giovedì 5 maggio 2022

08 Maggio 2022 - IV Domenica di Pasqua


Gv 10, 27-30

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 Il Vangelo di oggi, uno dei più corti dell’intero anno liturgico, fa parte di una delle catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che però sintetizzano e documentano un messaggio per noi di estrema importanza: Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco, esse mi seguonoTre verbi, ascoltare, conoscere, seguire, che sviluppano tre momenti di un crescendo programmatico, che deve assolutamente determinare la nostra vita di cristiani “moderni”. Analizziamo meglio la portata di queste parole.

1. “Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire”, significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente ad essi. “Ascoltare” invece, è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro: è in latino ma molto comprensibile:

Ausculta o fili, praecepta Magistri, inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras … per Benedetto, cioè, l’ascolto dell’insegnamento deve interessare l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per poterlo accettare volentieri (libenter excipe) e soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple)“Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’attuazione consapevole. Ne consegue che come uno ascolta, così anche si comporterà, così imposterà la sua vita. Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo, che ci “costruisce” dentro. Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver sentito tante belle prediche o tante catechesi! In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamoNella nostra vita abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza però che scattasse qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima. Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso decisamente inutili e illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”. Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto, nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “ab-surda” = stonata, da sordo, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita. Noi siamo sordi! E, da sordi, non essendoci “ascolto”, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!

2. “Conoscere”: è la seconda parola da approfondire. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano. Per noi, “conoscere” in genere significa sapere chi è un certo tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati biografici, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità. Ben più profondo e pregnante è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia. La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore, perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore. Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È questa un’esperienza unica, indescrivibile, che ci destabilizza, ci astrae dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.

3. “Seguire”: è la nostra terza parola; è la conseguenza dell’ascoltare e del conoscere: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. È così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio. “Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”. Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; come pure la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà. Un timore, una paura che genera preoccupazione, ansia: l’ansia è infatti la compagna fedele del nostro viaggio di uomini moderni, tecnologici. Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? Proprio a nulla, amici miei: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo. Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba. Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Per questo i primi cristiani gridavano ai loro persecutori: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”. 

Fidiamoci anche noi allora di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dall’amore del Padre! Amen.

 

giovedì 28 aprile 2022

01 Maggio 2022 - III Domenica di Pasqua


Gv 21,1-19

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. e si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è. 

Ma Lui chiede loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: e noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi da potergli offrire? Un qualcosa che valga, che sia valido, che sia in grado di attenuare almeno un po’ la sua fame di amore? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come i discepoli: “No”E questo perché, in fondo, dobbiamo onestamente ammettere che non siamo per nulla soddisfatti di come siamo: ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire a Dio, non abbiamo proprio nulla; per cui la prima cosa da fare è dirci francamente: “Dobbiamo rialzarci dalla nostra indolenza! Così non va! Dobbiamo guarire!”; solo che per poter guarire, dobbiamo prima di tutto ammettere seriamente di essere malati. Dio ci aiuta certamente, ci mette come sempre del suo, anche in questo nostro proposito di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse immediatamente, con effetto istantaneo: con un evento, un miracolo, che all’improvviso, in un attimo, ci migliori, faccia sparire tutti i nostri problemi, le nostre brutture. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare, cadere, rialzarci, continuando pazientemente a guardare sempre avanti. Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade. Dopo una notte intera di faticoso lavoro senza alcun risultato, Gesù rimanda i suoi discepoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo però che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso. 

Ebbene: questo stesso ordine, con la stessa determinazione, Gesù lo ripete anche a noi: dopo i nostri fallimenti, puntualmente, ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia. Non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove; ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele con amore, in maniera razionale, consapevole. Non vivete più di inutili fantasie; non aspettatevi che le difficoltà spariscano magicamente da sole, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi seriamente cosa cercate, dove volete arrivare, cosa vi aspettate da voi stessi”. Allora, piuttosto che adagiarci sul “così fan tutti”, piuttosto che seguire scioccamente gli altri, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi spingono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero e coerente in quel che faccio?”. Dobbiamo insomma convincerci che solo una vita vissuta responsabilmente può darci quella serenità, quella felicità di cui tanto abbiamo bisogno. Purtroppo, noi ci illudiamo che le cose in grado di saziare il nostro cuore si trovino all’esterno, al di fuori di noi. E continuiamo a gettare le nostre reti invano: quando invece ciò che può riempirle completamente, ciò che può renderci pieni di gioia, che ci fa sentire amati da Dio, che produce quell’energia continua che sentiamo esplodere dentro il nostro cuore, è solo Lui: e Lui non si trova al di fuori, alla nostra “sinistra”, ma dentro di noi. 

Questo è stato il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere: trovarono cioè Dio, nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui, la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò, perché amarono. Il messaggio è chiaro: se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, anche noi potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore. Soltanto allora la nostra vita cambierà, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia. Capita invece che spesso cerchiamo Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, nelle false parole dei santoni del momento. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, più che un desiderio di Dio, rivela una mancanza preoccupante di fede, un bisogno irrequieto di protagonismo, di apparire. Eppure Dio c’è sempre per noi, è sempre a nostra disposizione; il luogo preferenziale in cui trovarlo è là “dove c’è carità e amore”: dobbiamo solo imparare a “vederlo”, con grande umiltà. Perché le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo associativo, se sono privi di amore, di cuore, di altruismo, di Vita, non riusciranno mai a “vedere” il Signore. È successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, l’uomo d’azione, l’uomo pratico che non concede spazio ai sentimentalismi, sul lago di Tiberiade, non riconosce il Signore: solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e lo indica a Pietro: “È il Signore!”.

Ebbene, Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo. Leggendo il vangelo, è interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: per esempio, una volta riconosciuto Gesù, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua prima di raggiungere Gesù: perché deve “bagnare” la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve immergersi, anche lui come Giovanni, nel “mare” dell’amore.

Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Sempre secondo i Padri, il senso c’è: perché vestirsi, significava per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significava rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione: autorità, ruolo, funzione, che hanno sempre bisogno, pertanto, di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, che sale con decisione sulla barca (immagine della chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio senza di lui, non può più far niente. È vero che è sempre Dio che agisce per primo: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma senza l’aiuto di Pietro (della chiesa) e senza gli apostoli (gli uomini) non può fare nient’altro: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno continuamente del loro amore, della loro disponibilità. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale, per assicurare la vita della chiesa. Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”Ora, in greco, “agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista; “filèo” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti sentimentali.

Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs me) più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta, un amore incondizionato, un amore che sia “agàpe”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui modera la richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso. Ma Gesù insiste: per la seconda volta chiede a Pietro se il suo amore per lui è totale, assoluto, incondizionato; e il poveruomo, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con maggior cautela e circospezione gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filò sè”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: questa volta, però, lo fa in modo diverso: mette da parte cioè l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene?(Sìmon, filéis me?). Gesù, nel suo amore infinito, a questo punto si accontenta anche del suo “ti voglio bene”; si abbassa, si adatta alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, imperfetto, è già amore!”. In pratica Gesù adegua il suo passo a quello di Pietro; il quale, a questo punto, si rende conto di quanto Gesù lo ami, di quanto tenga al suo amore: e avverte lo stesso pianto amaro del sinedrio risalirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi veramente di poco, delle briciole, anche di un cuore sofferente, ferito, purché ami al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti. Per tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; per tre volte gli ha in pratica detto di no, e per tre volte il Signore lo interroga sulle possibilità vere e profonde del suo amore. Gesù insiste, pur conoscendone perfettamente i limiti; ma lo fa per far capire a Pietro una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi: pur nei tuoi limiti, devi essere convinto di farlo in maniera totale, sincera. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, per il fatto di essere Pietro, un mio discepolo, che io sto ponendo alla guida della mia Chiesa. È impensabile infatti che per questo, tu possa considerarti esonerato da paure, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite; non puoi purtroppo prescindere dalla tua umanità, non puoi illuderti di essere improvvisamente superiore a tutto e a tutti: perché se vivi in questa illusione, ricordatelo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso; sei vulnerabile, ma amami comunque, amami come puoi, amami come vuoi, purché il tuo amore sia sempre vero, reale, sincero”.

E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19)La veste, come ho detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica Gesù dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi certamente decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio, dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi dunque su questa via. Lascia che sia Io a portarti, anche se non sai dove ti sto portando, anche se non vorresti farlo, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”. Ciascuno di noi infatti vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita. Nessuno a priori può essere certo che Dio, ad un certo momento, non decida di sconvolgere la nostra esistenza, la nostra vita, il nostro presente, il nostro futuro, chiedendoci qualcosa di più impegnativo. Chi può dire infatti che Dio non possa disporre l’abbandono dei nostri progetti, dei nostri ideali, per seguirlo più da vicino, per farci diventare persone completamente nuove, diverse? Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, magari sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena e piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che tutto ciò sia veramente il nostro domani? Nessuno: solo Dio ci conosce, solo Lui sa perfettamente come siamo, solo Lui, nel suo immenso amore, predispone per noi sempre il meglio: anche se “questo” meglio può divergere dal “nostro”! L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a ricambiare il suo amore, ripetendogli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Certo, una cosa facile a parole, ma che con Lui diventa sicuramente fattibile. Amen.

 

giovedì 21 aprile 2022

24 Aprile 2022: II Domenica di Pasqua.


Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.


I discepoli dopo essere stati testimoni della tragica fine di Gesù, si rifugiano nel cenacolo: sono molto tristi e scossi per la sua scomparsa, ma anche colmi di rabbia pensando a ciò che è accaduto: il popolo, sobillato dai capi religiosi, ha condannato a morte e ucciso il loro maestro, loro punto di riferimento, ricorrendo a motivazioni pretestuose e false. Per questo, nel cenacolo, regna un’atmosfera molto pesante: in un clima di paura per le loro vite, di inconsolabile tristezza per la perdita del loro maestro, di rabbia e odio per i suoi carnefici, Gesù improvvisamente appare in mezzo a loro, e cerca di tranquillizzarli: “Pace a voi”; ossia “state sereni, siate forti, fidatevi di me, perché, come il Padre ha mandato me, io mando voi; dovrete uscire da questo rifugio, nessun pericolo vi fermerà, andate per il mondo e continuate la missione che io ho iniziato. Andrete senza di me, ma il mio Spirito vi accompagnerà. Ricordate una cosa importante: a chiunque perdonerete i peccati, Dio li perdonerà loro”.

Parole programmatiche che a noi richiamano la natura sacramentale della nostra riconciliazione con Dio, ma che qui acquistano un senso molto più vasto, personale, che i discepoli dovranno fare proprio nella loro incipiente attività pastorale: un significato suggerito dal verbo greco “afiemi”, che oltre a perdonare significa “lasciate correre”: in altre parole, nella loro missione tra i popoli, di fronte al male subito, la parola d’ordine dovrà essere perdonare, senza ritorsioni, senza alcuna vendetta: “Perdona, lascia andare, lascia correre; raccogli i sentimenti negativi che provi nel tuo cuore (odio, rabbia, dolore, vergogna, desiderio di vendetta ecc.), tirali fuori, lasciali andare; non conservare nulla di negativo nella tua anima, accetta la tua vita così com’è”. Se non perdoniamo, se non lasciamo correre, vuol dire che preferiamo trattenere dentro di noi tutti questi sentimenti dannosi che soffocano il nostro cuore, che ci inaridiscono, ci avvelenano la vita, rendendola insensibile a qualunque sollecitudine.

Ci siamo mai chiesto come mai tanta gente sia perennemente arrabbiata, scontrosa, nervosa? Semplice, perché non perdona, non lascia correre, si offende per ogni sciocchezza, trattiene tutto questo pattume dentro di sé. È proprio questo che Gesù raccomanda agli apostoli: “Se entrate in una città e i suoi abitanti non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatevene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquilli” (Lc 10,11). Quindi: “Vi hanno rifiutato, vi hanno detto di no? Siate superiori, abbandonate lì il vostro disappunto, non portatevelo appresso, non fatevi condizionare, ma proseguite il vostro cammino a testa alta”. C’è un’altra cosa poi, molto importante, che Giovanni ci sottolinea descrivendo il comportamento di Tommaso: che la nostra fede, il nostro amore per Dio cresce, si affina, prende vigore, proprio dal toccare, dal verificare, dal constatare le nostre debolezze, le nostre ferite, la nostra vulnerabilità, i nostri traumi. 

Nella prima visita fatta da Gesù risorto ai suoi, mancava infatti Tommaso, l’apostolo diffidente, il quale per credere, per accettare e immedesimarsi nel Risorto, deve prima di tutto verificare la sua identità, controllando, toccando con mano le sue ferite. Tommaso, soprannominato “Didimo”, che in greco significa “gemello”, rappresenta in qualche modo la nostra esperienza di fede, di noi tanti suoi “gemelli”, che decidiamo di ricorrere a Dio, di credere in Lui, di amarlo come merita, soltanto dopo aver “toccato”, “sperimentato”, quelle inevitabili prove, quelle dolorose ferite, che la vita riserva a ciascuno di noi: succede infatti che anche noi, che ci professiamo cristiani, ci riavviciniamo alla fede soltanto in seguito a profonde ferite, a lacerazioni spirituali atroci: soltanto una volta destabilizzati, vinti e confusi, ci ricordiamo di Dio, ci rifugiamo in Lui, troviamo la forza di chiedergli conforto, aiuto, esprimendogli tutta la nostra debolezza, la nostra impotenza, la nostra miseria, bisognosi di conforto, di rassicurazioni, di protezione, di cure riabilitative.

Quanti cristiani purtroppo si ricordano di Dio solo in situazioni simili! Solo allora ascoltano la sua voce, solo allora sentono il bisogno di ricorrere a Lui, di mostrargli il loro cuore ferito; solo allora capiscono il valore del suo aiuto, della sua pietà, della sua misericordia. Purtroppo tutti nella vita, chi più chi meno, abbiamo fatto o dobbiamo fare, i conti con delle prove tremende, con dei momenti dolorosi, con delle ferite mortali. Ecco: l’importante è non insistere con le nostre lontananze, con le nostre assenze: non aspettiamo di incontrarlo soltanto quando le ferite sono diventate cancrena purulenta. Sappiamo che Lui è sempre lì, nel “cenacolo”, a nostra disposizione, e aspetta paziente di incontrarci, di riabbracciarci. Corriamo allora anche noi come i discepoli, come Tommaso; entriamo anche noi nel “cenacolo”, nelle nostre Chiese; presentiamoci a Lui con le nostre ferite, le nostre paure, con le nostre miserie; accostiamoci umilmente a lui Eucaristia, prendiamolo nelle nostre mani, tocchiamolo, mangiamolo, perché solo così il nostro cuore esploderà di gioia vera, di consolazione, di nuova forza, di nuovo entusiasmo. È il nostro incontro con Dio, quell’incontro ravvicinato, intenso, potente, che ci permette di sentire la sua voce nitida e suadente: “Metti la tua mano su ciò che ti fa male; tocca ciò che ti fa soffrire, va incontro al tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza, perché, insieme a me, anche tu risorgerai! Non essere più incredulo, ma sii sempre fedele!”. Ecco, sì, è proprio Lui, l’abbiamo finalmente trovato, sono parole sue: e al nostro cuore, carico di riconoscente umiltà, non rimane che esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”

Nulla per noi cristiani è più terapeutico, nulla è più risanatore, più curativo, più lenitivo dell’Eucarestia. Per noi infatti è impossibile incontrare Dio in sembianze umane, come avvenne per Tommaso: noi su questa terra non potremo mai incontrarlo per strada, in carne ed ossa. Egli si è incarnato una sola volta, si è reso visibile, uomo come noi, in Gesù: ma Gesù è morto oltre duemila anni fa, è risorto e ha raggiunto il Padre in cielo: ha cioè concluso la sua “manifestazione” umana. Gesù però sapeva di questa nostra maggiore difficoltà nel credere, nel compiere il nostro percorso di fede, rispetto a Tommaso; tant’è che precisa: “Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”.

Ebbene, quei “beati” siamo proprio noi, se crederemo realmente, completamente, in Lui. Ma in particolare, cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci, per coltivare la nostra fede, per fortificarla, per purificarla, renderla assoluta, in modo da credere profondamente nel Signore pur non avendolo incontrato durante la sua vita umana? C’è solo un metodo eccellente: frequentando con fede l’Eucaristia. Solo nella Messa possiamo infatti incontrare Gesù, possiamo vederlo, sentirlo, toccarlo. Una reale, concreta possibilità, che ci deve spingere a partecipare con grande attenzione e spiritualità alle nostre Eucaristie, senza confondere mai il “fine” con i “mezzi”, con quegli “accessori scenici” cioè, che tanto piacciono al nostro esibizionismo: perché i “mezzi” - come il canto, le letture, l’omelia, i riti liturgici - servono solo per farci raggiungere il “fine”, l’essenziale, che è appunto quello di “incontrare” Dio, di parlargli, di toccarlo con le nostre mani, di adorarlo. Se la nostra messa non raggiunge tale intimità, se usciamo dalla Chiesa senza portare con noi la sensazione chiara, netta, lucida, di averlo sentito vivo, presente, palpitante in noi e attorno a noi, allora dobbiamo porci delle serie domande sulla nostra fede, sulla nostra vita cristiana; perché l’Eucarestia non è una sacra rappresentazione, non celebra la memoria di un morto, ma rende vivo un Vivo: ogni volta che facciamo Eucaristia noi riviviamo infatti l’intera esperienza pasquale, Dio riattualizza con noi e per noi il suo sacrificio di salvezza, facendosi per noi realmente carne e sangue, cibo insostituibile per la crescita soprannaturale della nostra fede.

Giovanni, concludendo il vangelo di oggi, dice: ho scritto tutto questo perché voi tutti “crediate che Gesù è il Cristo, e perché abbiate la vita”: ecco, questo in sintesi deve significare per noi l’Eucaristia: credere, vivere, amare la Vita. Amen.

 

venerdì 15 aprile 2022

17 Aprile 2022 – Domenica di Pasqua: Risurrezione del Signore


Gv 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

  

Oggi celebriamo la Pasqua, il giorno della Risurrezione del Signore: esultiamo e rallegriamoci, perché in questo giorno particolare Dio ha “ricreato” il mondo, l’umanità intera. Dio, fedele nell’amore eterno per le sue creature, non si è mai rassegnato al crollo del suo capolavoro, non è mai rimasto indifferente alla distruzione di quel rapporto di intima amicizia che lui con tanto amore aveva instaurato con l’uomo. Oggi Dio fa “tabula rasa” del passato, riparte da zero, ripristina ex novo il creato. Questa volta non in prima persona, ma per mezzo di suo Figlio Gesù, il Verbo presente con Lui fin dal “principio”, che per consentire alle creature di tornare ad essere l’originale immagine del Padre, si è “incarnato”, è diventato anche lui “creatura. È la vita nuova in Cristo. È la nuova creazione. Grazie alla Pasqua del risorto, il mondo, le creature, l’intera creazione, si sono finalmente riconciliati col Padre. L'uomo, ha potuto riprendere il dialogo interrotto con il suo Dio, ha potuto finalmente ritrovare il vero, autentico senso della vita, della sua esistenza. Ma l’azione redentrice di Cristo non si è fermata al passato: Egli non si è limitato a risorgere solo allora, ma continua ogni giorno, ogni ora, a risorgere in noi: è il “Risorgente”, è colui che con la sua vittoria sulla morte, continua a far cadere quei massi che, per le nostre ricorrenti infedeltà, continuano ad ostruire la sensibilità del nostro cuore. La Pasqua del Cristo è per noi energia rigenerante, apertura a vita nuova, risveglio dal nostro dormire, ascesa in alto. Pasqua insomma è la festa dei macigni che rotolano via dal nostro cuore, spalancandolo ad una primavera di rapporti divini e di vita nuova.

Ma, in pratica, cosa significa “risurrezione” per noi? È un’esperienza che faremo solo dopo la nostra morte, oppure va affrontata nel presente, giorno dopo giorno? In tal caso, quando e come viverla? Quali i suggerimenti, i messaggi, le indicazioni che possiamo trarre dal vangelo di oggi? Leggiamolo con attenzione. Ciò che immediatamente colpisce è senza dubbio il comportamento dei tre protagonisti: Pietro, Giovanni il discepolo che “Gesù amava”, e Maria Maddalena.

Tutti e tre, la domenica di buon mattino, vanno al sepolcro: Maddalena per prima, da sola, gli altri, subito dopo, riaccompagnando la donna per appurare se la notizia della sparizione del corpo di Gesù, da lei riferita, corrisponda al vero. E qui abbiamo un primo messaggio: per verificare la nostra risurrezione dobbiamo prima di tutto “andare” al sepolcro, entrarvi dentro: dobbiamo cioè scendere materialmente in noi, raggiungere la nostra “tomba”. Dobbiamo vincere quell’innato sgomento che proviamo nel confrontarci con i grandi misteri della vita: con la morte, la fine di ogni cosa, la rottura di ogni equilibrio, il buio totale con cui il tempo si avvolge: dobbiamo esorcizzare queste umane realtà, dobbiamo entrare in noi, con forza e determinazione, perché solo così potremo scorgere la luce sfolgorante della nostra “risurrezione”. Prima però dobbiamo fare i conti con quella “pietra” enorme, con quel pesante macigno, che ostruisce l’entrata: è la nostra arroganza, è l’orgoglio atavico che frena, che blocca sul nascere qualunque nostro tentativo di rinnovamento, di rinascita interiore, di risurrezione: “Adesso cosa faccio?”. La difficoltà ci frena: è una pietra troppo pesante, ingombrante, inamovibile: non ce la faremo mai! Quante volte ci arrendiamo in partenza, quante volte ci rassegniamo al nostro puntuale cadere, senza opporre alcuna resistenza, senza neppur tentare qualche manovra di riscatto. È proprio vero: siamo dei rinunciatari, siamo dei perdenti.

Amiamo cullarci beatamente in quell’orgoglio nefasto che inibisce, vanifica ogni nostra timida aspirazione di risurrezione: dobbiamo spogliarci ad ogni costo del nostro falso perbenismo, della nostra ipocrisia, dobbiamo avere il coraggio di manifestare le nostre fragilità, le nostre debolezze, le sofferenze che ci tormentano l’anima, le prepotenze, le cattiverie, le umiliazioni, che abbiamo fatto o subito nella solitudine, nel silenzio, nel pianto. Dobbiamo insomma rimuovere la “pietra” dei nostri segreti inconfessati, talvolta inconfessabili; la “pietra” del non riuscire a lasciarci andare, ad abbandonarci nelle mani di Dio, a godere del suo amore; la “pietra” del sentirci vuoti, del non-riuscire a dare un senso alla nostra vita; la “pietra” del terrore della morte, della solitudine, delle sofferenze. Tutti dobbiamo fare i conti con una “pietra” del genere: una pietra che in ogni caso deve essere rimossa, deve assolutamente “rotolare via”, per consentirci di realizzare la nostra risurrezione.

Ma proseguiamo nella nostra lettura. Appena Maria Maddalena annuncia ai discepoli la scomparsa del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni corrono immediatamente al sepolcro: Giovanni, più giovane, corre più veloce ed arriva per primo: ma, una volta giunto, aspetta che anche Pietro, più anziano e quindi più lento di lui, sopraggiunga. 

A questo punto l’evangelista evidenzia una sottile diversità nel loro comportamento: entrambi corrono al sepolcro: ma solo Giovanni, prima di entrare, si china verso l’interno, guarda, intuisce qualcosa; Pietro al contrario entra deciso e osserva distrattamente gli oggetti: “i teli posati là e il sudario”. Ora, “inchinarsi”, indica l’atteggiamento di umiltà di chi è disposto a mettere da parte, ad abbandonare, le proprie idee, i propri ragionamenti, i propri schemi; Giovanni, di fronte a ciò che vede, è disponibile a lasciarsi plasmare, a mettersi in gioco, a cambiare mentalità, mentre Pietro, testa dura, non si china, gli manca quell’umile disponibilità, non percepisce alcunché di speciale, continua a rimanere nelle sue convinzioni. Entrambi fanno una bella corsa: condizione fondamentale, decisiva. Se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se ci paralizziamo, convinti che non c’è più niente da fare, che la vita non ha più senso, nulla ci sarà mai possibile. Se non ci muoviamo dalle nostre fissazioni, se rifiutiamo di provare, di metterci in gioco, il fallimento è assicurato in partenza!

Pietro e Giovanni, con il loro comportamento, ci suggeriscono due modi diversi di accostarci al Dio della vita, alla fede in lui: quello della razionalità e quello del sentimento. Se da un lato la mente, il raziocinio, ci servono per capire, per spiegare, per interpretare il senso del suo esistere, dall’altro c’è il cuore, c’è l’anima, la vitalità, lo stupore, che ci spiegano il suo Amore per noi, facendoci appassionare, innamorare, inebriarci completamente di lui.

Allora, quando parliamo con chi ci sta a cuore, con le persone che amiamo, con i nostri figli, impariamo a guardarli negli occhi, entriamo dentro la loro anima: prestiamo attenzione non solo a quel che dicono ma soprattutto alle vibrazioni del loro cuore; in altre parole “ascoltiamo” la loro anima, cogliamo la sua loro gioia, il loro amore, i loro entusiasmi e le loro delusioni, la loro gioia e la loro tristezza. Quando andiamo in chiesa, ascoltiamo nel silenzio il nostro cuore che vibra percependo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi, di Qualcuno con cui parlare, con cui confrontarci, con cui aprirci, a cui affidarci. Forse all’inizio sentiremo emergere dal passato solo lo strepitare di demoni e mostri: momenti brutti della vita, situazioni tragiche, scelte errate, cadute dolorose. Ma poi, nel riconoscere umilmente le nostre infedeltà, nell’abbandonarci fiduciosi alla sua misericordia, sentiremo solo Lui, lo Spirito avvolgente dell’Amore, la sorgente inesauribile della Vita, lo splendore abbagliante della Grazia e del perdono ottenuto; scopriremo allora che sì, uscire dal gelo della morte, dalla tirannia del male, è veramente possibile; scopriremo che quello che stiamo provando è la nostra Pasqua, è la nostra risurrezione.

Terzo personaggio che colpisce la nostra attenzione è Maria Maddalena. Maria, come ce la presenta Giovanni, è una donna che ha amato follemente Gesù: lo ha amato in maniera forte, passionale, viscerale. Gesù le aveva ridato la vita, liberandola da sette demoni, e lei in cambio gli aveva donato tutta sé stessa. Quella mattina, strada facendo, si rende conto che “il suo grande amore” non c’è più, è morto; lei è rimasta sola: l’unica consolazione rimastale è di stare più vicina possibile a quel corpo martoriato, averne amorevole cura. Giunta però al sepolcro, un nuovo angosciante dolore si aggiunge al precedente: il corpo di Gesù è scomparso: impietrita, col pianto in gola, corre dai discepoli: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”, comunica loro tra i singhiozzi.È sconvolta, c’è da capirla, può succedere a chiunque: anche perché lei considerava quel corpo scomparso una sua esclusiva proprietà, era il “suo” Signore, di nessun altro. 

Un’abitudine abbastanza comune quella di considerare gli amici, i nostri cari, le persone che amiamo come se ci appartenessero, come se fossero una nostra “esclusiva”: in realtà nessuno è “nostro”, nessuno ci appartiene. Pretenderlo, soprattutto nei confronti dei figli, è fuorviante, improponibile: ammiriamoli, riserviamo loro tutto il nostro amore, ma non soffochiamoli con le nostre gelosie, con le nostre asfissianti attenzioni. Non “possediamoli”, non fagocitiamo la loro vita. Seguiamoli, indirizziamoli sulla strada della maturità, rimaniamo sempre presenti al loro fianco, offriamo loro il supporto della nostra esperienza e del nostro amore, ma non permettiamoci mai di annullare la loro personalità. Non dimentichiamo mai che ciascuno ha davanti a sé la strada della propria vita da percorrere: e quella che stiamo percorrendo noi è decisamente diversa dalla loro. Anche nei nostri confronti dobbiamo essere realistici: perché tutto ciò che ci riguarda, nel presente, è destinato a passare, a lasciarci, a morire. Rimanere costantemente condizionati da ciò che è stato, equivale a morire, significa “morte”, significa “immobilismo”, significa rinunciare ad andare avanti. Se ci fermiamo a guardare indietro non andremo mai avanti. E allora, non attacchiamoci morbosamente a nulla: non alle persone, non alle cose, non ai problemi: se siamo arrabbiati per degli insulti; se ci brucia l’essere stati diffamati e calunniati in pubblico, se ci sentiamo traditi, umiliati, messi da parte da chi stimiamo, da chi amiamo, non tratteniamo nulla: perdoniamo, lasciamo correre, non rimaniamo schiavi degli eventi: piuttosto viviamo, prendiamo in mano la nostra vita, guardiamo in alto, concentriamoci solo su ciò che vale, su ciò che è eterno: Se vogliamo “vivere” la Vita vera, dobbiamo prima affrontare la morte, e dobbiamo uscirne vincitori. È la grande verità della Pasqua: per risorgere, dobbiamo accettare di morire a noi stessi, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, al nostro mondo. Siamo figli della Vita: stiamo con la Vita, risorgiamo col Dio della Vita. Questa è la nostra risurrezione, questa è la Pasqua che auguro a tutti. Amen.

BUONA PASQUA!

 

  

mercoledì 6 aprile 2022

10 Aprile 2022 - Domenica delle Palme - Passione di nostro Signore


Lc 22.14-23,56

«Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre». Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «O donna, non lo conosco!». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose: «O uomo, non lo sono!». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.»

 

La liturgia di oggi ci presenta la storia della passione. Ogni evangelista offre un resoconto “personalizzato” di come si sono svolti i fatti, di come lui li ha “visti” con i suoi occhi. Un evento traumatico che ha “segnato” il cuore di ciascuno in maniera diversa. Abbiamo infatti uno stesso racconto, ma con sfumature diverse, con chiavi di lettura differenti: piccoli elementi che rendono il racconto della passione non una semplice cronaca, ma una raccolta di esperienze e di emozioni personali, con le quali ogni singolo autore ha voluto lasciarci, di Gesù sofferente, una sua immagine personale, quella che lui, rivivendola nella sua memoria, ha poi descritto per noi. Si tratta, ripeto, di lievi sfumature, di piccole sottolineature, che possiamo rilevare soltanto attraverso una lettura trasversale dei racconti: annotazioni personalissime, quasi intime, ma di grande incisività, dalle quali possiamo sicuramente trarre interessanti considerazioni e utili suggerimenti per la nostra vita spirituale. Accostiamoci umilmente alla lettura di questi testi: sicuramente anche questa volta, come ogni anno, essi ci suggeriranno cose nuove, apriranno il nostro cuore a nuove emozioni: ci parleranno della passione di Gesù, ma in maniera diversa; forse avremo modo di identificarci meglio in un personaggio piuttosto che in un altro. 

Analizziamo allora brevemente questi personaggi di contorno, quelli che con le loro miserie ci porteranno ai piedi della croce sul Golgota.

Guardiamo per esempio Giuda: egli s’impicca perché si rende conto di essere stato un fantoccio in mano ai sommi sacerdoti: non è stato altro che una insignificante pedina mossa da imbroglioni e bari in una partita truccata. È una nullità che per denaro, per avidità, vende Gesù e, tutto sommato, vende sé stesso. Poi schiacciato dai rimorsi, non regge e si uccide. Come lui sono tutte quelle persone pronte a disfarsi anche delle cose più belle che hanno: non si accorgono che per il successo, per la carriera, per il denaro, per i soldi, stanno svendendo l’anima. Quando poi, un bel giorno, si svegliano e si accorgono di essere dei falliti, vuoti, insoddisfatti, senza più nulla, si lasciano andare alla deriva, consumano inutilmente la loro vita nell’apatia e nell’indifferenza, finché un giorno, davanti alla morte, si accorgeranno troppo tardi che la loro anima è morta già da molto tempo!

Guardiamo Pietro, l’uomo dei grandi entusiasmi: “Io non ti rinnegherò Signore, mai!”. È l’uomo dalle acute intuizioni, dalle solenni affermazioni, cui fanno seguito rovinose cadute, immediati ripensamenti, che annullano ogni sua resistenza, ogni suo proposito. È l’uomo “roccia” per eccellenza, il più affidabile tra i discepoli, che però, in maniera infantile, d’impulso, tradisce per ben tre volte il suo maestro e amico. I tanti moderni “Pietro” sono tutti coloro che non si conoscono in profondità: che si eccitano all’idea di spaccare il mondo, che fanno progetti ambiziosi, che promettono amore eterno, che giurano eterna fedeltà, ma che al dunque si defilano, rivelandosi degli eterni inconcludenti. Forse in cuor loro, nei loro entusiasmi, sono anche convinti, ma purtroppo sono dominati da tanta, troppa, presunzione; o, più semplicemente, da tantissima ignoranza: insomma non si conoscono, non colgono i risvolti, le conseguenze delle loro affermazioni; non sanno cosa significhi “fedeltà, continuità, lotta, sacrificio”. Sono tutti quei cristiani tiepidi, superficiali, che si accostano puntualmente ai Sacramenti, che vanno a messa tutte le domeniche, che pregano Dio ogni giorno, che gli promettono a cuore aperto, amore, dedizione, lealtà: ma poi? Sono quelli che dopo una meditazione, una catechesi, un ritiro, una bella predica, giurano con entusiasmo a Dio di seguirlo con passione, di amarlo concretamente nei fratelli, attraverso una vita di intensa carità: ma poi? Sono quelli che, dopo ogni peccato, ogni caduta, ogni infedeltà, si pentono sinceramente e promettono a Dio di non ricadere mai più nelle loro miserie umane: promettono di convertirsi, di cambiare completamente vita, ma poi?...

Guardiamo Pilato: egli se ne lava tranquillamente le mani, pensando, con questo gesto, di tirarsi fuori da ogni responsabilità. Esattamente come lui, sono tutti quelli che dicono: “Io non c’entro”, e si credono a posto, si sentono tranquilli. Se c’è un problema in famiglia con i figli, se ne lavano le mani. Se c’è un problema in parrocchia o nel condominio dove vivono, non è problema loro. Di fronte a chi soffre, a chi ha dei gravi problemi, a chi è in difficoltà, si tirano indietro: “cosa c’entro io? Ci pensino quelli che sono incaricati a questo!”.

Guardiamo infine la folla: è il classico “popolo bue”, la gente che si lascia condizionare dall’ultima moda, dall’ultima tendenza. I sacerdoti e gli anziani la persuadono a gridare “Barabba”: e tutti appecoronati gridano “Barabba”. Uno va avanti urlando, e tutti si accodano urlando. La folla è composta soprattutto da persone deboli, da quelle che più facilmente si lasciano condizionare, influenzare: quelle che si rifiutano di ragionare sulle cose, che vivono di frasi fatte, preconfezionate, quelle che raccolgono ogni stupidaggine che incontrano; quelle che non riescono a mantenere un ideale, una posizione personale; quelle che assorbono avidamente qualunque panzana del politicante di turno; quelle che stupidamente pensano che il Grande Fratello o l’Isola dei Famosi, siano delle importanti esperienze di vita, culturali e formative! La gente si comporta così, perché vive nel buio, nelle tenebre, nell’ignoranza: fondamentalmente non è cattiva, ma è profondamente inquieta, ansiosa, vive in una totale cecità spirituale: non riesce a liberarsi, a dar voce al proprio caos interiore; non conosce sentimenti vitali, come la misericordia, la tenerezza, l’amore. L’uomo “folla” non ha personalità: si annida soprattutto nei “gruppi”, nelle associazioni, nei movimenti, in cui i “singoli” componenti, preferiscono non assumersi responsabilità dirette; è successo all’epoca con Gesù, succede anche oggi, ogni santo giorno, in cui la moderna “folla” continua tranquillamente a crocifiggerlo.

Gesù, innalzato sul suo patibolo, è la vittima, l’uomo vilipeso, insultato, deriso, maltrattato da tutti; ma nella sua misericordia, egli continua a perdonare tutti, continua a “giustificare” il mondo: “non sanno quello che fanno!”Gesù ci perdona non perché condivida ciò che facciamo; ma perché sa che siamo ignoranti, siamo ciechi, confondiamo facilmente il male con il bene e il bene con il male; siamo convinti di essere religiosi, praticanti, quando al contrario viviamo lontani da Lui. Quante persone oggi vivono così! Credono di essere i padroni della loro vita, i programmatori della loro esistenza, quando invece non sono altro che degli spettatori passivi, oziosi e indifferenti, degli eventi che scorrono veloci davanti a loro. Dicono: “La vita è mia, tutto dipende da me”, e non si accorgono che sono invece le situazioni della vita a coinvolgerli. Credono di conoscersi, ma non sanno dire né chi sono, né cosa realmente vogliono; credono di conoscere Dio, la religione cattolica, la Chiesa, i sacramenti, perché hanno letto qualche libro, o hanno visto qualche trasmissione televisiva. Ma con Dio le chiacchiere stanno a zero: non è sfoggiando delle vaghe nozioni, posticce e approssimative, che si dimostra di conoscerlo e di amarlo. Anzi è proprio l’ignoranza, soprattutto quella “travestita” orgogliosamente da “conoscenza”, che uccide, distrugge, umilia ogni nostro entusiasmo, ogni nostro passo verso una fede autentica. Tuttavia, nonostante ciò, nonostante la nostra vita persista ad essere tiepida e inconcludente, al minimo cenno di un nostro risveglio, di un nostro pentimento, di un nostro buon proposito, Egli è sempre pronto a perdonarci. Perché è questo l’unico scopo per cui ha accettato il patibolo della croce.

Viviamo allora questa settimana santa, in preparazione alla Pasqua, meditando nel silenzio del nostro cuore i racconti della Passione di Gesù: leggiamoli e ascoltiamoci. Sentiremo parole che conosciamo già bene: solo che quest’anno non siamo più quelli dell’anno scorso e forse il nostro cuore ha bisogno di nuove rassicurazioni. E allora, nel silenzio adorante di chi è consapevole di trovarsi di fronte non solo alle vicende del Figlio di Dio, ma anche alle nostre singole vicende umane, lasciamo che queste parole ci entrino dentro e portino pace e serenità alla nostra anima. Amen.

 

giovedì 31 marzo 2022

03 Aprile 2022 – V Domenica di Quaresima


Gv 8,1-11

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».


 Le primissime comunità cristiane avranno senz’altro faticato ad accettare e condividere il messaggio di questo vangelo, indulgente e buonista, apertamente in contrasto con la loro mentalità ancora “mosaica”, rigida e intransigente, in fatto di leggi matrimoniali. Ma vediamo cosa ci dice il testo di Giovanni.

Siamo all’interno del tempio. Gesù sta insegnando ad una folla attenta e silenziosa, quando improvvisamente un gruppo di facinorosi, guidati dai custodi del tempio, scribi e farisei, gli trascinano davanti una donna, colta in flagrante adulterio e pertanto, come prevede la legge mosaica, meritevole di morte. Il testo non dice se il fatto sia realmente accaduto, da chi sia stato scoperto, né se la donna sia stata regolarmente processata: in ogni caso, nel condurla fuori dalle mura cittadine per lapidarla, la portano davanti a Gesù. Sono in tanti, un gruppo numeroso; Gesù al contrario è solo. Il gruppo, come sempre, dispone di un enorme potere di azione in quanto tutela l’identità del singolo, fa in modo cioè che i singoli componenti non si sentano personalmente responsabili del loro operato. Nel branco, ognuno nasconde la propria responsabilità; tutti si sentono liberi di fare qualunque gesto, soprattutto quelli che, da soli, non ne avrebbero mai il coraggio.

Ai farisei e agli scribi, in realtà, non interessa né la donna, né il suo adulterio; il loro vero obiettivo è mettere in difficoltà Gesù: “Tu che ne dici?”, perché qualunque cosa egli dica, qualunque opinione egli esprima, verrebbe in ogni caso interpretata in senso negativo: se contro la lapidazione della donna, verrebbe accusato di non condividere la legge dei suoi Padri; se al contrario si dichiarasse favorevole alla sua condanna, automaticamente si metterebbe contro il potere dei romani invasori, sovrapponendosi ad essi, gli unici ad avere l’autorità di condannare a morte qualcuno. Quindi, in entrambi i casi, i suoi denigratori avrebbero avuto un ottimo pretesto per denunciarlo alle autorità.

La folla presente, ovviamente, è tutta favorevole alla condanna a morte della donna: senza alcun processo, senza alcun giudizio, senza che nessuno si sia preso l’iniziativa di interrogarla sui reali motivi del suo “tradimento”: se cioè l’avesse fatto per piacere o per paura, se costretta o addirittura per vendetta; se trasgrediva ripetutamente oppure se quello fosse stata un caso isolato. Le possibilità sono tante. Perché, chissà: forse il marito la picchiava, la tormentava, la umiliava; forse la trattava da schiava. Insomma nessuno in quel momento si era preoccupato di scoprire se per caso quel gesto nascondesse una situazione famigliare critica, se quel “reato” presentasse vari gradi di responsabilità, legati ciascuno a diversi gradi di pena. Quella folla si limita solo a giudicare: è successo, quindi, deve morire! Senza appello, senza attenuanti: sembra quasi di assistere alle tante situazioni “moderne”, alle tante “condanne” dei nostri giorni, basate sul nulla! Gente che si diverte a insinuarsi nella vita privata degli altri, a divulgare pettegolezzi, a creare scandali e maldicenze, a malignare su notizie “piccanti”, spesso costruite ad arte per ricavarne pubblicità e guadagni.

È purtroppo la nostra avvilente cronaca quotidiana: organi di informazione che gareggiano nella diffusione di autentica spazzatura; trasmissioni televisive idiote, in cui conduttori e conduttrici idioti, con opinionisti altrettanto idioti, propinano spettacoli di squallido voyerismo, basati puntualmente sul turpiloquio, sulla volgarità, sul sesso, sulla scurrilità. È la triste immagine di questa nostra società senza più morale, priva di qualunque spiritualità, che si grufola quotidianamente in tale maleodorante pattume. Una società tragicamente vuota, asfittica, in cui una massa di guardoni decerebrati cerca giustificazione della loro nullità, confrontandosi morbosamente con le trasgressioni, deficienze, debolezze, del vivere altrui. È proprio a questo genere di miserabili che Gesù, nel tempio, impartisce con calma una solenne lezione di vita.

Di fronte alle accuse contro quella donna, generiche, pretestuose, improbabili, forse costruite ad arte, egli tace: non la guarda neppure, quella poveretta, non la condanna; china semplicemente il capo, e per dimostrare agli accusatori la sua disapprovazione per tale sceneggiata, si abbassa, e si mette “a scrivere col dito per terra”.

A Lui in quel momento non interessa l’eventuale peccato della donna: nella sua sensibilità, percepisce invece il suo grande dolore, il suo profondo disagio: egli sa che dietro a quella poveretta c’è una storia umana, un volto, un cuore, una persona con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà, con i suoi problemi, e in quel momento, come se non bastasse, con la sua onorabilità calpestata. Ai suoi accusatori invece non interessa nulla: sono tesi, vogliono soltanto sentire in fretta l’opinione di Gesù. Ma Egli continua a scrivere per terra in silenzio; prende tempo. Loro insistono per una risposta immediata, ma lui non gliela dà. È pieno di rabbia per questo, è infastidito per la loro rozza crudeltà e, nel silenzio, vuol scaricare la sua indignazione: vuole essere nuovamente calmo, lucido, obiettivo.

Pressato dagli sguardi famelici dei presenti, finalmente si rivolge loro e pacatamente sentenzia: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”. In pratica egli accetta che la “peccatrice” venga lapidata, ma ad un’unica condizione: che quanti intendono scagliare anche una sola pietra, siano irreprensibili di fronte a Dio, siano cioè delle persone “pure”, corrette in tutto, immuni da qualunque peccato, innocenti da qualunque colpa: “Chi di voi in coscienza è convinto di essere in tale stato, si faccia avanti!”. A questo punto succede l’impensabile: alle parole chiare e inappellabili di Gesù tutti si eclissano: uno alla volta, di nascosto, disinvoltamente, silenziosamente, se ne vanno, escono dal tempio, lasciando soli Gesù e la donna. Ora finalmente Egli sembra accorgersi di lei, la guarda, le parla, la chiama semplicemente “donna”: ma lo fa con dolcezza, con rispetto, con amore, quasi con umiltà, restituendole, con questa parola, la sua dignità ingiustamente oltraggiata, rivivendo con lei il suo dramma interiore. Non la giustifica, non le dice: “Brava, ti sei comportata bene!”. Ma: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. In altre parole: “Anche se hai sbagliato, quel che è successo, è successo: vedi ora di non ricadere mai più. Io ti perdono, ma tu diventa diversa, nuova, migliore, perché se vuoi, tu puoi esserlo!”. Parole consolanti, che valgono anche per tutti i peccatori di questo mondo. Gesù fa leva sempre sui nostri buoni propositi, sui sentimenti che custodiamo nel profondo dell’anima. Non infierisce sulle nostre infedeltà, sulla nostra cattiveria perversa, ma ci esorta ad uscirne fuori definitivamente.

Un cammino a volte difficile, in cui non dobbiamo mai essere indulgenti con noi stessi, mai rinunciatari, remissivi: dobbiamo invece combattere strenuamente, senza sosta, dobbiamo reagire, avere tanta fede. “Aver fede” significa infatti “aver fiducia”, avere cioè la certezza, che con l’aiuto di Dio possiamo affrontare e superare qualunque difficoltà. Gesù è sempre dalla nostra parte, egli ama tutte le sue creature. Come alla donna peccatrice Egli ci ripete: “Sì lo so, avrai anche sbagliato, ma convertiti, io credo in te”. È sempre bello sentirsi amati: sentirsi incoraggiare, sentirsi dire da qualcuno, che crede in noi, che crede nelle nostre forze, nelle nostre possibilità, che ci ama al di là dei nostri errori, dei nostri limiti, che ci ridà fiducia. È bello perché ci fa sentire grandi, rispettabili, potenti: ci fa sentire, in una parola, delle “persone” vere, autentiche, autosufficienti. È attraverso lo sguardo benevolo di Dio, attraverso il suo amore, infatti, che riusciamo infatti a renderci conto di come realmente siamo, di come dovremmo essere, di come, con l’aiuto di Dio, sicuramente saremo.

Preghiamo allora il Signore che ci illumini con il suo sguardo paterno: mettiamoci umilmente alla sua presenza, e diciamogli: “Tu, Gesù, credi in me; lo capisco, lo sento, ne sono convinto. Non posso più deludere questa tua fiducia, questo tuo amore, questa tua aspettativa; voglio risorgere dalle mie debolezze, dalle mie infedeltà, perché voglio finalmente essere come tu mi vuoi, per poterti finalmente amare come meriti”. Amen.

 

giovedì 24 marzo 2022

27 Marzo 2022 – IV Domenica di Quaresima


Lc 15,1-3.11-32

 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Il vangelo di questa domenica ci presenta un testo “classico” della quaresima: la parabola del figliol prodigo, o più correttamente, del Padre misericordioso. Una delle parabole più incisive del Vangelo che ci descrive in maniera sublime il comportamento di un Padre innamorato che riabbraccia con gioia il figlio che è ritornato a casa, nonostante se ne fosse andato sbattendo la porta, e gli avesse estorto insolentemente un’eredità che non gli spettava. Un Padre che lo perdona e che dimentica tutte le offese, che lo stringe al suo cuore, dimostrandogli tutto il suo amore, la sua dolcezza, la sua misericordia.

È una parabola molto gratificante per noi poiché, nei nostri rapporti con Dio, stabilisce una nuova “meritocrazia” non più si basata sul “quanto”: “Quanto preghiamo; quanto siamo religiosi; quanto siamo bravi; quanti errori abbiamo evitato; quanto siamo in regola con le leggi”, ma solo ed esclusivamente sul “come”: il nuovo criterio di valutazione, è soltanto: “Tu ami?”. Dio, infatti, per primo, rivolgendosi a noi dice: “Io ti amo. Ho fiducia in te; credo in te, al di là di quello che sei veramente, al di là di ciò che hai fatto. Io ti amo, ti rendo più sopportabili le fatiche, ti aiuto ad andare avanti, a rialzarti non appena cadi: io sono e sarò sempre al tuo fianco”. È una parabola in cui l’amore paterno ha il sopravvento sull’ingratitudine e la cattiveria dei suoi figli. Due figli che sembrano diversi, con atteggiamenti solo apparentemente opposti; ma che in realtà hanno lo stesso problema: entrambi non si sentono apprezzati dal padre, entrambi non lo amano, anzi lo considerano addirittura un nemico: entrambi sono dominati dall’egoismo, entrambi si comportano non da figli, ma da mercenari. Il minore cerca di arraffare quanto più può dei beni del padre: lotta addirittura contro di lui, pretende da subito un’eredità che può far sua soltanto dopo la morte del genitore. Praticamente gli dice: “Tu per me sei già morto. Non ho più nulla a che vedere con te: perciò mi prendo quanto mi spetta e me ne vado, tu per me non esisti più!”. Il maggiore a sua volta dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. In pratica fa capire al padre di sentirsi trattato come un servo, uno schiavo: gli ha sempre dimostrato rispetto e ubbidienza, è vero, ma in cuor suo covava rabbia, risentimento, odio: il padre, secondo lui, troppo preso dalla perdita del minore, non si sarebbe accorto di lui, non avrebbe apprezzato il suo lavoro, il suo attaccamento al dovere. In pratica ha vissuto dominato dall’ossessione di dimostrargli quanto lui fosse migliore del fratello ingrato e dissipatore: “Tu mi rifiuti, non mi ami, non mi apprezzi per quanto valgo, per la mia professionalità, per la mia dedizione e fedeltà; tu sei concentrato solo sull’altro tuo figlio, ma un giorno ti accorgerai dell’errore, di quanto ti sei sbagliato!”.

Tra i due figli si era creata una distanza incolmabile, un muro insormontabile: niente affetto fraterno, solo invidia e rancore. Il maggiore infatti non chiamerà mai “fratello” il minore: tant’è che rivolgendosi al padre dice: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute”. Non riesce a nascondere la sua rabbia: “Tuo figlio”: si sente il disprezzo per colui che, a suo modo di vedere, l’avrebbe defraudato dell’amore paterno: “Io ho vissuto sempre onestamente al tuo fianco, mi sono sempre comportato bene con te, ma tu tratti questo tuo figlio scellerato, meglio di me!”. Ci tiene quindi a sottolineare: “Ha dissipato tutto con le prostitute”: il testo non dice se ciò sia realmente accaduto; ma, vero o no, il tentativo di screditare il fratello, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo davanti al padre, è evidente. Non sono tanto i soldi, l’eredità, che divide i due, ma avere l’esclusiva dell’amore paterno. Ma il padre? Il padre al contrario li ama entrambi: profondamente e senza preferenze; ma lascia che ciascuno dei due lo capisca da solo: entrambi devono maturare, devono ricredersi, devono correggere personalmente le proprie deficienze, i propri sentimenti, la propria vita. E per arrivare a tanto, entrambi devono compiere un difficile percorso interiore, dentro la loro anima: in una parola devono “convertirsi”.

Il minore, infatti, dopo aver ottenuto dal padre quanto erroneamente riteneva già suo, intraprende questo viaggio purificatore: ma lo inizia in maniera tragica, dissipando la sua dignità di figlio, sperperando qualunque possibilità di recupero: cade talmente in basso, da sottrarre il cibo ai porci per poter sopravvivere. E qui capisce finalmente il suo tremendo errore: decide di tornare alla casa paterna, di chiedere perdono al padre per il suo peccato. Ma non è ancora completamente guarito: egli torna per fame, per interesse, non mira all’amore paterno ma, per non morire di stenti, si accontenta di essere accolto come servo tra i suoi servi. La sua trasformazione, la sua conversione totale, avviene solo nell’incontro col padre: un padre che, dimentico di ogni offesa, di ogni oltraggio, in costante apprensione per questo figlio smarrito, non appena lo vede da lontano, corre premuroso fuori di casa, lo aspetta a braccia aperte, lo stringe al suo cuore; un padre che sembra aver perduto ogni dignità, ma che con il suo abbraccio forte, generoso e risoluto, decreta il trionfo finale dell’amore. Ora la situazione cambia: il figlio minore, “rientrato in sé”, parla del suo errore, della sua arroganza, di ciò che ha imparato a sue spese, di ciò che ha capito, del suo vitale bisogno di amore. Di quell’amore vero, autentico, del quale ora, completamente pentito e purificato, può finalmente saziarsi. Anche il maggiore a questo punto parla: egli però non ha fatto alcun viaggio di conversione, in lui nulla è cambiato; è ancora lì a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: lui non ha ancora capito. È rimasto nella sua rabbia, nella sua invidia, nella sua profonda ostilità. Anche se non si è allontanato da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. È rimasto un ribelle, sordo ad ogni invito: per lui sarà più difficile entrare nella casa del Padre, perché nasconde, difende, giustifica il suo peccato, con l’orgoglio, con la presunzione di chi si sente perfetto.

Quale considerazione, allora, quale richiamo ci lascia questa parabola? Uno in particolare, che ritengo fondamentale: l’importanza di “parlare” con Dio, nostro Padre: di aprirci, di esprimergli le difficoltà, le delusioni, le contrarietà, le sconfitte, con le quali dobbiamo misurarci lungo questo impegnativo viaggio di ritorno alla Sua casa; apriamoci con Lui, comunichiamogli ciò che proviamo nel nostro cuore; nella nostra confusione, ascoltiamo il suo invito chiaro e accorato: “Non importa se hai peccato contro di me: ritorna! Non importa se mi hai offeso oltre ogni limite, se hai oltraggiato gravemente il mio cuore; sappi che Io, tuo Padre, sono sempre pronto a ricominciare tutto da capo con te; io non ti respingerò mai! Ti cercherò fino all'ultimo, ti starò sempre addosso: non chiuderti in te stesso, apri il tuo cuore di figlio, e capirai che ti sarà impossibile rifiutare il mio amore”. Questo ci dice oggi Gesù: il suo è un invito pressante, vitale, che non possiamo disattendere. Sono parole che devono iniettare, nella nostra stanca e indolente quotidianità, un’overdose di entusiasmo, di ottimismo, di fiducia, di umiltà, nella filiale prospettiva di incontrare anche noi, nel perdono, l’infinito amore del Padre, di fonderci in quell’abbraccio misericordioso con cui ci spalanca le porte della Sua casa celeste. Amen.