giovedì 8 febbraio 2024

11 Febbraio 2024 – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 40-45 
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso. È difficile per noi, oggi, capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.
Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso”. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.
Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.
Gesù dunque, di fronte a quest’uomo così psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma ancora con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica quell’ amore profondo, viscerale, femminile, tipico di una madre per il suo neonato, un insieme di amore, tenerezza, generosità, apprensione, dolcezza.
Gesù dunque lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.
E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione fisica; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.
Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono ancora poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.
Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce della Parola di Dio. Che fare allora?
Come il lebbroso del vangelo, buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.
Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: un pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, che rimane sconcertato, sbalordito di fronte a Gesù che, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile: “Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo il significato del verbo greco “katharìzo”, usato da Gesù: tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato originale”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alterato, distrutto.
Ma, “Guarisci!”, ordina con voce chiara Gesù anche a noi; “torna com’eri originariamente, ristabilisci la tua somiglianza divina, mediante una radicale conversione di vita.
Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: disprezziamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo di essere “immagine splendida di Dio; preferiamo lasciarci stupidamente “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.
Ma la vita non ci appartiene: e se fatalmente qualche evento tragico dovesse venire ad interrompere le nostre allucinazioni, se improvvisamente tutto il nostro scenario fatuo e posticcio, ci crollasse addosso, allora improvvisamente la nostra esistenza si rivelerebbe in tutta la sua cruda, squallida realtà: impresentabili, indegni, colpevoli, falsi. Allora, se avremo ancora un briciolo di umiltà per guardare nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo renderci conto che nel buio più totale, nonostante il nostro assoluto disinteresse, l’abbandono insensato di ogni nostra dignità, un piccolo spiraglio, un minuscolo raggio di luce è rimasto integro, intatto. È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito divino che Dio, ha impresso in noi, a sigillo del suo amore; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.
È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante, inestinguibile energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.
“Sii purificato!”. Ecco: Gesù aspetta che, nella nostra confusione, nel nostro rimorso e pentimento, ci decidiamo ad andare da Lui: e abbandonandoci tra le sue braccia, riusciamo finalmente a ripristinare il “contatto” con Lui, nostra Sorgente di Luce.
È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.



giovedì 1 febbraio 2024

04 Febbraio 2024 – V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


 

Mc 1, 29-39 
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini. perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni.

Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.
Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.
Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.
Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.
Sappiamo, dal racconto di Marco sul malessere della “suocera”, che Simone è sposato, ha una famiglia, e possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che la sua attività di capo famiglia è la pesca, alla quale provvede nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, famigliari, attrezzatura e lavoro.
E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresentava pertanto il loro unico sostentamento.
C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssusa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di risentimento, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.
Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.
Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.
“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si rasserena, si rialza cioè dal suo sgomento, dal suo profondo disappunto, dalle sue angosce per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si lascia andare. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.
Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: “si mise servirli”; il rancore si tramuta immediatamente in umile servizio, l’ostilità in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo evitare si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.
Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutta la sua animosità, il suo rancore, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, suo genero, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di rassicurazioni. E Gesù gliele dà.
Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!
Oggi, al contrario nessuno ne parla più, sembrano completamente spariti: in pratica, la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste: quindi, tutti tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!
Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, si dà da fare, eccome! Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.
E i “demoni” che ci riguardano sono tanti: “demoni”, per esempio, sono tutte le continue lusinghe del male, accattivanti promesse di felicità, luci scintillanti del peccato, che accecano completamente la nostra ragione. Noi stessi possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce lo Spirito di Dio, la nostra coscienza; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari, non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.
Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è così, non è comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che possiamo vincere i nostri demoni occulti e astuti! Amen.

 

giovedì 25 gennaio 2024

28 Gennaio 2024 – IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 21-28 
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga [a Cafarnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 È sabato, giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, seguito dai quattro discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e, senza tanti preamboli, si mette ad insegnare ai presenti. 
Per inciso: sappiamo dai vangeli che Gesù non è mai entrato nelle sinagoghe per pregare o partecipare a qualche riunione: qui lo fa, ma come sottolinea Marco, solo ed esclusivamente per insegnare!
Un comportamento il suo, con cui forse voleva farci capire che certe preghiere, certe catechesi o letture teatrali, oggi come allora, non sono per niente gradite a Dio.
Il che, tradotto in chiaro, ci porta a pensare: se le nostre preghiere, le celebrazioni e le liturgie delle nostre chiese non sono compiute con fede, esclusivamente a lode di Dio, se non si trasformano in vita cristiana vissuta, in amore, passione, coraggio, fiducia, in apertura e solidarietà verso i fratelli, rimangono soltanto delle “sacre” rappresentazioni, spesso neppure belle ed edificanti, che lasciano Dio completamente indifferente; se le nostre liturgie si limitano ad un insieme di movimenti sciatti, disordinati, meccanici, consunti dall’abitudine, se la nostra partecipazione è soltanto distratta ripetizione delle solite formule, senza alcuna convinzione, senza presenzialità, consapevolezza, spiritualità, ebbene: sono celebrazioni che non servono assolutamente a nulla, che non riusciranno mai a creare quella particolare atmosfera soprannaturale attraverso cui poter incontrare, ringraziare, lodare, il Dio della Vita.
Ecco perché le liturgie devono veramente emozionare, devono appassionare il nostro cuore, potenziare la nostra fede, le nostre risorse; devono soprattutto soddisfare la nostra anima creando quell’incontro specialissimo con l'Infinito, con il Dio Amore, che ha scelto di “rimanere” con noi, in noi.
Gesù dunque entra nella sinagoga, legge, spiega, in una parola, “insegna” e la gente si “stupisce”; rimane sorpresa, ammirata, (in greco “exeplessonto”, “sbalordivano, rimanevano sconvolti”), da ciò che dice, da come parla, perché lo fa con “autorità”, con credibilità, convinzione e fascino: la sua esposizione è decisamente superiore a quella degli scribi; tutti i presenti si rendono conto che, a differenza loro, le sue parole provengono direttamente da Dio, le sentono scendere in profondità nei loro cuori, cariche di umanità, di vita, di liberazione.
“Non come gli scribi”: un giudizio forte, pungente, quasi impietoso, questo di Marco, ma assolutamente veritiero, concreto, reale: con Gesù non c’è “scriba” che possa competere!
Un parere conciso, di quattro parole, che ci invita a riflettere seriamente: noi, che ci riteniamo cristiani osservanti, noi che partecipiamo assiduamente alle liturgie della Chiesa, che pensiamo di conoscere bene la sua Parola, che talvolta siamo chiamati anche a proclamarla nell’Eucaristia domenicale, ebbene proprio noi dobbiamo stare molto attenti a non trasformarci in altrettanti “scribi”; dobbiamo cioè svolgere sempre i nostri piccoli “ruoli” con grande umiltà, consapevoli dei nostri limiti, per evitare che un minuscolo servizio a Dio, diventi occasione di vani personalismi, di puerili protagonismi.
“Vigilate”, ci suggerisce tra le righe il vangelo: perché lo “spirito impuro” dell’orgoglio, può introdursi con grande facilità nell’animo di tutti.
Ma chi erano esattamente questi “scribi”? Inizialmente erano dei semplici funzionari incaricati a “trascrivere”, a ricopiare, i testi sacri (in greco “grammatèus” = scrivano, amanuense), che gradualmente si sono imposti nella comunità con una autorità così esclusiva, da ritenersi superiori allo stesso sommo sacerdote, superiori persino alla stessa Torah, della quale si dichiaravano infallibili interpreti, unici studiosi autorizzati a commentarla in pubblico nelle sinagoghe: quando parlavano era come se parlasse Dio stesso in persona. Solo che i loro interventi, i loro insegnamenti, erano diventati stucchevoli, monotoni, sempre uguali: praticamente consistevano in aridi interventi cavillosi, tenuti esclusivamente per lanciare accuse, critiche e rimproveri contro le inosservanze nella condotta dei presenti. Il risultato? Una tortura, poiché tutti, chi più chi meno, si sentivano colpevolizzati e mortificati: nessuno infatti avrebbe potuto ritenersi del tutto innocente di fronte ai 613 precetti della legge mosaica, particolarmente rigida e intransigente.
Poi nella sinagoga arriva Gesù: con le sue parole autorevoli, con la sua legge dell’amore, egli fa scoprire dai presenti un insieme di nuove emozioni, di sentimenti completamente nuovi, che in un attimo annullano quel clima rigido e terrificante che condizionava il loro rapporto personale con Dio. In sostanza Gesù dice: “Dio vi ama tutti, proprio tutti; vi ama come figli suoi, di un amore senza limiti; questa è la buona notizia (eu-anghèlion = il vangelo) che vi sto annunciando. Non ha importanza se pregate esattamente come ordina la legge, oppure no, se siete in regola con le purificazioni oppure no, se siete dei credenti perfetti oppure no: Dio vi ama, sempre e comunque, al di là di queste cose. Egli ama ciascuno di voi in maniera esclusiva, a prescindere da come siete, da come vi chiamate, da come vi presentate”.
Parole autorevoli, convincenti, completamente nuove e diverse da quelle degli scribi: parole che offrono nuove prospettive di salvezza; parole che infondono vigore nei cuori dei presenti, poiché hanno finalmente compreso il valore rivoluzionario, innovativo e risanante, di termini sconosciuti come “liberi, riscattati, apprezzati, amati da Dio”. E lo dimostrano apertamente, esternando a gran voce la loro profonda soddisfazione.
Nella sinagoga, tra i tanti, c’è anche un uomo “dallo spirito impuro”, che improvvisamente si mette a urlare; il suo spirito (ruah) non è quello di Dio, ma appartiene al male, è “impuro”, è contrario a Dio; egli inveisce con rabbia, con odio, contro la persona di Gesù, che ha appena parlato di salvezza, di misericordia, di amore: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”.
Anche qui il testo ci porta a fare alcune riflessioni: prima di tutto, perché questo tizio parla al plurale? Che ruolo pensa di interpretare attribuendosi l’autorità di parlare a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno intende rappresentare tutti gli uomini, ed è a nome della collettività che egli si esprime usando il plurale. Ma perché tanta avversione nei confronti di Gesù e del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica tranquillamente; solo che, fatto singolare, questa volta la gente capisce perfettamente quello che l’oratore espone, lo apprezza e si immedesima immediatamente nella bontà delle sue parole: è questo il motivo cruciale dell’avversione di satana.
In pratica, con la sua travolgente novità di un Dio che ama l’umanità intera in maniera costante, profonda, gratuita, Gesù distrugge quella che è la teologia ufficiale, l'insegnamento tradizionale degli scribi. Da qui la furia dello “spirito immondo”, l’avversione rabbiosa contro Gesù, e contro quel Dio che Egli vuol far conoscere a tutti.
Le persone che lo stanno ascoltando, sono dei poveracci, imbottiti di tradizioni antiche, di superstizioni popolari, di leggi opprimenti: le autorità religiose hanno sempre insegnato loro che Dio è vendicativo, terribile, crudele, che può distruggere, in caso di peccato, intere città: e tutti, indistintamente, soggiogati dalla tradizione ebraica, ne sono fermamente convinti.
Sono l’immagine di chi non pensa: sono solo dei “pensati” da altri. Non vivono: sono gli altri che vivono per loro. Non possono neppure giustificarsi, dicendo: “Io faccio solo quello che mi hanno ordinato; obbedisco e basta!”, perché tutti abbiamo una testa con cui pensare e ragionare; e qualunque cosa facciamo, siamo solo “noi” che la facciamo, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni, è nostra unica responsabilità accettare o rifiutare la voce di Dio.
Nei vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggerli e rileggerli, e non troveremo mai, neppure una volta, Gesù che chiede di “obbedire” (upakòuein) a Dio. Mai!
Le parole “obbedire, obbedienza”, sono presenti due sole volte in Marco, e quattro in tutti gli altri vangeli (Cfr. Mc 1,27; 4,41; Mt 8,27; Lc 4,36; 8,25; Gv 3,36): ma non è mai riferita all’uomo; quelle che obbediscono sono sempre le forze della natura o quelle del male, ostili a Dio: una di queste volte è infatti presente nel vangelo di oggi: “gli spiriti impuri obbediscono (upakòuûsin) a Gesù!”. Gesù dunque non ci chiede mai di obbedire a Dio: ci chiede piuttosto, ripetutamente e caldamente, di assomigliare, di imitare Lui e il Padre (Cfr. per esempio Lc 6,36-38; Gv 13,14; 15,10.12); una cosa che, riuscendo ad attuarla, ci spalancherebbe nuovi orizzonti.
“Che vuoi da noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. Domande folli, irrazionali, da dissennati, di chi non vuole arrendersi all’evidenza: eppure quante volte assomigliamo anche noi all’indemoniato della sinagoga! È proprio così: ce ne stiamo nascosti, indifferenti, ma quando Gesù ci smaschera, quando ci mette di fronte alle nostre responsabilità, ai nostri sotterfugi, reagiamo anche noi urlando: Che vuoi tu da me?”; ma Gesù, con uno sguardo, manda in frantumi la nostra arroganza, le nostre solide impalcature, i nostri progetti, i nostri alibi: come un uragano, spazza via ogni nostra illusione, e tutto ciò che noi credevamo vero, reale, remunerativo, si dimostra falso, inesistente, fallimentare!
“Taci! Esci da lui!” sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: sono le Parole con cui Egli ci salva, ci libera dai nostri demoni; sono le uniche Parole che possono estirpare dal nostro cuore, dalla nostra mente, tutti quegli “spiriti immondi” che ci posseggono, e guarirci.
Guarire per mano di Gesù, venire risanati, perdonati sacramentalmente, è un evento di misericordia, di amore straordinario, meraviglioso: ci fa sentire nuovamente liberi, leggeri, ci restituisce la nostra identità, la nostra dignità, la nostra serenità, la nostra vita.
Ma guarire a volte “fa anche male”, è addirittura “straziante”, doloroso; perché significa strappare violentemente dal nostro cuore lo spirito impuro; dobbiamo cioè distaccarci radicalmente da tutto ciò che credevamo certezza, libertà, fantasia creativa, vita (spirito) e che, al contrario, si è rivelato nient’altro che insicurezza, schiavitù, distruzione, morte (impuro).
È un’esperienza dura, un’esperienza dolorosa che richiede coraggio: perché significa aprire, spalancare, quelle porte sbarrate, che ci rifiutiamo sempre di aprire, sapendo che nascondono realtà che ci fanno vergognare, scelte spiritualmente velenose, detestabili.
Inutile tentare la fuga, inutile opporci a tale purificazione: per risorgere a nuova vita, dobbiamo necessariamente scendere nel nostro intimo e con la fiamma del dolore, del rimorso, cauterizzare le ferite inferte dal maligno.
Percorrere la vita sulle orme di Cristo, non è un gioco; richiede tutto il nostro impegno: perché è molto meglio prevenire la cancrena, che dover poi ricorrere a dolorose amputazioni.
In questo non basta essere prudenti, aver timore, ma è necessario misurarci, combattere con coraggio, fronteggiare quel nemico che è sempre pronto a colpire, a lacerare, a straziare la nostra anima. Non permettiamogli scioccamente di anestetizzarci: è il suo mestiere, e lo sa fare molto bene.
Pietro, nella sua prima lettera, ci mette in guardia proprio da questo; scrive infatti: “adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret”; come un leone ruggente va cercando qualcuno da divorare; “cui resistite fortes in fide”, resistetegli, saldi nella fede; infatti, prosegue Pietro, “dopo che avremo sofferto, Dio ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà… (1Pt 5,8-10). Adottiamo questa raccomandazione come nostro programma di vita: perché, dopo la sofferenza, avremo anche noi da Dio, serenità, conforto, amore infinito. Amen.

 

giovedì 18 gennaio 2024

21 Gennaio 2024 – III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 14-20 
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Gesù dopo il Battesimo e la sua successiva permanenza nel deserto “delle tentazioni”, per recarsi a Cafarnao, passa lungo le rive del “mare” di Genezareth; è qui che incontra Simone e Andrea, due fratelli pescatori, che stanno gettando le reti, e li invita a seguirlo per diventare suoi discepoli.
Non sappiamo cosa Gesù abbia notato di tanto interessante in loro: due poveretti che stavano semplicemente facendo il loro lavoro: un lavoro povero, umile, indispensabile per la sopravvivenza, che non aveva assolutamente nulla in comune con la missione che Gesù voleva loro affidare. Ma Egli vede più lontano di noi; capisce al volo le possibilità, i pregi e i difetti di quanti incontra; lo capisce dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Egli dunque li osserva (“vide”) mentre svolgono il loro lavoro, come affrontano le difficoltà del momento, come si comportano, e ciò gli basta.
“Se mi seguirete, Vi farò diventare pescatori di uomini”, dice loro a bruciapelo. 
È una proposta sconvolgente, un programma di cambiamento radicale che avrebbe rivoluzionato totalmente la loro esistenza. Ma loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Anche se in seguito li troviamo a fare lo stesso lavoro con le reti, (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), anche se continuano a fare le stesse cose di prima, anche se intrattengono gli stessi rapporti con i loro familiari, i loro amici, tuttavia non sono più gli stessi: perché è la loro mentalità, è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: ciò che è completamente cambiato, è il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca e la casa erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’Amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non da un lavoro, non da una casa! Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro città o in campagna, ma non può in alcun modo amarci. Così pure una barca, una professione, un lavoro, non possono amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per vivere, ci garantisce un certo benessere, un qualche prestigio sociale. Ma non può amarci!
Ma se i beni, il lavoro, le ricchezze, non ci possono amare, e senza amore non possiamo essere felici, perché continuiamo a sognare dimore sontuose, ricchezze e beni incalcolabili? Perché continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione, al di sopra di tutto e di tutti?
Ecco, proprio in questo deve consistere il nostro cambiamento, la grande “conversione” della nostra vita. Se siamo convinti che la felicità risieda in quello che facciamo, in quello che abbiamo, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone.
È vero: la società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto, è l’assoluto; ci investe continuamente con i soliti paroloni, sempre gli stessi, che si rincorrono con frequenza e precisione maniacale: lavorare, produrre, consolidare la carriera, orari sempre più lunghi, impegni sempre più gravosi, concorrenza sfrenata, libero mercato, globalizzazione, soldi, tanti soldi. Ma sono chimere, soltanto stupide chimere! La ricchezza, il benessere, la carriera non fermano il tempo: la vita continua a scorrere inesorabile, e solo se rientreremo in noi, capiremo che tutto ciò, tranne l’amore, è solo spazzatura.
Se scorriamo le pagine del vangelo, troviamo forse scritto che Gesù ha lavorato senza sosta, che è stato ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che ha perso la calma per non aver raggiunto qualche “target”? Assolutamente no; lo troviamo invece sempre impegnato a dare e ricevere amore e amicizia, ad usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Gesù infatti non era ricco: ma come uomo era sicuramente molto amato e molto felice, proprio perché era “libero” da preoccupazioni temporali.
Ecco: non potremo mai essere autentici discepoli di Cristo, non potremo mai essere la sua Chiesa, se non ci allontaneremo anche noi dalla mentalità del mondo. Il termine stesso di Chiesa, in greco “Ecclesìa”, vuol dire letteralmente “i chiamati fuori”, persone speciali, uniche, cioè, che non agiscono per far piacere agli altri, per avere la loro approvazione; persone, al contrario, che si sono completamente “affrancate” da qualunque tipo di pressione interiore, persone che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello a cui sono state chiamate, con amore e generosità, spinte non dall’ansia di ottenere ricompense, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
Per noi però non è così facile convertirci, rinunciare a noi stessi: non siamo per nulla entusiasti ad abbandonare ciò che siamo, ciò che sappiamo, ciò che viviamo, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di impegnativo: noi siamo abituati nella nostra vita a muoverci sempre con garanzie, certezze, assicurazioni; vorremmo cioè che il mondo girasse sempre come vogliamo noi; siamo reticenti, non ci sentiamo ancora pronti a seguire Gesù, preferiamo rimanere seduti lungo la riva del lago, a riparare le nostre reti sdrucite!
Ma quando Gesù chiama, questo non è ammissibile, è semplicemente assurdo!
La vita che Gesù ci prospetta, è invece completamente diversa: dobbiamo semplicemente abbandonarci, fidarci, lasciar fare a Lui, senza alcuna pretesa, senza alcun diritto, senza calcoli pretestuosi.
Dobbiamo convincerci, che quel “venite dietro a me”, più che un ordine, è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di incalcolabile valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una “imitazione”, ad una “sequela”, sicuramente non facile, ma sempre commisurata alle nostre possibilità: dobbiamo solo avere il coraggio di seguirlo, di fare il primo passo, di non resistergli, e come i primi discepoli, Lui trasformerà anche noi in “pescatori di uomini”.
Già, perché è proprio questo che noi, oggi, dobbiamo essere nella sua e “nostra” Chiesa: “pescatori di uomini”. La necessità è evidente: oggi infatti la Chiesa sta rinunciando al suo mandato divino di essere “mater et magistra”, alla sua fondamentale missione pastorale: si lascia irretire dalle tentazioni mondane, dalla notorietà, dal desiderio di essere “diversa”, di esibirsi, di ottenere facili consensi dal mondo, applausi e ovazioni mediatiche; si illude che spalancando semplicemente le sue porte, i figli lontani, i non credenti, i senza Dio, meravigliati e spinti da questa sua innovativa, affrancante, generosa accoglienza, si precipitino in massa a riempire i suoi spazi: ma non è così! Perché “seguire Cristo come suoi discepoli”, consiste in ben altro: noi tutti, infatti, siamo stati scelti e chiamati non per inseguire e giustificare le paradossali e futili scelte di vita del mondo attuale, ma per annunciare, diffondere, proclamare con fermezza i valori intangibili della nostra fede, quei principi irrinunciabili che la moderna società, refrattaria a qualunque suo adeguamento alla morale cristiana, rifiuta e oltraggia, giudicandoli deliranti, farneticanti, anticaglie d’altri tempi.
Oggi anche nella Chiesa la parola d’ordine è “libertà”, autonomia di giudizio, adattabilità e apertura su tutto, a tutti: la Chiesa deve materialmente aprirsi, deve spalancare le sue porte al mondo, deve uscire nel mondo, deve identificarsi col mondo, percorrendo strade e crocicchi, invitando chiunque alle nozze dello Sposo: solo che purtroppo, in tanto marasma, nessuno dei suoi “messaggeri” si ricorda più di fare qualche cenno all’obbligo di indossare la “veste nuziale”; oggi, nel moderno banchetto ecclesiale, è completamente scomparsa la figura magistrale del “responsabile di sala” con il compito specifico di “vigilare” preventivamente che il cibo servito ai commensali, provenga rigorosamente dalle scorte del Vangelo, evitando così che la moltitudine accorsa si nutra di cibo avariato, intossicato dal relativismo ateo e gaudente della società contemporanea.
La Chiesa cattolica sta purtroppo progressivamente allontanandosi dalla sua regale e divina prerogativa, di essere cioè immagine vivente, espressione visibile di Cristo, suo fondatore; sembra cioè che le sue urgenze siano altre, che abbia in particolare rinunciato del tutto al suo compito di “nutrire” con la Parola le folle, di “guarire” i feriti dal maligno, di “risuscitare” i peccatori, morti alla Grazia, esattamente come Gesù ha insegnato di fare.
Così, però, quel “fumo di satana”, tanto temuto dai santi pastori di un tempo, sta progressivamente invadendo, ammorbando e soffocando i suoi settori vitali.
Ci consola e ci sostiene la promessa di Cristo: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo - èos tès suntelèias tù aiònos” (Mt 28,20). Ed è vero: perché ci sarà sempre nella Chiesa un insopprimibile manipolo di umili e santi profeti, che con la loro voce, le loro preghiere, la loro predicazione e la loro vita esemplare, riusciranno ad epurare ogni sudiciume e, come già il profeta Giona per la biblica Ninive, scongiureranno la totale distruzione della Casa di Dio terrena.
È quindi al seguito di questi degni, instancabili e fedeli “pescatori”, che anche noi dobbiamo prontamente tornare al “metodo” insegnato da Gesù; non abbiamo più molto tempo, non abbiamo secoli a nostra disposizione, perché, come ci ricorda Paolo, “il tempo si è fatto breve!” (1Cor 7,29). Ma esattamente qual è questo “metodo” di Gesù? È amore, misericordia, condivisione, fraternità, formazione: Egli per tutti è stato padre, pastore, medico, taumaturgo: guardava le persone, le amava, le conquistava.
Il suo era un amore profondo, concreto; un amore misericordioso, fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di conforto, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia; ma era anche, non dimentichiamolo mai, un amore esigente, esclusivo, severo, attento, un amore che quando necessario, rovesciava banchi e mercanzie, sferzava venditori e ladri che occupavano vergognosamente l’area del sacro Tempio.
L’uomo contemporaneo, galvanizzato, stordito dal falso e indecente edonismo ateo, vive pertanto nella necessità vitale, di percepire, di sentire, di “toccare” con mano, questo amore, questa agàpe che è Dio stesso; ha estrema urgenza di questo amore che, unico nella sua simbiosi di misericordia e giustizia, riesce a illuminare la sua mente, trasformare il suo cuore, risanare la sua anima. Noi per primi, abbiamo personalmente bisogno di questo amore. La Chiesa tutta, comunità di cristiani, ne ha assoluto bisogno! Amen.

 

giovedì 11 gennaio 2024

14 Gennaio 2024 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 1, 35-42 
In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi - che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui: erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo - e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa», che significa Pietro.

Il Vangelo di oggi ci descrive la “vocazione” dei primi discepoli di Gesù. Del primo conosciamo il nome: è Andrea, fratello di Pietro; il secondo dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Essi sono entrambi discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonino il loro maestro e si mettano silenziosamente al seguito di Gesù, felici in cuor loro di poterlo seguire. 
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la diffidenza di quest’ultimo: Simone infatti segue il fratello senza dimostrare al momento alcuna eccitazione, alcun interesse o curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare, gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia “Testa dura, testa di pietra”. Simone poi, nonostante sulle prime sia rimasto un po’ sospettoso, diffidente, superato il momento, si entusiasmerà come e più degli altri, raggiungendo col tempo vette di pensiero, di amore e di intuizione, inarrivabili da tutti gli altri.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna appassionarsi, lasciarsi entusiasmare, lasciarsi andare. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza fare calcoli, senza compromessi, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere “Chiesa”? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile scorgere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo capire invece l’importanza del lasciarsi appassionare da Gesù: perché solo se siamo entusiasti, convinti, gioiosi, potremo a nostra volta coinvolgere altri a seguirlo, come hanno fatto i primi discepoli del vangelo: il Battista con Andrea e l'altro discepolo, Andrea con suo fratello Simon Pietro, Filippo con Natanaele, e così via.
Del resto è una cosa naturale: se incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, che ci fa vivere bene, soddisfatti, ne parliamo subito volentieri con gli altri, desideriamo che anch’essi facciano la nostra stessa esperienza.
A volte però siamo ancora più diffidenti di Simone, preferiamo rispondere: “No, grazie, non mi interessa, non fa per me!” e lasciamo cadere la cosa. Anche se non abbiamo neppure provato! Infatti non è vero che non fa per noi: è che siamo sospettosi, abbiamo paura, non vogliamo metterci in gioco. Ciò significa purtroppo che dentro di noi, nel nostro cuore, non c’è entusiasmo, non c’è vita, siamo già morti!
Che cosa cercate?”, chiede Gesù ai due discepoli: una domanda che continua a ripetersi molto spesso anche in noi.
Attenzione alle parole: Gesù non chiede “chi” cercate, ma “cosa” cercate. Sembra irrilevante, ma la differenza è fondamentale: perché sono le “cose” che cerchiamo, che desideriamo, quelle che stabiliscono se, alla fine, siamo degni del “chi” vogliamo incontrare.
Sappiamo per esperienza che in genere il nostro cercare, il nostro desiderare, non va oltre alcune “cose” concrete, come: l’auto nuova, i vestiti eleganti, gli oggetti che fanno “tendenza”, un buon lavoro, vacanze e divertimenti, un cospicuo conto in banca, una casa signorile.
Ma sappiamo anche che queste “cose” non placano il nostro desiderio: sembra, ma non lo fanno! Una volta raggiunto l’obiettivo, infatti, veniamo nuovamente presi dall’insaziabile voglia di “altro”, e continueremo a trascinarci nell’insoddisfazione, alla ricerca angosciante di “cose” sempre nuove.
C’è però un “desiderio” profondo, vero, originale, di origine soprannaturale, celestiale (desiderio, da “de-sidera”; letteralmente: “che riguarda le stelle, le cose celesti, il divino”); un desiderio quindi inciso nella nostra anima, veramente speciale, senza limiti, che ci appassiona, che crea appunto una tensione continua verso il divino, verso Dio, al quale il nostro cuore anela inquieto fin dalla nascita, come ci spiega sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te” (Confessioni, 1,1,1).
È solo questo che Gesù vuol sapere da noi: “Cosa cercate?”, una domanda che espressa in altre parole, vuol dire: “Se cercate, se desiderate la vita vera, quella immortale, la libertà assoluta, la completa felicità, allora seguitemi, perché questo è proprio ciò che Io vi offro. Se invece cercate “altro”, se cercate solo cose di questo mondo, provvisorie, instabili, inutili, cercatele altrove!”.
Alla domanda esplicita di Gesù, però, i due discepoli rispondono con un’altra domanda, altrettanto chiara ed esplicita: “Maestro, dove dimori?”. Una domanda peraltro che viene un po’ banalizzata dalla traduzione italiana, che non rende perfettamente il significato profondo della richiesta dei due: il testo greco dice infatti: “Pù mèneis? dove rimani?”; quindi non “dove abiti, dove stai di casa, dove dimori”, una domanda cioè fatta con indifferenza, con distacco, tanto per sapere, per pura curiosità; ma “Dove ti trovi? Dove vai? Dove rimani? una domanda che questa volta dimostra interesse, coinvolgimento, voglia di seguirlo. Certo, il lettore distratto difficilmente può cogliere la differenza, ma non l’autore del testo. Perché Giovanni conosce perfettamente il profondo significato del verbo greco “mèno” (rimanere): tant’è che nel capitolo 15 del suo Vangelo, in soli 7 versetti, lo fa ripetere da Gesù, quasi con ostinazione, per ben 10 volte, volendo sottolineare appunto la vitalità del rapporto che deve unire intimamente maestro e discepolo! Così: “Rimanete in me (mèinate en emòi) come io in voi”; “Chi rimane in me” (o ménon en emòi)”; “Rimanete nel mio amore” (menèite en tè agàpe mou) e via dicendo (Gv 15,4-10).
In pratica, Gesù ci invita a “rimanerecon Lui; anzi in Lui: perché è proprio in quel luogo privilegiato ed esclusivo che tutti noi dobbiamo raggiungerlo; è lì, nel suo amore, nel suo e nostro cuore, che egli “rimane”: quindi non di un luogo fisico si tratta, ma di uno stile di vita, di una vita dinamica, fertile, fruttifera, ad imitazione della sua. Dobbiamo cioè vivere, pensare, agire, conformandoci alla sua Parola, per seguirlo nel suo amore verso il Padre, raggiungendolo in lui, e custodirlo con Lui nel “nostro cuore”: perché è lì che Gesù ora “rimane”, è lì che ci aspetta.
Ecco, questo è il grande, unico desiderio che dobbiamo realizzare nella nostra vita di discepoli: “rimanere” con Gesù nell’amore di Dio, smettendo di cercare “fuori”, Colui che va cercato “dentro”.
La vera felicità non sta nell’avere, nell’ottenere sempre più cose, nel crogiolarsi nei piaceri, ma nel cercare, nel muoversi, nell’andare insistentemente alla ricerca del Padre, dell’Amore assoluto, seguendo la strada indicataci dalla Parola, dal Vangelo.
Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Non dà alcuna indicazione precisa, ma: “Vuoi sapere dove sono? Vieni e vedi! Vuoi seguirmi? Vieni e vedi. Vuoi conoscermi a fondo? Vieni e vedi! Venire”, infatti, è un verbo di movimento, un verbo dinamico: Gesù non invita nessuno a starsene seduto a pensare, aspettando che passi il tempo; il suo è un invito perentorio: dovete muovervi, dovete uscire dalle vostre posizioni, dalle vostre idee, dalle vostre convinzioni!
Il motivo per cui Dio ci fa paura è sicuramente perché ci vuole protagonisti, responsabili. Non possiamo ignorare la sua chiamata, è un fuoco che ci brucia dentro: non sono ammesse mezze misure, compromessi, non sono tollerati “distinguo” o astuzie mentali: con Lui dobbiamo sempre arrivare al “tutto”, il “poco o niente” non sono accettati. Con lui dobbiamo tendere sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non ottenere neppure quello.
Quindi, tutti dobbiamo “andare e vedere”; tutti dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di ciò che vuole da noi: non è ammesso fermarsi al “mi pare” al “si dice”; ciascuno deve “andare e verificare”, deve controllare con i propri occhi. Dobbiamo insomma poter dire come Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono!(Gb 42,5).
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’Amore, vivere l'Amore è tutt'altra cosa. Conoscere interi trattati di teologia non ci autorizza a dire di conoscere Dio. Ma solo quando abbiamo superato cristianamente le prove e i dolori della vita, solo quando abbiamo provato la cruda sofferenza per la perdita di un figlio, di un genitore o di una persona cara, possiamo capire cosa significhi rifugiarsi nell’amore di Dio, cosa voglia dire fare esperienza del suo amore.
Per vivere il vangelo ci vuole coraggio, determinazione. Il vangelo non è rassicurante: non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così.
Dio non ci dirà mai: “Vivi tranquillo, non avrai mai problemi!”; ma: “Non aver paura della tua debolezza, dei tuoi dubbi, delle difficoltà che incontrerai, perché io sono sempre con te!”. Crediamo nelle sue Parole rassicuranti: le ha dette anche a San Paolo, quando durante la sua missione era costretto a misurarsi con i Giudei minacciosi: “Noli timere, non temere, continua a parlare, non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male!” (At 18, 9s); una certezza che più tardi lo farà esclamare: “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, disperati, perseguitati, ma non siamo abbandonati!” (2Cor 4,9).
E allora, anche noi, di cosa dobbiamo aver paura? Si Deus pro nobis, quis contra nos? Se Dio è dalla nostra parte, chi può mettersi contro di noi? (Rm 8,31). Ecco, questa è anche la nostra certezza. Amen.

 

giovedì 4 gennaio 2024

07 Gennaio 2024 – BATTESIMO DEL SIGNORE



Mc 1,7-11 
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento". (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Un battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia, sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che senso ha venire da me per una semplice abluzione esteriore? non serve assolutamente a nulla”. 
Il Battista conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle rivolte al passato, ma con il dito puntato in avanti, per indicare l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
È a questo punto che succede qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da lui al Giordano, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che poi metterà in difficoltà i primi discepoli della giovane Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazareth”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell’antica alleanza: non a caso Gesù ha la stessa radice di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si fa battezzare: all’inizio del suo ministero, cioè, si presenta in fila come gli altri peccatori, in tutto solidale con gli altri uomini. Ma egli non confessa i suoi peccati, come fanno loro: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita.
Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c’è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare: per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che vuol dire uscire, ma “salire”, lo stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù esce, lascia questa terra per “salire” in cielo. Stesso verbo, stesso significato.
Lo scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, spaccati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni ingresso. Dio non si concedeva più, non si comunicava più al suo popolo. Non c’era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia implorava: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!” (Is 63,19). Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l’uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l’interposizione di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l’uomo, torna a donarsi all’uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di irreparabilità: la differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta, irrimediabile; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” anche quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso”: il velo enorme che nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio, improvvisamente, si squarcia in maniera irreparabile, definitiva. L’evangelista cioè intende sottolineare nuovamente, come il Dio velato, il Dio nascosto, si sia rivelato definitivamente in Gesù crocifisso. Lui stesso è l’immagine visibile di Dio: è il Crocifisso, infatti, il segno tangibile dell’amore di Dio per gli uomini, reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più smettere di amare l’umanità. 
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L’articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità.
Ecco perché analizzando il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare la stretta correlazione con il racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non “muore” mai, nel senso che questo verbo non viene mai usato; non si dice mai che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che uscito da Lui, continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso Spirito d’Amore che Egli dispenserà in dono a tutti nella Pentecoste, lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco aggiunge: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34). È la “voce” dell’amore di Dio. Tutta la vita di Gesù è immersa nell’amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest’amore, questa voce di Dio che, attraverso Gesù, ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo amore, potremo affrontare qualunque difficoltà.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce. E poi, soprattutto, “dobbiamo volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché troppo spesso abbiamo paura di conoscere quello che potrebbe dirci; preferiamo quindi non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo coprire la sua voce con i mille rumori di questo mondo.
Ma è proprio qui che sbagliamo: perché se vogliamo sentire la sua voce, dobbiamo creare intorno a noi il cosiddetto “silenzio dell’ascolto!”. Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le voci inutili, gli urli sguaiati, assordanti. Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore. Vi ricordate l’incontro di Elia con Dio? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12): questo deve succedere anche per noi: perché Dio non è lontano, non ha bisogno di gridare, è “dentro” di noi: e parla, “sussurrando”, alla nostra coscienza.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell’amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L’amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché dobbiamo contraccambiare. Dio ci ama semplicemente perché siamo “noi”, siamo quella “sua” particolare creatura. Non dobbiamo temere di aprirci con Lui, di non dirgli certe “nostre cose” per farlo contento ed evitare qualche “penitenza”. Con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Ma noi cosa dobbiamo dargli in cambio? Assolutamente nulla! Dobbiamo dirgli soltanto: “grazie, Padre mio!”. Amen.

 

mercoledì 27 dicembre 2023

31 Dicembre 2023 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE


Lc 2,22-40 
[Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino (Gesù) a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.] Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. [Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui].
 

Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo. Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per assolvere due distinti obblighi della Legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito. 
È interessante notare come Luca ripeta per ben cinque volte la parola “Legge”, quasi a sottolinearne l’importanza. Si tratta infatti di una antica usanza, interpretata nel corso dei secoli, e mantenuta viva dalla “tradizione”, che per il popolo era vincolante come e forse più delle leggi scritte.
Maria e Giuseppe salgono dunque al Tempio. E qui incontrano un personaggio singolare, un certo Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Il Vangelo non ci dice se sia vecchio. Ci dice però che era un uomo giusto e timorato di Dio. Si potrebbe pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti del Tempio non vengono mai descritti come assistiti dallo Spirito Santo!). Ma Simeone più che un sacerdote del tempio, si rivela un profeta, più che un uomo del culto, un conoscitore della vita.
Maria e Giuseppe cercano un rappresentante della Legge per adempiere ai loro doveri, e trovano invece un uomo dello Spirito, le cui parole non si riferiscono ad alcuna regola, ad alcuna prescrizione da compiere, ma sono parole esaltanti, gravi, profetiche, riferite al futuro del loro figlioletto. Essi rimangono colpiti di fronte a tali dichiarazioni: ricordavano che i pastori avevano parlato di un “salvatore”, che l’angelo, parlando con Maria, lo aveva definito “Figlio dell’Altissimo”, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”: ma cosa significa tutto questo? Chi è in realtà questo loro figlio?
Sono andati al tempio perché Maria, la madre, venisse purificata, e invece trovano quest’uomo che preannuncia la purificazione di Israele per opera del loro figlio: secondo lui, egli sarebbe diventato la “pietra d’angolo”, che per molti sarebbe stata la base su cui sviluppare la loro costruzione, mentre per altri sarebbe stata la “pietra di scandalo”, ossia quella pietra d’inciampo, che li avrebbe fatti cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).
Seguire Gesù infatti non è mai semplice, indolore; non è come percorrere un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con frequenti fontanelle d’acqua e molte panchine su cui riposare. Gesù ci mette davanti a scelte onerose, a crocevie misteriose, a inevitabili cadute: le sue verità sono dure e radicali; ci mette di fronte a noi stessi, senza alcuna possibilità da parte nostra di poterci opporre. Il suo è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento: con Lui è impossibile sonnecchiare tranquilli. Le risposte che vuole sono sì sì, no no: ed è proprio per questo che il suo vangelo, per alcuni è “vita”, per altri “morte”. 
Simeone dunque predice a Maria ciò che avverrà: non le dice nulla, ma insieme le dice tutto. Ella ascolta attentamente, anche se non comprende tutto di quanto le viene detto.
Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva in proposito sant’Ambrogio: “Maria è il tempio di Dio, non il Dio del tempio!”: Ella cioè, nel corso dei secoli, è stata ricoperta di così tanti privilegi e titoli soprannaturali, da impedirci di vederla così com’era, madre giovanissima, quando ancora nessuno poteva pensare che diventasse la “Madonna”!
Il vangelo sottolinea più volte che Maria, proprio nello svolgere la sua missione di madre, rimaneva sorpresa, meravigliata, “non capiva”: accolse infatti il messaggio dell’angelo senza capirne l’esatto significato, non avendo chiara tutta la sua importanza, ma disse “si”. Non capì neppure il vero significato dei messaggi di suo figlio Gesù, ma semplicemente lo seguì sempre con apprensione e amore. Questo fu il suo grande merito: da madre che era, divenne sua umile discepola.
Lei conosceva la tradizione profetica ebraica secondo cui il popolo eletto sarebbe stato salvato dal Messia. Ma qui Simeone prevede un’altra cosa: suo Figlio sarebbe stato: “luce per illuminare tutte le nazioni”, ma anche “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Sarebbe stato cioè un “Messia” completamente diverso da come tutti se l’aspettavano: e, altra cosa importante, Egli sarebbe stato il Salvatore non soltanto del popolo eletto, ma di tutta l’umanità.
Ma ciò che colpisce particolarmente Maria è una frase del vecchio veggente: “a te una spada trafiggerà l’anima”. A quale “spada” si riferiva Simeone?
Forse alludeva ad alcune espressioni del Figlio, oscure, difficili da capire, che le avrebbero causato dispiacere, sconforto, incomprensione? Una cosa è certa: ben presto si sarebbe resa conto che le sue aspettative materne, riposte nel figlio, si sarebbero realizzate in maniera ben diversa da come lei pensasse.
Forse alludeva al profondo dolore che avrebbe provato il suo cuore di madre, constatando che i suoi vicini, i suoi compaesani si sarebbero espressi contro suo figlio, mal sopportandolo; lo avrebbero deriso, rigettato le sue affermazioni straordinarie, le sue opere miracolose: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone?” (Mc 6,3); per dire: “Ma chi si crede di essere? Conosciamo molto bene lui e la sua famiglia!”. I parenti stessi lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è addirittura un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un dissennato perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16): e tra di loro decidono di farlo morire (Mc 3,6).
Gesù insomma sarebbe stato considerato da tutti un pazzo, uno stravagante, un fuor di senno: in pratica, uno meritevole di morte. Sarà questa la spada preannunciata da Simeone?
Oppure Simeone si riferiva a quell’altra difficile prova che avrebbe dovuto affrontare, di dover cioè anteporre ad ogni cosa, al suo stesso intimo legame di madre, la missione soprannaturale di questo suo figlio, una missione che l’avrebbe portato sul Golgota per essere crocifisso?
Tutto questo Maria l’ha intuito più che capito, l’ha gradualmente interiorizzato, e soprattutto l’ha fedelmente praticato negli anni in cui Gesù, nella sua famiglia, “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.
Ebbene: è esattamente questo lo spirito che dovrebbe appartenere ad ogni genitore, questo il comportamento che dovrebbe regnare sovrano anche nelle nostre moderne famiglie: accogliere la volontà di Dio, agire sempre nel rispetto condiviso dei propri doveri.
Purtroppo, in questi tempi, la “famiglia” sta vivendo una crisi profonda: la sua naturale composizione di padre, madre, figli, non si presenta più come l’unico autentico modello di unione sociale; oggi c’è la pretesa di considerare “famiglia” qualunque tipo di convivenza, sia etero che omosessuale. Non esistono più doveri fondamentali come fedeltà, rispetto reciproco, ma solo un latente egoismo esibito come amore; solo “diritti” individuali, inizialmente dormienti, ma sempre pronti a riemergere per sopraffare l’altro: è purtroppo questa l’immagine ricorrente delle attuali “libere convivenze”, quasi sempre posticce, volubili, instabili, pronte a sfasciarsi alla prima difficoltà. Nessuno più crede al matrimonio cristiano, unica istituzione in cui è possibile coltivare, salvaguardare, accrescere i valori umani e spirituali, unica vera, autentica, naturale famiglia.
Ma per questo dobbiamo forse arrenderci e concludere che oggi è impossibile amarsi? No! Dico soltanto che, come ci insegna la festa di oggi, i sentimenti profondi come l’amore gratuito e disinteressato, l’accoglienza, il rispetto, la dedizione, rappresentano il patrimonio esclusivo della “famiglia”, quella autentica, quella che Dio ha sognato e voluto, creando la prima coppia uomo/donna, come esclusivi prosecutori, con i figli, della sua opera creatrice. 
In essa, anche oggi come allora, amarsi profondamente è possibile; restare fedeli è possibile; avere dei figli, educarli, farli diventare degli adulti responsabili, non solo è possibile, ma esaltante!
Maria e Giuseppe ce lo documentano: è infatti nella loro famiglia che Dio ha scelto di nascere, di sottomettersi alle naturali e normali dinamiche famigliari, di vivere cioè tra le fatiche di una vita condivisa, di un rapporto di coppia, superando sempre tutto con amore e tenerezza.
Riscopriamo allora anche noi questo “antico” e infallibile modo di essere famiglia: riscopriamolo nell'autenticità, nella sincerità, nella fede, nel difficile cammino di amore e di comprensione reciproca.
E perché queste festività natalizie possano trasformarsi veramente nella festa dell’intera famiglia, noi genitori preoccupiamoci di “presentare”, come Maria e Giuseppe, i nostri figli al “Tempio”: e se, una volta cresciuti, e al Tempio non vogliono più andare, non scoraggiamoci: portiamoli comunque spiritualmente con la preghiera, e con fede poniamoli ugualmente nelle mani del Padre, per ottenere da lui una particolare benedizione, consapevoli che questa, sicuramente, si trasformerà per loro in speciali grazie e in future benedizioni divine. Amen.