potere che avete, per quello che potete fare. Non siete voi ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate invece felici per aver fedelmente risposto alla chiamata: non importa se non riuscite a fare miracoli, a guarire gli ammalati, a resuscitare i morti; quello che importa è che per la vostra “risposta”, i vostri nomi sono già scritti in cielo”.
Gli uomini, noi, passiamo tutti: tempo qualche anno e i nostri nomi saranno completamente dimenticati. Più nessuno si ricorderà di noi. Così è per i nomi scritti sulla terra, quaggiù; svaniscono nel nulla.
Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli” ci dice Gesù: “voi mi avete seguito, avete risposto alla mia chiamata: non sarete abbandonati; state tranquilli, nessuna paura, voi siete protetti, salvati; voi siete nel palmo della Mano di Dio. Nessuno da lì potrà mai rapirvi”. Ebbene: nel cuore di Dio nessun nome passa, nessun nome viene dimenticato. Nel cuore di Dio vivremo per sempre. Amen.

 

mercoledì 26 giugno 2013

30 Giugno 2013 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo…» (Lc 9,51-62).
L’azione didattica di Gesù nei confronti delle numerose persone che lo seguono continua anche durante il viaggio che dalla Galilea lo porta a Gerusalemme, dove è diretto per celebrare con i suoi la festa di Pasqua. Si muovono in gruppo e si sa, quando ci si sposta in molti, è indispensabile un minimo di organizzazione. Così Gesù manda avanti alcuni discepoli per predisporre dove pernottare e ristorarsi. Succede però che una città della Samaria, regione attraverso cui deve necessariamente passare, si rifiuta di accoglierlo e di dargli ospitalità.
È un imprevisto sgradevole per chiunque l’essere rifiutati: Gesù non si aspettava un trattamento di questo genere, anche se per lui il “rifiuto” non costituiva una novità: già fin dalla nascita, nei suoi primi giorni di vita, egli viene rifiutato dai “potenti” del luogo; viene poi praticamente rifiutato e perseguitato durante tutta la sua missione terrena; scribi e farisei lo contrastano continuamente, cercando in tutti i modi un pretesto per catturarlo, condannarlo, ucciderlo; infine è rifiutato dal suo stesso popolo, che al momento finale del processo-farsa cui viene sottoposto, gli preferisce un delinquente, decretando per lui una morte straziante di croce.
Se guardiamo insomma Gesù sotto questo profilo, l’impressione che ne possiamo trarre è quella di trovarci di fronte ad uno che ha fallito completamente la sua missione: ha fallito con quelli di casa sua perché non gli hanno creduto (dicevano che era un pazzo); ha fallito con i capi del popolo, religiosi e politici (dicevano che era figlio del diavolo, di Beelzebul); ha fallito con la gente che non ha accettato il suo regno (e lo ha lasciato solo come un cane nel pericolo); ha fallito con i suoi stessi amici (gli apostoli) che se la son data a gambe proprio quando era ora di difenderlo e di sostenerlo; ha fallito anche con suo Padre che non è intervenuto a salvarlo, né ha mosso un dito per evitargli una morte atroce.
Del resto la società consumistica in cui viviamo, con la sua pubblicità martellante, ci ha ormai abituato a guardare all'uomo solo come ad un “vincente”, ad ammirare solo colui che “riesce” in tutto; nella vita di oggi, infatti, l’unica parola che conta è “riuscire”, “sfondare”. Bisogna “arrivare” a tutti i costi. La felicità sta nel sentirsi “realizzati”: avere una bella famiglia, dei figli di successo, vivere nel benessere, una situazione economica florida, essere al top della scala sociale. Ma sono illusioni che hanno vita breve. Ben presto la vita ci insegna che la realtà non è questa: le famiglie falliscono, i figli si ribellano, le economie, anche le più floride, vanno in malora; le persone finiscono per “scoppiare”, “danno di matto”; quelli che erano gli ideali sublimi e le mete ambiziose da raggiungere, si rivelano un groviglio di falsità e di imbrogli. La felicità, una amara chimera. È il fallimento dell’uomo di oggi, il fallimento di una società che si ostina a rifiutare Dio. Un fenomeno, il fallimento che, anche se per motivi completamente diversi, anche Gesù ha provato: anche Lui ha fallito; anche Lui è stato e continua ad essere rifiutato dalla società; anche lui ha dovuto in qualche modo ridimensionare, cambiare i suoi programmi: questo suo “fallimento” lo ha messo infatti di fronte ad una dura realtà: non basta la chiarezza della Sua verità, né la profondità del suo animo; non basta la bontà delle sue idee, né l’amore che lo spinge, per convertire e salvare il cuore degli uomini. Ci vuole anche la loro volontà. Se uno non vuol convertirsi, purtroppo, non si converte, nonostante tutto. È per questo Gesù si sente “impotente”: Egli sente cioè che tutto il suo amore, tutto quello che ha sofferto, tutto quello che ha fatto e continua a fare per la salvezza dell’umanità, non basta. Non basta il suo messaggio, il suo annuncio, il suo Vangelo; non basta la sua Chiesa: gli uomini continuano e continueranno a non accoglierlo, a rifiutarlo: il suo amore continuerà ad essere calpestato, rifiutato, volutamente ignorato. È questo il “fallimento” del suo amore.
Quanti fallimenti nell’amore! Eppure continuiamo a fallire, anche se ogni fallimento ci offre una forte lezione di vita, che dovrebbe aprirci gli occhi. Solo se faremo tesoro di tali esperienze e impareremo a non ripetere continuamente i nostri errori, solo allora cresceremo. Altrimenti nuovi fallimenti si aggiungeranno ai precedenti. È solo questione di tempo. Dobbiamo fare tesoro delle esperienze vissute, fratelli; non trasformiamo mai il niente in tutto, perché questo tutto si dimostrerà ben presto niente. Attacchiamoci a Dio: guardiamo a Lui: Egli non vuole che noi falliamo nel nostro cammino di sequela; non vuole degli sconfitti. Dio vuole solo che noi ne usciamo vincitori. Nulla ci deve abbattere: anzi, dobbiamo mettere in conto qualche fallimento; fanno parte della vita; e ci deve consolare il pensiero che anche Gesù ha dovuto confrontarsi con questa realtà. Ogni volta che falliamo, stendiamo le mani e diciamo umilmente: “È così!”. Cioè, accettiamolo questo fallimento, accogliamolo come segno della nostra debolezza, non nascondiamocelo. Cerchiamo di non vergognarci, non è una condanna a morte. Essere dei perdenti, non riuscire, fallire, non è mai stato piacevole per nessuno, in nessun campo; è anzi molto doloroso, perché si tratta di perdere quella bella immagine patinata, di facciata, che con tanta cura ci eravamo costruiti per l’ammirazione degli altri. Se ci capita di fallire, dobbiamo imparare la lezione; solo in questo modo il fallimento diventa un fattore evolutivo e creativo; e ripartendo dal basso, possiamo rinascere; soprattutto se ci rimettiamo a Lui, al Suo Abbraccio: perché Lui è sempre pronto ad accoglierci!
Il vangelo prosegue poi definendo alcune condizioni per seguire Gesù. Gesù non chiede a quanti lo vogliono seguire, di fare i voti di povertà, castità, obbedienza: chiede solo la nostra “libertà” d’animo, un affrancamento interiore. Nei tempi passati si diceva che le parole di questo Vangelo riguardavano solo i preti e le suore. Invece sono insegnamenti che riguardano tutti: seguire Gesù, andare dietro a Lui, vuol dire seguire la voce più profonda, la nostra personale “vocazione”, ascoltando non le voci e i desideri di superficie, ma i bisogni profondi della nostra anima. E non possiamo fare questo, se non siamo interiormente liberi di muoverci.
«Ti seguirò ovunque tu vada», gli dice un uomo. L'uomo è molto motivato e ben disposto. Ma Gesù smaschera subito i facili entusiasmi e la superficialità: «Le volpi hanno le loro tane, ma io no». La tana è il rifugio, la sicurezza, la certezza che lì si è al sicuro e protetti. Gesù non garantisce questo; Gesù garantisce la vita non la protezione, la copertura totale; garantisce la felicità, non la tranquillità. Gesù non si fa abbagliare dalla nostra subitanea disponibilità. “Non solo se lo vuoi (è la prima condizione), ma se lo puoi”; in altre parole, “non solo se ti piace, se sei innamorato della proposta, ma anche se ne sei convinto interiormente, se ne hai la libertà interiore, allora seguimi”. “Io vorrei seguire il Signore... ma se poi qualcuno trova da ridire? E se poi entro in conflitto con le persone? E poi… vorrei essere certo di non sbagliare strada, di fare la scelta giusta per me. E se mi inganno? Se non ce la faccio? Se rimango solo?”. La risposta di Gesù brucia ogni velleità di certezze inconsistenti e infondate: “Chi ha il nido vi ritorna; e chi ha la tana vi si rifugia lì”. Per seguire il Signore invece bisogna mettere tutto in discussione; tutto deve essere vagliato. Nulla può essere dato per certo, anche ciò che prima ci sembrava assoluto. Per Lui deve essere messo in gioco tutto. Vivere così è vivere senza certezze interiori, riferimenti assoluti, senza “case, nidi o tane”.
Gesù lungo il viaggio si rivolge poi ad un altro e gli dice: «Seguimi», ma riceve un altro fallimento, un altro rifiuto, come già con il giovane ricco. “Aspetta un attimo!”. L'uomo non dice di no, ma rimanda, posticipa: “Guarda Gesù, vengo sicuramente, ma prima devo sistemare alcune cosucce; prima devo laurearmi, devo sposarmi, devo sistemarmi e poi verrò; quando sarò diverso, quando avrò più possibilità, più tempo; quando saranno cambiate un po' le cose, quando avrò risolto i miei problemi e superate le mie paure, allora ti seguirò”.
La risposta di Gesù è tremenda: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti». Cioè: “Tu sta con la Vita, non con la morte. Stai dove c'è la Vita e vivrai; se stai dove c'è la Morte, morirai. Lascia quindi che quelli che sono morti dentro, spiritualmente, stiano e trattino con le cose morte, con le persone e le esperienze di morte; tu va' per la tua strada. Vivi e sta dove c'è la Vita, dove si sente l'amore, il pulsare e la vibrazione dell'esistenza”.
Un altro ancora dice a Gesù: “Ti seguo ma lascia che prima mi congedi da casa mia”. Egli vorrebbe l'approvazione e l'accettazione dei suoi familiari. Ma non si può vivere dipendendo dal giudizio degli altri; non si può permettere agli altri di determinare la nostra vita. Se non ci sottraiamo alle aspettative dei familiari, non solo non possiamo seguire il Signore, ma non possiamo vivere, non possiamo diventare noi stessi, non possiamo scoprire chi siamo realmente.
La frase: «Nessuno che si mette all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» ci illumina su un’altra questione del nostro vivere. L'aratura in Palestina è un lavoro duro e anche un po' pericoloso. Se guardiamo a destra o a sinistra, o peggio ancora se guardiamo indietro, rischiamo non solo di non andare dritti ma di farci male. Quindi bisogna guardare avanti e non guardare mai indietro. Questo lo portiamo scolpito nel nostro corpo: i nostri occhi sono posizionati sul viso in modo da guardare sempre avanti, non per guardare indietro (altrimenti li avremo anche nella nuca).
Il passato blocca. Quante volte ci diciamo: “Se non avessi fatto quella cosa... se avessi agito diversamente... se potessi tornare indietro... se lo avessi saputo!”, e continuiamo a pensare e a rammaricarci su quanto abbiamo fatto. Ma il passato è passato. Non giriamoci continuamente indietro; andiamo avanti e basta!
Nella Bibbia c'è un bellissimo episodio (Gn 19,1-29): quando vennero distrutte Sodoma e Gomorra fu detto a Lot di non voltarsi indietro e di non guardare. Sua moglie, invece, scampata dalla distruzione, si voltò a vedere cos'era successo, e divenne una statua di sale. Gli occhi possono guardare in avanti o indietro ma non nello stesso momento. Se ci soffermiamo a guardare indietro, a quello che poteva essere e non è stato, alle scelte che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, non andiamo più avanti, diventiamo statici, immobili, morti; come una statua di sale. Qualunque cosa ci succeda nella vita, dobbiamo avere sempre fiducia; non giriamoci mai indietro. Ciò che è stato, fa parte del nostro bagaglio di vita, lo porteremo sempre con noi sulle nostre spalle; davanti a noi ora si apre un nuovo tratto di strada da percorrere, libero; dobbiamo proseguire, andare e guardare avanti, sempre: perché Lui è lì che ci aspetta: di fronte, non alle nostre spalle. Amen.
 

giovedì 20 giugno 2013

23 Giugno 2013 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).
Luca oggi ci rivela un piccolo spaccato di quotidianità: gli apostoli stanno a scuola. Gesù è il maestro, è chiaro; ma altrettanto chiaro è che il suo scopo didattico non è tanto quello di fare dei seguaci, dei proseliti, dei fedeli ad ogni costo; di gente insomma che “pende” dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone che lo seguono siano invece adulte, autonome; vuol fare degli apostoli altrettanti maestri come Lui. Per questo Egli li ha sottoposti ad un apprendistato di circa tre anni.
C'è un periodo nella nostra vita in cui dobbiamo imparare; un periodo in cui tutti dobbiamo crescere e “divenire”; ma questo periodo non può essere eterno, non può essere tutta la vita. È un periodo di maturazione necessaria, in cui dobbiamo “radicarci” in ciò che crediamo, in ciò che viviamo, in modo da poter rispondere personalmente delle nostre scelte, della nostra vita; in modo da decidere noi, autonomamente, come vivere; in modo da non delegare a nessuno le responsabilità del nostro cammino. Dobbiamo insomma imparare a vivere.
Il nostro più grande peccato? Quello al quale Dio ci metterà di fronte, quando ci dirà: “Sì, forse non avrai anche fatto niente di male, ma non hai vissuto. Non sei stato te stesso. Hai sempre seguito gli altri, hai fatto quello che facevano tutti; di tuo, di veramente personale, nella tua vita non c'è niente. L’hai interamente sprecata la tua vita!”. E ci accorgeremo allora di tutta la nostra nullità, di tutta la nostra codardia, del nostro “tiepidismo”, del non essere stati mai né caldi né freddi, della nostra paura di crescere, di diventare adulti, di vivere coraggiosamente e orgogliosamente la “nostra” vita cristiana. Ma allora sarà troppo tardi.
Ad un certo punto della “lezione”, dunque, Gesù inizia a chiedere: «Le folle, chi dicono che io sia?». E gli apostoli riportano alcune opinioni: “Giovanni Battista, Elia, un profeta”, cose molto belle!; ma altrove ci sono anche altri che dicono: “Un mangione, un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare, pericoloso), un eretico, ecc.”.
Certo, sapere cosa dice il catechismo su Dio è sicuramente importante; è importante sapere cosa si crede in giro di Lui; è importante farci raccontare le altrui esperienze di Dio. Ma ciò che conta veramente non è questo. Decisiva è la Sua domanda: “Tu, cosa pensi di me? Chi sono io per te? Come sono presente nella tua vita? Quanto vibra il tuo cuore quando ci incrociamo? In pratica, quanto vivo Io in te e tu di me? Di quanto ho cambiato la tua vita, il tuo modo di pensare, di sentire, di amare, di dare priorità alle tue scelte?”. Ebbene: tutte le nostre risposte preconfezionate, le nostre “belle rispostine” già pronte e imparate a memoria, le frasi fatte, qui non c'entrano nulla. Nella nostra vita non possiamo rifarci sempre a qualcun altro, non possiamo nasconderci dietro agli altri, non possiamo giustificare il nostro immobilismo, chiamando in causa quello che dicono o fanno gli altri, il modo con cui essi vivono la loro fede. Ripeto, quello che conta è: “Noi cosa viviamo di Dio? Cosa conserviamo di Lui nella nostra anima? Siamo disposti a lasciarci coinvolgere da Lui?”. Non svicoliamo, amici miei; non cerchiamo sostituti o panacee: siamo noi che dobbiamo dare una risposta convinta; noi soli, nessun altro.
Dio ci ama anche se gli diciamo di “no”. Dio ci accoglie anche se gli diciamo: “Non mi interessi; non voglio avere a che fare con te”. L'importante è essere chiari e veri con noi stessi, l’importante è non mentirsi. Non diciamo “Io credo in Dio” per poi vivere in maniera opposta, falsificando platealmente il nostro "credo", relegando Dio nel ripostiglio più buio o in una soffitta abbandonata della nostra vita; non esibiamo sfacciatamente una fede che non abbiamo, nascondendo in questo modo il nostro tragico vuoto.
L'esperienza cristiana è un incontro tra noi e Lui. Leggiamo pure la vita dei santi, proponiamoli all’attenzione degli altri, andiamo pure a fare esperienze spirituali e religiose in giro per il mondo, facciamo pure pellegrinaggi, frequentiamo pure corsi di alta spiritualità carismatica, ma per cortesia non assolutizziamo, non idolatriamo queste nostre esperienze, non rendiamole la quintessenza della spiritualità, l’unica via larga verso la santità. Perché tutto questo, preso in sé, non significa nulla, non ha alcun valore: ciò che conta invece, è che queste esperienze ci diano la forza e la possibilità reale di incontrare Lui, personalmente; di sceglierlo, di fargli spazio in noi, di trasformarci radicalmente in Lui, per poter noi stessi diventare poi dei protagonisti, dei partners di Dio.
E Pietro qui risponde: «Tu sei il Cristo di Dio». Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli. Tutto ciò che essi poi ci hanno trasmesso: Dio è Colui che ci accoglie in maniera incondizionata, che ci ama al di là di ogni nostro errore, di ogni pecca, dal quale potremo sempre ritornare con tutti i nostri fallimenti, le nostre pecche, i nostri pianti: e ciò senza gesti eclatanti da parte nostra: non dovremo rimeritarci l'amore; non dovremo fare qualcosa di eroico per dimostrargli che siamo ancora degni del suo amore. Dovremo semplicemente stendere le nostre braccia e, consapevoli e pentiti dei nostri limiti, farci abbracciare da Lui. Perché Lui ci ama nonostante tutto. Questa è l'esperienza centrale della nostra fede. È l'esperienza che possiamo vivere, osare, esporci, perché Lui per noi c'è sempre, e ci sarà sempre, in ogni caso.
I momenti delle difficoltà e delle prove sono inevitabili. Ci saranno addirittura giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno giorni in cui malediremo il momento in cui l'abbiamo incontrato; ci saranno giorni in cui sarà rischioso seguirlo, in cui ci verrà chiesto di osare, di buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli, i nostri programmi logici per ogni cosa; ci saranno giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci in prima linea; ci saranno giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo, di credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno giorni in cui proprio i “genitori” dell'amore, della fede - gli “scribi”, i “sacerdoti”, cioè proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci - si rivolteranno contro di noi.
E che faremo in quei giorni? Solamente chi è radicato in profondità, solamente chi ha fatto un incontro trasformante e decisivo, solamente chi Lo sente vivo per davvero nella propria vita, nel proprio cuore, resisterà e avrà il coraggio di non tradire la propria fede, la propria coscienza, gli slanci del proprio cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui, e quindi coinvolgente, rimarrà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C'è un proverbio russo che dice: “Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non troverai mai la strada di casa”. Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi ha bisogno di essere continuamente “approvato” e non accetta di essere “riprovato”, giudicato, considerato male, chi vive nella falsità, chi mostra al mondo una facciata diversa da quella che ha nell'intimo, è uno che si allontana sempre più da se stesso e da Dio.
Non abbiamo altra scelta, fratelli: dobbiamo vivere seguendo ciò che Dio ha posto nel nostro cuore; dobbiamo prendere le parti di ciò che è “vivo” in noi; dobbiamo trovare il coraggio della verità e dell'amore, scoprendolo nella forza del nostro cuore; dobbiamo soprattutto rinnegare tutte quelle maschere fasulle che ci costruiamo per paura, per pusillanimità.
Le persone in genere si augurano una vita piena di “serenità e salute”. È un modo per dire che desiderano essere felici. Ma non c'è nessun supermercato che vende la felicità; non c'è nessuna ricetta per essere veramente felici, per stare veramente bene: nessun libro, nessun santone, nessuna formula magica, nessuna risposta decisiva. Bisogna avere solo il coraggio e l’umiltà di vivere la propria vita in “sintonia” con Lui; questo è tutto. Perché la felicità, deriva soltanto dal vivere la nostra vita con la stessa intensità, con lo stesso amore, con la stessa dignità, con cui Lui ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.
Le persone dicono: “Io mi amo”. Ma “amarsi” non è cosa da poco: è un’impresa ardua, difficile. È difficile rinnegarsi, dirsi di “no”: perché “amarsi” è proprio questo, rinnegare se stessi, cioè spogliarci di tutte quelle false maschere che ci impediscono di vedere come e chi siamo realmente, che ci impediscono di prendere la nostra croce, di seguire la nostra strada, la nostra vita. È difficile dire “no” alla maschera del sorriso a tutti i costi; del sembrare sempre generosi e buoni con tutti. È difficile dirsi di “no” e abbandonare certi atteggiamenti di superiorità. È difficile dirsi di “no” e non reagire quando gli altri ci fanno del male: non possiamo far sempre finta di niente e “passare” sopra a tutto. È difficile dirsi di “no” e smettere di chiamare amore ciò che non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. È difficile dire di “no” alla superficialità e fingere di essere sempre felici e che tutto ci va bene. È difficile dire di “no” a certe abitudini di vita, anche se sappiamo benissimo che ci fanno male, ci distruggono, ci alienano, ci allontanano dalle persone, ci rendono insensibili. È difficile dire di “no” al nostro sentirci vittime a tutti i costi: ci piace tanto adagiarci nel compatimento, nella tristezza, aggrapparci all'illusione che sono gli altri i responsabili della nostra vita, della nostra felicità o infelicità; perché in questo modo manteniamo le cose così come sono, evitiamo la fatica di crescere e di diventare adulti. No, fratelli: smettiamola di buttare sugli altri ciò che è soltanto “nostro”; smettiamola di fare come i bambini che accusano sempre gli altri. Basta. Guardiamo una buona volta dentro di noi. Iniziamo ad accoglierci, ad amarci, non perché siamo più degli altri, ma perché siamo semplicemente “noi”. Certo, è difficile dirsi di “no”: nessuno ha mai detto che “amarsi” sia facile. Ma ci renderemo conto che ogni “no”, prelude sempre ad un “sì”. Ogni “no” a ciò che ci fa male, è sempre un “sì” a ciò che ci fa bene. Nostra madre ha dimostrato di amarci molto dicendoci “sì”; ma ha dimostrato di amarci molto di più dicendoci “no”. Così dobbiamo fare noi con noi stessi. Se ci vogliamo bene dobbiamo dire “no” a tutto ciò che ci fa male, a tutto ciò che ci allontana da noi stessi e da Lui.
Dobbiamo imparare da Gesù il coraggio di vivere la “nostra” vita, quell'unica vita che Dio ci ha destinato. Dobbiamo seguire l’esempio che Lui ci ha dato, affrontando quel viaggio che ci porta a conoscere il nostro cuore, noi stessi, la nostra missione e il Dio che abita in noi.
Caricarsi della propria croce, non è farsi del male, non vuol dire imporsi sofferenze o punizioni; è invece accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua radicalità, in tutta la sua compresenza di luci e ombre, in tutti i suoi richiami, in tutte le sue contraddizioni.
Prendere la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi per altre strade, irrimediabilmente si perde. Chi vuol risparmiarsi, chi non vuole mettersi in gioco, chi vuole mantenere tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, perderà la propria vita: è ovvio, è inevitabile. È così! Chi vuol salvarsi dal crescere, dall'evolvere, muore.
È proprio vero: di quante cose dobbiamo liberarci, se vogliamo raggiungere la salvezza!
Nella prima parte della vita crediamo che “salvarsi” sia “ottenere”. Allora rincorriamo la posizione sociale; accumuliamo soldi, denaro, posizioni, onorabilità; cerchiamo di avere cose, case e quant'altro. Cerchiamo di salire nella scala sociale dell'apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, rappresentano la nostra unica salvezza.
Ma nella seconda parte impariamo (meglio: dovremmo imparare!) che tutto questo non ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non “ottenere” ma “perdere”. Dobbiamo perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; dobbiamo perdere le tante illusioni in cui ci siamo cullati; dobbiamo perdere i tanti rivestimenti, le tante incrostazioni, per ritornare alla “nudità” originale, all'essenziale della vita; dobbiamo spogliarci di tutto per ritrovare noi stessi.
E allora finalmente capiremo che la vita più che un processo di acquisizione, di conquista, è in definitiva un grande processo di rinuncia e di perdita. La piena felicità della nostra vita poggia infatti sulla paradossale verità che per “trovare” bisogna “perdere”. Amen.
 

venerdì 14 giugno 2013

16 Giugno 2013 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-8,3).
Il vangelo di oggi ci trasmette un messaggio profondo e consolante che ci invita al ritorno a Dio, alla fiducia piena nella sua misericordia, al pentimento, ad una nuova vita, al rientro nella sua grazia. L'uomo non è destinato a rimanere nel male e nella morte, perché il Signore si è fatto vicino per salvarlo, per rinnovargli la vita, per infondergli nuova fiducia, per elevarlo alla dignità di figlio di Dio.
La scena si svolge a casa di un fariseo, Simone, che aveva invitato Gesù a cena.
È chiaro che questo suo invito è solo un pretesto: egli vuole farsi una sua idea personale sul personaggio Gesù; vuole verificare di persona, stando faccia a faccia, se quel predicatore itinerante, di cui ultimamente aveva sentito tanto parlare bene, fosse realmente dotato di quelle qualità così straordinarie che gli venivano attribuite. È un calcolatore, il fariseo: dai ragionamenti che egli fa in cuor suo, emergono evidenti i segni della sua ristretta mentalità: come cioè nel corso della sua vita egli si sia sempre lasciato condizionare nei suoi giudizi, più dalla forma esteriore che dal contenuto, più dall’apparenza che dalle reali motivazioni interiori del prossimo: uno insomma molto esigente e severo sul comportamento morale degli altri, ma altrettanto permissivo e benevolo con il proprio; né più né meno di come fanno anche oggi tantissimi cristiani.
Così non appena Gesù esce dallo schema di quello che per lui era “lecito”, il nostro fariseo vuole immediatamente capirne le ragioni, rendersi conto del come e del perché.
E a prima vista, i fatti sembrano confermare il suo pessimismo; sembra quasi che Gesù, lasciandosi avvicinare e facendosi toccare da una donna notoriamente peccatrice, si squalifichi da solo, offrendo spontaneamente il fianco alle sue critiche e mormorazioni: insomma, un errore “grossolano” quello di Gesù. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca...!».
Simone lo critica proprio per questo suo sprezzo delle convenienze sociali; e nel contempo mette in dubbio la sua capacità di leggere dentro la coscienza altrui.
Ed è proprio dal comportamento di questa donna peccatrice - una donna che senza dire una sola parola entra piangendo e va dritta da Gesù, si getta ai suoi piedi, glieli bagna con le lacrime, li unge con l’unguento e li asciuga con i capelli - che Gesù trae lo spunto per il suo insegnamento.
È un gesto importante quello della poveretta: un gesto con cui lancia un messaggio disperato a Gesù: un grido che solo Lui afferra in tutta la sua gravità e importanza; e Lui lo spiega a tutti, a partire dal padrone di casa: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Nella mentalità del fariseo l'interesse, la convenienza, ha sempre avuto la meglio sull’amore, sulla comprensione, sulla generosità, ha sempre soffocato gli slanci del cuore: perciò Gesù inizia a parlare partendo giustamente da un esempio “economico”: quanto più grande è la somma in denaro condonata ad un debitore, tanto maggiore sarà il debito di riconoscenza nei confronti del suo benefattore.
Così, dopo il giudizio scontato sulla donna e quello sospettoso nei confronti sul Signore, il fariseo è costretto a riformulare un giudizio di merito su se stesso: non aveva accolto il Signore nella sua casa con sincerità e disponibilità perché si riteneva superiore a Lui; inoltre aveva ulteriormente dimostrato questo suo pregiudizio giudicando superficialmente i gesti della donna, rivelando così un cuore totalmente sprovvisto di amore.
Un fatto grave e preoccupante, perché soltanto l'amore è in grado di farci conoscere la gravità delle nostre colpe e di predisporci, riconoscendoci peccatori, a riceverne il perdono. Solo l'amore autorizza il Signore a rimettere i peccati di chi se ne accusa contrito.
Ecco, fratelli: con questo episodio Gesù non si riduce semplicemente a dirci che la superbia è un peccato più pericoloso della sensualità; ma ci mostra soprattutto cosa dobbiamo fare per liberarci sia dell'una che dell'altra.
«I suoi molti peccati sono perdonati, perché ha molto amato». A Dio non importa la nostra devozione se non è sorretta dalla “passione”, dall’amore; non cerca “giusti” ma “figli”, a lui non interessa la nostra “immagine” ma quello che siamo realmente nel nostro cuore. Esige da noi suoi discepoli verità, passione, forza, apertura, entusiasmo, anche a costo di sbagliare.
La mansuetudine con cui il Signore ha accolto la donna è solo il segno esteriore della sua enorme misericordia per l’uomo, del suo amore infinito, con cui attira a sé le anime umili e pentite. Il nostro perbenismo e la nostra morale sterile non possono assolutamente competere con l'infinito amore di Dio.
Questo la donna peccatrice l’aveva percepito immediatamente, e non si era sbagliata.
Nei piedi del Signore che si muovono per terra, a contatto con le asperità del suolo, ella aveva intravisto la sua bontà e la sua “apertura” misericordiosa nei confronti dell’umanità; ed è partendo da essi che manifesta tutto il pentimento per la sua condotta peccaminosa; e poiché davanti a tutti aveva peccato, davanti a tutti si prostra a chiedere il Suo perdono. E sono proprio questi gesti, con cui si rivolge al Signore, che lasciano intravvedere il suo impegno di conversione: d'ora in poi avrebbe cambiato radicalmente la sua vita. Il profumo del suo amore di donna si sarebbe sparso solo per la gloria di Dio.
Ora, nel nostro cammino di discepolato, le ombre del nostro peccato, viste alla luce dell'amore di Dio, devono continuamente distoglierci da qualunque forma di superbia: siamo un nulla, ci distinguiamo soltanto per il nostro egoismo, per la nostra ingratitudine: il Signore ci chiede al contrario uno sguardo sereno sulle cose, facendoci capire che con un po’ di umiltà, contando sul suo aiuto, possiamo fare ancora tanto bene.
Quando Gesù pronuncia le parole di perdono, non sta parlando al presente, come di qualcosa che avviene in quel momento. Gesù semplicemente ricorda alla donna, al fariseo e a noi, che il perdono viene concesso nel momento stesso in cui riconosciamo le nostre colpe; nell'umiltà: il perdono della donna è legato infatti proprio alla sua umile azione di lavare, asciugare, baciare e profumare i piedi di Gesù.
Un'esperienza del perdono ricevuto, questa della donna, che a questo punto la trasforma, e la rende testimone per il mondo della sua grande bellezza interiore ritrovata: è in lei, infatti, che – pur rimanendo agli occhi di Simone una disprezzabile prostituta, una peccatrice da allontanare e punire - Gesù vede una donna rinnovata, una donna che ora ama col cuore.
Due punti di vista diversi, quello di Gesù e del fariseo: due punti di vista che ci provocano a ripensare profondamente il nostro modo di vederci gli uni e gli altri. Amen.

 

mercoledì 5 giugno 2013

9 Giugno 2013 – X Domenica del Tempo Ordinario

«Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: Non piangere!» (Lc 7,11-17).
Una madre che piange il proprio figlio. Una madre che, con il cuore lacerato dal dolore, accompagna al sepolcro il suo unico figlio che è morto. Che tragedia la morte! Solitudine assoluta. Niente ha più un senso, niente ha più valore: tutto crolla intorno a noi.
“Non piangere”, le dice Gesù. Ma come si fa a non piangere quando sopraggiunge colei che per mestiere, imperterrita, ruba e rapina la vita, i nostri affetti più cari? Guardiamoci intorno: chi non ha dovuto pagare uno scotto tremendo per averla incontrata nel proprio cammino? Eppure i santi la chiamano “sorella nostra morte corporale”. E ringraziano Dio perché con il suo passaggio accelera il momento del loro ricongiungimento col Padre.
Già, i santi. Ma noi? Siamo sempre pronti ad accogliere questo “ladro” che viene di notte? C'è poco da scherzare: inutile divertirsi, distrarsi, drogarsi; inutile illudersi, inutile cercare di dimenticare, inutile rifiutare di pensarci, inutile volerla ignorare a tutti i costi!
La verità è una sola: lei c’è e noi al suo arrivo non godiamo di preferenze. Il nostro passaggio nel tempo è limitato, brevissimo, inconsistente, irrisorio: eppure ci comportiamo come se fossimo i padroni assoluti del tempo! Pensiamo di essere eterni, onnipotenti, inattaccabili. Ma poi improvvisamente arriva lei. A volte improvvisa, a volte con un tragico preavviso. E allora le nostre lacrime. Lacrime tardive di dolore, di sofferenza, di constatazione della nostra nullità, dell’irrimediabile da rimediare. Subito. Immediatamente. Perché il domani per noi non c’è più.
Ecco, fratelli: questo è il traguardo cui tutti siamo incamminati. Allora, se lo sappiamo, perché non prepararci? Se non siamo completamente corrosi dall’indifferenza, dalla stupidità, fermiamoci un istante: scrutiamo dentro la nostra anima, in fondo al nostro cuore: e vedrete che in fondo a quel tunnel, apparentemente interminabile, della nostra incapacità, della nostra pochezza, c’è comunque una luce che brilla, che ci può guidare, l’unica luce che può infonderci la forza per non arrenderci, per non soccombere, per continuare ad andare avanti, per migliorare, per vincere qualunque paura: è la luce di Cristo, la luce della fede. Lui solo può consolare le nostre lacrime: lui ci conosce, sa come fare per consolarci, per aiutarci, per sorreggerci.
Lui conosce l’autenticità del nostro dolore. Lui solo è in grado di valutare la nostra sincerità, la nostra buona volontà. Lui solo può prenderci in braccio quando non riusciamo più a camminare. Lui solo può raccogliere le nostre lacrime, le nostre sofferenze e tramutarle in gioia infinita.
Noi siamo abituati nei nostri lutti a fare grande esibizione del nostro dolore, delle nostre lacrime. Più sono plateali, più attirano attenzione e amicizia posticcia in chi ci sta intorno. Ma quando piangiamo di noi stessi, non c'è bisogno di versare lacrime. Non dobbiamo convincere nessuno. Lui ama il silenzio e il raccoglimento, non le “conversioni” mediatiche. 
È il nostro cuore che si deve gonfiare di dolore, e anche se all’esterno sembriamo impassibili, è la nostra anima che deve piangere. Perché sono proprio queste lacrime silenziose, invisibili, che non passano inosservate agli occhi di Dio. Il Signore, non ha bisogno di tante parole, di telecamere, di studi televisivi: egli legge la nostra sincera conversione, la nostra decisione di cambiare vita, direttamente dentro di noi. Ed è lì che Lui ci viene a consolare, aiutare, guarire, resuscitare. Si, resuscitare: perché quando la nostra vita va a rotoli, quando non sappiamo più dove sbattere la testa, quando non abbiamo più neppure il coraggio di rivolgerci a Lui, quando arriviamo a calpestare anche le sue offerte d’amore, quando arriviamo perfino a maledirlo, noi siamo decisamente “morti”, ci comportiamo da “morti”, viviamo da morti: spiritualmente siamo peggio di tanti zombi.
Ascoltiamo allora la sua voce. E piangiamo. Piangiamo su noi stessi, sulla nostra ingratitudine, sulla nostra cecità. E preghiamo: la preghiera che ha commosso Gesù nel vangelo di oggi, è quella silenziosa, mossa da un dolore composto, vero, intimo; come quella di una mamma che piange muta, impietrita dal dolore, il proprio figlio.
Piangere e pregare Dio non significa urlare, pretendere, imporre che una cosa sia come vogliamo noi, magari proprio come non deve essere. Che diritti, che autorità abbiamo per inveire? Ci è stato tutto donato: ampiamente, generosamente donato. Non c’è alcun motivo di gridare la nostra rabbia; impariamo a trattare Dio solo con rispetto, con umiltà, con gratitudine, con grande amore; e anche quando trattiamo col nostro prossimo, facciamolo con l'amore della parola, la dolcezza di un sorriso, l'esempio della Fede, trasmettendogli la convinzione che dove non possiamo arrivare noi, ci penserà senz’altro Lui, il Signore.
A cosa serve disperarsi, urlare, imprecare, dare in escandescenze? Serve solo a dare cattivo esempio. Significa dimostrare a tutti la nostra debolezza, la nostra inconsistenza, la nostra povertà mentale. Avere fede è ben altra cosa. È amorevole attesa, nella convinzione che tutto è nelle Mani di Dio e sarà Lui a risolvere la situazione come e quando lo riterrà opportuno.
La fede è amore: quello stesso amore che Dio ha per noi, l'amore di una mamma, di un padre, che con grande dolore assistono alla rovina del proprio figlio; vedono il proprio figlio “morire” a poco a poco, fare cose non giuste, buttarsi via, drogarsi, ribellarsi al bene; e nonostante tutto, gli stanno sempre pazientemente vicino, continuano a camminare accanto a lui, sperando solo che Gesù passi nella sua vita e gli accordi la “resurrezione”.
Alla porta della città di Nain incontriamo due cortei: il corteo di Gesù che dona la vita e il corteo del morto, di quelli che sono anch’essi morti, perché non hanno fede, perché vivono con la morte nell’anima; di quelli che, pur avendo compassione per il prossimo, pur volendolo, non sanno e non possono consolare, non sanno e non possono guarire. Gesù, invece, che è Vita, sente una compassione diversa, la vera compassione, quella che ha la potenza di risolvere tutti i problemi. Egli è il solo che può portare concretamente la misericordia di Dio a coloro che gemono e piangono.
La risurrezione di questo ragazzo ne è infatti la chiara dimostrazione: Dio è misericordia, è potenza: è la potenza della misericordia, la potenza dell’amore messa al nostro servizio.
Quanta strada dobbiamo ancora fare, Gesù, solo per iniziare a capire come sei! Ti chiediamo perdono, Signore, per tutte le volte che nella nostra vita abbiamo pianto la “morte”, senza mai rivolgere il nostro sguardo fiducioso a Te, l’unico che può dare la Vita vera; per tutte le volte che abbiamo assistito alla caduta, alla “morte” dei nostri cari, dei nostri fratelli; per tutte le volte che non abbiamo saputo sostenere i fratelli più deboli, i fratelli feriti, magari già morti nell’anima, ma che si fidavano di noi; per tutte le volte che non ci siamo fatti loro compagni di strada, che non siamo stati solidali con loro; per tutte le volte che non abbiamo condiviso il loro dolore; per tutte le volte che siamo stati insensibili e indifferenti al nostro stesso di dolore, al dolore e alle lacrime della nostra anima: e abbiamo volutamente ignorato il bisogno impellente di una sua risurrezione. Amen.
 

giovedì 30 maggio 2013

2 Giugno 2013 – SS. Corpo e Sangue di Cristo

«Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (Lc 9, 11b-17).
La festa di oggi nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto: un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Così durante una messa, quando spezza il pane, un po' di sangue scorre dalla piccola ostia. Dal 1264 questa festa viene estesa a tutta la Chiesa. È la festa dell’Eucaristia.
In tre modi diversi il Signore è stato ed è presente tra noi: con il suo corpo reale, vissuto oltre duemila anni fa; con il pane consacrato, nell'eucarestia (verum Corpus): ogni volta che i cristiani vivono la Cena, Lui è presente in mezzo a loro; infine è presente nel “corpo” delle persone, nella persona del nostro prossimo, dei nostri fratelli (corpus mysticum).
Questa presenza di Cristo mette in luce una grande verità: Dio è visibile solo attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù per incarnarsi e per rendersi visibile personalmente al mondo. Dio ha bisogno di pane e vino per rendersi presente ogni domenica a noi. Dio vive nel corpo e sangue delle persone, di tutto ciò che esiste, che ha vita.
Per tanti secoli si è diviso il corpo dall’anima. Il corpo era il “contenitore” dell'anima. Non aveva valore in sé ma solo in quanto conteneva la parte nobile dell’uomo: l'anima. Per cui tutto ciò che era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura diabolico. Così per esempio il corpo della donna per molti secoli è stato il simbolo del peccato, della tentazione; l'affettività è stata negata e repressa come infantilismo e la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
Non sono cose così lontane da noi. Quanti di noi da piccoli hanno sofferto per mancanza di affettività da parte di chi ci voleva bene? Si veniva presi in braccio, ma solo per essere cambiati o zittiti dal nostro pianto. Ma gli abbracci? Le coccole? Le carezze? Il contatto pelle a pelle? Il gioco? Quanti di noi oggi sono analfabeti di emozioni! Il linguaggio delle emozioni era una cosa sconosciuta: non sapevamo cosa provavamo, non riuscivamo a dare un nome a ciò che vivevamo, certe emozioni ancora oggi non le conosciamo! Al di là di "bene" e "male" non sapevamo andare!
La rabbia? Ci hanno sempre insegnato che bisogna tenerla dentro, che non bisogna esprimerla, che "non ci si deve arrabbiare". La tristezza? Ah no, non si poteva essere tristi. Bisogna sempre sorridere, fare sempre la bella faccetta e non mostrarci mai tristi, perché un "bravo bambino è sempre felice". La gioia? Mai esprimerla troppo, sempre contenersi, mai esagerare. Quanti di noi vivono ancora con sospetto ogni manifestazione troppo “corporea” della propria gioia. Un abbraccio?: "Se la vuole portare a letto!". Una carezza? "Ci sta provando!". Un bacio sulla guancia? "Un approccio". Eppure, se non proprio san Paolo (Tt 1,15), almeno la scuola ci doveva tranquillizzare attraverso la risposta data da padre Cristoforo di manzoniana memoria al buon fra Fazio, il portinaio, che aveva assistito all’accoglienza notturna in convento di Lucia e Agnese: “Omnia munda mundis”, “tutto è puro per i puri di cuore”! Ma per noi, tutto ciò che era corpo, era comunque pericoloso o negativo. Qual'era allora il modello dell'uomo spirituale? Era Il monaco; colui cioè che si disinteressava completamente del proprio corpo e che, notte e giorno, era rivolto a Dio; colui che fustigava il proprio corpo, lo colpiva, lo mortificava, lo umiliava: ciò era visto come segno di autentica santità! E non si pensava che così facendo si mortificava anche lo Spirito Santo che abitava in noi.
Ebbene, la festa di oggi riabilita il “corpo”: ci dice, praticamente, che Dio stesso non ha potuto farne a meno. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore, un qualcosa da strapazzare. Il corpo è la realtà visibile di ciascuno di noi e di Dio stesso che abita in noi. Noi non siamo un'anima rinchiusa dentro al corpo, una vita dentro un involucro di nome corpo. Ma siamo un'anima “corporeizzata”, un corpo “animato”. Se l'anima sta male, il corpo lo manifesta subito. Se l'anima sta male, anche il corpo sta male. Ce lo insegna Gesù nei miracoli: a leggerli bene, scopriamo che Gesù guariva le persone perché attraverso le malattie fisiche egli vedeva chiaramente le malattie dell'anima. Gesù lavorava così: sapeva che il corpo è lo specchio dell'anima. Guarendo il corpo, guariva l’anima.
Come possiamo credere che nel “pane della domenica” ci sia Cristo se non crediamo che il corpo riveli l'anima, il Dio dentro di noi? Come possiamo credere che un po' di vino, che anche dopo la consacrazione sa sempre di vino come prima, sia il corpo di Cristo se non crediamo che il mondo e tutto ciò che esiste, sia anch’esso “corpo” di Dio, opera delle Sue mani?
Ma non voglio divagare oltre. Torniamo al vangelo.
Dopo una giornata passata interamente con Gesù, che continuava a predicare e a guarire, i dodici si accorgono che si è fatto tardi, e si rendono conto che tutta quella folla (cinquemila uomini) ha bisogno di rifocillarsi; sarebbe bello poterli sfamare tutti, ma con cinque pani e due pesci la cosa è decisamente impossibile. Che si fa? E Gesù tranquillo: "Dategli voi stessi da mangiare!". Anzi prende lui ciò che c'era, lo benedice, lo spezza e lo da a tutti. È il miracolo; ciò che sembrava assolutamente impossibile, accade.
Cosa ci vuol dimostrare con tutto ciò?: che di fronte a certe situazioni apparentemente senza via d'uscita (“erano cinquemila “uomini”, senza contare donne e bambini!), non bisogna mai perdersi d’animo. Bisogna invece lasciarsi coinvolgere ("date voi stessi da mangiare"), partire da quello che c'è, dalla realtà, anche se è poco o sembra insignificante ("cinque pani e due pesci"). Dobbiamo accettare la situazione, prenderla per quello che è, accettare il fatto che se ciascuno fa qualcosa, forse… Se ognuno fa la sua parte (mette quello che ha) può accadere anche l'impossibile". Può succedere il miracolo. Garantito!
Troppo spesso invece, guardando ciò che dobbiamo affrontare, ci lasciamo subito scoraggiare; non abbiamo fede, non abbiamo fiducia in Dio.
Ci guardiamo e diciamo: "Ma non vedi che faccio schifo? Cosa vuoi che riesca a fare? Non sono capace!". Insomma non crediamo in noi, e non credendo in noi, non crediamo in Dio che ci ha creati grandi, unici e figli suoi. Invece dobbiamo prendere quello che siamo, anche se ci sembra poco, anche se ci sembra niente, e fidarci di Lui: siamo convinti di non valere tanto? Ci sembra di non aver grandi doti? Ci sembrano impossibili certe cose? Bene: siamo esattamente nella stessa situazione in cui si trovano gli apostoli nel vangelo di oggi.
E allora facciamo come Gesù: prendiamo quello che siamo (cinque pani e due pesci), e benediciamolo. Benedire in questo caso vuol dire che "diciamo bene" di noi, che crediamo nelle nostre possibilità nascoste e nelle nostre risorse non ancora realizzate, compiute o sviluppate.
Credere in Dio è poter dire: "Questo è quello che sembra e che si vede. Partiamo da quello che siamo, accettiamolo, benediciamo e vedrete che quantità di pane e di pesci c'è dentro di noi!".
Infatti, se Dio è capace di fare di un pezzo di pane il suo Corpo, cosa può fare di noi? Quando andiamo a fare la Comunione e prendiamo nella nostra mano il corpo di Cristo, raccogliamoci nel silenzio e pensiamo: «Quante cose fa un po' di pane! Sembra niente e invece sfama migliaia di persone. Placa la fame d'amore degli uomini, disseta i cuori aridi, indirizza gli sguardi ciechi, trova delle ragioni per vite senza senso, illumina il buio e i tunnel di tanti disperati.
Questo piccolo pane è Dio stesso che viene in noi, che non si vergogna di entrare nella nostra casa, che ha voglia di venirci a trovare, che vuole incontrarci, che vuole saziarci, che vuole amarci. Quando mangiamo questo pane ci sentiamo a casa: Lui viene in noi ma in realtà siamo noi che andiamo da Lui. Lui ci prende così come siamo, senza maschere, né uniformi, né paraventi e ci dice: “Vai bene così. Io sto bene con te quando sei quello che sei, quando ti mostri per quello che sei, senza nasconderti”. Allora tiriamo un grande respiro e sentiamoci finalmente a casa. Infatti se siamo veramente quello che siamo, non abbiamo nulla da dimostrare e da temere.
Quel pane è una forza enorme per noi, è il Signore stesso; il Signore che è dentro di noi; noi stessi siamo Lui. Siamo la stessa cosa: Lui in noi e noi in Lui. E con Lui noi possiamo tutto.
Così quando scappiamo, quando rinunciamo, quando ci rassegniamo, quando facciamo le vittime, non potremo più accampare scuse. Magari pensiamo ancora di non potercela fare, ma Lui è in noi. E continuare a non credere in noi, significa non credere in Lui.
"Corpo di Cristo", ci dice il sacerdote offrendoci la comunione. E non si riferisce solo all’ostia che tiene in mano, ma anche a noi, alle persone che gli stanno di fronte. Pensiamoci, fratelli: e certamente in quel momento sentiremo dentro di noi un fremito, un sussulto, una potenza enorme. E finalmente capiremo che con Lui possiamo veramente qualunque cosa. Amen.