giovedì 29 aprile 2021

2 Maggio 2021 – V Domenica di Pasqua

“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,1-8).

 Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, della sua “ora”, di loro, di ciò che li preoccupa, di ciò che li aspetterà nel futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. È in tale contesto che per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci, un simbolismo molto conosciuto e frequente ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la “vigna” di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella “vigna”, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così pure il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, per gli antichi era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere. Quando a Cana manca il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima.

Se dunque manca il “vino”, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che a monte è venuta a mancare la materia prima, vuol dire cioè che i tralci della vite non hanno prodotto alcun frutto, che non è avvenuto più alcun passaggio di linfa vitale, che essendo secchi, sono stati tagliati via.

È esattamente in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui: proprio come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci. Il tralcio è diverso dal fusto della vite, ma è strutturalmente unito ad essa, è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: se diventa secco e viene tagliato via, non servirà più a nulla e verrà bruciato. La vite quindi è la forza per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vite e tralcio formano un tutt’uno inseparabile.

Un’immagine che si adatta molto bene per descrivere anche il funzionamento di qualunque forma di convivenza umana (Stato, famiglia, comunità), in cui le rispettive autorità (la vite), comunicando la linfa delle loro direttive, dei loro programmi, mettono in grado i singoli componenti (i tralci) di produrre, ognuno nel suo ruolo, i frutti necessari per il benessere, la prosperità, la sopravvivenza della collettività.

In ogni comunità, infatti, ogni componente ha un ruolo ben preciso, diverso da quello degli altri, in quanto ogni persona rappresenta un unicum irripetibile: c’è infatti chi ama e interpreta a modo suo il lavoro, chi l’arte, chi la musica, chi lo studio.

In questo “mondo” variegato però, per una errata super valutazione di noi stessi, vorremmo che nessuno potesse superarci, nessuno fosse “più” di noi, non accettiamo “diversità”; ci dà fastidio cioè che nella vita gli altri esprimano meglio di noi le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci” unici, speciali, che producono una tale quantità di frutto, alla quale noi non potremo mai arrivare.

Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, con le stesse potenzialità, ottenere identici risultati; al contrario tutti indistintamente devono dare il “meglio” delle loro possibilità personali: perché la superiore qualità del prodotto non è data dalla quantità, ma dalla bontà, dal gusto, che sono dovuti ad una circolazione più capillare della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.

Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere uniti solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono le nostre aspirazioni, i nostri ideali, le necessità della nostra anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, da una commistione (mai dalla fusione!) di due spiriti assolutamente liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica di corpi tutti uguali.

Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci, da tralci quali siamo, le prerogative della vite, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della vita: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non abbiamo alternative.

Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che ricordarci la passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; all’aspetto più difficile della vita, all’aspetto più duro, ostico, doloroso (non per nulla qui Gesù, alludendo ai “tralci”, parla della necessità di potarli, purificarli, tagliarli); ci ricorda in particolare che quel “sangue” è Gesù stesso in persona; è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore dal gusto inconfondibile.

Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, la nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della potenza del Suo amore.

Chi a questo proposito dice: “Preferisco non pensare a situazioni simili, per me sono impossibili!”, oppure “Non voglio sognare, perché poi, di fronte alla realtà, mi sento peggio!”, è decisamente un rinunciatario, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene fuori a bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa”! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate. Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi, anche tra persone religiose e consacrate, quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che non si avvicinano a Dio, che hanno paura, hanno soggezione di Lui; persone che per giustificare la loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore.

Troppe persone parlano agli altri dell’amore di Dio, invitandoli ad amarlo: sono anche ripetitivi, insistenti, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, rinunce, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, la natura, i colori, tutto il mondo; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, perché ci saziassimo il cuore e l’anima.

Tutto ciò che esiste, esiste solo per noi. Non per essere conquistato, nascosto, posseduto in maniera esclusiva, ma per essere fraternamente goduto con gli altri, per essere generosamente condiviso. Il Talmud, infatti, dice giustamente a questo proposito: “Sarete giudicati su tutte le occasioni di gioia e di felicità alle quali in vita avete rinunciato!”.

Purtroppo abbiamo a che fare con una natura umana che è fondamentalmente egoista; vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Anche nelle piccole cose, in quelle che facciamo meccanicamente, senza pensare: per esempio quando ci troviamo di fronte ad un paesaggio, ad una veduta incantevole, cosa ci viene di getto? Piuttosto che ammirarli sul posto, di viverli in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni sfumatura, ci preoccupiamo di farli “nostri”, li fotografiamo per “metterceli via”, vogliamo inconsciamente catturarli, possederli, averli sempre in esclusiva per noi.

Dovremmo invece “gioire”, “ringraziare Dio” perché le cose esistono, perché ci sono, perché tutti possono ammirarle. Lasciamole vibrare liberamente dentro di noi, assaporiamole con intensità, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle, non sono nostre, non ci appartengono.

Amiamole così come sono, perché se riuscissimo ad averle, non le godremmo più: il possesso infatti soffoca, “fagocita”, oltraggia, svilisce; è schiavitù, voracità, insaziabilità. L’amore al contrario è libertà, gioia, felicità, serenità, altruismo.

Ma torniamo all’immagine della vite e dei tralci: perché essa ci ricorda appunto i principi fondamentali della vita e della convivenza; primo: se ci stacchiamo dalla linfa, moriamo; secondo: se non “distribuiamo” questa linfa anche ai tralci che si diramano da noi, il nostro frutto non sarà mai copioso e completamente valido.

Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice; potremo cioè anticipare già in questa vita quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è(1Gv 3,2).

I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” tra loro e con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: è Lui infatti l’unico canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

  

giovedì 22 aprile 2021

25 Aprile 2021 – IV Domenica di Pasqua


“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (Gv 10,11-18).

 Giovanni, nel vangelo di oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello, quello piacevole, buono”.

E si sofferma a descrivere quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari di questo pastore: non solo guida le pecore, si prende cura di loro, ma le conosce per nome, una per una; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro la propria vita.

Un pastore, dunque, decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a colui cioè che lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al mercenario non interessa il bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli guarda soltanto il proprio tornaconto, a ciò che può guadagnare da esse. Egli non le ama, ma si serve di esse, le utilizza, sono una merce di scambio.

Un po’ come ci comportiamo oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per prodigarsi a favore dei fratelli più deboli. 

Siamo circondati da gente che usa e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro, amici, colleghi, noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano di trarre dalle “pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto se la pensano come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.

Certamente così non siamo dei “buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi, egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.

Al contrario invece l’intera umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori: di persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la certezza dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non mi abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre con me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri, pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di Gesù.

Sono questi infatti i pastori che desideriamo costantemente al nostro fianco: in particolare per adeguarci a loro, per imitarli, per immedesimarci in loro; perché anche noi abbiamo il nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo “pastori”: anzi lo siamo doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei confronti dei nostri fratelli.

Siamo pastori di noi stessi, perché, raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra mente, abbiamo molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della nostra coscienza, i nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come dobbiamo comportarci con queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo nostre, in genere ci teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore attenzione alle “malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.

Per essere però degli autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di “buoni”, non dobbiamo mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo mai “pretendere”, essere duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile; al contrario dobbiamo essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato rimedio, non smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, dobbiamo, insomma, percorrere sempre la strada maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto sicuro della pace.

Tutto ciò che prende forma nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni giorno. Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli, rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che puntualmente ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo; ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile, significa non affrontare correttamente il problema, equivale a cercare un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio, soprattutto una risposta, che potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra vita.

Quello di condurre, di guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono quotidianamente dal recinto della nostra mente, è ovviamente un compito invisibile all’esterno, ma non per questo meno fondamentale, poiché si tratta di un “gregge” che inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.

L’importanza del nostro essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono materialmente la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure che incontriamo saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci materialmente, pecore che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra dedizione: soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non dobbiamo “gestire”, non dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel nostro ruolo di pastori, guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire” con la massima attenzione e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che Dio ci ha affidato come compagne di percorso: sono insomma quelle “pecore” che costituiscono il nostro “capitale umano”.

In particolare non dobbiamo scaricare su di esse i nostri malumori, le nostre manie, le nostre fissazioni, non dobbiamo imporre le nostre vedute; non dobbiamo abusare della nostra autorità, non far pesare le nostre richieste; significa non svilirle, non disprezzarle considerandole degli oggetti, degli “utensili” da usare, delle “macchine” a nostro servizio, privandole di ogni loro dignità personale.

Quante “pecore” purtroppo vivono in balia dei capricci dei loro “pastori”! Quante devono fare i conti con la loro aggressività, con la loro violenza, con i loro comportamenti assolutamente negativi, immorali, inumani, che generano dolore, ansia, insicurezza, smarrimento.

Il “buon pastore”, al contrario, trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle proprie pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà: “Io credo in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”. Per questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore: vuole valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa infatti che dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle nella loro personale creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse.

Essere “buon pastore”, in una parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come insegna Gesù, sta per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità, delle loro necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire” non è assolutamente “asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto contrario; poiché indica un comportamento inaccettabile in un buon pastore, come sottomettere, assoggettare, conquistare, dominare gli altri.

Anche qui però bisogna fare attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata, indiscriminatamente: non deve cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a priori ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero, per decidere con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella” finita fuori strada, va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.

Ci sono genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un punto fermo. Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro l’altro: con il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile al “sì”, è la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito” cattivo. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un tiranno, un despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente e nessuno, convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.

Molti “pastori” confondono la bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”. Pensano che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga ad averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni decisamente positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare delle riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di fare ciò che si vuole.

D’altro canto però, i “pastori” non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per principio, per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur trovandosi nel giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col perdere la propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente otterrà ciò che chiede.

Il buon “pastore” sta sempre davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo, portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto che le regole del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le stesse, sia per chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le pecore. Amen.

  

giovedì 15 aprile 2021

18 Aprile 2021 – III Domenica di Pasqua

“Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi” (Lc 24,35-48).

 I due discepoli di Emmaus tornano dalla loro incredibile esperienza e raccontano agli altri rimasti a Gerusalemme di come abbiano incontrato Gesù sulla strada del ritorno a casa; anche Pietro racconta entusiasta il suo incontro con il Signore: ciò nonostante, quando Gesù si presenta al gruppo riunito insieme, essi rimangono tutti senza parole, dubbiosi, meravigliati, impauriti. Cosa significa questo?

È chiaro: come abbiamo detto domenica scorsa, l’esperienza del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente nella vita, è un’esperienza che ciascuno deve fare individualmente, non in gruppo. Gesù infatti dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Per sincerarsi che davvero Gesù sia lì davanti a loro, che sia vivo, che si muova, parli, agisca, non basta dunque ai discepoli “guardarlo”, cosa che possono fare benissimo anche rimanendo confusi tra la folla: ma per averne la certezza personale, è necessario “toccarlo”, palparlo, uscire allo scoperto, lasciarsi coinvolgere, e questo lo può fare ciascuno da solo.

Anche a noi non basta il racconto degli altri. Non basta che altri abbiano creduto e rivoluzionato la loro esistenza. Non basta conoscere persone che, grazie alla loro fede sincera, siano guarite dalle malattie. Non basta scoprire la felicità negli occhi di quanti vivono una fede sincera, dopo averlo incontrato sulla loro strada. Nulla può indurci a credere, se non ci decidiamo a “toccarlo” con mano, a lasciarci coinvolgere dalle sue Parole, a lasciargli rivoluzionare la nostra mente, le nostre certezze, la nostra vita: solo così i nostri dubbi cadranno, solo così riusciremo a capire che Lui è veramente “vivo”, solo allora arriveremo convintamente a “credergli”; perché la fede vera è incontro, prova, esperienza, dedizione: se non raggiungiamo la fede, continueremo a dibatterci invano tra assurde ipotesi, inattuabili possibilità, inutili dubbi.

Colui che dubita infatti dimostra di rifiutare qualunque suo personale coinvolgimento, qualunque prova, per avvalorare la sua ricerca, per darle un senso.

Nella nostra diffidenza viviamo costantemente angosciati dall’incertezza, dalla paura della verità. Sono infatti i nostri continui “perché”, i nostri “come mai?”, che puntualmente lasciamo cadere senza una risposta, senza un confronto, senza un approfondimento, che ci bloccano sulla via della fede: anche perché spesso dubitare, riempirci la testa di improbabili fantasie, di illazioni, di false argomentazioni, di infiniti “distinguo”, è solo un comodo pretesto per stare lontani da Dio, per non impegnarci, per non metterci in gioco, per evitare la fatica di “toccarlo”.

Anche gli apostoli dimostrano qualche reticenza nel credere alla risurrezione: non credono agli amici che hanno visto Gesù; non credono alla Maddalena, non credono a Pietro, non credono a Gesù stesso, pur avendolo lì, davanti ai loro occhi; non gli credono neppure dopo aver visto le sue ferite e aver mangiato nuovamente con lui; fanno fatica a credergli anche quando Gesù, con i dati alla mano, spiega loro che tutto quanto gli è accaduto pochi giorni prima, era puntualmente previsto negli Scritti dei loro Padri.

La fede totale, sincera, è un traguardo difficile, richiede una maturazione lenta e faticosa: è un cammino in cui si procede adagio, a piccoli passi; è un salto della nostra mente nel buio incomprensibile del soprannaturale, un salto che richiede grande impegno, una costante preparazione, 

Noi invece, cristiani del consumismo, siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”, del “cotto e mangiato”. Siamo abituati con la TV o il computer: basta un semplice pulsante, un telecomando, e tutto è risolto, tutto lo scibile viene prontamente esibito, ogni nostro dubbio ottiene risposta. Ma non tutto funziona così! Ciò che riguarda l’anima, lo spirito, il nostro cammino verso Dio, verso la nostra fede, si concretizza lentamente, gradualmente, necessita dei suoi tempi di crescita. Tutto avviene con pazienza, con dedizione, con perseveranza: è come scalare una parete rocciosa: qualunque movimento verso l’alto richiede un sostegno sicuro: dobbiamo cioè essere certi che l’ancoraggio successivo cui affidare la nostra vita, sia in grado di sorreggerci, di darci fiducia, sicurezza, tranquillità.

Soltanto se giorno dopo giorno sapremo superare le difficoltà di una salita altrettanto complicata e impegnativa, riusciremo a raggiungere la vetta altissima di Dio, e abbracciare con il cuore e la mente la maestosità divina del suo amore.

Il Vangelo di Luca, oltre alla difficoltà degli apostoli per raggiungere la fede, ci fa capire anche quali sono le strade percorribili per agevolare l’incontro con Gesù.

La prima strada è mostrargli le nostre ferite: ripetere cioè quello che Gesù stesso ha fatto con i discepoli, presentando loro le prove della sua passione.

Nel nostro caso, presentare a Gesù le mani vuol dire mostrargli le nostre azioni, il nostro "fare", l’agire, il costruire, il realizzare. Molti delusi, feriti dalla vita, pensano che non ci sia più niente da fare, che tutto sia compromesso. Ma non è vero! Gesù ci ha insegnato a non rinunciare mai, a superare qualunque difficoltà: se non provvediamo noi a realizzare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri sogni, nessun altro può farlo al nostro posto! Perché dovrebbero farlo gli altri? Perché lamentarci se siamo sfortunati, se la nostra vita non ci soddisfa, se il mondo che ci circonda fa schifo, se poi dal canto nostro non facciamo nulla per migliorare le cose? Perché giustificarci dicendo “è troppo tardi”, quando sappiamo bene che non è Dio, ma la nostra apatia, la nostra indolenza, che blocca qualunque possibile iniziativa?

Noi non immaginiamo neppure come le cose cambierebbero, se solo ci fidassimo di Dio, se solo mettessimo nelle sue le nostre mani ferite, incapaci di realizzare, di costruire, di fare qualcosa: improvvisamente diventerebbero mani forti, gloriose, risorte, guarite, con le quali poter veramente creare, fare, iniziare, realizzare. Se mettessimo il nostro cuore ferito in quello trafitto del Risorto, guariremmo immediatamente; e potremo condividere con gli altri una vita nuova, intensa, luminosa.

La seconda strada per incontrare Gesù è la carità, l’amore, la donazione di noi stessi agli altri. È nell’apertura verso i fratelli, che potremo sentire chiaramente la presenza di Cristo vivo, di percepirlo in maniera forte. Solo se ci apriremo al prossimo, se lo accoglieremo nella carità, ci sentiremo anche noi accolti, amati; e sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare dentro di noi, ci risentiremo interiormente forti e potenti, fiduciosi in ciò che facciamo.

“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: in altre parole: “dove due o tre cantano, sono in sintonia, celebrano nel mio nome, Io sono in mezzo a loro”: e di quale altra occasione noi disponiamo per fare “comunità” se non quella in cui celebriamo l’Eucarestia domenicale? È lì, infatti, che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo”. Nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che abbiamo la chiara percezione della presenza di Dio: proprio lì, in mezzo a noi, con noi e fra di noi. È infatti questa la perfetta “comunità” del Risorto, quella in cui Lui vuole incontrarci tutti di persona. Ed è da lì che noi usciremo fortificati, come i discepoli, per testimoniarlo agli altri.

La terza strada per incontrare il Risorto è lo studio, la meditazione del Vangelo. Gesù in esso ci spiega lo scopo della sua impresa, cos’è successo, cos’è accaduto. Noi personalmente abbiamo bisogno di capire le nostre origini, la nostra storia, da dove veniamo e dove siamo diretti; abbiamo bisogno di individuare quel filo rosso che lega noi, le nostre giornate, la nostra vita, con Dio, con la Vita, perché solo così possiamo dare un significato, un senso, un collegamento divino alla nostra esistenza: solo così possiamo fare realmente esperienza del Signore Risorto, scoprendo che nulla avviene per caso, che tutto ciò che ci riguarda ha un senso ben preciso, che ogni nuova situazione che affrontiamo ha sempre qualcosa da dirci: e capiremo che, avendo Dio come obiettivo finale, qualunque sacrificio, anche se imprevisto, è comunque affrontabile e superabile.

I cristiani hanno un bisogno assoluto di conoscere e capire il Vangelo, la Bibbia. Purtroppo a questo proposito c’è un’ignoranza dilagante, globalizzata, a livello mondiale. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”; per cui se vogliamo conoscere Cristo, dobbiamo cercare la Verità, studiando, meditando, vivendo gli insegnamenti che Lui ci ha consegnato.

Le nostre comunità hanno bisogno di essere rifondate sul vangelo, non sulla magia, sugli amuleti, sugli oroscopi, sulla superstizione, sul “così fan tutti”; dobbiamo ottenere comunità in cui la gente creda convintamente, aderendo personalmente a Cristo con l’anima e il cuore. Noi dobbiamo essere orgogliosi della nostra fede, anche se purtroppo oggi è svilita, oltraggiata, tradita dalla cristianità: è noto ormai come il messaggio di Cristo, in questi ultimi anni, sia stato travisato, stravolto, non tanto dal popolo, ma da coloro che dovevano invece confermarlo e trasmetterlo fedelmente ai fratelli. 

Umilmente, allora, preghiamo Dio che ci aiuti ad essere almeno noi una “lettura” vivente e cosciente del suo Vangelo, perché dalla falsità, dall’ambiguità, dall’ignoranza, dalla disonestà, non potrà mai nascere nulla di positivo, di educativo. La Verità ci rende sicuramente liberi, anche se talvolta questa libertà ci costa, ci fa male, perché ci mostra un mondo completamente diverso da come noi lo vorremmo. 

Una sola consolazione ci sorregge: ogni volta che ci avviciniamo a Gesù, ogni volta che ascoltiamo le sue Parole, ogni volta che leggiamo il suo vangelo, Lui riesce sempre ad infiammarci l’anima, ad appassionarci profondamente, a riscaldarci il cuore: perché nella nostra vita la sua Parola, il suo Vangelo, non è tanto un Libro da leggere, ma una Persona viva da incontrare e da seguire. Amen.

 

giovedì 8 aprile 2021

11 Aprile 2021 – II Domenica di Pasqua

“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Gv 20,19-31).


 Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli rinchiusi nel cenacolo. Nella prima, avvenuta in assenza di Tommaso, Egli lascia intuire le conseguenze del “vedere” il Signore nella propria vita; nella seconda, alla presenza di Tommaso, fa capire che “vedere” il Signore è un fatto strettamente riservato, personale: nessuno infatti può in alcun modo sostituirci nel toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi: è una esperienza intima, che ciascuno deve fare da solo.

I discepoli, dopo la morte di Gesù, pensando che: “Se hanno ucciso Lui, sicuramente uccideranno anche a noi!”, si sono barricati nel cenacolo. Vivono le giornate in preda al panico, segregati da tutti, a porte sprangate. Il riferimento alle “porte chiuse”, in simile contesto, acquista un significato molto forte: essi, in altre parole, non vogliono più saperne di Gesù, hanno paura, vogliono dimenticare tutto, vogliono tornare alla loro quotidianità, alla vita di prima.

Certo hanno trascorso giorni indimenticabili con Gesù: sono arrivati anche a credergli, a seguirlo con entusiasmo, ma la tragedia delle ultime ore ha infranto ogni loro sogno: l’unica possibilità è quella di rinunciare a tutto e di tornare nel grigiore dell’anonimato.

La paura è un sentimento irrazionale che costringe spesso l’uomo a fare scelte estreme: è infatti per paura che anche noi talvolta voltiamo le spalle a Dio, alla nostra fede: non ce l'abbiamo con Lui, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo bene che non è un nemico, che non vuole ucciderci, condannarci, o farci del male; ma nel nostro animo proviamo comunque una gran paura: paura di “aprirgli le porte”, paura per quello che potrebbe trovare dentro di noi, paura di sentirci rinfacciare la perdita dell’entusiasmo iniziale, l’abbandono dei nostri doveri, delle nostre promesse; paura di finir sbugiardati per le nostre mascherate, per la nostra ipocrisia, per la nostra ambiguità, per i nostri progetti fondati sul nulla.

Il vangelo di oggi ci assicura invece che il nostro Dio non incute terrore: è un Dio che non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Anzi, incontrarlo, è vitale per noi, è un evento assolutamente positivo, indispensabile: significa scuoterci dal nostro immobilismo, dalla nostra apatia, dal nostro nasconderci; significa rinunciare alla nostra mentalità egoistica, vivere nella realtà, scegliere solo il bene, ciò che è costruttivo, efficace, anche se costa, anche se è impegnativo, talvolta doloroso, imbarazzante: perché significa togliere i “paletti” di protezione del nostro “ego”, significa aprire ogni serratura, spalancare tutte le porte; significa mettersi completamente nelle Sue mani, accettare ogni Sua iniziativa; significa farlo entrare nelle nostre “segrete”, nella zona tenebrosa della falsità, della presunzione, dell’orgoglio, dell'ignoranza, dell’inganno: nella notte fonda della nostra anima.

Tommaso non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto ad incontrare Gesù: resiste, è dubbioso, nell’incertezza non vuole aprire il suo cuore a nessuno.

Ma quando Gesù entra per la seconda volta nel cenacolo e davanti a lui ripete: “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che Egli non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: al contrario augura pace a tutti, a ciascuno; un saluto, il suo, estremamente rassicurante: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E questa volta, rivolto solo a lui, mostrandogli le ferite, dice “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani… non essere incredulo, ma credente!”. 

Perché in questo incontro Gesù mette in evidenza le sue ferite? Di fronte allo scetticismo di Tommaso, non sarebbe stato più credibile, più perentorio, più scenografico dimostrare in maniera eclatante la sua potenza, la sua gloria, la sua divinità, la sua vittoria strepitosa sulla morte, piuttosto che abbassarsi a documentare con le prove la sua passione, assecondando le pretestuose condizioni di un povero diffidente?

Per una ragione fondamentale: la fede cristiana, fin dal suo esordio, doveva avere come riferimento non un Dio inavvicinabile, scontroso, incomunicabile, isolato nella sua gloria, nella potenza della sua maestosità, ma un Dio umile, rivestito di “umanità”, morto crocifisso; che per redimere l’uomo, per restituirgli la dignità perduta, ha “svuotato sé stesso”, ha rinunciato alla sua divinità, assumendo la natura umana con tutti i limiti e le sue debolezze; che per amore ha accettato il patibolo della croce, sopportandone “fino alla fine” le estreme e strazianti sofferenze.

È questo il motivo per cui Gesù si presenta agli uomini senza alcuna ostentazione di potenza, senza i fasti della sua maestosità, senza i trofei delle sue vittorie, ma esibendo umilmente, amorevolmente, le sue piaghe, le sue mani forate dai chiodi, il suo cuore trafitto dalla lancia. Egli si presenta con i segni della sua passione, per rassicurare, per confortare, per accogliere e alleviare il dolore umano, per incontrare da pari l’umanità sofferente: Egli, alle piaghe inflittegli dalla malvagità umana, contrappone l’amore premuroso di un Padre che vuole eliminare dai suoi figli ciò che è male, che è doloroso, che impedisce loro di vivere, di crescere, di camminare spediti e liberi al suo seguito.

Chiunque ha avuto personalmente la fortuna di incontrarlo sulla propria “via dolorosa”, non può che riconoscere questa verità: “È vero, mio Dio, avevo veramente bisogno di te: al tuo sguardo le mie ferite sanguinanti sono completamente scomparse. Il tuo amore mi ha ridato vita: l’unico mio rammarico è di non averti incontrato prima!”.

Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferendo vivere stupidamente da invalidi, con le loro ferite doloranti, le loro piaghe purulente. La loro è una vita non-vita, carica di angoscia, di rabbia, di dolore, di lacrime, di disperazione. Anche se all’esterno non traspare nulla, anche se dal di fuori tutto sembra assolutamente normale, nel loro intimo sono dominati dalla paura, dal sospetto, dalla solitudine. Non si fidano di Gesù, non vogliono ascoltare le sue parole, ignorano il suo invito, la sua amicizia, il suo aiuto: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo so che chiudi tutte le tue porte, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi spazi ermeticamente serrati; stai tranquillo, io vengo per offrirti soltanto amore e pace! Fammi entrare e scoprirai che la tua vita, anche nel dolore, nelle contrarietà, nelle sconfitte, con me al tuo fianco, diventa motivo di serenità, di soddisfazioni, di gioia, di amore”.

La nascita e lo sviluppo della nostra fede, come tutto ciò che ci riguarda, sono legati alle nostre personali esperienze. Il percorso che fanno gli altri, le prove che incontrano, non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri abbiano incontrato la fede è sicuramente istruttivo, ma del tutto irrilevante per il nostro percorso: perché è fondamentale, essenziale, che siamo noi stessi, personalmente, ad incontrare Dio: un incontro che oltretutto deve essere veloce, bruciante, decisivo: per consentirci di esclamare quanto prima con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…(Gb 42,4).

I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci bastano: incontrare Dio è una nostra esclusiva esperienza. Che poi, concretamente, non è che sia un’esperienza tanto difficile. 

Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, non andiamo forse per incontrarlo? Non andiamo per alimentare la nostra relazione d'amore, per stare un po’ con Lui, per “vedere” il nostro Amore? Altrimenti che ci andiamo a fare!

Molte persone dicono: “Io a Messa ci vado solo quando ho tempo, quando ne ho voglia, quando non ho niente da fare”. Errore! Esprimersi così è sbagliato, da ignoranti: perché se amiamo veramente qualcuno, la cosa più importante che vogliamo è di vederlo sempre, di continuo. Una relazione d’amore ha bisogno di vicinanza continua, di incontrarsi, di vedersi, di conoscersi: ha bisogno di intimità, altrimenti che amore è?

Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima; non cantano, non pregano, non ascoltano la Parola di Dio; non partecipano, non si lasciano coinvolgere, sono sordi, disinteressati, chiusi nella loro indifferenza: esserci o non esserci per loro è la stessa cosa. In questo modo però è impossibile qualunque intimità con Dio, qualunque incontro, qualunque relazione. È come andare a far visita ad una persona amata e non parlarle, stare ammutoliti, immusoniti, non interessarsi a lei. Che amore è? Che rapporto è?

Allora, ogni volta che ci raduniamo nel nostro “cenacolo”, nelle nostre chiese, consapevoli di essere degli innamorati fedifraghi, comportiamoci da peccatori pentiti: mostriamo al Signore le nostre “ferite”: inosservanze, incomprensioni, egoismi, liti, giudizi maligni, relazioni sbagliate; ferite doloranti da cui sentiamo il bisogno di guarire, di disintossicarci: mettiamoci umilmente ai piedi di Gesù, entriamo un istante in noi stessi, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo la sua voce suadente: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”.

Ogni volta che andiamo a Messa, mostriamo al Signore il nostro “costato trafitto”, le ferite profonde del nostro cuore, del nostro io, della nostra dignità, del nostro onore, dell’essere rifiutati dagli altri, traditi, incompresi, umiliati, evitati. Sono sensazioni amare che corrodono la vita, ci destabilizzano, ci umiliano: l’aver fallito nella vita, nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; l’aver umiliato, usato, ingannato il prossimo; l’essere superficiali, trasgressivi, incuranti di migliorare, di maturare spiritualmente. 

Offriamole, tutte queste nostre ferite, proprio perché dolorose, alla misericordia divina. E aspettiamo umilmente il balsamo delle parole di Gesù, cariche di amore, di comprensione, di condivisione: “Pace a te; ci sono io con te: non disperare, fatti coraggio, risorgi, riposati qui un momento con me. Io ti amo così come sei: io posso guarirti, ma solo se anche tu lo vuoi; insieme affronteremo la strada da percorrere; anche se ti senti debole, tu puoi seguirmi: stabilisci tu la lunghezza del passo, io non ho fretta, ti aspetto, e se cadi ancora, ti prenderò in braccio. Ti amo e continuerò sempre ad amarti, in ogni caso, perché io ho bisogno del tuo amore!”.

Sono parole preziose, importanti, sono di Dio, sono quelle di cui abbiamo bisogno, quelle che ci ridanno pace, fiducia, amore, forza per rialzarci e ripartire rinvigoriti.

Ecco, questo è un nostro semplice, umile, “incontrare” Gesù: facciamolo ogni domenica; facciamo questa esperienza di risurrezione con Lui, col Risorto. Incontriamolo, assicuriamogli la nostra buona volontà, il nostro amore, la nostra riconoscenza: e diciamogli convintamente che senza di Lui, senza la sua vicinanza, senza il suo aiuto, senza il suo amore, è veramente impossibile vivere. Amen.

 

  

venerdì 2 aprile 2021

4 Aprile 2021 – Pasqua di Risurrezione del Signore


“Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro” (Gv 20,1-9).

 Pasqua è il centro focale della nostra fede cristiana: Cristo è risorto dai morti.

Una festa però che, in genere, non coinvolge molto la gente. A differenza del Natale. Il Natale è più seducente: un bambino che nasce fa tenerezza a tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.

La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia, la crocifissione e la morte di Gesù, seguita dopo tre giorni dalla sua risurrezione, la vittoria sulla morte: per quanto la conclusione sia esaltante, ci lascia comunque abbastanza freddi e indifferenti.

Ma cosa significa questa “resurrezione”? È una parola che deriva dal latino “resurrectio” (in greco νστασις) che vuol dire “rialzarsi”: è il movimento di una persona distesa, immobile (morta) e si ri-alza, ritorna cioè a vivere. In pratica avviene un cambiamento di stato, di direzione, dalla morte alla vita.

Storicamente, cos’è successo? Dopo che Gesù venne arrestato e condannato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune donne, tra cui Maria sua madre, trovarono il coraggio di rimanere ad assisterlo fino alla crocifissione e morte.

I discepoli vissero questa tragedia come un fallimento personale: si sentirono finiti, morti dentro; di fronte agli scherni di quanti li avevano messi in guardia su Gesù: “Come fate a fidarvi di quel pazzo? È un eretico, un senza-Dio!”, dovettero convenire ammettendo la propria sconfitta: “Avevate ragione!”.

Ma poi successe il grande, l’imprevedibile miracolo della resurrezione: quella esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquista tutta la sua attualità: improvvisamente essi cominciano a sentire vivo, potente, dentro di loro quel Gesù che tutti davano per morto: lo sentono nuovamente presente nella loro vita, in maniera inequivocabile, indiscutibile. E come se non bastasse, “lo vedono” chiaramente, senza alcuna possibilità di errore. Quei discepoli che il venerdì santo erano disperati, fuggiti in preda alla paura e al terrore, dopo appena cinquanta giorni sono pronti ad annunciare ovunque Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. Per lui finiscono in prigione, per lui vengono derisi, umiliati, percossi; per lui sono pronti a morire, come avviene realmente per molti di loro: sono spinti da un fuoco nuovo, inestinguibile, da una nuova forza interiore: nulla potrà mai più fermarli.

Tutto ciò è realmente successo, ne siamo certi: nessuno infatti potrà mai spiegare un cambiamento simile, così repentino, radicale, se non ammettendo l’improvvisa irruzione in loro di una forza divina. O sono impazziti tutti o ciò che dicono è vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi, è con noi!”.

Ma ripercorriamo mentalmente l’esperienza di quella domenica mattina vissuta dai due discepoli Pietro e Giovanni: quest’ultimo, testimone oculare, ci descrive infatti minuziosamente nel suo vangelo come si sono svolti i fatti: Maria Maddalena, recatasi di buon mattino al sepolcro, lo trova aperto e vuoto: preoccupatissima, temendo che qualcuno abbia trafugato il corpo di Gesù, si reca immediatamente dai discepoli, e li sollecita a correre per verificare quanto accaduto: i due col cuore in gola affrontano velocemente il percorso per arrivare al luogo della sepoltura; Giovanni, più giovane e più veloce, precede Pietro ma non entra; aspetta che anche lui arrivi per dargli la precedenza: Pietro infatti entra per primo, ma non “vede”: chi “vede” è lui, Giovanni. È chiaro che qui “vedere” significa “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è sempre colui che vuol “vedere” con la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Entrambi, sia la “mente” che il “cuore” poi crederanno: mentre però la mente cerca di controllare i sentimenti, di contenerli, di verificarne i contenuti, il cuore si apre immediatamente all’onda d’urto travolgente, incontenibile dei sentimenti: la mente serve per capire, per spiegare, per interpretare, il cuore è l’organo della vita: infatti l’anima, l’amore, lo stupore, la fede, prima di tutto si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente “spiega” cos’è successo.

Succede come di fronte ad un dolce: la mente cerca di individuarne i componenti, per capire se è più o meno buono: il cuore al contrario lo assaggia, lo gusta e ne sente subito la bontà.

Noi siamo Pietro, la mente, la durezza, quando non vogliamo dare spazio alla vita che c’è in noi: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché nulla più ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, il cuore, il sentimento, quando vediamo e “accettiamo”, quando crediamo.

Quando parliamo con una persona cara, guardiamola allora negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto le parole che dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua gioia, la sua meraviglia, il suo amore. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte le nostre preoccupazioni, ascoltiamo il battito del nostro cuore: e allora potremo percepire, forte e chiara, la presenza e la voce di Colui che abita dentro di noi.

Fermiamoci e ascoltiamoci ogni tanto: all’inizio magari sentiremo uscire da noi demoni e mostri; ma se avremo pazienza, col tempo, nella calma, nel silenzio, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, che si rivelerà essere una sorgente inesauribile di vita e di luce.

Resurrezione è riuscire a cogliere l’invisibile nel visibile: ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che andando oltre i limiti del materiale, riescono a cogliere la realtà del soprannaturale. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: Dio è qui. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo scoprirlo, dobbiamo solo conoscerlo.

Parlando di Maria di Magdala, Giovanni sottolinea un particolare: “si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”. Apparentemente sembra una contraddizione: se infatti diciamo “di mattino”, lasciamo capire che in quel momento c’è “chiarore, luce, giorno, visibilità”; se invece diciamo “quand’era ancora buio”, sottolineiamo che è ancora “notte, tenebre, oscurità”; allora viene da chiedersi: la Maddalena è andata al sepolcro con la luce o con il buio?

In realtà le due espressioni si adattano perfettamente allo stesso evento: è infatti nel cuore di quella donna e in quello dei discepoli, che regna il buio più profondo: essi sono immersi nella notte più buia, nell’oscurità profonda, non hanno più stimoli; senza la presenza di Gesù, del loro maestro, non riescono più a pensare ad un loro domani. Improvvisamente però qualcosa di nuovo succede in loro: le tenebre vengono disperse da una Luce abbagliante, dallo splendore sfolgorante della risurrezione: è Gesù, il “Sol invictus”, che restituisce loro la chiara visione della Vita.

Un repentino cambiamento che Giovanni lascia chiaramente intendere: un cambiamento che deve essere di conforto e di particolare insegnamento per noi: perché ogni volta che ci smarriamo, che vediamo nero, che crolliamo in noi stessi pensando di aver raggiunto un punto di non ritorno, è in quel momento che avremo la netta percezione che qualcosa di nuovo, di positivo, sta per nascere. Qualcosa che ci pone su di un livello decisamente superiore, che ci offre la possibilità di fare un salto di qualità, di crescita, di decisiva evoluzione: ebbene, quel “qualcosa” che emerge confortante dalle nostre macerie, si chiama “fede”.

Avere fede significa infatti “fidarci” di Dio: credere cioè che quanto di grave, di imprevedibile possa succederci nella vita, non è mai in assoluto un male, un fatto puramente negativo, ma è un’opportunità che Dio, nella sua bontà, ci offre per plasmarci, forgiarci, purificarci, mettendo a nudo le nostre debolezze, i nostri errori. Tutto ciò che ci succede, pertanto, ha sempre un valore positivo, a fin di bene: certo, a volte è doloroso, duro, incomprensibile, per niente piacevole, ma è sempre un invito spiritualmente valido, perché ha lo scopo di rimetterci nella giusta direzione.

Se rimaniamo ad un livello razionale, come è successo per gli apostoli, il venerdì santo diciamo: “Che disastro! Gesù è morto! Tutto è finito!”. Ma se compiamo il “salto” di fede, la domenica di Pasqua esclameremo gioiosi: “Gesù è morto per redimerci, per la nostra salvezza; oggi Lui è risuscitato e continuerà a proteggerci: Dio sia lodato e ringraziato!”.

Dal punto di visto materiale, una crisi è sempre “buio pesto”, è sempre distruttiva, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è sconfortante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo anni di lavoro e di sacrifici, è destabilizzante.

Se però facciamo il salto di qualità, di evoluzione, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto è resurrezione, tutto è vita. Qualunque evento grave, per quanto grave sia, per quanto ci sprofondi nel buio più totale, se affrontato con gli occhi della fede, diventa “luce”, diventa vita, diventa resurrezione”.

Ma praticamente, per la nostra vita cristiana, in cosa consiste il “salto di qualità” che siamo chiamati a fare? Prima di tutto nell’esercizio della “carità”: non dobbiamo cioè inveire e reagire sempre e solo contro gli altri, se l’esistenza ci chiude qualche porta in faccia, se quanto ci succede è sempre insoddisfacente: gli altri non sono per principio i responsabili di tutto il male del mondo; non sono peggiori di noi: sono anch’essi figli dello stesso Padre, sono nostri fratelli; sono soltanto “diversi” da noi, non sono noi: seguono vie di perfezione diverse, hanno tempi di crescita e maturazione diversi: forse noi siamo chiamati a “lavorare” nella Vigna di Dio fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci davanti allo stesso proprietario, a nostro Signore. Le accuse, le condanne non servono, ci pongono in un ruolo giudiziale che non ci compete, non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta luce. Solo se guardiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, ci accorgiamo che tutto ha una sua autenticità, uno scopo, un suo lato buono; il male che vediamo nella sua ineluttabilità, si trasforma in un bene concreto, possibile: tutto diventa recuperabile, riscattabile; tutto diventa positivo; magari in maniera incomprensibile, ma tutto si rimette nella sua giusta prospettiva.

Dobbiamo insomma vivere i nostri giorni da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove; ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Dobbiamo imparare a guardare sempre al di là del momento presente, dobbiamo imparare a guardare il “domani”, perché è su di esso che dobbiamo lavorare, perché è in esso che verrà valutato il grado della nostra maturazione. Prima o poi infatti arriverà quel “domani” in cui la morte si presenterà alla nostra porta, e ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro; è il normale ciclo della vita, inutile abbandonarci all’angoscia. Inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora troppe cosa da fare qui. Non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli sindacali o avvocati del lavoro cui appellarci. Allora capiremo alcune ovvietà: che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione” “in uso”; che niente e nessuno ci appartiene, niente e nessuno può sostituirsi a noi: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Solo se saremo “ricchi” di povertà, di umiltà, di fede, risorgeremo con Dio, nella gloria dei santi. Amen.

 

 

giovedì 25 marzo 2021

28 Marzo 2021 – Domenica delle Palme: Passione di nostro Signore


“Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire” (Mc 14,1-15,47).

 Nel racconto della Passione, riviviamo la storia di un “uomo” perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha portato ad accettare la morte come conseguenza estrema. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con intensità, amando, piangendo, commovendosi, interessato a chiunque lo avvicinava, acceso ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Soprattutto una vita di fedeltà: Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo, per tutto ciò che vive; fedele, in particolare, al suo unico grande amore: Dio Padre: il quale, quando tutto sembra finire, quando tutto alla fine è già compiuto, è costantemente con Lui, non lo tradisce.

La Passione infatti è la storia di quest’uomo fedele a sé stesso, al proprio cuore, innamorato di Dio, suo Padre, con il quale esiste un reciproco legame di amore e fedeltà: un uomo che conferma con la risurrezione che, tutto ciò che ha vissuto su questa terra, era “Dio”.

Ripercorriamo insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la forza per compiere il nostro cammino fino in fondo, per vivere con passione la nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura.

In loro possiamo rivederci, ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono delle immagini profonde, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi, in ogni uomo.

1. L’unzione di Betania (14, 3-9).

Due giorni prima della crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava, in genere, soltanto in occasioni solenni, anche perché il valore dell’unguento era molto elevato, stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta bontà. Del resto cosa può fare questa donna per Gesù? Nulla. In che modo lo può aiutare? In nessun modo. Può forse attenuare la delusione, l’angoscia per la fine, che Gesù vive in cuor suo? No. Questa donna non può fare proprio nulla: ma può amarlo. E così le sue mani, delicatamente, sfiorano, massaggiano, accarezzano, il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non possiamo fare più nulla, possiamo sempre amare, prenderci cura, assicurare la nostra presenza, stare silenziosamente vicini. Quando non possiamo fare più nulla, non ci rimane che amare: questo è sempre in nostro potere.

2. Giuda (14, 10-21).

Come è possibile che uno di quelli che seguono Gesù da vicino, che dicono di amarlo, lo abbia tradito? Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno abbandonato tutto, lo abbia consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Purtroppo, cosa non si fa per denaro! Per denaro siamo pronti a vendere, a volte, quello che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, l’affetto, il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto, cosa ci rimane? Il vuoto! Chi insegue il denaro, le ricchezze, il benessere materiale, finisce spesso come Giuda, che disperato si impicca. Il denaro è una illusione affascinante ma effimera: quando si è convinti di avere tutto, di potere tutto, ci accorgiamo di non avere nulla: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito un sogno fatuo, un’apparenza impossibile, un impegno inutile. È la morte.

3. L’eucarestia (14, 22-25).

Il sinedrio furente ha già deciso di condannare Gesù, proprio quando, durante la cena pasquale, Egli offre la sua vita in dono d’amore e di pace: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato per sfamare molti. Voglio che la mia vita sia come il grano che, macinato, diventa alimento, vita, sicurezza per l’umanità. Voglio che dalla mia morte, tutti riacquistino vita. Voglio che la mia carne straziata, il mio sangue versato, la mia vita, diventino forza, alimento, sicurezza, rinascita per l’umanità intera”. Con queste motivazioni Gesù affronta la sua atroce sofferenza. Non gli verrà tolta, né alleviata: nulla percettibilmente cambierà. Ma da quel momento tutto cambierà, tutto sarà diverso: ora tutto è chiaro, tutto acquista un suo significato. Da oggi anche il nostro dolore, le nostre sofferenze acquistano un valore, una loro nobiltà. Ora anche noi sappiamo che per portare frutto, il “seme” deve cadere per terra, deve morire. Cosa poteva donarci di più Gesù? Non ci ha lasciato soltanto belle parole, bei miracoli, bei discorsi: Gesù ha donato sé stesso, ci ha fatto dono del suo immenso amore. Questo è il vertice della vita. Perché l’amore vero è donarsi, sempre, completamente, fino alla fine, senza alcuna riserva. È questo infatti che noi celebriamo in ogni Eucaristia: l’Amore donato. E ogni qualvolta doniamo amore, noi celebriamo una Eucarestia.

4. Il Getsemani (14, 26-42).

Gesù prega: avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non si comporta come se fosse un disperato, abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù lo prega il Padre, c’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Gesù però è terribilmente angosciato per quanto sta per accadergli, ha paura. È l’angoscia per un supplizio che si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito dai suoi amici; la paura di fallire il suo compito: Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma nel suo intimo tutte le paure, tutti i mostri contrari si materializzano. Qui, nel Getsemani, la solitudine lo invade. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli rimangono vicini. Dormono, non capiscono, non colgono la profondità, il dramma, la gravità di quanto sta per accadere. Vivono in superficie, addormentati, anestetizzati, talmente presi dalle loro cose, dalle loro miserie, che non “notano” la tragedia che incombe anche su di loro. Come possono dormire, ad essere tranquilli, in simili momenti? Gesù, debilitato nella sua natura umana, moralmente ferito, bisognoso di aiuto, li implora: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono: è solo. Nessuno gli è più vicino; nessuno lo comprende; nessuno lo consola.

5. Il tradimento di Pietro (14, 26.-31. 66-72).

A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cefa, è la “roccia”, l’uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti si scandalizzeranno, io non lo sarò”. È l’uomo istintivo, l’uomo d’azione; un uomo che, come lascia intendere, non ha paura di niente e di nessuno. Eppure Pietro è ancora un debole: uno che messo di fronte alla realtà, alle proprie responsabilità, si affloscia, cede, balbetta, si ripiega su sé stesso. È un uomo che ci rappresenta molto bene: nelle nostre presunte “certezze” morali, religiose, nella nostra millantata fedeltà, nella nostra tracotanza interiore: “Gli altri possono tradire, non certo io!”; uno che ci assomiglia nella banalità dei nostri giudizi, nella superficialità dei nostri ideali. Nonostante ciò Gesù lo perdona; anzi lo ha già perdonato prima ancora che tradisse, lo ama sempre e comunque malgrado i suoi voltafaccia: di questo però egli se ne renderà conto soltanto quando capirà che l’amore di Dio è più grande di qualunque nostro fallimento, di qualunque nostro errore. Dio non chiede a nessuno di essere “perfetto” ad ogni costo; ci chiede semplicemente di essere “umani”, di essere consapevoli della nostra debolezza, dei nostri limiti, dei nostri sentimenti, delle nostre paure, delle nostre fragilità. Ogni volta infatti che, sopravvalutandoci, ci consideriamo superiori, inattaccabili, solidi, incorruttibili, puntualmente ruzzoliamo per terra, dimostriamo nei fatti la nostra inconsistenza, la nostra instabilità mentale. Noi cristiani, come Pietro, siamo purtroppo assolutamente inaffidabili: di fronte al pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, finché ci mimetizziamo nella folla, allora è semplice per tutti seguire Gesù: quanta gente infatti lo seguiva finché parlava, finché guariva, finché sfamava! Solo pochi giorni prima era entrato in Gerusalemme tra i canti di gioia di una folla osannante che lo salutava agitando rami di ulivo e di palma. E adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando le nostre scelte diventano pericolose, compromettenti, dolorose, controcorrente, noi ci comportiamo esattamente come Pietro: con grande disinvoltura rinneghiamo la verità, facciamo finta di nulla, ci tiriamo indietro, pronti a tradire la fiducia di chiunque.

6. L’arresto di Gesù (14, 43-52).

Osserviamo per un attimo come il manipolo di esagitati, mandati dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani si scagli contro Gesù. Va da lui “con spade e bastoni”. Giuda, uno dei discepoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”, mentre tutti, “abbandonandolo”, fuggono. È l’infamia del pregiudizio comune, della gente; l’insensatezza del “per sentito dire”, del “mi sembra”, del “qualcuno mi ha detto”. È l’infamia di chi ci percuote e ferisce senza motivo. È la falsità di chi si professa amico, di chi ci abbraccia e bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci colpisce alle spalle. È la meschinità di chi di fronte a qualcuno in difficoltà, in pericolo, si gira dall’altra parte e se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.

7. Gesù davanti al sinedrio (14, 53-65).

I capi e i sacerdoti cercano qualche motivo per condannarlo a morte: ma non trovano nulla. Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono così false, discordi, lontane dalla verità. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica, che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si accorgono che non sono gli altri a fare il male: sono loro, seminando il loro di male, il loro lato negativo, il loro marcio. Combattono negli altri quello che è il loro male. Ma facendo così, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.

8. Pilato (15, 1-15).

Gesù è stato giustiziato dai Romani? Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Anzi Lui coglie la forza, la profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i notabili giudei stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare, non gli sembra che Gesù sia un “sedizioso”, uno che trama contro l’autorità imperiale, come gli è stato descritto. Lui, titolare dello “ius coërcitionis”, potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui potrebbe decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli interessa è il potere, avere meno problemi possibili, in particolare non incrinare i rapporti politici con le autorità religiose locali. Pilato sembra comandare, essere il potente; è uno, invece, intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere il potere. Sembra comandare, sembra essere lui la massima autorità giuridica, invece, è l’impotente di turno, colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va dove vanno tutti. E si crede il governatore, si crede potente. Ma potente di cosa?

9. La crocifissione e la morte (15, 24-38).

Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù, sul Golgota, muoiono tutte le speranze della gente, muore chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero. Come avrà vissuto questo evento Maria, sua madre, che l’aveva accompagnato fin lassù? Come l’avranno vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avranno vissuto la Maddalena, Zaccheo, Lazzaro e gli altri amici? E con loro i sordi che hanno riacquistato l’udito, i muti la parola, i lebbrosi la salute, i ciechi la vista, i morti la vita? Come avranno vissuto questa tragedia, cos’avranno provato nel vedere l’uomo mite e misericordioso che aveva donato loro speranza, forza, vita, appeso, inchiodato ad una croce, come il peggiore dei farabutti? Cos’avranno provato quando hanno capito che su quella croce è finito realmente il Figlio di Dio? Cosa avrà provato tutta quella folla che, sperimentando su di sé la bontà delle sue azioni, il suo altruismo, il suo amore per tutti, si era unita a lui lungo il percorso che lo portava a Gerusalemme e che, proprio per questo, al suo ingresso in città, gli aveva tributato un’accoglienza trionfale?

Sicuramente contrarietà, dolore, rabbia: sì, perché non è stata quella “folla” che ha preteso la condanna e la “consegna” di Gesù nelle mani delle autorità religiose! Sappiamo infatti per certo che non è stata quella gente che, urlando, ha convinto Pilato a liberare un comune assassino, uno sconosciuto, un “Barabba” che con ogni probabilità non è mai esistito: sembra infatti che gli evangelisti, nel riportare quel nome, siano incorsi nell’errata interpretazione del termine aramaico “Bar-abbas”, “Figlio del Padre”, urlato nel linguaggio volgare dell’epoca, un misto di greco e aramaico: un’espressione, “Bar-abbas”, che era molto nota alla gente che frequentava Gesù, perché era così che Lui amava spesso definirsi. Quel popolo, quindi, chiedeva a gran voce la libertà di “Bar-Abbas”, di Gesù, del “Figlio del Padre”, perché lo ammirava profondamente, lo considerava un profeta, il Messia inviato da Dio per risollevare le sorti di Israele, e quindi mai e poi mai avrebbe voluto vederlo morire crocifisso come un volgare delinquente.

A chi attribuire allora la vera colpa della morte di Gesù? Non a Pilato, che poteva esercitare la sua “iurisdictio” solo per i “cives” romani e non per gli ebrei; non alla folla che voleva Gesù libero, ma solo ai capi dei sacerdoti e alle loro squadracce di scalmanati, nelle cui mani Gesù è stato “consegnato” innocente, senza alcuna condanna! Sono loro i registi dell’operazione, della messa in scena. Anche se, non lo possiamo negare, in tanti hanno contribuito mentalmente, avendone un loro motivo: Caifa, “la necessità storica”; Pilato “la ragione politica e il mantenimento dell’ordine”; Pietro “la sua personale sopravvivenza”; i sadducei “la legge”; i farisei “la religione”; le persone rispettabili “la morale”; i soldati “l’obbedienza”. Ognuno aveva i suoi validi motivi; ma erano sufficienti? O erano solo tentativi di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene le mani?

La croce rappresenta quindi lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione dell’esteriorità, della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili: ciò che conta è il rispetto ossequioso e formale alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché per lui tutti erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva sacrifici inutili, non digiunava, non si comportava scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava, banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare “qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di vero”, di importante, di significativo. Gesù non reprimeva l’amore, i sentimenti umani: era amico di tutti, donne comprese; piangeva, si arrabbiava anche, una volta ha menato pure le mani. Com’era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva; voleva che fossimo umani. Sosteneva che in noi non c’è nulla che sia indegno agli occhi di Dio, nulla da nascondere. Che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce. Questa era la religione di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma mai distrutta. Infatti Gesù Verità è risorto, e con lui anche la speranza di poter far parte con Lui del Regno dei cieli, come ci promette la sua religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, noi baceremo la nostra religione, la religione di Gesù, la religione del Padre, della Vita, dell’Amore, della Verità. Ciò che viene da Dio non può morire, non morirà mai. Può essere perseguitato, deriso, umiliato, annientato, ucciso, ma non potrà mai morire. Perché Dio è l’unica realtà immortale, e chi si affida a Lui, vivrà in eterno!

10. Il centurione e le donne (15, 38-41).

Sotto la croce c’è un centurione, un soldato, uno che ha obbedito agli ordini. È l’uomo che ha sempre obbedito, che non ha mai agito per conto suo. Ha eseguito ciò che altri avevano stabilito per lui. Fa quello che tutti fanno. È l’uomo che ha rinunciato a pensare, che ha delegato le sue responsabilità alla tv, ai sistemi, agli esperti. Ha appaltato il suo cervello ad altri. Non ha voluto faticare: si è adattato, omologato, ha seguito il pensiero dei più, quello comune, quello già digerito da altri. E adesso si rende conto di aver preso parte ad un dramma, ad una tragedia, di cui anche lui, senza saperlo, ne è stato la causa. “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”.

Vivere senza pensare, trascinati dagli altri, senza una propria consapevolezza, senza ragione critica, produce sempre nuove crocifissioni. Ognuno è responsabile della propria vita, delle proprie scelte, soprattutto del non aver scelto.

Vicino alla croce ci sono anche delle donne. È un caso che siano solo le donne a seguire Gesù? Dove sono gli uomini? Dove sono gli apostoli, i suoi fedeli amici? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli, siano donne? Forse è un messaggio forte per noi: perché è la donna, la parte femminile di ogni persona, che può cogliere la resurrezione: chi infatti non conosce sentimenti come la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun Gesù. Solo chi “dà” la vita, chi la conosce, chi la vive, chi la sente; solo chi conosce l’amore, chi prova nel cuore benevolenza e carità per gli altri, per i fratelli, solo costui potrà “vedere” il risorto, potrà constatare che la vita non ha fine, e che l’amore è più forte. L’amore non si arrende, l’amore non può cedere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce sempre l’eternità. L’amore si coniuga col “per sempre”. Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. È proprio per questo sperare al di là di ogni speranza; per questo credere al di là di ogni dubbio; per questo amare al di là della fine, che saranno proprio loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l’Amore è il più forte e vince tutto. È eterno. Amen.