sabato 29 gennaio 2022

30 Gennaio 2022 - IV Domenica del Tempo Ordinario

Vangelo Lc 4,21-30

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

  

La pagina del vangelo di oggi è la continuazione del testo di Luca di domenica scorsa.

Siamo ancora nella sinagoga di Nazareth. Gesù ha appena finito di commentare il testo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”, identificandosi con l’unto del Signore, l’inviato da Dio.

A questo punto i presenti, meravigliati e un po’ scandalizzati, si domandano l’un l’altro: “Perché si definisce l’inviato di Dio? Non è il figlio di Giuseppe il falegname? Se fosse veramente il Messia, non dovrebbe occuparsi della salvezza del suo popolo, dei suoi connazionali, invece di passare le giornate intere a prodigarsi per gli emarginati, gli stranieri, i paralitici, per lo scarto della società?”

E iniziano a mormorare, a criticare i suoi comportamenti, la sua presunzione, il suo vagare per il territorio, disinteressandosi di casa sua: “Perché, visto che dice di essere così bravo, non compie anche da noi che siamo il popolo eletto, i suoi compaesani, tutti quei miracoli che gli attribuiscono?”

E Gesù: “Avete ragione pensando alle parole del proverbio: “Medico, prenditi cura prima di tutto di te stesso, dei tuoi famigliari, dei tuoi connazionali. Ma io vi dico: “Nessun profeta è accolto favorevolmente nella sua patria. Vi ricordo che il grande profeta Elia, durante la lunga carestia che colpì duramente l’intera regione, non si fermò ad aiutare il suo popolo, ma portò soccorso proprio ad una vedova pagana in Sarèpta di Sidòne, e a lei guarì il figlio che le era morto (1Re 17,17-24); così pure il profeta Eliseo: ai suoi giorni, durante la grave epidemia di lebbra che aveva colpito il territorio di Israele, egli non guarì nessuno dei suoi: guarì invece Naamàn il Siro, un militare pagano” (2Re 5,1-14). Vi siete allora mai chiesto perché questi vostri grandi profeti sono andati fuori dal loro territorio per aiutare dei pagani, piuttosto che i tanti bisognosi che c’erano in Israele?”. La risposta è chiara: “Lo hanno fatto perché qui non c’era più fede! I vostri grandi profeti, quelli che voi stimate e di cui parlate sempre, se ne sono andati altrove, perché con voi non potevano fare nulla, voi li combattevate!”.

A questo punto, sopraffatti dai loro pregiudizi nazionalistici, in preda all’ira, reagiscono alle sue parole con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, tentando addirittura di ucciderlo; ma Gesù, imperterrito, si fa largo tra quei scalmanati, e riprende il suo cammino, abbandonandoli alla loro mentalità chiusa e rancorosa. Fu sicuramente un’esperienza dolorosa, amara, questa di Gesù: vissuta oltretutto a casa sua.

Quelli che lo respingono sono infatti suoi concittadini, gente che lo conoscono bene, che hanno vissuto per anni con lui, che lo hanno visto crescere; sono quelli che ogni sabato si sono riuniti con lui a pregare nella sinagoga: sono persone all’apparenza pie e religiose, ma che nel loro cuore non vogliono conoscere il Dio di Gesù. Vanno a pregare nella “casa di Dio”, ma non si curano di Dio; innalzano preghiere ma non pregano. Hanno a loro disposizione Gesù, ma lo buttano fuori dalla loro vita.

Un fatto che deve farci pensare seriamente, poiché è l’esatta proiezione, è l’”ante litteram”, di ciò che succede puntualmente anche ai nostri giorni, di ciò che può succedere anche a noi, che ci consideriamo cristiani “impegnati”, cristiani che frequentano puntualmente la Chiesa, che leggono e ascoltano la Parola: salvo poi, una volta usciti, vivere come se Dio non esistesse.

Sì, perché anche noi, come i Nazaretani, nella vita concreta, vorremmo un Gesù diverso da come ce lo descrive il vangelo; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo in linea con le nostre idee, con i nostri schemi, con i nostri parametri: e quando vediamo che non ci riusciamo, perché Lui non è così, arriviamo anche a rifiutarlo. Rifiutiamo cioè colui che può salvarci, che può guarirci; rifiutiamo completamente colui che in realtà è la guida, l’amico, il consigliere, l’aiuto costante di tutta la nostra vita.

Quante volte vorremmo che anche le persone che ci circondano, fossero diverse da quel che sono: le vorremmo simili a noi; fatte tutte in un certo modo, secondo le nostre esigenze; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente così come noi lo immaginiamo.

Ma le persone sono come sono. Questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dalla realtà, dalla vita di ogni giorno.

E poi, che amore può nutrire per il prossimo, per gli altri, chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta Dio, i fratelli, il prossimo, solo fino a quando gli sono utili, fino a quando può ricavarne un tornaconto? Che amore può mai offrire loro, chi pretende di intromettersi nella loro vita imponendo le proprie idee? Sono persone che purtroppo saranno sempre e solo degli infelici, dei disadattati, dei meschini, perché vivono con un cuore completamente vuoto, senza vita, senza entusiasmo.

È vero, pensiamo noi: ma “questo a noi non può succedere, queste cose non ci appartengono: noi siamo cristiani, siamo credenti, non ci abbasseremo mai a tanto!”.

Illusi! Leggiamo bene il vangelo: chi ha ucciso Gesù? Non certo i miscredenti, gli atei, i peccatori incalliti; lo hanno ucciso gli osservanti, i religiosi, i servitori del sacro, i cultori delle Scritture, quei credenti che più credenti non si poteva; talmente credenti, pii, zelanti, pieni di autostima, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno; neppure per Gesù.

Soprattutto per Gesù: perché per le vie della Palestina, egli predicava e donava a quanti lo avvicinavano ciò che loro apertamente rifiutavano: l’amore, la speranza, la Buona Novella. E lo uccisero non perché ciò che insegnava non fosse buono, ma perché era nuovo, un qualcosa di talmente innovativo e rivoluzionario da mandare in frantumi i loro schemi, i loro programmi, le loro sapienti teorie; tanto da stravolgere le loro idee utilitaristiche di Dio, della Legge, del prossimo.

Gesù annunciava un Dio diverso, una Legge nuova, ed essi, i “fedelissimi” della Legge, non glielo perdonarono; annunciava un Dio amico e innamorato di tutti, anche delle donne, e i maschilisti del tempo, gliela fecero pagare.

A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la gente si aspettava.

Egli è rimasto sempre e profondamente sé stesso; e soprattutto non ha mai tradito la sua vocazione, la sua chiamata, la sua missione; ha condotto sempre una vita completamente coerente con quanto predicava; non ha mai permesso ai pregiudizi di limitarlo: non gli importava cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era insomma un uomo libero, con un suo compito ben preciso: liberare il mondo dal male.

Questo Egli insegnava, questo egli proponeva insistentemente a quanti, schiavi delle leggi e dei pregiudizi di questo mondo, erano costretti ad un sopravvivere alienante, deludente, deprimente.

Grazie a Lui, l’uomo della strada, l’uomo umile e semplice, l’uomo sinceramente innamorato di Lui, Dio Amore, l’uomo fedele a Lui e al suo progetto divino, da allora non si sentirà mai più tradito dalla vita.

I suoi passi saranno sempre sicuri, il suo cammino sarà sempre guidato dalla luce dello Spirito, il suo cuore costantemente sorretto dall’Amore divino. Da allora egli potrà avanzare attraverso il mondo in assoluta sicurezza, senza temere nulla e nessuno: il male, il mondo, i demoni, nulla potranno contro di lui, egli li ignorerà dignitosamente, con fermezza, semplicemente: “Passando in mezzo a loro”. Esattamente come ha fatto Gesù, uscendo dalla sinagoga di Nazareth. Amen.

  

giovedì 27 maggio 2021

30 Maggio 2021 – Ss. Trinità


“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,16-20).

 

Oggi la Chiesa celebra la festa della SS.ma Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo; noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato, e ora lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza: e per la Chiesa nascente ciò bastava.

Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.

Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.

Solo nel 325 il primo Concilio Ecumenico, tenutosi a Nicea, stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”: che significa esattamente “identici” tra di loro, sia per la “natura” che per la “sostanza”.

Più tardi, contro la corrente del “macedonianismo” (nome derivato dal suo fondatore il vescovo Macedonio di Costantinopoli), secondo cui lo Spirito Santo non era la terza persona della Trinità, non era di pari dignità e divinità del Padre e del Figlio, ma subordinato a loro, il primo concilio Ecumenico di Costantinopoli del 381, decretò che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, cioè consustanziale, al Padre e al Figlio.

Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: il Padre è Colui che ama (Amans); il Figlio è l’Amato (Amatus); lo Spirito è l’Amore (Amor), che scorre tra il Padre e il Figlio.

Le tre persone divine non sono quindi statiche, tre divinità autonome e diverse che se ne stanno per conto loro, ma sono dinamiche, sono cioè in continua relazione tra loro. “Dio è Amore; Dio è Relazione”. Una verità inesprimibile, teologicamente abbastanza ostica da capire: tant’è che per parlare di questa relazione che intercorre tra i tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, il Concilio usò la parola “pericorèsi”: dal greco “perì-corèo” che vuol dire andare attornogirare intorno, danzare. La Trinità è pertanto Vita, Relazione, Danza, Divenire, Amore, Comunicazione, un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno.

La prima grande verità che possiamo allora trarre dalla festa di oggi è che, ad immagine della Trinità, tutta la vita, tutto il creato, come pure tutto ciò che ci riguarda, che ci accade, è in costante relazione; tutto è collegato al Creatore attraverso il Figlio, tutto è interconnesso, comunicante, grazie all’Amore Assoluto (Gv 17,11); tutto è Uno e Trino, perché nulla può esistere di separato, di diviso, di isolato, “al di fuori” di questo Amore; niente e nessuno può esistere, se non attraverso questa palpitante relazione.

L’amore di Dio Trinità è quindi un amore che “sostiene ogni cosa”, come scrive Paolo (1Cor 13,7), un amore che è la realtà ultima e profonda di ogni creatura, dell’intero creato.

Una realtà che ci tocca particolarmente. Tutti infatti cerchiamo l’amore. Tutti vogliamo essere “sorretti” dall’amore. Tutti vogliamo essere amati, felici. Soltanto l’amore di Dio però può saziare questa nostra fame di felicità. Lui è l’unica forza che ci sostiene, il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce le inevitabili ferite, la guida che ci accompagna lungo il cammino della vita. È l’energia soprannaturale che infonde coraggio, potenza, entusiasmo, autorevolezza.

Questo è lo stesso amore con cui Gesù ha amato le folle, con cui ancora oggi continua ad amarci: con grande dolcezza, con comprensione, con garbo; ma anche con forza, con chiarezza, con determinazione: un amore comunque discreto che non si impone, non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. Egli, come faceva una volta, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di aprirmi il tuo cuore?”. Non costringe nessuno, non butta giù le porte; sa benissimo che a volte la paura di aprirsi, di abbandonarsi, di lasciarsi amare nonostante una vita miserabile, è così grande e invalidante, che le persone si rifiutano di accoglierlo.

A tutti Egli continua a dire: “Anche se ora tu non mi ami, non preoccuparti, perché io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, io ti amo comunque, ti amo per quello che sei. Non voglio niente da te, non mi aspetto niente, non ti chiedo niente, non ti impongo niente: io rimango qui con te, sarò sempre alla porta del tuo cuore: entrerò solo se e quando tu vorrai”.

Vale la pena allora di pensare seriamente a questo Amore; di pensare a questo dono impareggiabile che Dio mette gratuitamente a nostra disposizione, a questo DNA Trinitario che ci viene inspirato con la vita. Anche se non lo meritiamo. Anche se per noi “umani” rimane inspiegabile e incomprensibile.

Anche se non proprio incomprensibile: ricordate infatti nella parabola del figliol prodigo, la scena di quando, al suo ritorno, incontra il Padre? Si era preparato per bene il suo discorsetto: “Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e… bla, bla, bla...”. Ma prima ancora di poter dire una sola parola, il Padre, vedutolo da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, e in un intimo, commosso silenzio gli dice: “Ti aspettavo…”.

Nient’altro: nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessuna accusa. Ecco: questo è l’amore di Dio, questo è l’amore del nostro Padre celeste: chiunque, anche il più incallito peccatore, il più ostinato prevaricatore, leggendo questa pagina del vangelo, capirebbe la portata dell’Amore del Padre, capirebbe cosa significa essere i destinatari dell’amore Divino, di un amore struggente che invade l’anima, di un amore che conquista e inebria il cuore. Amen.

 

giovedì 20 maggio 2021

23 Maggio 2021 – Solennità di Pentecoste


“Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio” (Gv 15, 26-27).

 

Pentecoste deriva da una parola greca che significa cinquantesimo giorno; è la festa che si celebra appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. Per gli antichi cinquanta era il numero della pienezza di un tempo: Pentecoste, il cinquantesimo giorno, indica che un tempo è finito: segna in pratica il compimento dei giorni del Gesù terreno e delle sue apparizioni, e apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.

Ma cosa è successo in quei giorni a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? La nostra guida, il nostro capo, se n’è andato, è stato ucciso; cosa ne sarà di noi?” Per loro è un momento di crisi profonda, radicale, decisiva. Improvvisamente, però, come aveva promesso Gesù, i cieli si aprono e lo Spirito di Dio invade i loro cuori, trasforma radicalmente la loro vita.

Quante volte ci troviamo anche noi in situazioni di grande tensione, di malessere interiore: all’esterno tutto sembra andare per il meglio: viviamo tranquillamente la nostra vita, il lavoro, la salute, la famiglia, gli amici; al contrario, nel nostro intimo, siamo spenti, procediamo per forza d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione; se parliamo dell’amore di Dio sembriamo degli istruttori non degli innamorati, perché? Eppure siamo delle brave persone, siamo rispettati da tutti! Ma dentro di noi non ci piacciamo, siamo insoddisfatti, ci rendiamo conto che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che fare allora? Come risolvere queste situazioni? Abbandonandoci completamente nelle mani di Dio: Lui sa di chi e di cosa abbiamo bisogno: in questo modo la nostra fede riacquisterà forza e vigore, il suo Spirito trasformerà la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima: Lui prenderà in mano la nostra vita. Sarà la nostra Pentecoste.

Un evento, la Pentecoste, che marchia intimamente gli apostoli, li trasforma in altre persone, completamente “nuove”, diverse da prima. Da poveri pescatori impegnati, per sopravvivere, in un lavoro ingrato, pesante, monotono, frustrante, rinascono improvvisamente come depositari, sostenitori e annunciatori, in tutto il mondo, del rivoluzionario messaggio spirituale di Gesù.

Da una completa dipendenza da Lui, quasi infantile, passano alla totale autonomia, alla piena libertà di pensiero. Parlano una lingua “altra”, che però tutti, nonostante la diversità dei rispettivi idiomi, capiscono perfettamente; ogni timore, ogni dubbio, ogni incertezza, ogni debolezza, scompaiono all’istante; lo Spirito di Dio scende in loro e satura la loro anima. Prima, Gesù era “fuori” di loro: passavano le giornate insieme, mangiavano insieme, parlavano con Lui. Ora, quel Gesù, morto e risorto, non è più fuori ma “dentro di loro”, sentono, forte e chiara, la presenza del suo Spirito. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sanno benissimo che nessuno potrà mai toglierlo dalla loro vita.

Ecco, una identica Pentecoste deve segnare anche un nostro deciso salto di qualità: un salto che, da come siamo ora, freddi, insignificanti, insapori, ci trasformi in persone appassionate, entusiaste, animate da un fuoco interiore: persone che vivono una nuova vita con Dio, condividendo con Lui una personale, profonda, intimità.

Se non ci apriamo, se non accogliamo lo Spirito di Dio, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella mediocrità, nella tiepidezza: non potremo “sentire” la sua voce, non potremo parlare con Lui, non apprezzeremo la forza della sua guida; non arriveremo mai a capire che Lui è il nostro tutto, che con Lui dentro di noi, le prospettive del domani, della vita, del mondo, cambieranno radicalmente il loro aspetto.

Così, per esempio, nel nostro vivere la Chiesa: senza la nostra Pentecoste, resteremo superficiali esecutori di “riti” ripetitivi, spesso incompresi; la nostra fede rimarrà assente, involuta, non maturerà. Al contrario, nella nuova dimensione, Dio non sarà più una regola, un precetto, una formula; sarà invece la Persona meravigliosa di cui innamorarsi, la Persona che ci conquista completamente; sarà il Padre che diventa per noi modello di libertà, di energia, di coraggio; sarà lo Spirito di Dio, che con il suo amore ci incendierà l’anima, ci cauterizzerà le ferite, ci infonderà i suoi doni, i suoi carismi; sarà il Consigliere, il nostro avvocato, il nostro maestro, il nostro ispiratore, grazie al quale, finalmente, tutto nella vita acquisterà la propria autenticità!

Certo, noi crediamo nello Spirito Santo: ma lo conosciamo veramente? Che rapporti pratici abbiamo con Lui? Se giriamo la domanda alle persone della strada, la maggior parte non saprà cosa rispondere. E se non sa rispondere, è perché non lo conosce, non ne ha mai fatto esperienza, non lo ha mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un’aggiunta a ciò che siamo, un di più, un optional: quindi un qualcosa di cui possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di più, è qualcosa che noi già viviamo, con cui, ancorché inconsciamente, condividiamo il nostro essere persone; è la nostra “fiamma pilota” che mantiene accesa la nostra debole fede, è colui che alimenta le nostre scelte, la nostra anima, la nostra intelligenza: lo Spirito infatti non decide di scendere in noi improvvisamente, un bel giorno della nostra vita, tra squilli di tromba e fanfare varie; lo Spirito abita già in noi da sempre, dal primissimo istante del nostro concepimento: e aspetta che ci accorgiamo di lui, che gli consentiamo di entrare in piena azione. Sentiamo spesso nelle prediche la raccomandazione di essere “spirituali”: che non vuol dire pregare molto, fare opere pie, frequentare la chiesa, fare pellegrinaggi nei luoghi sacri. “Essere spirituali” significa vivere facendoci guidare dallo Spirito di Dio che ci abita dentro. È il modo cristiano di rapportarci con Dio, soprattutto di amarlo profondamente, anche in tutto ciò che ci circonda. Quando i santi guardavano le persone, la natura, non vedevano il loro aspetto esteriore, la materialità del loro apparire, ma erano affascinati dallo Spirito vitale che li animava.

Gesù fu per eccellenza l’uomo del vedere oltre l’apparenza esteriore, del guardare dentro, del considerare la realtà “superiore” del loro essere. Questa cosa Lui la chiamava “regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è qui, oggi, adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Quando infatti egli guardava gli uccelli del cielo o i gigli del campo, esclamava estasiato: “Che libertà, che bellezza, che meraviglia! Chi mai li ha resi tanto belli ed eleganti, chi mai può provvedere a loro, se non il Padre mio che è nei cieli?”. Vedeva i sofferenti, i poveracci, le donne, e mentre tutti li evitavano, Lui li abbracciava, li incontrava, coglieva il loro bisogno d’amore. Vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza (“Siete dei disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava “dentro”, sapeva cogliere la luce che li abitava, sapeva scorgere la forza interiore, il desiderio di vita, nascosti dentro di loro. Sulla croce, per esempio, era vicino ad un peccatore, ad un assassino, e mentre tutti vedevano il malfattore, il delinquente, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Prima di esalare l’ultimo respiro, mentre tutti coloro che lo conoscevano provavano sdegno e rabbia verso i suoi carnefici, Lui al contrario vide in essi la tenue luce dell’anima, soffocata purtroppo dalle tenebre dell’odio: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.

Noi invece, cosa vediamo nel nostro prossimo? Beh, noi non abbiamo tempo per guardare, abbiamo un sacco di cose da fare; dobbiamo correre, dobbiamo lavorare, dobbiamo produrre! E questo ci preoccupa già abbastanza, ci assilla continuamente, ci tormenta la vita: siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Cerchiamo di farcene una ragione: “pazienza, bisogna accontentarsi; è così per tutti”; ma la verità è che non riusciamo a capire cosa ci sia in noi che non funziona. Non ci accorgiamo di essere fermi, immobili, sempre allo stesso punto di partenza. Preoccupati soltanto del materiale, non abbiamo tempo per lo Spirito, per fermarci a guardare la vita alla luce di Dio: questo è per noi il vero problema!

Ci siamo mai chiesto perché, invece di accompagnarle, sbattiamo le porte? Perché urliamo sempre invece di parlare normalmente? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché, se possiamo imbrogliare gli altri, lo facciamo volentieri? Perché nulla più ci commuove? Perché non c’è mai luce nel nostro volto? Perché non sappiamo più esprimere sentimenti nobili? Perché non sappiamo dire “grazie”? Per un motivo molto semplice: perché da “Spirito” che eravamo, ci siamo trasformati in “materia”.

In pratica, cosa significa nel nostro quotidiano? Semplice: siamo infatti materia quando, per esempio, in un nuovo giorno vediamo soltanto gli impegni di lavoro e le opportunità di guadagno; siamo invece spirito quando lo consideriamo una ulteriore possibilità, offertaci da Dio, in cui cogliere l’opportunità di donare amore a Lui e al prossimo; così siamo materia quando ci irritiamo per qualunque cosa, siamo spirito quando ci chiediamo cosa non funziona in noi e cerchiamo di migliorarci; siamo materia quando guardiamo una donna e ci fermiamo alla sola bellezza esteriore, siamo spirito quando vediamo in lei una persona che merita tutto il nostro rispetto; siamo materia quando mangiamo voracemente, siamo spirito quanto “gustiamo” e apprezziamo la bontà del cibo; siamo materia quando respiriamo e basta (avviene in automatico), siamo spirito quando sentiamo che il respiro, è vita, è dono, è la “ruah”, il soffio creatore di Dio; siamo materia quando “udiamo” il canto degli uccelli, il suono di una orchestra, un coro monastico, siamo spirito quando “ascoltiamo” il cinguettio dei primi, l’armonia della seconda, la spiritualità del terzo. L’intera nostra vita, pertanto, può essere allo stesso momento terribilmente materiale o meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante: renderla divina, appassionata, entusiasmante, dipende solo ed esclusivamente da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, dalla nostra anima.

Questo è il motivo perché ci serve veramente una Pentecoste: una crisi, uno scossone, uno Spirito che distrugga i nostri nascondigli, che ci liberi, che ci costringa ad uscire dai nostri cenacoli di paura. Uno Spirito che ci faccia camminare a testa alta sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue insidiose e inutili lusinghe, raggianti nel volto, illuminati dal calore del suo amore. Amen.

  

giovedì 13 maggio 2021

16 Maggio 2021 – Ascensione del Signore


“Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti…” (Mc 16, 15-20).

 

L’evangelista Marco descrive nel brano evangelico di oggi l’ultima apparizione di Gesù ai discepoli durante la quale consegna loro le sue ultime volontà, prima di essere “elevato in cielo” e di sedersi “alla destra di Dio”.

Sono raccomandazioni che rivestono una particolare importanza, poiché suonano come un vero e proprio passaggio di consegne: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”. In pratica dice: “Io me ne vado, non sarò più qui; non parlerò più di persona, non farò più nulla direttamente, ma voi rimarrete, ed io continuerò a farlo per mezzo vostro”.

Lui dunque non ci sarà più, per questo si affida ai suoi discepoli: saranno loro i nuovi Gesù; infatti, obbedienti al suo invito, “essi partirono e predicarono dappertutto”.

Gesù li manda in tutto il mondo, ed essi, obbedienti, vanno “dappertutto”: la buona notizia di Gesù (euanghelion, il vangelo), infatti, è destinata a tutti, indistintamente; tutti devono riceverla, tutti devono conoscere la bontà, la novità, l’apertura, l’universalità della sua missione e dei suoi insegnamenti.

In particolare, cosa ha fatto, cosa ha detto Gesù durante il suo peregrinare sulle strade della Palestina? L’opposto di quanto facevano i capi religiosi di allora: mentre infatti questi discriminavano e dicevano: “Questa popolo sì, quello no; questo è il prescelto, quello buono, gli altri sono infedeli, cattivi; questi sono degni, quelli no; questi premiati perché puri, quelli condannati perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, lebbrosi, ecc.)”, Gesù al contrario diceva: “Io accolgo tutti, non ho preferenze, non guardo alla presenza, all’importanza, alla cultura, alla simpatia: io guardo il cuore. Vado da chiunque, perché il mio messaggio introduce in una nuova vita, fatta di amore, di pace, di verità: per questo è un messaggio che deve arrivare a tutti, che tutti devono conoscere. Ognuno poi è libero di accoglierlo e di praticarlo; non importa cosa deciderà: l’importante è che tutti sappiano che con me possono vivere nell’amicizia, nell’amore, nella pace, con me e con mio Padre”.

Il Dio di Gesù quindi non si pone come una prerogativa di alcuni privilegiati, Dio è di tutti, ama tutti, credenti e increduli, vicini e lontani, buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Dio non appartiene a nessuno in esclusiva: neppure alla Chiesa cattolica: perché è la Chiesa cattolica che appartiene a Dio, non viceversa!

Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario deve dire: “Io voglio seguire, vivere, praticare fino in fondo, tutto quello che conosco di Dio”.

La catechesi, la predicazione, non devono aggiungere nulla di più del vangelo, non devono inventarsi nulla di nuovo; devono soltanto risvegliare, far emergere, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni persona che esse raggiungono.

Tutti abbiamo ricevuto con la nascita il dono di avere Dio in noi, il suo Spirito di vita (siamo tutti sue creature!). Ognuno però stabilisce con Lui un rapporto diverso, personale, intimo, dal quale gli derivano, come dono personale, carismi, attitudini, diversi per quantità e qualità da quelli degli altri. Sbaglia quindi chi nel far catechesi pretende di far conoscere Dio, imponendo la propria personale esperienza con Lui: Dio non è una formula, ancorché sacra, non é una raccolta di preghiere, non è un codice comportamentale: Dio è una presenza viva, è un Padre che ama i suoi figli. Educare gli altri ad amarlo, pertanto, vuol dire semplicemente aiutarli a scoprire la Sua presenza in loro, a stabilire con Lui un colloquio, una relazione di reciproca, profonda amicizia.

Gesù, ventun secoli fa, ha vissuto un tempo storico di circa trentatré anni; poi se ne è tornato in cielo (Ascensione): il tempo della sua storia umana termina qui: da quel momento inizia il “Tempo della Chiesa”, inizia la “nostra” storia. Ora tocca a noi continuare la sua opera: siamo noi le sue mani, i suoi piedi, le sue labbra. Un compito arduo, per assolvere il quale abbiamo però la certezza di non essere mai soli: tutto ciò che faremo, lo faremo in “collaborazione”, in stretta unione con Lui: il vangelo in proposito è chiaro: “Il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,20). Lui c’è sempre, Lui vive in noi, in mezzo a noi. In pratica è Lui che “conferma” le nostre iniziative, è Lui che imprevedibilmente fa nascere abbondanti frutti, gustosi e saporiti, dalla nostra povera, misera semina.

Marco conclude il suo vangelo proprio con questa consolante prospettiva: con le sue parole però egli intende sottolineare a chiare lettere che ogni nostra iniziativa deve essere “condivisa”, deve essere affrontata e realizzata in stretta collaborazione con Gesù: dobbiamo cioè “operare insieme” (16,20); “synerguntos”, dice il testo greco; un termine che già dalla sua pronuncia fa capire l’indissolubilità del legame che deve esistere tra il mandante (Gesù) e gli esecutori del “progetto Chiesa” (noi).

Nostro compito, allora, non è quello di essere indipendenti, di agire autonomamente come se il programma “Chiesa” fosse stato ideato da noi: noi non conosciamo alcun particolare, non sappiamo decifrare i “calcoli” del Progettista: siamo dei poveri operai che, in perfetta “sinergia” con l’Alto Direttore dei lavori, dobbiamo semplicemente assicurare tutto il nostro impegno per la perfetta realizzazione della sua Opera. Nient’altro.

Eppure, quante volte, scoraggiati, ci capita di esclamare: “Ma tu Signore, perché non sei più chiaro e deciso quando parli? Perché di fronte alla dilagante accozzaglia di idee improponibili, di fronte al disinteresse, alla inettitudine, all’incostanza, alla pigrizia, al doppiogiochismo, all’infedeltà dei tuoi operai, porti pazienza, non fai nulla, non reagisci? Perché non intervieni tu in prima persona, anche energicamente se vuoi, come hai fatto talvolta quando eri quaggiù? Perché non provvedi tu a sistemare un po’ le cose?”: e magari ci alteriamo pure, dimenticando che ora siamo noi che dobbiamo preoccuparci, siamo noi che dobbiamo cercare, nel nostro piccolo, di porvi rimedio, di cucire gli strappi, di sovrabbondare nell’insegnamento, nella difesa dei principi, nella fermezza della carità.  

È vero: in atto c’è una stretta cooperazione tra noi e Dio: solo che è altrettanto vero che Lui è sempre di parola, puntuale, esegue sempre il suo compito; noi, invece, no: spesso e volentieri svicoliamo! Lui, con pazienza, ci ispira, ci fa coraggio, ci dà la forza, la costanza di insistere: noi invece preferiamo spesso fare di testa nostra, pensiamo di poter fare da soli, senza di Lui, di saperne più di Lui: salvo poi accorgerci, puntualmente, che i nostri sforzi sono inutili, improduttivi!

Purtroppo, il nostro cristianesimo è troppo superficiale, infantile, acerbo: pretendiamo tutto da Dio: che faccia continuamente miracoli, che ci conceda favori e “grazie” a non finire, che ci risparmi il dolore, la sofferenza, che appiani le difficoltà della vita, che cambi insomma il mondo e i suoi abitanti! Siamo solo dei bambini che chiedono continuamente, con insistenza, che chiedono e basta: e, peggio, che fanno i capricci se non ottengono subito ciò che pretendono. Solo che noi siamo cresciuti, siamo grandi, adulti, Gesù ci considera tali; per cui comportiamoci di conseguenza, rispondiamo positivamente alle sue aspettative: facciamo cioè in modo che il nostro cristianesimo, la nostra fede, cessino di essere infantili, ma da “adulti”.

“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15).

Per Gesù la “salvezza” è il risultato di “credere”: significa che, vivendo il vangelo con fede viva e profonda, è possibile raggiungere un’esistenza appagante, appassionata, che esprime gioia, amore, benessere interiore; una vita che ci fa sentire vivi, realizzati, accolti.

Inoltre quanti arriveranno a credere veramente, saranno dotati di particolari doni, di “segni” straordinari, di carismi, attraverso i quali tutti potranno riconoscerli (16,17).

“Scacceranno demoni”: nel vangelo i demoni parlano, hanno voce, di danno da fare. Esattamente come quelli di oggi: nella nostra vita, infatti, siamo in balia di schiamazzi, di un urlare continuo da parte di opinionisti insopportabili, generatori di discorsi senza senso, di notizie, di previsioni, di suggerimenti inutili: sono i nostri demoni, i nostri spiriti maligni che, attraverso i “media”, asserviti al demoniaco dio denaro, con il loro incessante bombardamento pubblicitario, con i loro messaggi subliminali, sono un pericolo, un macigno malsano che ci appesantisce, ci ammorba, ci impedisce di volare in alto, ci uccide l’anima.

Ebbene noi possiamo veramente scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi attacchi maligni: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui: è sufficiente zittirli, spegnerli, eliminarli! Basta un semplice “click”!

“Parleranno nuove lingue”. Abbiamo mai ascoltato di cosa parla la gente? Del tempo, di ciò che ha fatto o detto il vicino, il collega, il capoufficio; informa sull’ultimo gossip, sull’ultimo scandalo, sull’ultimo placebo miracoloso; tante “chiacchiere” inutili, tante insinuazioni, discorsi vuoti, spersonalizzati, senza un’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi! Quali sono allora le lingue nuove che potremo parlare?

È la lingua del silenzio, del chiudere la bocca, dell’ascoltare: “Se la gente si ascoltasse di più, parlerebbe di meno” diceva l’umorista Arthur Bloch. Ed è vero: non si apprezzerà mai abbastanza il valore di “Sto in silenzio e ascolto”: cosa? ascolto le parole dell’anima, del cuore, della coscienza, di Dio. Ascolto il respiro della vita, il mutarsi della natura; il cinguettio degli uccelli, il sibilo del vento, la risacca del mare.

È la lingua degli occhi: fermiamoci e guardiamo gli altri negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e l’anima ha sempre tante cose da dirci, da insegnarci. Impariamo a darle voce e autorità. È la lingua del cuore: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri. È la lingua dell’anima: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici.

Le persone neppure immaginano quante vibrazioni, quanta vita, quanta energia, quanta forza, possiamo trarre dal parlare quelle lingue, che non dipendono dalle “parole”, ma dalle intime effusioni dell’anima.

Prenderanno in mano i serpenti”. Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Lo evitiamo, è viscido, ci fa ribrezzo, paura. Ma Gesù ci rassicura. “Con me puoi tutto!”. Prendiamo allora in mano i serpenti che ci insidiano: non crediamo più in nulla, in nessuno? non andiamo più in chiesa? ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche? i preti non ci trasmettono più nulla? abbiamo perso la stima e la fiducia nel nostro prossimo, nei colleghi, nei parenti, negli amici? la loro presenza è diventata insopportabile? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano un problema, un serpente, alla volta: analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza; svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Dio nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tirare avanti fingendo che tutto vada bene? Pensiamo che un richiamo, un rimprovero, una paternale, sia utile e necessaria nei confronti di qualcuno, particolarmente insopportabile, arrogante, ribelle? Facciamola! Cosa aspettiamo? Non permettiamo che, abbassata la guardia, il “serpente” di turno, in agguato tra le pieghe della nostra vita, ci colpisca proditoriamente. Dobbiamo aver fede, dobbiamo comportarci come ha fatto Gesù: se usiamo la Sua carità, il Suo amore, se operiamo in sinergia con Lui, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivo qualunque serpente!

Gesù è sempre con noi, lo sappiamo: e sappiamo anche che con Lui possiamo affrontare ogni contrarietà: qualunque cosa Egli abbia fatto qui in terra, anche noi possiamo farlo; ce l’ha detto Lui stesso: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi…” (Gv 14,12). Non dobbiamo essere timidi, non dobbiamo temere alcunché: a questo proposito anche Paolo ci rincuora, dicendo con orgoglio: “Si Deus pro nobis, quis contra nos?” (Rom 8,31), se Dio è con noi, chi potrà mai essere contro di noi? Chi mai potrà farci paura? Allora coraggio: questa è una prospettiva decisamente salutare e consolante. Amen.

  

giovedì 6 maggio 2021

9 Maggio 2021 – VI Domenica di Pasqua


“Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,9-17).

 

Dio ci ama profondamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere innocenti, puri, giusti, buoni; ci chiede soltanto di lasciarci amare, perché il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio. Esattamente il contrario dell’amore degli uomini che è interessato, condizionato, egoistico.

L’amore degli uomini è legato a determinate condizioni, che si possono accettare o rifiutare. Ma l’amore di Dio no, l’amore di Dio è incondizionato, assolutamente gratuito; Egli ci ha amati e ci ama da sempre, da prima che venissimo alla luce. Per questo abbiamo con Lui un debito enorme di amore e di riconoscenza; e se non possiamo fare nulla per il passato, facciamolo almeno nel presente e per il futuro: ricambiamo cioè questo suo amore, cercando di ri-amare Lui e il nostro prossimo con un amore almeno “simile” al suo.

È questo il comportamento concreto che ci chiede Gesù. Egli non gradisce gli scarti, non le mezze misure, non i ritagli di tempo, tanto per…, ma il meglio in assoluto, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque.

Perché? perché l'amore vero nasce da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia presente in noi, sia presente intorno a noi, dove viviamo, dove lavoriamo, dove preghiamo, dove ci muoviamo, dobbiamo semplicemente amare come ama Lui. Le chiese, le pratiche di pietà, le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono e acquistano valore, soltanto se sono un mezzo per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per esibirci, per coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a centri di pettegolezzi, di maldicenze, di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia, rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino, fosse pure quello della “Caritas”, con i suoi “infedeli” gestori! Dobbiamo aver sempre presente che il “volontariato” è un corollario dell’amore, un veicolo dell’amore, ma non è in alcun modo l’amore: noi soltanto possiamo e dobbiamo trasformarlo in amore!

Poi Gesù dice: “Se osserverete i miei comandamenti…”. Comandamenti? I dieci comandamenti? Ma in Giovanni non troviamo nessuna lista di suoi “comandamenti”. E anche negli altri vangeli, quando Gesù invita a “osservare” qualcosa, non intende certo i Dieci Comandamenti, semmai le Otto Beatitudini.

Così quando sentiamo parlare di “comandamento” dell’amore, noi pensiamo subito alle parole: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E pensiamo che per Gesù fosse proprio questo. Ma non è così. 

Questa era la spiegazione data dalla spiritualità ebraica, dai primi cristiani provenienti dall’ebraismo, ma non da Gesù; per loro oltretutto era un comandamento abbastanza ovvio, in quanto, per un ebreo, il “prossimo” non erano tutti gli “altri”, ma solo gli altri ebrei. Gesù lo spiega più avanti cosa intende: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”; l’allusione alla lavanda dei piedi è chiara: dobbiamo essere cioè al servizio di tutti, con amore e umiltà!

Proprio a questo proposito Gesù (Gv 13,34) dice: “Vi do un comandamento nuovo (kainèn)”. Ora, nuovo in greco si può dire in due modi: neòs se usato in senso “numerico” (mi hanno regalato una nuova penna; ora ne ho due); oppure kainòs se usato in senso qualitativo, cioè una “novità!” (mi hanno regalato un computer, una novità rispetto ai pc di prima); la novità sta sul superiore livello del dono, un dono di tutt’altro valore.

Nel nostro caso, infatti, gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non intende dar loro un undicesimo (neòs). Avevano già 613 regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge un’altra regola: anzi le riduce tutte ad una, dà cioè un’unica regola, ma totalmente nuova (kainòs): un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che sta su un altro piano, che sostituisce tutti quelli che c’erano prima.

Gesù, in pratica, dice semplicemente di amare, ma di farlo con un amore “nuovo”, un amore diverso rispetto agli amori di prima, un amore che produce soltanto gioia: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Non a caso la parola “amore” (chàris) deriva dalla radice “chàrà” che significa appunto gioia, festa, godere.

Questa è la novità importante, fondamentale, che lo rende unico: l’amore, per essere come quello di Dio, deve produrre gioia, allegria, felicità; se il nostro amore non produce questi sentimenti in noi e nelle persone che “diciamo” di amare, allora dobbiamo porci seriamente delle domande, dobbiamo esaminarci in profondità. L’essere nella gioia, non vuol dire provare la stessa gioia di quando tutto ci va bene, di quando siamo fortunati. La gioia dell’amore è diversa, è un’altra cosa: è quel sentimento profondo, intimo, rassicurante, che tranquillizza, che fa sentire a proprio agio, a posto, che fa sentire di essere amati, che assicura sulla bontà dei propri progetti, sulla strada che si sta percorrendo, che in questo mondo si sta facendo qualcosa di buono, di importante, un qualcosa che crea sensazioni di vitalità, di gioia interiore, di libertà.

Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, affranti, immusoniti? Se non dimostriamo mai i segni della gioia, dell’amore, che sono appunto il sorriso, la serenità, la generosità, la pace, ecc., dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente sulla fondatezza delle nostre condizioni! Forse, tutto sommato, non siamo ancora veramente convinti che Dio ci ama: perché Dio è gioia, è felicità, è apertura, entusiasmo! Se siamo certi che Lui ci ama, come possiamo vivere sempre nella tristezza, nella malinconia, nel disappunto, dimostrando a tutti il contrario?

E continuando la sua lezione sull’amore, Gesù dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Un’affermazione che è stata in passato, e lo è ancora oggi, travisata, distorta, incompresa; un’iperbole difficilmente attuabile: il “dare la vita”, infatti, equivarrebbe a “morire” per gli altri: in altre parole uno per amare veramente gli altri, dovrebbe rinunciare alla propria vita, sacrificarsi fino alla fine ultima, rinunciare alla propria esistenza materiale; per cui il darsi agli altri, senza “morire”, sarebbe un darsi non evangelico, non in linea con l’amore di Gesù che ha sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; sarebbe un darsi incompleto, un darsi limitato, un vivere in maniera incompleta il “comandamento nuovo” di Gesù.

Ma non è questo il significato: Dio non ci impone eroismi, non vuole che rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha dato, non intende martirizzarci: lo accetta solo da poche persone, dai santi, e anche da loro, in particolari casi, in rare occasioni. La nostra santità passa invece attraverso gli eroismi della “normalità”. Attraverso un donare quella “vita” che coincide con il nostro essere spirituale, con la nostra anima, con i nostri sentimenti d’amore.

Il vangelo di Giovanni è chiaro: quando egli scrive dare la “vita”, non usa la parola “zoé” che indica la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), oppure “bìos” che allude al modo in cui noi viviamo la nostra vita (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa appunto “anima, respiro, soffio vitale, sentimento”.

Questa è dunque la vita che dobbiamo dare ai nostri amici: è la nostra anima, ciò che abbiamo dentro, quello che siamo nel nostro intimo, il nostro essere spirituale. Dare la vita materiale, quella esteriore, non serve. Neppure quando parliamo di figli. Il dono più grande per un figlio non è assicurargli una vita al top: non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un’adeguata posizione sociale; il vero dono è mettergli a disposizione totale tutto ciò che noi siamo e abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda, è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali.

Se noi, da parte nostra, non abbiamo nessuna vitalità, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun valore radicato; se non abbiamo nessuna sicurezza, nessuna fede, nessuna apertura, che tipo di “vita” potremo mai “sacrificare”, quale “vita” potremo mai donare ai nostri cari, agli altri, al prossimo?

Succede a volte che marito e moglie, insieme da molti anni, durante la loro vita in comune si siano regalati di tutto: corpo, tempo, benessere, preziosi, ville, ma non si siano mai fatto dono della loro “anima”. Ebbene: pur vivendo sotto lo stesso tetto, essi continuano ad essere tra loro degli estranei. Se non si fanno dono reciproco della loro psyché, del loro “spirito”, del loro “sentire” più intimo e riservato, tra i due non c’è una vera complicità spirituale, non arriveranno mai a condividere la loro fragilità, la loro vulnerabilità, le loro paure, i loro sogni segreti. Tra i due non c’è alcuna complicità interiore. Ecco perché, prima o poi, le coppie inesorabilmente scoppiano: non perché non si amano più, ma perché non sanno amarsi in questo unico modo. Non conoscono l’essenza del vero amore, l’amore con cui Dio li ama entrambi, e non sanno condividere e convivere questo amore. “Stanno insieme” perché fanno tante cose in comune, abitano nella stessa casa, hanno gli stessi interessi: ma se tra loro non c’è questa simbiosi interiore, non c’è questo incontro, questa fusione di anime, il loro non è “psychéin”, non è “dare la propria vita per l’altro”, non è “vivere insieme un’unica vita”, non è la “fusione dell’essere”, il respirare insieme, il sentire insieme, il pensare all’unisono. In altre parole non si amano “come io ho amato voi”, non si amano con l’amore di Dio. Amen.

  

giovedì 29 aprile 2021

2 Maggio 2021 – V Domenica di Pasqua

“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,1-8).

 Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, della sua “ora”, di loro, di ciò che li preoccupa, di ciò che li aspetterà nel futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. È in tale contesto che per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci, un simbolismo molto conosciuto e frequente ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la “vigna” di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella “vigna”, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così pure il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, per gli antichi era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere. Quando a Cana manca il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima.

Se dunque manca il “vino”, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che a monte è venuta a mancare la materia prima, vuol dire cioè che i tralci della vite non hanno prodotto alcun frutto, che non è avvenuto più alcun passaggio di linfa vitale, che essendo secchi, sono stati tagliati via.

È esattamente in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui: proprio come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci. Il tralcio è diverso dal fusto della vite, ma è strutturalmente unito ad essa, è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: se diventa secco e viene tagliato via, non servirà più a nulla e verrà bruciato. La vite quindi è la forza per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vite e tralcio formano un tutt’uno inseparabile.

Un’immagine che si adatta molto bene per descrivere anche il funzionamento di qualunque forma di convivenza umana (Stato, famiglia, comunità), in cui le rispettive autorità (la vite), comunicando la linfa delle loro direttive, dei loro programmi, mettono in grado i singoli componenti (i tralci) di produrre, ognuno nel suo ruolo, i frutti necessari per il benessere, la prosperità, la sopravvivenza della collettività.

In ogni comunità, infatti, ogni componente ha un ruolo ben preciso, diverso da quello degli altri, in quanto ogni persona rappresenta un unicum irripetibile: c’è infatti chi ama e interpreta a modo suo il lavoro, chi l’arte, chi la musica, chi lo studio.

In questo “mondo” variegato però, per una errata super valutazione di noi stessi, vorremmo che nessuno potesse superarci, nessuno fosse “più” di noi, non accettiamo “diversità”; ci dà fastidio cioè che nella vita gli altri esprimano meglio di noi le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci” unici, speciali, che producono una tale quantità di frutto, alla quale noi non potremo mai arrivare.

Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, con le stesse potenzialità, ottenere identici risultati; al contrario tutti indistintamente devono dare il “meglio” delle loro possibilità personali: perché la superiore qualità del prodotto non è data dalla quantità, ma dalla bontà, dal gusto, che sono dovuti ad una circolazione più capillare della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.

Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere uniti solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono le nostre aspirazioni, i nostri ideali, le necessità della nostra anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, da una commistione (mai dalla fusione!) di due spiriti assolutamente liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica di corpi tutti uguali.

Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci, da tralci quali siamo, le prerogative della vite, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della vita: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non abbiamo alternative.

Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che ricordarci la passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; all’aspetto più difficile della vita, all’aspetto più duro, ostico, doloroso (non per nulla qui Gesù, alludendo ai “tralci”, parla della necessità di potarli, purificarli, tagliarli); ci ricorda in particolare che quel “sangue” è Gesù stesso in persona; è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore dal gusto inconfondibile.

Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, la nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della potenza del Suo amore.

Chi a questo proposito dice: “Preferisco non pensare a situazioni simili, per me sono impossibili!”, oppure “Non voglio sognare, perché poi, di fronte alla realtà, mi sento peggio!”, è decisamente un rinunciatario, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene fuori a bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa”! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate. Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi, anche tra persone religiose e consacrate, quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che non si avvicinano a Dio, che hanno paura, hanno soggezione di Lui; persone che per giustificare la loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore.

Troppe persone parlano agli altri dell’amore di Dio, invitandoli ad amarlo: sono anche ripetitivi, insistenti, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, rinunce, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, la natura, i colori, tutto il mondo; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, perché ci saziassimo il cuore e l’anima.

Tutto ciò che esiste, esiste solo per noi. Non per essere conquistato, nascosto, posseduto in maniera esclusiva, ma per essere fraternamente goduto con gli altri, per essere generosamente condiviso. Il Talmud, infatti, dice giustamente a questo proposito: “Sarete giudicati su tutte le occasioni di gioia e di felicità alle quali in vita avete rinunciato!”.

Purtroppo abbiamo a che fare con una natura umana che è fondamentalmente egoista; vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Anche nelle piccole cose, in quelle che facciamo meccanicamente, senza pensare: per esempio quando ci troviamo di fronte ad un paesaggio, ad una veduta incantevole, cosa ci viene di getto? Piuttosto che ammirarli sul posto, di viverli in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni sfumatura, ci preoccupiamo di farli “nostri”, li fotografiamo per “metterceli via”, vogliamo inconsciamente catturarli, possederli, averli sempre in esclusiva per noi.

Dovremmo invece “gioire”, “ringraziare Dio” perché le cose esistono, perché ci sono, perché tutti possono ammirarle. Lasciamole vibrare liberamente dentro di noi, assaporiamole con intensità, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle, non sono nostre, non ci appartengono.

Amiamole così come sono, perché se riuscissimo ad averle, non le godremmo più: il possesso infatti soffoca, “fagocita”, oltraggia, svilisce; è schiavitù, voracità, insaziabilità. L’amore al contrario è libertà, gioia, felicità, serenità, altruismo.

Ma torniamo all’immagine della vite e dei tralci: perché essa ci ricorda appunto i principi fondamentali della vita e della convivenza; primo: se ci stacchiamo dalla linfa, moriamo; secondo: se non “distribuiamo” questa linfa anche ai tralci che si diramano da noi, il nostro frutto non sarà mai copioso e completamente valido.

Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice; potremo cioè anticipare già in questa vita quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è(1Gv 3,2).

I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” tra loro e con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: è Lui infatti l’unico canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

  

giovedì 22 aprile 2021

25 Aprile 2021 – IV Domenica di Pasqua


“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (Gv 10,11-18).

 Giovanni, nel vangelo di oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello, quello piacevole, buono”.

E si sofferma a descrivere quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari di questo pastore: non solo guida le pecore, si prende cura di loro, ma le conosce per nome, una per una; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro la propria vita.

Un pastore, dunque, decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a colui cioè che lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al mercenario non interessa il bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli guarda soltanto il proprio tornaconto, a ciò che può guadagnare da esse. Egli non le ama, ma si serve di esse, le utilizza, sono una merce di scambio.

Un po’ come ci comportiamo oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per prodigarsi a favore dei fratelli più deboli. 

Siamo circondati da gente che usa e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro, amici, colleghi, noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano di trarre dalle “pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto se la pensano come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.

Certamente così non siamo dei “buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi, egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.

Al contrario invece l’intera umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori: di persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la certezza dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non mi abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre con me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri, pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di Gesù.

Sono questi infatti i pastori che desideriamo costantemente al nostro fianco: in particolare per adeguarci a loro, per imitarli, per immedesimarci in loro; perché anche noi abbiamo il nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo “pastori”: anzi lo siamo doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei confronti dei nostri fratelli.

Siamo pastori di noi stessi, perché, raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra mente, abbiamo molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della nostra coscienza, i nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come dobbiamo comportarci con queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo nostre, in genere ci teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore attenzione alle “malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.

Per essere però degli autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di “buoni”, non dobbiamo mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo mai “pretendere”, essere duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile; al contrario dobbiamo essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato rimedio, non smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, dobbiamo, insomma, percorrere sempre la strada maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto sicuro della pace.

Tutto ciò che prende forma nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni giorno. Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli, rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che puntualmente ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo; ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile, significa non affrontare correttamente il problema, equivale a cercare un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio, soprattutto una risposta, che potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra vita.

Quello di condurre, di guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono quotidianamente dal recinto della nostra mente, è ovviamente un compito invisibile all’esterno, ma non per questo meno fondamentale, poiché si tratta di un “gregge” che inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.

L’importanza del nostro essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono materialmente la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure che incontriamo saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci materialmente, pecore che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra dedizione: soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non dobbiamo “gestire”, non dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel nostro ruolo di pastori, guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire” con la massima attenzione e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che Dio ci ha affidato come compagne di percorso: sono insomma quelle “pecore” che costituiscono il nostro “capitale umano”.

In particolare non dobbiamo scaricare su di esse i nostri malumori, le nostre manie, le nostre fissazioni, non dobbiamo imporre le nostre vedute; non dobbiamo abusare della nostra autorità, non far pesare le nostre richieste; significa non svilirle, non disprezzarle considerandole degli oggetti, degli “utensili” da usare, delle “macchine” a nostro servizio, privandole di ogni loro dignità personale.

Quante “pecore” purtroppo vivono in balia dei capricci dei loro “pastori”! Quante devono fare i conti con la loro aggressività, con la loro violenza, con i loro comportamenti assolutamente negativi, immorali, inumani, che generano dolore, ansia, insicurezza, smarrimento.

Il “buon pastore”, al contrario, trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle proprie pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà: “Io credo in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”. Per questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore: vuole valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa infatti che dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle nella loro personale creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse.

Essere “buon pastore”, in una parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come insegna Gesù, sta per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità, delle loro necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire” non è assolutamente “asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto contrario; poiché indica un comportamento inaccettabile in un buon pastore, come sottomettere, assoggettare, conquistare, dominare gli altri.

Anche qui però bisogna fare attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata, indiscriminatamente: non deve cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a priori ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero, per decidere con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella” finita fuori strada, va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.

Ci sono genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un punto fermo. Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro l’altro: con il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile al “sì”, è la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito” cattivo. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un tiranno, un despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente e nessuno, convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.

Molti “pastori” confondono la bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”. Pensano che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga ad averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni decisamente positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare delle riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di fare ciò che si vuole.

D’altro canto però, i “pastori” non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per principio, per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur trovandosi nel giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col perdere la propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente otterrà ciò che chiede.

Il buon “pastore” sta sempre davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo, portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto che le regole del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le stesse, sia per chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le pecore. Amen.