giovedì 5 luglio 2018

8 Luglio 2018 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria? (Mc 6,1-6).

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come ha sempre fatto altrove: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: percepiscono cioè che in lui c’è qualcosa di grande, di soprannaturale che risveglia in loro particolari emozioni, tocca le corde più sensibili della loro anima. Tuttavia giudicano la sua dottrina troppo alta, troppo impegnativa, troppo forte, non adatta a loro. Essi sono diffidenti, hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, hanno i loro schemi: Lui invece dice cose mai sentite, cose “pericolose”, mette in dubbio il loro credo, scopre le loro debolezze, insomma li destabilizza.
Del resto, qui come altrove, Gesù è sempre schietto nel parlare e coerente nell’agire, non si preoccupa di piacere o no alla gente: non è un diplomatico, un politico; dice a ciascuno esattamente quello che ritiene giusto davanti a Dio: dice cioè ai signori farisei che la loro religione è tutta una farsa; dice ai nobili sadducei che dietro la loro religione c’è solo fame di potere e che quindi le loro pratiche religiose sono inutili, stupide, prive di vita.
È naturale che le persone, sentendosi chiamate in causa, toccate sul vivo, messe ciascuna di fronte alla propria coscienza, reagiscano di conseguenza; e lo fanno in due modi diversi: o ascoltando umilmente Gesù, dando retta ai suoi consigli e rivedendo completamente il loro stile di vita, oppure attaccandolo frontalmente, facendolo passare per matto, mettendo in giro su di lui voci maligne e, se non bastasse, fare di tutto per isolarlo, zittirlo, magari addirittura sopprimerlo. Cosa poi puntualmente avvenuta!
Nel caso specifico dei suoi compaesani, però, c’è un’ulteriore aggravante: perché fino a quando Gesù predica in giro per la Palestina, la gente non lo conosce, non sa chi sia, né da dove venga; ma qui lo conoscono tutti e bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, sanno che è una persona onesta, che non è un imbroglione, e tutti lo acclamano per quello che dice, vuol dire che è proprio un “grande”. E qui s’innesta immediatamente l’invidia, la cattiveria: “Ma come, ha studiato qui con i nostri figli, ce lo ricordiamo da ragazzino, non era certo un sapientone! Ora arriva lui e che fa? Si comporta come un profeta, dice cose per noi troppo difficili e complesse; cerca di stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni. Noi abbiamo sempre fatto così, perché ora dovremmo cambiare? Solo perché viene lui ad imporcelo con le sue idee strane? Chi si crede di essere? Noi sappiamo bene che è un carpentiere, figlio di Giuseppe il falegname... e le sue sorelle sono...Cosa può uscire di buono da una tale famiglia?”.
Hanno deciso di non seguire Gesù: non vogliono in alcun modo dare credito alle sue parole: e lo fanno per principio, per tigna. Non vogliono neppure pensare che Dio possa agire per mezzo di un poveraccio come loro, di uno che conoscono fin troppo bene: sarebbe troppo. Al massimo può essere come uno di loro, niente di più! Purtroppo da che mondo è mondo, uno può fare miracoli, fare salti mortali, cose strabilianti e impossibili, ma per la gente che lo conosce continuerà ad essere sempre lo stesso poveraccio: lo etichettano in un certo modo, e da lì non schiodano.
Il loro dramma è che sono convinti che la loro conoscenza sia sempre attuale, aggiornata negli anni, anche se così non è; per cui si sentono autorizzati a classificarlo, a vederlo non più per quello che attualmente è, per quello che è diventato, ma per il ricordo che ne avevano. Cambiare la propria opinione è infatti uno dei cambiamenti più difficili; comporta la sgradevole necessità di ricredersi, di ammettere i propri errori, di abbandonare vecchie posizioni.
È assurdo, ma noi giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono al presente, ma per quello che erano anni prima, in base alla conoscenza che abbiamo dei loro genitori, della loro famiglia, dei loro parenti ecc.
E se gli abitanti di Nazareth hanno rifiutato Dio con la scusa di conoscere fin troppo bene Gesù, noi che posizione abbiamo preso nei suoi riguardi? Conosciamo e seguiamo il Dio vero oppure preferiamo seguire un “nostro” Dio, uno che ci siamo costruiti su misura, una etichetta a nostro uso e consumo? Purtroppo noi siamo portati ad essere molto superficiali nei nostri giudizi. Una delle nostre espressioni molto frequenti è: “Come ti conosce tua madre, nessun altro può conoscerti!”. E in un certo senso è vero, perché una madre conosce sicuramente il proprio figlio meglio di chiunque altro; ma dette da noi, in un certo modo, con chiari sottintesi, sono parole che richiamano qualcosa di negativo, per cui si trasformano in un giudizio feroce. Come pure: “Lo sapevo che finiva così, ti conosco bene!”. Che equivale a: “Ti conosco, so come sei; non mi sorprende quindi se non riesci a fare nulla di buono”. E non ci rendiamo conto che magari la realtà, le persone, la vita, sono molto diverse da quel poco che noi diciamo di conoscere, sono ben più grandi dei nostri giudizi e delle nostre etichette.
Leggendo il Vangelo ci colpisce il fatto che, incontrando Gesù, alcune persone si lascino trasformare, ne escano completamente cambiate, rinnovate, non siano più loro; al contrario di altre che rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi, nel loro disordine, non lasciandosi neppure sfiorare dal suo amore.
Il motivo che determina questa diversità dipende dall’avere o non avere fede in lui: se cioè queste persone si lasciano attrarre da lui, arrivando anche a sconvolgere completamente la loro vita oppure, se indifferenti, si girano dall’altra parte e proseguono per la loro strada.
Ecco perché avere fede, tanta fede, è fondamentale per noi, per la nostra vita cristiana.
La fede è infatti quella disponibilità mentale mediante la quale riconosciamo, percepiamo, accettiamo che Dio realmente viva, agisca, si manifesti nella nostra vita. “È quel contatto profondamente personale con Dio, che ci tocca nel più intimo e ci mette di fronte al Dio vivente in modo da potergli parlare, poterlo amare, ed entrare in comunione con lui” (Benedetto XVI).
Questo è il presupposto fondamentale: perché Dio non può elargirci le sue particolari grazie se noi non lo accettiamo, se noi non lo vogliamo. Inoltre, se non ci apriamo alla fede, se non ci lasciamo illuminare dalla sua luce, ci auto escludiamo dalla vera felicità, dall’amore autentico, e la nostra vita sarà un continuo tormento, un continuo errare nel buio più totale, senza alcun riferimento ad una meta.
Una cosa soltanto ci può confortare: la certezza che anche quando noi non lo vogliamo considerare, non lo vogliamo vedere, non vogliamo collaborare con lui, Egli rimane comunque in disparte, al nostro fianco, in paziente attesa di un nostro ripensamento, di una nostra “conversione”, pronto ad accoglierci tra le sue braccia.
La fede poi non deve limitarsi alla sola conoscenza teorica: avere fede significa agire concretamente di conseguenza, significa incontrare veramente Dio nella nostra vita, dentro di noi, significa sperimentarlo. E questo dipende solo da noi, perché se non vogliamo lasciarci coinvolgere da lui, se non vogliamo farci tirar dentro, se non vogliamo mettere fine al nostro isolamento, neppure lui potrà farci nulla. Ora, è molto difficile per noi accettare e capire questo concetto: perché in teoria, a parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti siamo disponibili ad accoglierlo; nella pratica però vivere seguendo i suoi consigli, offrirgli la nostra totale collaborazione, costi quel che costi, è tutta un’altra cosa: perché alla base, la nostra fede non è perfetta, totale coinvolgente: perché non capiamo che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che possiamo godere dei benefici del suo amore, solo se ci apriamo alla sua grazia; che Dio ci cambia solo se noi glielo permettiamo; che Dio ci porta al centro della Vita solo se noi accettiamo di camminare con Lui. Dio, insomma, senza il nostro apporto personale, non può far nulla per noi.
Il vangelo poi dice che “si scandalizzavano di Gesù. Il verbo greco è molto forte; indica una indignazione, una collera repressa nei confronti di una persona: i suoi concittadini non riescono insomma ad accettare che lui sia diverso da loro, sia migliore, sia considerato e amato dalle folle. In quel verbo c’è tutto il rifiuto, l’odio, lo sdegno, la rabbia, il disprezzo “casalingo” per Gesù, covato dai suoi al di là di ogni considerazione.
Brutta cosa rifiutare gli altri “per principio”, “a prescindere”; perché scatena odio, lotte fratricide, conflitti irreversibili. Vivere nel rifiuto sistematico del prossimo è il sintomo rivelatore di una grave malattia, di una avanzata antropofobia. Come pure sintomo di un malessere interiore è “godere”, essere contenti del fatto che gli altri ci rifiutino; ci sono persone infatti che sono felici nel sentirsi rifiutate, persone masochiste che fanno del vittimismo uno stile di vita: più sono avversate, osteggiate, perseguitate, più sono contente, illudendosi di essere già avanti nella santità: “Guarda come soffro, guarda quanto è crudele il mondo nei miei confronti. Per fortuna Dio è con me, perché io gli sono fedele!”. Valutazione errata: mai provare né tantomeno ostentare qualsivoglia compiacimento o soddisfazione per una presunta personale santità, tanto meno per siffatte banali motivazioni: il rifiuto della nostra persona da parte degli altri deve semmai essere visto come una delle tante prove che accompagnano il duro e silenzioso cammino del seguire Cristo, un innocuo banco di prova della nostra fede e della nostra santità: “Vuoi veramente seguire Gesù? Quanto lo vuoi?”. Se di fronte alla prima critica, al primo rifiuto, abbandoniamo subito i nostri propositi, la nostra “vocazione”, dimostriamo nei fatti quanto le nostre convinzioni siano labili e superficiali. Progetti semplicemente costruiti sulla sabbia. Dice il saggio: “Se un uomo non affronta qualche contrarietà per le idee in cui crede, o non vale niente l’uomo o non valgono nulla le sue idee”.
Il Vangelo poi annota il commento di Gesù in risposta alle male lingue dei suoi paesani: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano la loro spiegazione nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono soprattutto la sua amara rassegnazione di fronte ad un immotivato e stolto rifiuto da parte proprio dei suoi concittadini. E prima di andarsene, dirà ancora: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste”.
In queste parole c’è tutta la delusione di Gesù. È il dramma di chi vive in lui, di chi annuncia il suo Regno; è il dramma di tutti i profeti di ogni tempo, di tutti i pastori, via via fino all’ultimo umile e santo prete delle nostre campagne: scontrarsi con persone che pur conoscendo Dio, si rifiutano di vederne e apprezzarne la realtà, la verità, amore. Amen.


venerdì 29 giugno 2018

1 Luglio 2018 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


«Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc 5,21-43).

Il vangelo di oggi ci presenta due miracoli di Gesù, due guarigioni: quella della figlia di Giairo e quella dell’emoroissa. I due racconti sono legati tra di loro da un unico filo conduttore, suggerito proprio dall’iniziale “passare” di Gesù da una all’altra riva del lago.
Una sottolineatura, secondo me, che non intende tanto indicare un cambiamento di luogo, quanto di offrire al lettore un vero e proprio stile di vita: “Bisogna oltrepassare”. Dobbiamo cioè andare avanti, dobbiamo crescere, dobbiamo evolverci; dobbiamo avere il coraggio di abbandonare una situazione stantia, nefasta, improduttiva, per andare verso nuove prospettive, più positive, concrete, salutari, perché se non facciamo così ci ammaliamo, ci atrofizziamo, cadiamo nell’indifferenza più totale, cessiamo di vivere nell’anima e nel corpo.
I nostri problemi più gravi nascono infatti perché non vogliamo “passare dall’altra parte”, non vogliamo “maturare”, non vogliamo toccare l’equilibrio instabile delle nostre abitudini ormai anchilosate, perché non vogliamo abbandonare una fase della nostra vita, ancorché superata, per dirigerci decisamente verso un’altra più appropriata. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, immobili, irrigiditi, per partito preso o magari per paura, significa accettare una sentenza di morte. Gli istanti della vita passano una sola volta, non si possono ripetere, né fermare: la vita è un continuo andare avanti. Con noi o senza di noi il tempo passa: fermarci significa inesorabilmente autoescludersi dalla realtà, regredire.
Da giovani è difficile diventare adulti; affrancarci totalmente dall’infanzia è un passaggio impegnativo; a volte scegliamo la via apparentemente più facile, preferiamo rimanere quelli che siamo, acerbi, dipendenti da altri, ostaggi del loro potere, della loro volontà. Una volta adulti, non accettiamo di diventare anziani, di perdere le nostre posizioni di dominio, di constatare che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di imporci come un tempo. Diventare anziani vuol dire infatti accettare che i ruoli ricoperti nella nostra vita, conquistati con tanta passione, passino lentamente e inesorabilmente ad altri: non è assolutamente semplice sentirsi accantonati, messi da parte, soprattutto se non ci convinciamo che l’anzianità è l’età della saggezza, dell’esperienza: l’età in cui si è chiamati a diventare maestri di vita.
Il vangelo di oggi ci evidenzia appunto per i protagonisti la necessità del “passare oltre”, del maturare, di affrontare cioè quei cambiamenti indispensabili per vivere e per amare in modo corretto. Sì, perché talvolta per dimostrare l’amore e assicurare la vita all’altro, anche se ci è particolarmente caro, è necessario distaccarsi, lasciarlo andare, andare oltre i nostri sentimenti, altrimenti rischiamo di soffocarlo, di ucciderlo.
Ma seguiamo il testo: si presenta dunque a Gesù un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osserviamo bene le singole parole: “Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo. Non dice: “Giairo, un capo della sinagoga, andò da Gesù”. C’è una differenza fondamentale: il testo cioè per prima cosa evidenzia il ruolo, la carica dell’uomo, e poi ne specifica il nome. Che significa? Che nell’immaginario collettivo il ruolo, la carica, la professione che uno svolge, è più importante della sua individualità, della sua persona. In altre parole è l’attività che determina l’importanza di una persona, non la persona in sé. E questo è un male: perché il grande pericolo che corre chi esercita un “ruolo importante” è quello di identificarsi nel proprio ruolo, cessando di essere Tizio o Caio, per essere sempre e soltanto “il” capo, il professore, il politico. In altre parole avviene in lui una spersonalizzazione, diventerà cioè prigioniero del ruolo, di questo vestito che si è cucito addosso: perché sarà lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il suo essere persona, deciderà il suo agire, il suo pensare, il suo pianificare la vita.
Ora, nel caso del Vangelo, la figlia di Giairo è appunto una vittima del “dio-ruolo”: non del suo, ovviamente, ma di quello del padre; nella sua normale crescita di figlia le manca cioè la figura paterna. Giairo è “preso” molto più dal suo ruolo di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su se stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera lontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa di questo mondo. 
Gesù, per guarire la figlia, deve pertanto “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo cioè nella sua originaria dimensione, deve ricollocarlo nella realtà del suo essere padre: realtà che lui ha perduto nelle pieghe del passato, per cui insiste ad avere nel presente una visione della figlia riduttiva, anacronistica, impropria; continua cioè a vederla, a considerarla, a chiamarla ancora, come allora, la sua “figlioletta”. Solo che questa “bimba” ha già dodici anni: un’età in cui, nella Palestina di duemila anni fa, una donna era già considerata adulta, nel fiore della sua maturità; per lei quindi è assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre ancora una “creatura”, una bimba ancora insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna matura, che vuole essere considerata come tale; lui, padre assente, che non intende accettarla per quello che realmente è: si rifiuta di vederla cresciuta, terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro. È un uomo troppo preso dal suo ruolo sociale, è un padre immaturo, gravemente “infermo”, che si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di ansia, di profonda insicurezza, di annullamento di ogni slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è già a sua disposizione, senza dover ricorrere a terzi: farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi vai bene, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto cosa fa Gesù per guarire il padre, l’unico vero responsabile dei problemi della figlia? Gli dice solo: “Non temere, solamente abbi fede”. Cosa significa?
Gesù sente la paura del padre, sente il suo terrore davanti all’eventualità di perdere la figlia: Egli sa che l’unico responsabile della malattia della figlia è lui, il padre, che non vuole vederla crescere, non vuole lasciarla andare, non vuole accettarla come donna. E allora gli dice: “Devi aver fede, devi aver fiducia in lei; smettila di aver paura, di avere tutto questo terrore; devi capire che è proprio questa tua mancanza di fiducia in lei, questa assenza del tuo amore che la uccide; è questa tua paura di perderla che le impedisce di vivere. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà guarire e vivere”.
Poi, rivolto alla figlia, la chiama: “Talità”, giovane ragazza, noi oggi diremmo “signorina”; per Gesù lei non è una bimba, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da dipendente, da schiava. Tu sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Ègheire”, svegliati; e la ragazza immediatamente “anèste”, si alzò.
L’evangelista usa qui gli stessi verbi tipici della risurrezione di Gesù. Ciò sta a significare che risurrezione non è solo passare dalla morte alla vita; ma c’è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita statico, amorfo, ad un altro più vitale, più appassionato, più libero, più vero. In pratica per noi è risurrezione quando guariamo, quando cioè diventiamo più consapevoli di noi stessi e liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte.
Allora, “Ègheire!”, svegliamoci! Alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci solo eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo” temporaneo? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che continuiamo a confondere l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla? “Ègheire”: il nostro sonno deve finire, le nostre illusioni devono cadere: non lasciamoci trascinare stancamente dagli eventi, non adattiamoci ad essi, non continuiamo a “tirare avanti”. Svegliamoci, “passiamo all’altra riva della vita”, perché solo così riusciremo a vedere in faccia la realtà: dura e terribile all’inizio, in quanto abituati a vedere ciò che non esisteva, ma poi vitale, entusiasmante, eterna. Amen.

giovedì 21 giugno 2018

24 Giugno 2018 – Natività di san Giovanni Battista


“Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: Giovanni è il suo nome”.

È il nuovo che ci fa vivi: questo in estrema sintesi il messaggio del vangelo di oggi, scelto dalla liturgia per commemorare la Nascita di Giovanni Battista, il precursore di Gesù.
Per capirlo meglio dobbiamo necessariamente leggerlo nel suo contesto.
Zaccaria, il padre del Battista, è un sacerdote: in Palestina ve n’erano circa 18.000 su 600.000 persone. Si diventava sacerdoti non per vocazione ma per nascita, di padre in figlio.
Zaccaria era sposato con Elisabetta: il vangelo dice che erano “giusti e che osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.
Ma non hanno figli. Sono sterili. Grave cruccio, perché nella Bibbia la sterilità è vista come punizione dell’empio da parte di Dio (Gb 15,34). Ora, non si può certo dire che Zaccaria ed Elisabetta fossero persone empie, anzi inizialmente erano molto religiose: con il passare del tempo, però, questa loro impossibilità di avere figli, era diventato un tormento tale da intaccare la loro religiosità, privandola di qualunque slancio del cuore e dell’anima.
Tant’è che quando un giorno l’Angelo del Signore (Dio stesso) apparendo a Zaccaria gli annuncia che Elisabetta avrà un figlio egli, che avrebbe dovuto essere l’uomo più felice del mondo, gli risponde quasi irritato: “Come è possibile? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni!” (Lc 1,18). Come mai il sacerdote Zaccaria è così scostante con l’Angelo, arrivando quasi a rifiutare il figlio che da sempre lui ed Elisabetta ansiosamente aspettavano? Perché le condizioni che l’angelo gli pone implicano delle conseguenze che per lui sono troppo pesanti e incomprensibili: prima di tutto quel “Lo chiamerai Giovanni!”: Zaccaria capisce immediatamente che questo andare contro la tradizione di Israele che stabiliva per il primogenito lo stesso nome del padre o del nonno in segno di “continuità”, significa per lui l’interruzione della sua linea genealogica, significa mettere fine ad un passato, ancorché sterile ed amorfo ma senza contraccolpi, per cedere improvvisamente il passo alla novità, ad un’era messianica rivoluzionaria in cui, e questo è il secondo motivo del suo disappunto, i “figli” avrebbero avuto il compito di “ricondurre verso di loro i cuori dei padri” (Lc 1,16): cosa veramente impensabile, improponibile. Soltanto pensare che da quel momento i figli avrebbero annullato l’atavico rapporto di dipendenza dal padre, manda in frantumi tutte le sue certezze: se prima infatti i figli erano i continuatori, i trasmettitori alle generazioni future del patrimonio paterno, fatto di storia, di esperienze, di ideali, di valori, adesso improvvisamente sono i padri che devono convertirsi alle novità dei figli, sono questi che assumono il ruolo di maestri nei confronti dei loro padri; l’inesperta gioventù si impone sulla saggezza dei vecchi. È questa la grande novità destabilizzante: l’avvento di una prospettiva storica radicalmente innovativa e rivoluzionaria (il Battista, Gesù Cristo). È dura, è contro i dettami della Scrittura, della Tradizione, della Storia del suo popolo: e questo Zaccaria non lo accetta. E diventa muto (Lc 1,22). Uomo giusto, sempre coerente con la fede dei Padri, dentro di lui tutto era già stabilito, tutto era chiaro e programmato: in lui non c’era spazio per il nuovo: era irrimediabilmente morto nell’anima.
Elisabetta comunque rimane incinta, e partorisce: ed è qui che si aggancia il vangelo di oggi, che ci descrive non tanto la nascita del Battista ma la sua circoncisione (Lc 1,59).
Infatti all’ottavo giorno la Legge prescriveva di circoncidere il neonato. Con questo rito il bambino maschio veniva ammesso alla comunità di Israele e alla Legge. Il rito veniva normalmente compiuto dal capofamiglia, assistito dai parenti e dalla gente del vicinato; ed è in questa occasione che il capofamiglia impone il nome al figlio. Le donne non avevano autorità su tutto questo. Tutti si aspettano che Zaccaria dia a suo figlio il suo nome: è la prassi comune, il segno di una tradizione che continua. Ma interviene Elisabetta: “No, non si chiamerà come suo padre. Si chiamerà Giovanni”.
Ebbene: ogni rottura di rito, di tradizione, di uso, di consuetudine, comporta sconcerto e rifiuto. Diceva Schopenhauer: “La verità, come la novità, passa per tre gradini: dapprima viene ridicolizzata; poi viene violentemente contrastata; infine viene accettata come ovvia”.
Nel frattempo, finché è rimasto muto, qualcosa in Zaccaria è cambiato. Egli cioè ha permesso a quanto gli stava accadendo di cambiarlo, di farlo diverso, di trasformarlo.
E quando gli chiedono come vuole chiamare il figlio, visto che non può parlare, prende una tavoletta e scrive: “Giovanni è il suo nome!”. Zaccaria ha finalmente capito. E proprio perché ha accettato il “novum” di Dio, permettendogli di cambiarlo, di farlo diverso, torna a parlare; e non solo parlerà ma addirittura canterà pieno di Spirito Santo il sublime “Benedictus” (Lc 1,67-79).
Bene: questo è il Vangelo. Il suo messaggio per noi? “È il nuovo che ci rende vivi!”
Qual è infatti la cosa che più ci fa sentire vivi, eccitati, pieni di vita? Sicuramente la novità, l’attesa di una nuova e concreta prospettiva di vita. Quando ci nasce un figlio (il “nuovo” che arriva), ci sentiamo felicissimi; così quando dobbiamo iniziare una nuova attività, ci sentiamo “alle stelle”. Ogni giorno noi mangiamo nuovo cibo perché il corpo rinvigorisca, rimanga in vita. In ogni istante noi respiriamo nuova aria e tutto il nostro corpo si rinnova costantemente: in due mesi tutte le cellule del nostro corpo sono nuove. Noi siamo continuamente immersi nel nuovo anche se non lo sappiamo. Nella vita materiale, insomma, noi abbiamo assoluto bisogno del nuovo. Come pure nella vita spirituale: tant’è che il termine stesso “Vangelo” vuol dire “buona nuova”: e Gesù fu rifiutato e giustiziato non perché il suo messaggio era improponibile, ma perché era nuovo.
Se nella vita sociale ci comportiamo sempre allo stesso modo (bellicoso o accondiscendente), è chiaro che i risultati che otteniamo saranno basati su intolleranza o accoglienza. Ma se cerchiamo di proporci con altri atteggiamenti, nuovi e diversi, avremo sicuramente maggiori possibilità di relazionarci positivamente: se adottiamo infatti dieci nuove strategie, sicuramente avremo dieci possibilità di successo in più.
Così, se basiamo la nostra fede solo su quel poco che abbiamo imparato da bambini al catechismo, non è male, ma è decisamente poco. Se però cerchiamo di imparare sempre qualcosa di nuovo, se ogni giorno cerchiamo di leggere, di studiare, di meditare, sicuramente la nostra fede ne trarrà beneficio, si amplierà, si irrobustirà, permettendoci di capire meglio chi è Dio, chi è Gesù, cosa dice e insegna il suo Vangelo. E personalmente ne trarremo un aiuto più consapevole e meritorio.
L’uomo, insomma, se non c’è il nuovo che lo impegna di continuo, lentamente ma inesorabilmente scivolerà in una monotona staticità psichica, fino al punto da rimanere con il cuore e l’anima completamente aridi, vuoti, morti. Amen.



giovedì 14 giugno 2018

17 Giugno 2018 – XI Domenica del Tempo Ordinario


«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-34).

Il Vangelo di oggi merita una particolare attenzione: soprattutto da noi che siamo convinti di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della Chiesa, quelli che hanno sempre una soluzione migliore per ogni cosa, quelli che, se gli altri ci dessero retta, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli: non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super preparazione personale che concorrono a fare grande il Regno di Dio.
Edificare il Regno, ci dice infatti il vangelo, è come piantare un piccolo il seme: ha solo bisogno di essere piantato alla giusta profondità per germogliare e dare frutto: la sua crescita è automatica, avviene spontaneamente, anche quando il seminatore dorme o è assente: non ha bisogno della sua presenza; inoltre lo sviluppo non avviene a casaccio, ma risponde alle sue proprietà naturali, programmate dal Creatore, che gli consentono, lui piccolissimo, di produrre frutti ben più grandi e abbondanti.
Questo è quanto ci insegna il vangelo di oggi. Queste devono essere le caratteristiche del nostro lavoro di semina della Parola.
Purtroppo il terreno su cui dobbiamo seminare, la società in cui viviamo, è diventato brullo, arido, peggio di una pietraia: viviamo in un’epoca che per certi versi è già “post cristiana”, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua Parola, la Chiesa e i suoi fedeli, sono ridicolizzati, messi al bando, rifiutati.
Ma ciò non deve ferirci né scoraggiarci; non deve smorzare il nostro impegno; anzi deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non si tratta di essere dei “superman”, degli spaccamontagne, dei “faccio tutto io” come siamo inclini a pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”; null’altro che dei piccoli, umili, imbranati seminatori, dispensatori e annunciatori con la vita della Parola: l’importante però è che dobbiamo farlo con lo stile di Dio: uno stile fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia, di tempo.
In natura tutto ha bisogno di un suo tempo per crescere, per maturare: perché la vegetazione rinasca vigorosa in primavera, ci vuole tutto l’inverno; perché nasca un bambino ci vogliono nove mesi; è il tempo dell’attesa: sembra che non accada nulla, ma in profondità la vita si prepara alla sua esplosione, al suo naturale sviluppo. Non possiamo tirare le gambe di un bambino perché cresca più in fretta, come non possiamo tirare il gambo di un fiore per allungarlo.
Noi purtroppo siamo abituati a premere un bottone, e quello che vogliamo ottenere avviene immediatamente: con il pulsante della tv vediamo cosa succede nell’altra parte del mondo; con quello del computer o del telefono contattiamo chiunque, dovunque si trovi. Tic-tac: tutto avviene. È un semplice giochetto!
Ma per le cose della vita, sia essa naturale che spirituale, non è così; ci vuole un tempo di attesa, esattamente come per i sentimenti: l’amore, la fiducia, i sogni, le aspirazioni, prima che si concretizzino, hanno bisogno di un loro tempo di formazione, di incubazione, di maturazione. L’importante è credere.
Ecco: un altro particolare importante che traspare dal vangelo di oggi è l’ottimismo di Gesù: Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle sue idee, sa che la Parola, uscita dalla bocca di Dio, non tornerà mai senza effetto, senza aver compiuto ciò che Egli desidera, ciò per cui Egli l’ha mandata (cfr. Is 55,11). Allora, lavorare con questo specialissimo seme, ci deve solo che tranquillizzare: perché la Parola porti frutto dobbiamo soltanto seminarla, annunciarla, soprattutto viverla; dobbiamo in altre parole compiere umilmente la nostra” evangelizzazione mediante l’esempio, la carità, l’amore: tutto il resto viene da sé; il Regno non dipende da noi; dipende da Dio e dalla “fertilità” del terreno su cui il suo “seme” cade. Nella vita della Chiesa vanno banditi i personalismi: il nostro non è un “lavoro” individuale, solitario, isolato: è un lavoro di équipe, collettivo, fatto a più mani nella preghiera, diretto e coordinato dall’unica mano di Dio, magistrale e risolutiva, che controlla e provvede a tutto, come dice giustamente Paolo alla comunità cristiana di Corinto: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere” (1Cor 3,6). Non è dunque l’azione dell’uomo che produce il Regno, ma è la potenza di Dio.
Se lavoriamo con quest’ottica, tutte le nostre ansie, tutte le nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, ma sono dannose; sono inquietudini che non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr. Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
Il buon esito dell’annuncio, della semina, non dipende infatti dalla nostra efficienza, ma da un Altro: il regno di Dio è di Dio, non siamo noi che lo costruiamo, che lo ingrandiamo, che lo irrobustiamo. Semmai, con il nostro comportamento folle, a volte possiamo al massimo ritardarne il corso, il suo fluire: come può succede per l’acqua di un fiume che sul suo corso trova una irrisoria barriera di fango e di rifiuti.
Spesso gli ostacoli a Dio e al suo Regno sono posti non tanto dalla malvagità dei cattivi, quanto dalla stupidità dei buoni: la più grande alleata del demonio è proprio la nostra ignoranza spirituale, è il nostro assecondarlo, lasciandoci conquistare da quei fuochi fatui che Gesù scartò decisamente come tentazioni: il successo, la pubblicità, l’efficienza, la grandezza, il benessere.
“Il regno di Dio è come un granello di senape”, un seme veramente minuscolo, quasi invisibile: proprio perché Dio è grande, immenso, non ha avuto paura di farsi piccolissimo, umano; non ha avuto paura di morire sulla croce tra gli scherni e la derisione dei presenti; proprio perché il suo Regno è eterno e potente, ha scelto di fare a meno della grandiosità degli apparati esteriori. Dio non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi: non gli servono eserciti, nonostante il mondo lo combatta con tutti i mezzi, contrapponendo alla sobrietà del suo Vangelo le più attraenti seduzioni, il denaro, il possesso, il piacere. È tutto inutile: nonostante tutti gli ostacoli frapposti dal mondo, il seme di Dio, piantato sul Golgota, ha avuto e avrà sempre la meglio: è già “un grosso albero” all’ombra del quale l’umanità intera troverà sempre ristoro, accoglienza, Amore. Amen.


venerdì 8 giugno 2018

10 Giugno 2018 – X Domenica del Tempo Ordinario


Esaurite le grandi solennità del Tempo Pasquale e quelle “mobili” immediatamente successive alla Pentecoste, oggi la liturgia ci reintroduce nel Tempo Ordinario, durante il quale ci propone una serie di letture evangeliche che illustrano quelle che devono essere le caratteristiche fondamentali della Chiesa di Cristo e di quanti intendono farne parte.
Marco, con il suo solito stile conciso e pieno di inclusioni, sottopone oggi alla nostra riflessione un testo particolarmente significativo in questo senso.
Le tematiche trattate sono due: la difesa di Gesù dall’accusa rivoltagli dalle autorità di essere un indemoniato, uno strumento di Satana, e la sua precisazione su chi siano “sua madre e i suoi fratelli”.
Ma andiamo con ordine. Gesù, durante la sua missione, è costantemente circondato da una folla di poveretti, di emarginati dalla società, di malati, di posseduti dal demonio, di bisognosi d’aiuto: tutti lo rincorrono per avere da lui la soluzione dei loro problemi, la guarigione dalle loro infermità. E a tutti Egli dona conforto e salute sia corporale che spirituale.
Preoccupate di tanto consenso della folla, le autorità religiose, sopraggiunte di proposito da Gerusalemme, cercano in tutti i modi di screditarlo, sostenendo che tutto quanto egli compie, lo compie per mezzo si satana: in particolare gli rinfacciano che egli riesce a cacciare i demoni soltanto grazie all’intervento diretto di satana. Una insinuazione decisamente ridicola: quando mai satana caccerebbe se stesso da un luogo di sua proprietà? È infatti decisamente impensabile che il demonio, attaccatissimo e gelosissimo del suo regno di morte, sia tanto ingenuo da rinunciarvi andando contro i suoi stessi interessi.
Semmai, ribatte Gesù, opera del demonio sono i vostri tentativi di attribuire a satana le opere che appartengono a Dio, rifiutando in questo modo l’opera redentrice che io sto realizzando nel mondo. In altre parole, dice Gesù, gli indemoniati siete voi, perché rifiutate categoricamente e senza riserve la salvezza che mio Padre, Dio Amore, sta operando mio tramite: un peccato, il vostro, che non potrà mai ottenere il perdono: non perché Dio prenda le distanze, vi giri le spalle, ma perché arrivate a rifiutare la possibilità di perdono e redenzione, negando la mia missione di Messia.
“In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.
Rifiutare l'azione di Dio che agisce nella persona di Cristo dal momento del suo battesimo nel Giordano (“Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento!”) costituisce infatti il più grave insulto alla potenza stessa di Dio. Con il loro atteggiamento, pertanto, gli scribi si autoescludono dalla salvezza che il Padre, spalancando definitivamente il Cielo, ha portato nel mondo per mezzo del Figlio, grazie allo Spirito, il reciproco amore che li unisce indissolubilmente. Peccare quindi contro lo Spirito Santo costituisce un’offesa “imperdonabile”, non perché Dio non la perdoni a chi si pente, ma perché è gravissima, rappresenta la volontaria astensione dalla fede, il rifiuto di convertirsi, di aderire all’opera redentrice di Cristo, collaborando con riconoscente umiltà alla sua azione salvifica conclusa sulla Croce.
Il catechismo ce ne presenta diversi di questi peccati “contro lo Spirito Santo”, tutti demoniaci e “imperdonabili”: come “disperare della salvezza eterna, presumere di salvarsi senza merito, impugnare la Verità conosciuta, invidiare la Grazia altrui, ostinarsi nel peccato, l’impenitenza finale”. Sono tutti molto simili perché ciascuno comporta il rifiuto della Grazia e degli aiuti divini di cui lo Spirito Santo è portatore.
Venendo a noi, dobbiamo riconoscere oggi una diffusa ostilità contro Gesù e il suo Vangelo: purtroppo oggi la società si esprime contro lo Spirito in maniera sempre più categorica, combattendo con tutti i mezzi la fede cristiana, la Chiesa cattolica e qualsiasi riferimento ad essa, rifiutando pervicacemente qualunque azione divina di perdono e di Grazia.
Nonostante le infinite prove tangibili e inconfutabili dell'Amore di Dio, rivelate attraverso la vita delle persone e gli eventi della storia, c'è chi cerca di propagandare sistematicamente l’odio per il sacro, per i principi morali, per i valori inalienabili della civiltà cristiana, contrapponendo alla dottrina etica e religiosa della Chiesa, un edonismo, un materialismo, un relativismo sfrenati. C'è addirittura chi si vanta con orgoglio della propria miscredenza, del proprio perseverare nel peccato, della propria vita amorale e contro natura, facendolo come atto di sfida, di sberleffo, nei confronti di Cristo e di tutti quei “beoti” che lo seguono; come pure chi, pur riconoscendosi colpevole, rifiuta con orgoglio e arroganza qualunque forma di ripensamento e di ravvedimento.
Peccare provocatoriamente contro lo Spirito Santo, in questa nostra società secolarizzata e impertinente, è diventato ormai un naturale e sconsiderato “modus operandi”: ma di una cosa dobbiamo essere assolutamente certi: che quanti perseverano nel negare Dio e la sua Misericordia, prima o poi cadranno vittime del loro errore, perché in nessun modo la presunzione e l’orgoglio riusciranno mai a sopraffare l’Amore e la Verità.
Di fronte a tanta cattiveria, a noi deboli e tiepidi cristiani, smarriti nella nostra umanità, può venire a volte da pensare: “perché vivere secondo il Vangelo di Cristo, quando questo ci porta ad essere derisi, ci impone privazioni e ogni genere di ostilità? Ne vale veramente la pena?”.
Ebbene: se noi uomini e donne possiamo talvolta anche deludere chi si affida a noi, Cristo non ha mai deluso nessuno: le sue promesse di premio e di Amore eterno sono certezza assoluta, e questo ci deve bastare per continuare a vivere cristianamente, a combattere senza sosta, ad annunciare con determinazione la sua Parola. Le difficoltà che incontriamo nella salita al suo Monte, sono sicuramente sopportabili all’idea del riposo, della soddisfazione, di questo Amore completo e duraturo che otterremo una volta raggiunta la vetta.
“Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
È il secondo tema del vangelo di oggi. Attorno a questo versetto di Marco e a quelli analoghi degli altri sinottici (Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) sono stati consumati fiumi d’inchiostro: Gesù era figlio unico, o Maria la “sempre vergine” ha avuto altri figli? Al di là delle fantasiose ricostruzioni di tanti romanzieri contemporanei, il cui scopo preferito è quello di gettare discredito sul nostro “credo”, oggi le posizioni sono tre: a) secondo la Chiesa cattolica i “fratelli e le sorelle” di Gesù erano i cugini, i parenti affini o comunque i membri del clan familiare di Gesù; b) secondo le Chiese orientali essi erano invece i “fratellastri” di Gesù, figli cioè di un precedente matrimonio di Giuseppe che, rimasto vedovo, era convolato a nozze con Maria; c) secondo le chiese protestanti moderne, i Testimoni di Geova, e alcuni studiosi della corrente storico-critica, essi erano “veri figli carnali” di Giuseppe e Maria, nati dopo il primogenito Gesù.
Ora, giusto per avere un’idea corretta sul significato del termine greco “adelphòs” con cui è stato tradotto il testo ebraico, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli: in aramaico – così come in ebraico – c’è un unico termine (Haha/hah) che designa sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato. In quest’ottica si capisce infatti perché Abramo chiami “fratello” suo nipote Lot (Genesi 13,8), come pure fa Labano nei confronti di suo nipote Giacobbe (29,15).
Si tratterebbe quindi di una errata interpretazione dell’ebraico, visto che nel contesto socio-culturale giudaico di Gesù, il termine “fratello” non aveva, come abbiamo visto un senso univoco come nel greco, dove per indicare un “cugino”, persona diversa da “adelphòs”, viene utilizzato il vocabolo specifico “anepsiós”.
Infatti, già un antico apocrifo, come il Protovangelo di Giacomo del II secolo, ha considerato in realtà questi “fratelli” come “fratellastri” perché in quello scritto, al momento del matrimonio con Maria, Giuseppe confessa: “Ho figli e sono vecchio” (9,2).
C’è poi un’altra considerazione più significativa e fondata: l’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (At 1,14; 1Cor 9,5) designa nella realtà un gruppo specifico di persone, quello dei giudeo-cristiani, legato al clan parentale nazaretano di Gesù. Essi costituirono una sorta di comunità a sé stante, dotata di una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù”, Giacomo, citato anche dallo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio.
Per noi cattolici, in ogni caso, il problema non esiste, in quanto la questione è già stata ampiamente risolta, nel senso che l’esistenza di “fratelli e sorelle carnali” di Gesù è incompatibile con il dogma della perpetua verginità di Maria, esplicitamente esposto nel Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 d.C., e ufficialmente confermato nei successivi Concili Lateranense IV del 1215 e II di Lione del 1274.
Ma torniamo al vangelo: c’è da notare come il testo specifichi come in questa occasione siano i “suoi” che si intromettono nell’azione pastorale di Gesù, definendolo addirittura “fuori di sé”; questi “suoi” sono il suo “clan”, sono i suoi “parenti” che intervengono, spinti non dallo Spirito Santo, ma semplicemente dal loro cuore, preoccupati di come potevano mettersi le cose a causa dell’accesa discussione con i capi religiosi; non potevano essere certo parenti stretti come i fratelli carnali ad interromperlo, non poteva certo essere Maria sua madre, costantemente illuminata dallo Spirito, a mandarlo a chiamare: Ella era consapevole di dover rispettare i tempi e la volontà di questo suo Figlio e Signore, e lo faceva con il suo silenzio adorante.
“Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Una risposta secca, questa di Gesù: una risposta un po' indispettita; una risposta, forse, con cui vuol disconoscere i suoi parenti, rinnegare Maria, ripudiandola come Madre? Certamente no!
La sua risposta ha semplicemente un valore universale: non è rivolta tanto a Maria e ai “suoi”, quanto a tutti noi; è una risposta che ci provoca tutti direttamente, in prima persona: è la risposta, unita allo “sguardo”, con cui Gesù elegge e, nello stesso tempo, interpella, impegna ciascuno di noi, a divenire “suoi fratelli, sorelle e addirittura madre”.
La sua logica è una sola e vale per tutti, nessuno escluso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,34-39).
Per Gesù dunque prima di tutto viene la volontà di Dio: ed è in questa volontà divina che Lui fa nascere tutti i rapporti interpersonali. Chi è in linea con la volontà di Dio? Chi gli permette di compiere solo e sempre la volontà di suo Padre. Chi dovesse ostacolarlo, interromperlo, disturbarlo, dimostra di non amarlo, perché non capisce cosa significhi per lui fare la volontà di Dio.
In pratica Gesù ci fa capire che per essere uniti a lui con legami di autentico amore, non servono i legami della carne e del sangue, quanto piuttosto la decisione di fare come lui la volontà del Padre, in quanto se è vero che Gesù è l’origine della nostra comunione fraterna, è altrettanto vero che questo nostro legame con lui si fonda e si costruisce all’ombra “luminosa” di quel Padre che egli è venuto a rivelare; Egli in pratica ci introduce nella sua intima relazione con il Padre invitandoci a partecipare di quello stesso mistero che li unisce: allora le parole con cui termina il suo discorso devono costituire per noi la sintesi programmatica della nostra sequela: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
“Fare la volontà di Dio”: questo è il nostro programma di vita; compiere il “suo disegno”, realizzare la sua “idea”; che non è osservare la sua legge in astratto, ma seguire lo stesso cammino di Gesù, portando anche noi la nostra croce così come Lui l’ha portata: con lo stesso amore, con lo stesso attaccamento, con lo stesso proposito, convinti anche noi di compiere la volontà del Padre “nostro”. Amen.


giovedì 31 maggio 2018

3 Giugno 2018 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo


«Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14,12-16.22-26).

Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, la festa del Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti insieme allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, fare cioè “comunione” con i fratelli: oggi è pertanto la festa anche di tutti noi, la festa che ci ricorda l’importanza di essere “Chiesa”.
Alla sua morte Gesù non ci ha lasciato in eredità nulla di questo mondo: non ricchezze, non oggetti preziosi, non una casa, non libri preziosi: ci ha lasciato una cosa sola, sé stesso: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, ed è appunto questo il grande mistero che la Chiesa oggi propone alla nostra meditazione: Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un tramonto, le bellezze della natura, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di gioia di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma l’autentica, la più grande mediazione, è quella di Cristo nell’Eucaristia: Dio, attraverso il pane della domenica, attraverso il corpo del Figlio, continua a darsi a noi in un rapporto diretto di amicizia e di grazia; un rapporto con Dio che continua anche per mezzo del “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora mediante il corpo dei “nostri” fratelli, anch’essi immagine “viva” di Cristo.
In questo senso possiamo definire il Cristianesimo la “religione del corpo”. Per secoli si è sempre fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (il corpo con tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è spirito è invece elevato, eterno, sublime: umiliamo quindi il più possibile la materia, perché solo così faremo emergere lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità, ancora fino a qualche decennio fa, passava unicamente attraverso la completa rinuncia ad ogni piacere, di qualunque natura esso fosse (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento, allegria): così, per esempio, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato; qualunque divertimento era visto come mezzo di sicura perdizione. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente sporco, diabolico, negativo, dannoso.
Ma non è così: il nostro corpo è abitazione di Dio, è tempio di Dio, esattamente come corpo di Dio è il pane eucaristico, “pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli”. Nell’Eucaristia che noi assumiamo, Dio viene in noi, Dio entra realmente nel nostro corpo. Lo Spirito di Dio, su questa terra, esiste soltanto attraverso un corpo: una volta quello di Gesù, ora il nostro, quello dei fratelli, quello della Chiesa. Il corpo diventa così spirituale e lo Spirito diventa corporeo. Ecco allora che quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, pure il corpo sta bene. Tante nostre malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo prendere tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a “star bene”; perché non è il nostro corpo ad essere ammalato, ma il nostro spirito; il corpo infatti non è altro che la visualizzazione, il “monitor”, il riflesso del nostro spirito.
Curare il nostro corpo significa curare anche la nostra anima; tenerlo in forma, significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la nostra anima è gravemente ammalata, ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”, ha bisogno di pause salutari, di silenzio, per eliminare quella “sazietà mortale” che le impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”, e integrarsi totalmente nel Corpo di Dio.
Insomma chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio, perché il nostro corpo è a pieno titolo inabitazione dello Spirito.
Ecco perché il nostro corpo va accudito, curato, rispettato: anche attraverso il godimento di tutte quelle cose buone di cui Dio ci ha riforniti tramite il suo creato.
A ben guardare, infatti, una delle grandi rivoluzioni che Gesù ha portato nei costumi del suo tempo, è stata la sua abitudine di condividere il cibo con chiunque, di sedersi a tavola e mangiare con tutti: lo ha fatto con gli esattori delle tasse, con i pubblicani e i peccatori, con i farisei e gli uomini di legge; durante uno dei suoi pasti ha accolto anche delle donne di cattiva fama, ha mangiato perfino con i lebbrosi, considerati rifiuto della società. Gesù non si è mai posto problemi di alcun genere, ha mangiato tutti i giorni, e lo ha fatto in compagnia di chiunque si trovasse con lui.
Proprio per questa sua abitudine era accusato apertamente dai suoi nemici: gli rinfacciavano di essere un beone, un crapulone; di mangiare perfino nei giorni proibiti (come di sabato), senza mai rispettare le regole religiose, come quella delle abluzioni da fare prima di toccare cibo. Chi non osservava queste norme, era quindi ritenuto automaticamente un pubblico peccatore, e veniva escluso dalla comunità.
Gesù ha stravolto questo sistema: la sua missione non è stata quella di fondare un’élite di puri, di eletti, di uomini “in grazia”; ma di abbattere qualunque forma di emarginazione nei confronti di tutti gli esclusi, di tutti i reietti, di tutti i feriti nel cuore e nella vita.
È infatti per loro, per quanti si sentono deboli, sofferenti, bisognosi, vulnerabili, che Egli ha lasciato in eredità il suo Corpo e il suo Sangue.
Noi stessi andiamo al banchetto eucaristico non perché ci sentiamo giusti, in regola, puri, ma perché sentiamo il bisogno del suo amore; sentiamo il bisogno di sentirlo materialmente vicino, di mangiare il “Suo” cibo: e Gesù ci accetta con gioia alla sua mensa, mangia volentieri con noi: anche se siamo più disonesti di Zaccheo; perché, peggio di lui, tutti noi “rubiamo”, tutti noi facciamo i nostri interessi, scegliamo sempre ciò che ci è più comodo e più utile; in famiglia per esempio: chiediamo tanto agli altri, pretendiamo dai nostri figli obbedienza e rispetto, dai nostri mariti o dalle nostre mogli massima tenerezza e disponibilità; ma noi personalmente diamo molto poco. Investiamo in questo decisamente poco, spesso addirittura proprio niente.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo peggio di Levi, l’esattore dei tributi, del quale condividiamo apertamente la stessa mentalità: “Io ti do, solo se tu mi dai; cosa mi dai in cambio? Io non faccio nulla per niente!”, arrivando a contrattare perfino quel minimo di bene che facciamo.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo molto peggio delle “donne facili” di ogni tempo: all’esterno siamo brillanti e seducenti, anche se dentro di noi sappiamo molto bene a quali vergogne, a quali imbarazzanti compromessi ci siamo abbassati per ottenere in cambio un inutile ed effimero tornaconto.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo dei Giuda, anche se continuiamo a tradirlo, a venderlo vergognosamente ai suoi carnefici; mangia con noi anche se siamo palesemente dei mascalzoni, dei delinquenti, degli approfittatori: chiunque può a ragion veduta evitarci, rifiutarci, detestarci, odiarci; ma Lui no, Lui non ci rifiuta, non ci odia.
“Il corpo di Cristo” ci dice il sacerdote quando ci comunica; e noi gli rispondiamo “Amen, sì, è vero!”: e apriamo la nostra misera dimora: il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare in casa nostra, diventa un tutt’uno con noi, si immedesima in noi; in quel momento prodigioso possiamo percepire il nostro cuore sussurrargli: “Signore, questo è il “mio” di corpo…” e Lui di rimando rispondere: “Amen, Sì, lo so, figlio mio”. 
“Magnum mysterium, adorabile sacramentum”, hanno cantato i Padri alludendo a questo reciproco “sì”, a questa personalissima, totale e incondizionata accettazione: un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci deve seriamente impegnare nella vita di perfezione nella “perfetta carità”. Allora, vivere una vita eucaristica, non vuol dire andare in chiesa per “fare la comunione” tutti i giorni, ma vivere ogni giorno facendo della nostra vita un dono d’amore agli altri.
Se non riusciamo a realizzare questo compito, se non riusciamo a donare, esprimere, offrire ciò che abbiamo di assolutamente “nostro”, di più profondo, di più intimo, di più divino, la nostra vita sarebbe completamente inutile, decisamente sterile; le nostre fatiche, le nostre lotte, la nostra passione, il nostro amore non servirebbero a nulla e a nessuno. Amen.


giovedì 24 maggio 2018

27 Maggio 2018 – Santissima Trinità


«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,16-20).

Oggi la Chiesa celebra la festa della Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo. Noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato; lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza. E per la Chiesa nascente questo bastava. Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.
Solo nel 325 il concilio di Nicea stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”, identico cioè al Padre quanto alla natura e alla sostanza. Il concilio di Costantinopoli del 381, poi, contro il macedonianismo, decise che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, consustanziale cioè al Padre e al Figlio.
Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: il Padre è Colui che ama (Amans), il Figlio è l’Amato (Amatus) e lo Spirito è il reciproco Amore (Amor) tra Padre e Figlio.
Le tre persone divine non sono quindi statiche, tre divinità autonome e diverse che se ne stanno per conto loro, ma sono dinamiche, sono cioè in continua relazione tra loro. “Dio è Amore; Dio è Relazione”. Una verità inesprimibile, teologicamente abbastanza ostica da capire: tant’è che per parlare di questa relazione che intercorre tra i tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, il Concilio usò la parola “pericorèsi”: dal greco “perì-corèo” che vuol dire andare attorno, girare intorno, danzare. La Trinità è pertanto Vita, Relazione, Danza, Divenire, Amore, Comunicazione, un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno.
La prima grande verità che possiamo pertanto dedurre dalla festa di oggi è che, ad immagine della Trinità, tutta la vita, tutto il creato, come pure tutto ciò che ci riguarda, che ci accade, è in costante relazione: tutto è collegato al Tutto, tutto è interconnesso, tutto è comunicante con l’Amore Assoluto (Gv 17,11), tutto è a Lui riconducibile; tutto è Uno e Trino, perché nulla può esistere di separato, di diviso, di isolato, “al di fuori” di questo Amore; niente e nessuno può esistere, se non attraverso questa palpitante relazione.
L’amore di Dio Trinità è quindi un amore che “sostiene ogni cosa”, come scrive Paolo (1Corinzi 13,7), un amore che è la realtà ultima e profonda di ogni creatura, dell’intero creato.
Una realtà che ci tocca particolarmente. Tutti infatti cerchiamo l’amore. Tutti vogliamo essere “sorretti” dall’amore. Tutti vogliamo essere amati, felici. Soltanto l’amore di Dio però può saziare questa nostra fame di felicità. Lui è l’unica forza che ci sostiene, il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce, la guida che ci accompagna lungo il cammino della vita. È l’energia soprannaturale che infonde coraggio, potenza, entusiasmo, autorevolezza.
Questo è lo stesso amore con cui Gesù ha amato le folle, con cui ancora oggi continua ad amarci: con grande dolcezza, con comprensione, con garbo; ma anche con forza, con chiarezza, con determinazione: un amore comunque discreto che non si impone, non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. Egli, come faceva una volta, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di aprirmi il tuo cuore?”. Non costringe nessuno, non butta giù le porte; sa benissimo che a volte la paura di aprirsi, di abbandonarsi, di lasciarsi amare nonostante una vita miserabile, è così grande e invalidante, che le persone si rifiutano di accoglierlo. 
A tutti Egli continua a dire: “Anche se ora tu non mi ami, non preoccuparti, perché io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, Io ti amo comunque, ti amo per quello che sei. Non voglio niente da te, non mi aspetto niente, non ti chiedo niente, non ti impongo niente: io rimango qui con te, sarò sempre alla porta del tuo cuore: entrerò solo se e quando tu vorrai”. 
Vale la pena allora di pensare seriamente a questo Amore; di pensare a questo dono impareggiabile che Dio mette gratuitamente a nostra disposizione, a questo DNA Trinitario che ci viene inspirato con la vita. Anche se non lo meritiamo. Anche se per noi “umani” rimane inspiegabile e incomprensibile.
Ma… ricordate la scena del figliol prodigo, quando ritornò dal Padre? Si era preparato per bene il suo discorsetto: “Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e… bla, bla, bla...”. Ma prima ancora che aprisse bocca, il Padre, vedutolo da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, e in un intimo e commosso silenzio gli dice: “Ti aspettavo”.
Nient’altro: nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessuna accusa. Ecco: questo è l’amore di Dio. Una pagina del vangelo che per noi è illuminante: una “lectio magistralis” sull’amore del Padre celeste. In una analoga circostanza, in quel preciso istante, chiunque di noi, anche il più incallito prevaricatore, capirebbe la portata di quell’amore, capirebbe cosa significa essere i destinatari dell’amore Divino, un amore struggente che invade l’anima, un amore che conquista e inebria il cuore. Amen.