giovedì 18 marzo 2021

21 Marzo 2021 – V Domenica di Quaresima

“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel compito misterioso della vita.

Giunto a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento critico della sua vita: deve decidere se tornare in Galilea o andare avanti fino in fondo. Finché predicava in quel territorio aveva avuto sempre compito facile con i suoi avversari: la Galilea era a nord, distava da Gerusalemme 15 giorni circa di cammino, e Lui sapeva che rimanendo lassù, la sua vita non sarebbe mai stata in serio pericolo.

Ora però, a Gerusalemme, le cose sono diverse: capisce che il suo momento è arrivato e deve decidere cosa scegliere: Galilea significa vivere, Gerusalemme, morire: il bivio è davanti a Lui: e Lui, con decisione, sceglie Gerusalemme, pur sapendo che continuare la sua missione nel Tempio, nella città “santa”, centro della religione e del potere, significa sottoscrivere la propria fine.

La vita pone ogni giorno anche noi davanti a delle scelte: prima o poi, inevitabilmente, come Gesù, dovremo affrontare scelte difficili, senza ritorno: scelte che non offrono alternative, che vanno fatte in quel momento. Sono situazioni importanti, in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita, a darle una forma, a modellarla.

A questo proposito c’è un termine che Giovanni ripete puntigliosamente in questo brano, che sicuramente ci offre la soluzione ottimale per attuare questa nostra scelta: è il verbo “doxàzo”, che letteralmente significa “glorificare, onorare, lodare”, rendere “doxa”, rendere “gloria”: solo che noi, quando parliamo di “gloria”, pensiamo immediatamente ai riconoscimenti mediatici dell’essere famosi, conosciuti, stimati, adulati, idolatrati; pensiamo ai divi della tv, ai campioni dello sport, ai grandi protagonisti della musica, della scienza, della letteratura

Per Giovanni invece, tributare “gloria”, “glorificare” significa “rendere evidente, visibile, trasparente” nella propria persona, nella propria vita, la presenza di Dio: questo infatti deve essere il motivo di fondo delle nostre scelte. È così, in questo senso, che Gesù glorifica il Padre: nessuno mai infatti più di Lui ha reso visibile la presenza di Dio nella propria persona: tutto il suo vivere, il suo agire, il suo morire, è avvenuto in perfetta simbiosi con il Padre; così, allo stesso modo, il Padre “glorifica” Gesù, rende cioè manifesto il legame indissolubile, divino, che lo lega al Figlio: lo fa con particolari “teofanie”, lo fa quando Gesù guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando dice le beatitudini.

Il culmine di questo glorificare, il momento in cui si rende visibile in maniera inequivocabile la presenza di Dio in Gesù, è tuttavia sulla croce: è sottomettendosi alla volontà del Padre, che il Figlio accetta di bere fino in fondo il calice sacrificale della sua morte; è nelle mani del Padre, che il Egli affida il suo spirito: un gesto di incalcolabile amore che li unisce indissolubilmente, un amore che dalla croce si riversa copioso sull’intera umanità.

“Se il chicco di grano (in ebraico bar), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.

Ora, la parola bar”, in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: quindi nel pronunciare queste parole, Gesù allude alla sua persona; Egli sa perfettamente che quel “chicco di grano”, quel “Figlio”, che doveva “morire” per portare “molto frutto”, era Lui, solo Lui! Riusciamo allora a capire meglio un Gesù che, giorno dopo giorno, accetta questa sua missione mortale, dolorosissima, inevitabile; è vero, in qualche momento anche Lui, apparentemente sfiduciato, viene assalito dall’angoscia, dallo sgomento: l’uomo Gesù, come tutti, odia la morte, non vorrebbe morire: “Padre mio se è possibile, passi da me questo calice”, ma non arriva mai a pensare, anche per un solo istante, di potersi sottrarre: “Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39).

Egli sa di essere la vittima di espiazione voluta dal Padre, Egli sa che la sua missione terrena è di riscattare sulla croce l’intera umanità, di ridarle l’originale dignità, lasciandole inoltre in eredità, come memoriale della sua offerta, il suo corpo e il suo sangue, nella sua materiale presenza Eucaristica, garanzia unica di vita immortale. Questo, e solo questo, l’ha portato a offrire sé stesso come offerta nel sacrificio perpetuo della croce.

Guardando quella croce, allora, come pure qualunque croce si stagli sul nostro cammino, non dobbiamo più temere di nulla: dobbiamo solo pensare alla “gloria” di Dio, alla sua presenza, a quanto Dio ci ha ama, a quanto suo Figlio ha sofferto per “glorificare” (= rendere visibile) il Padre, a come il Padre abbia “glorificato” il Figlio sul patibolo del Golgota, proprio perché Lui “glorificasse” (= si rendesse visibile) in tutti noi singolarmente: una realtà che ci deve assolutamente tranquillizzare, ci deve confortare, perché realmente ci “glorifica”, ci “dimostra” cioè che non siamo più soli, che Dio è con noi, che non saremo mai più abbandonati a noi stessi.

C’è un solo modo per assolvere il nostro debito di riconoscenza per tutto questo: “glorificare” Dio, fare cioè in modo che il “seme” dello Spirito che Dio ha immesso in noi, e il “seme” della sua Parola che dobbiamo accogliere e far “morire” in noi, diventino visibili, evidenti nella nostra vita, determinino la nostra crescita spirituale e umana, ci trasformino in testimoni viventi della presenza divina in noi.

È chiaro che per poter giungere a ciò, dobbiamo liberarci di molta zavorra: dobbiamo modificare le nostre priorità, avere il coraggio di fare i conti con la vita; dobbiamo cioè affrontare le contrarietà, le delusioni, le sofferenze, le sconfitte. Ma soprattutto dobbiamo far morire il nostro io interiore, il nostro narcisismo, il nostro egoismo: solo così lo Spirito ci trasformerà in Vita, e potremo “glorificare” Dio, testimoniando al mondo la sua presenza.

Allora potremo sentirci compiuti, allora potremo vedere che il seme di Vita che noi spargeremo, puntualmente rinascerà, crescerà, fiorirà negli altri, e potremo sentirci generatori di nuova Vita. Allora, e solo allora, potremo umilmente considerarci una piccola cellula, infinitesimale ma attiva, di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.

 


giovedì 11 marzo 2021

14 Marzo 2021 – IV Domenica di Quaresima

Gesù disse a Nicodemo: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,14-21).

 Il brano del vangelo di oggi, lezione di alta teologia, è inserito nel lungo colloquio intrattenuto da Gesù con un uomo di nome Nicodemo, un fariseo “capo dei Giudei”, personaggio importante dell’aristocrazia sacerdotale, profondo conoscitore della Bibbia, della religione: insomma un saggio del tempo, un maestro della Legge, un “pozzo di scienza”, diremmo noi oggi: un uomo però che in cuor suo sente la mancanza di “qualcosa”, percepisce che esiste qualcosa di più grande, di “oltre”, che supera i limiti del suo sapere.

Nicodemo è un uomo che non si accontenta, egli vuole capire, soprattutto vuole vivere questo “di più”. Per questo decide di incontrare Gesù. E Gesù gli fa una proposta nuova, imprevedibile, impensabile, umanamente inattuabile: gli dice sostanzialmente che deve “rinascere”; in pratica: “Quella che tu chiami vita, io la chiamo morte, un non-vivere. Se tu abbandoni questo tuo modo di vivere, di pensare, di rapportarti, io ti farò vedere cos’è la vita vera, quella eterna, quella che non finirà mai, quella che ti riempirà, ti sazierà, ti renderà veramente, perfettamente felice”.

Concetti difficilmente comprensibili per il povero Nicodemo: ma lo sono, anche e soprattutto, per noi, in questa società smaccatamente materialista: la richiesta di lasciare tutto, di abbandonare la realtà, il corporeo, il tangibile, il verificabile; di scegliere l’incorporeo, l’immateriale, il puramente spirituale, l’invisibile; di lasciare il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto, sono tutte categorie misteriose, che incutono timore, che ci lasciano profondamente perplessi: seguirle fidandosi ciecamente, rivoluzionando radicalmente l’esistenza, richiede una forza, una convinzione, una fede difficilmente riscontrabile ieri e ancor più oggi.

Ma Gesù era così, duemila anni fa, come nel presente. Gesù è un uomo che fa sempre proposte sconvolgenti, che va contro tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Egli è davvero affascinante, attraente, perché ci presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “ci manca il fiato” tanto è intenso. Gesù è per le anime grandi, mal si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: abbiamo a disposizione infiniti esempi nelle vite dei santi, degli apostoli, dei martiri.

Nessuno di noi ha scelto di entrare in questo mondo; il primo atto della nostra vita, le condizioni materiali in cui essa è avvenuta, non sono dipesi da noi, non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ci è stata donata una vita, è vero, ma non è questa la nostra vera vita.

La nostra vera esistenza coincide con la nostra “rinascita”: perché “rinascere” significa “scegliere di vivere”: non ci basta più che altri ci abbiano messi al mondo, ma siamo noi che ora, in questo mondo, “decidiamo di vivere” da protagonisti; significa: “Ci sono e voglio esserci”; vuol dire “partorirsi” nuovamente: la prima volta l’ha fatto nostra madre, ma questa volta vogliamo farlo noi; vogliamo esistere: “ex-sistere” ossia “venir fuori” “distinguersi”, emergere dalla massa, dal nulla, vuol dire acconsentire, “dire di sì” al fatto che ci siamo, sviluppare le nostre risorse; potenziare la nostra energia, lasciare un segno in questo mondo; essere felici e vivere in maniera appassionata.

A questo punto soltanto noi siamo responsabili delle nostre scelte; solo noi decidiamo come vivere la nostra missione, il nostro progetto di vita. La nascita, la vita, non sono altro che creta nelle nostre mani: tocca a noi modellarla, ricavarne un’opera d’arte o ridurla ad un ammasso informe. Realizzare l’opera meravigliosa che ci è stata commissionata da Dio, non compete a nessun altro se non a noi: solo noi, dentro di noi, possiamo pianificarne i tratti caratteristici: la felicità, l’amore, la fiducia, le cose grandi della vita, non appartengono infatti al caso, alla fortuna; ma sono una ricchezza che solo noi possiamo ottenere, vivendo in un certo modo, seguendo le direttive del Progettista, in contatto stretto e continuo con l’Avvocato, il Consigliere che è in noi, ispirandoci all’Amore, traendo dalla Vita forza e sostentamento.

Tutti dicono di vivere: ma la loro non è vita, è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito, i rinati “dall’alto” vivono realmente: perché lo fanno in una prospettiva spirituale, immortale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito.

Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità di questo mondo; rischiamo di vivere unicamente per il denaro, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento: rischiamo cioè di trasformare tutte queste “suppellettili coreografiche” in colonne portanti della vita, di renderle nostro unico scopo di vita.

Non dobbiamo mai dimenticare chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall’Alto) e dove andiamo (nell’Amore di Dio): Dio non ci ha affidato al caso, non ci ha mandati allo sbaraglio, ma ci ha assegnato un compito ben preciso, specifico.

Controlliamo ogni tanto il nostro work in progress, il nostro lavoro in corso d’opera, esaminiamo attentamente se la nostra vita si discosta dal progetto divino.

Chi crede in lui non è condannato”, ci ricorda Giovanni: dove “credere” per lui significa “fare luce”, “portare luce” là dove regnano le tenebre, dove il peccato domina, dove esistono situazioni che odiano la “Luce”. Chi rifiuta la verità, chi non accetta di conoscere sé stesso, chi non vuole vivere la Vita, praticamente rifiuta la Luce, si condanna da solo.

Distogliamo allora il nostro sguardo da terra; alziamo finalmente gli occhi al cielo: purtroppo noi abbiamo lo sguardo puntato continuamente sul basso, non ci accordiamo della realtà meravigliosa che ci circonda; abbiamo una visione delle situazioni, bassa, ristretta, limitata, terrena, superficiale. Siamo talmente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri piccoli fastidi personali, che non sappiamo far altro che girare a vuoto intorno a noi stessi.

Guardiamo in alto, invece! Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, che telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…), non angosciamoci per simili stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per simili cose? Guardiamo lassù.

Soprattutto quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, disperati, finiti, quando tutto intorno a noi sembra precipitare nel baratro di una vita traditrice, alziamo gli occhi, guardiamo in alto!

Rivolgiamoci con fiducia a Gesù, che dall’alto della croce, ci consola, ci assicura la sua protezione, il suo amore; fissiamo il nostro sguardo su quel cuore pieno di misericordia e di bontà, che continua a sanguinare per causa nostra; soprattutto abbandoniamoci al suo amore: buttiamoci tra le braccia torturate, ma sempre spalancate, paterne e accoglienti, della Vita e dell’Amore: é questo il nostro unico rifugio sicuro; è questa l’unica possibilità che abbiamo per difenderci dai morsi velenosi e mortali dell’antico serpente. Amen.

 

giovedì 4 marzo 2021

7 Marzo 2021 – III Domenica di Quaresima

“Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi…” (Gv 2,13-25).

 Siamo in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza, in occasione della quale tutti si recano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in quei giorni che, in quel luogo, c’è una eccezionale affluenza di persone, e di conseguenza, anche una maggior concentrazione di attività commerciali. Il pio ebreo, come pure i commercianti, sanno bene che per tale occasione la legge prescrive di presentarsi davanti a Dio grande e onnipotente, offrendogli in sacrificio animali, oggetti preziosi, denaro, in segno di amore e di gratitudine.

La grande confusione di persone, animali, venditori, banchi, merce, che regna fuori e dentro il tempio, è quindi normale, ovvia. Come ovvia è anche la presenza dei “cambiavalute”: gli Ebrei che vengono da lontano, disponendo di monete romane con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, devono necessariamente cambiarle con le monete ebraiche, perché solo con queste è possibile versare alle autorità del Tempio la tassa di ingresso in denaro. Uno stratagemma che assicura ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro, trasformando addirittura il tempio in una specie di banca, nel posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, tanto da far pensare che nel tempio, non si adora più Jahweh, il Dio di Israele, ma il Dio denaro, Mammona, il Dio ricchezza.

Gesù, dunque, giunto anch’egli a Gerusalemme, sale al Tempio e improvvisamente si trova di fronte al baccano di questa enorme folla di pellegrini e venditori, impegnati i primi a contrattare la merce, i secondi a richiamare urlando la loro attenzione: pertanto non all’ingresso del Tempio di Dio, ma nel bel mezzo di un mercato affollato.

Di fronte a ciò cosa fa Gesù? Si prepara una “frusta di cordicelle”, e con quella inizia a percuotere quanti stazionano alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, e incalzandoli, rovescia i banchi con la loro mercanzia, cacciandoli tutti via!

Un vangelo singolare, molto forte quello di oggi: anche perché, leggendo attentamente tra le righe, possiamo cogliere un significato ben più profondo, nel comportamento di Gesù, del voler “ripulire” soltanto l’area del Tempio da gente indegna: possiamo infatti vedere in prospettiva l’eliminazione, la distruzione finale del tempio di Gerusalemme, peraltro apertamente confermata con le parole: “Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata” (Mc 13,2). In altre parole Gesù annulla non solo “quel” tipo di tempio, con la sua ritualità, con la mentalità che lo anima, ma introduce una nuova concezione di “tempio”, un tempio più stabile e prezioso di quello in pietra, un tempio nuovo che, di fronte al tentativo dei giudei di distruggerlo, lui garantiva “in tre giorni lo farò risorgere”: e Giovanni si premura di precisare: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21).

Con questo tempio indistruttibile, anche il modo di rapportarsi con Dio viene completamente rinnovato, sostituito; Gesù infatti introduce una nuova immagine di Dio, un Dio fino ad allora sconosciuto a tutti: un Dio che non gradisce, né tantomeno pretende dall’uomo, “offerte” e sacrifici “cruenti”, materiali; un Dio che, cosa fino ad allora impensabile e improponibile, diventa lui stesso “offerta e sacrificio” per l’uomo: da quel momento infatti, non è più l'uomo che si priva del pane, che se lo toglie di bocca, per poter compiere il suo sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si fa “pane”, diventa “nutrimento” per l'uomo.

Il Dio di Gesù, quindi, mette la parola fine al tempo della paura, delle imposizioni divine, al rapporto “servile” con un Dio Padrone, caratterizzato da una intransigente severità e regolamentato da rigide prescrizioni di legge: Dio non vuole più essere “servito” in questo modo: al contrario sarà Lui stesso, per primo, a servire e ad amare l'uomo.

Già per bocca dei profeti, Dio aveva espresso tutta la sua contrarietà per il genere di offerte e sacrifici in atto: “Sono sazio dei vostri olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli; smettete di portare offerte inutili (Is 1,11-13); e decretava: “Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6).

Gesù stesso, nel suo vangelo, se la prende con l’esteriorità e l’esibizionismo delle elemosine, con la legge puntigliosa del sabato, con le riunioni in suo nome fatte senza convinzione, con le liturgie vuote e vanesie. Dio insomma non sopporta queste cose, non le gradisce, non vuole più cose materiali: “Misericordia io voglio e non sacrificio(Mt 9,13; 12,7).

Del resto, che senso avrebbe mantenere la ritualità del tempio, un manufatto in pietra destinato a scomparire, quando Cristo stesso si è fatto autentico, unico santuario di Dio? “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).

Sono parole chiare, determinanti, con cui Gesù stabilisce in via definitiva l’unico modo con cui adorare Dio. Dio è Spirito, è presente ovunque: per pregarlo, lodarlo, entrare in comunione con Lui, è sufficiente che il nostro “spirito”, la nostra anima, comunichi, interagisca con Lui, non importa dove ci troviamo. Per entrare in contatto con Dio non serve un luogo materiale, un tempio adeguato.

Ovviamente un discorso a parte va fatto per gli attuali “spazi liturgici” (le nostre chiese), introdotti dai cristiani nei primi secoli come particolari e insostituibili luoghi d’incontro tra Dio e il suo popolo: è in questi spazi, infatti, che noi, diventati nuove creature con il battesimo, celebriamo sacramentalmente quel sacrificio Eucaristico (la santa Messa), che è “memoriale” della Pasqua di Cristo, sacrificio perfetto che Egli, presente in mezzo a noi sua Chiesa, “ri-presenta” al Padre, associando al suo anche il sacrificio di tutti noi, membra del suo corpo mistico: un sacrificio grazie al quale la nostra lode, la nostra vita, le nostre sofferenze, le nostre preghiere, acquistano un valore completamente nuovo, anche in prospettiva della nostra finale giustificazione.

Anche in tal caso, però, possiamo frequentare le più belle chiese, le più solenni Eucaristie, ma se in esse non partecipiamo attivamente e consapevolmente, se non uniamo a Dio il nostro spirito, la nostra anima, se non entriamo in sintonia con Lui; se non condividiamo quell’agàpe, quell’amore profondo e vitale per Lui e per i fratelli, il nostro sacrificio, la nostra liturgia, la nostra preghiera, la nostra lode a Dio, rimarranno sempre un culto puramente esteriore, inanimato, sterile.

Certo, osservando la scarsa affluenza domenicale nelle nostre chiese, viene spontaneo chiederci quanti cristiani sentano ancora il bisogno di frequentarle: solo che più di preoccuparci per il numero delle presenze, dovremmo chiederci: “Quelli che frequentano regolarmente le nostre liturgie, le nostre messe, riescono veramente a fare una personale esperienza dell’amore di Dio? Escono dalla chiesa provando la pace della sua “benedizione”, la serenità del suo “perdono”, la forza della sua “presenza”? Si sentono veramente, nel profondo del loro cuore, rinfrancati, toccati, guariti, conquistati, dall'amore di Dio? Escono insomma veramente convinti di poter dare una testimonianza più credibile della loro fede, della loro carità, dell’amore a quel Dio, sempre presente nel loro cuore?”.

In questa quaresima di conversione armiamoci allora di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte quelle icone squallide che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo questo nostro tempio: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore, restituendogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, per poter rivivere con maggior partecipazione e interiore dignità, il nostro “culto” sacrificale per eccellenza, la nostra “Messa”, la nostra Pasqua settimanale. Perché solo così potremo tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore gratuito e incondizionato di Dio. Amen.

 

giovedì 25 febbraio 2021

28 Febbraio 2021 – II Domenica di Quaresima


“E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…” (Mc 9,2-10).

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.

Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?

La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora pratichiamo l’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere.

Trasfigurazione: è dunque ciò che possiamo anticipare oggi con l’amore; perché solo chi ama sinceramente, chi è perdutamente innamorato, può cogliere i particolari più belli, più intimi, più commoventi, della vita: come guardare il sole che si specchia sul volto radioso della persona amata, ammirare l’innocenza negli occhi spalancati di un bambino, apprezzare la vera saggezza attraverso le rughe di un vecchio, commuoversi di fronte ad un volto segnato dal dolore per la perdita di una persona cara, rimanere estasiati ammirando la muta grandiosità di un cielo stellato o il sorgere del sole dalle acque immobili del mare: sono momenti rari, magici, che trasmettono sensazioni così profonde, commozioni così intense, da non riuscire talvolta a nascondere le lacrime.

Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo amorfo. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.

La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere; momenti in cui ci sentiamo “speciali”, in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza e il coraggio di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.

Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché davanti a noi si ergono tanti Tabor di mistica salvezza: dobbiamo permettere alla Luce, all’Amore di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la Vita ci immerga, che viva in noi, che ci faccia sussultare, muovere, rinascere continuamente.

“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”, e anche “principio di luce”. Bene: la nostra trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che avvizziscono la vita. Se in questi giorni di quaresima non approfittiamo di recidere energicamente i nostri legami col male, convinti che tutto sommato la nostra vita non è poi così malvagia e che potremo comunque migliorarla quando decideremo di cambiare abitudini e stile, siamo soltanto dei poveri illusi; soprattutto non arriveremo mai ad avere una vita “trasfigurata”. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, non permettiamo a zavorre pericolose di rallentarci, di ostacolarci: il nostro taglio deve essere netto, deciso, definitivo.

Solo il cordone ombelicale che ci lega a Dio non va mai reciso; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo costantemente, con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significa al contrario lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare l’amore nel nostro cuore. Un canale che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, senza mai correre il pericolo di perderci nel vuoto”. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché abbiamo Dio-Amore che abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.

Ma anche allora, siamo del tutto sinceri? Per noi è veramente bello stare con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra casa, oppure in Chiesa, nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro è solo l’entusiasmo stanco di chi si trascina dietro abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per darci delle risposte sincere, per dedicare più tempo a Dio, per rimettere la nostra vita in perfetta sintonia con Lui.

Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire.

Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel disinteresse più totale; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orrende sono le nostre città, orrende sono le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono i nuovi stili di vita.

È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci a impersonare freddi, ottusi e infelici pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Amen.

  

giovedì 18 febbraio 2021

21 Febbraio 2021 – I Domenica di Quaresima

“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12-15).

 È la prima domenica di quaresima. La Parola ci riporta oggi al primo capitolo del vangelo di Marco, che nel suo stile stringato ed essenziale, in tre versetti liquida l’esperienza di Gesù nel deserto. Subito dopo la teofania del battesimo in cui la voce del Padre lo riconosce come Figlio amato, Gesù deve affrontare un altro evento, completamente diverso: lo stesso Spirito di Dio lo spinge nel deserto: cioè quel Dio che nella teofania battesimale lo qualificava come “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti, di privazioni, dimora dei demoni e del male.

“Com’è possibile?” ci chiediamo: “come può un Padre dimostrarsi così insensibile, incoerente, nel mandare il figlio amato in un luogo tanto pericoloso, arido, inospitale, come il deserto”?

Ovviamente, se pensiamo in questo modo, dimostriamo di non aver capito nulla di Dio; soprattutto di non aver capito nulla della missione salvatrice di Gesù.

Noi, purtroppo, con i nostri paraocchi, siamo abituati a ragionare solo in un certo modo: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un suo regalo; se, al contrario, una cosa è brutta, ostica, dolorosa, difficile, allora non è Dio che ce la manda, ma è satana, è un castigo, permesso sì da Dio, ma causato direttamente dal diavolo, dalle forze del male.

Solo che in questo caso non abbiamo capito che “il deserto” non è un fatto negativo. I due momenti che vedono protagonista lo Spirito di Dio, sono infatti strettamente correlati, e si inseriscono perfettamente nel progetto divino della redenzione umana attraverso l’incarnazione di Gesù: riconosciuto “figlio di Dio” nel battesimo, Egli avrebbe potuto appellarsi alla sua natura divina, rifiutando di misurarsi col male; al contrario, rimane coerente alla sua realtà di uomo: accetta cioè di vivere fino in fondo questa vita umana con le sue prove, talvolta anche difficili e dolorose, ma tutte con una prospettiva altamente positiva e meritoria: perché nel deserto, luogo della prova e della fedeltà di Gesù alla sua missione, Egli propone all’umanità una via, un comportamento indispensabile ad ogni singolo uomo per amministrare correttamente quella sua vita, meraviglioso dono di Dio.

Un dono, la vita, che non è un regalo già pronto, finito, incartato e infiocchettato: ma, come una pianta, va coltivata, cresciuta, seguita, trattata con cura; è come un compito da svolgere, un quadro da dipingere, un manufatto da costruire in tutta la sua bellezza.

Dio ci affida questa minuscola parte del suo universale “progetto” di vita, questa piccola tessera che noi dobbiamo “elaborare, perfezionare” per poterla reinserire al suo posto nel maestoso mosaico dell’intera creazione.

È una grande responsabilità, che richiede lavoro, applicazione, volontà, coraggio. Le contrarietà sono all’ordine del giorno, dobbiamo superarle: ma troppo spesso noi preferiamo abbandonare il compito assegnatoci da Dio, senza combattere, senza lottare, dimostrando di non aver capito nulla del suo progetto; perché Lui si aspetta da noi un comportamento positivo, vuole che vinciamo i nostri demoni, le tentazioni del male: ci vuole vincenti, vuole che il nostro impegno, i nostri progressi, risplendano preziosi agli occhi del Padre.

Purtroppo le contrarietà, il dolore, le difficoltà, le tentazioni che incontriamo nella vita, non sono delle pietre che Dio semina sul nostro cammino per farci inciampare, per farci cadere, come se lui si divertisse in questo. Lui non ama la nostra sofferenza: lui ama noi e vuole che siamo sempre felici. Sono invece parte integrante della vita umana, come ci insegna oggi Gesù stesso, che da uomo le ha affrontate.

Lui ha vissuto tutto ciò nella sua vita umana, senza appellarsi mai, pur potendolo, alla sua natura divina!

Rileggiamolo allora quel versetto che inizialmente ci aveva scandalizzato: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche…”.  

Il “deserto”, quindi, non è stata una “cattiveria” del Padre, ma è stata la “fedeltà”, la coerenza di Dio Figlio che, assumendo le nostre sembianze umane, ha accettato di farsi carico anche delle relative debolezze, comprese perfino le tentazioni di satana: e tutto questo, per diventare, come dice Clemente Alessandrino, nostro “pedagogo”, nostro “maestro”, nostra guida: per insegnarci cioè come dobbiamo comportarci nella nostra vita.

È quindi Dio, è la Vita stessa, che ci chiedono una gestione responsabile dei nostri progetti: per questo motivo lo Spirito spinge anche noi nel “deserto”, luogo difficile, impegnativo; luogo che ci ricorda i quarant’anni di faticose esperienze, vissute dal popolo ebraico, per poter raggiungere la terra promessa; luogo, il deserto, che ci fa capire come, per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di assoluto, dobbiamo prevedere un tempo di prove, di preghiera, di assiduo lavoro, di solitudine interiore.

Ebbene: la Quaresima rappresenta questo nostro passaggio nel deserto; è il tempo in cui siamo particolarmente chiamati a crescere, a prendere decisioni risolutive, a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo maturare? Cosa debbo lasciare e cosa riprendere?”.  

La quaresima è il tempo in cui anche noi dobbiamo lasciare l’Egitto, terra di schiavitù, per andare verso la terra promessa, terra di libertà.

Un passaggio che va fatto necessariamente nel deserto: perché è lì che dobbiamo spogliarci di noi stessi, vederci per quello che siamo realmente; è lì che dobbiamo affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne, per diventare esperti camminatori sulla strada che conduce a Dio. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare e concludere. È un’esperienza ineludibile. È il nostro “esodo”: dalla negligenza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida e indolente quotidianità.

Fintanto che il tempo della vita ci scivola via, calmo e silenzioso, noi stiamo bene nel nostro guscio autoreferenziale, tutto funziona, siamo soddisfatti, non ci sono problemi di sorta. Improvvisamente però, quando le cose cambiano, il meccanismo si inceppa, il rapporto con noi stessi si incrina. Non ci accontentiamo più di quel che facciamo; non ci basta, cominciamo a pretendere di più; ci sentiamo soffocare, siamo insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene, ora non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide si impongono.

È normale: siamo arrivati ai margini del nostro “deserto”: che fare? Dobbiamo affrontarlo: non è un percorso facile, non è una passeggiata: il deserto abbonda sempre di pericoli, insidie, ostacoli, tentazioni: sono gli “stop” inevitabili della vita, quelli che ci mettono in crisi, quelli che ci fanno vivere male interiormente, che sono una sofferenza spirituale: un’esperienza sicuramente dolorosa e negativa, ma che, se affrontata correttamente, ci porterà un risultato vincente, costruttivo. Dopo infatti aver operato il nostro “reset” interiore, ci scopriremo più profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più capaci di amare, più maturi, più liberi.

Dio dice al popolo ebreo: “Ti ho fatto camminare nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i miei comandi” (Dt 8,2). Soltanto il deserto, infatti, può mostrare anche a noi cosa abbiamo dentro, solo il deserto può toglierci le illusioni costruite negli anni, le incrostazioni, le nostre maschere; solo il deserto può spogliarci, riportarci all’essenziale, all’originale, alla nostra candida e innocente nudità.

Perché il deserto è proprio così: è “tentazione”, è “peirasmòs”, vale a dire controllo, prova, verifica”.

Lo eviteremmo molto volentieri; lo vediamo come “zona di pericolo”, zona infestata dai demoni, da tutte quelle voci insidiose che ci demoliscono, ci scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; ti sei lasciato andare; sei un’incapace!”. Chi vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio rientrare nel mondo, stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere insensate, con rumori assordanti, con vuoti divertimenti, annegarle definitivamente nelle mille attrazioni inutili: e quanti cristiani oggi lo fanno!

Ma questa è la nostra vita. Le esperienze positive, piacevoli, ce la rendono certamente bella, pienamente godibile; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci trasformano. È incontrando e vincendo i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli. Non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di non poter far nulla, di essere vittima prescelta dei demoni, di ottenere dalla vita solo schifezze, disordini, difficoltà, problemi, confusioni. Non attacchiamoci a questo pretesto, non rinunciamo a combattere, non “tiriamo avanti” carponi, ma rialziamoci sempre vincitori.

Soprattutto perché lo dobbiamo a Dio, che pazientemente e con amore abita in noi: non dimentichiamolo mai.

Mercoledì scorso il sacerdote ci ha imposto la cenere sul capo: non è stato così, per gioco, ma per ricordarci quanto siamo deboli e provvisori: è stata l’occasione per un bagno di umiltà.

Ebbene, con questa stessa umiltà, nel nostro deserto quaresimale, riconosciamo davanti a Dio la nostra debolezza, ammettiamo le nostre infedeltà, chiediamo la sua costante e misericordiosa protezione. Soprattutto non dimentichiamo mai a chi apparteniamo, da dove proveniamo, dove siamo diretti, di quale dignità siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Buona quaresima! Amen.

 

giovedì 11 febbraio 2021

14 Febbraio 2021 – VI Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!” (Mc 1,40-45).

 Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso.

Difficilmente, noi oggi, riusciamo a capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.

Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.

Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.

Gesù dunque, di fronte a quest’uomo psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica un amore tipicamente al femminile: quell’amore che una madre prova per il suo neonato, un amore viscerale, un insieme di amore, misericordia, compassione, tenerezza, dolcezza.

Gesù lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.

E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.

Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.

Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce del vangelo: che fare allora?

Come il lebbroso del vangelo: buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.

Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: il pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, dopo aver coraggiosamente raggiunto Gesù, rimane sconcertato, sbalordito: il Maestro, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile, che suscita in lui una nuova, fortissima voglia di vivere: “Allora non sono così ripugnante, anch’io posso essere amato, anch’io posso vivere!”.

Ma subito dopo, consapevole della propria situazione, si ritrae da quell’abbraccio: “No, non farlo; sono un peccatore, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non temo la tua malattia!”. E trattenendolo con le braccia, gli dice: Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo infatti il significato del verbo greco “katharìzo” usato da Gesù, che significa appunto tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato primitivo”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine originale di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alienato, distrutto.

“Guarisci!”: ci ordina con voce chiara Gesù dentro di noi; “torna all’origine”: che significa “ripristina in te la somiglianza divina, mediante una radicale conversione della tua vita.

Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: ignoriamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo la nostra originale “forma” divina; ci lasciamo piuttosto impunemente “trasformare”, “sformare”, “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.

Ma la vita non ci appartiene: se infatti qualche funesto evento viene ad interrompere questa nostra tragica allucinazione, se improvvisamente tutto il nostro fatuo e posticcio scenario ci crolla addosso, e tra le sue macerie sentiamo la necessità dell’immediato intervento di Dio, ebbene: in quel preciso istante la nostra presunzione, la nostra tanto agognata “trasformazione”, ci apparirà nella sua squallida realtà: una inguardabile “deformazione” spirituale. E nello sconforto, una domanda ci assalirà: “Come ho fatto a ridurmi così?”. E ci vedremo nella cruda realtà: impresentabili, colpevoli, falsi, indegni, inadeguati.

Se però avremo l'umiltà di abbassare lo sguardo fin nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo scorgere, anche nel buio più totale, un piccolo spiraglio, una minuscola zona di luce, che pur trascurata, abbandonata, oltraggiata, è rimasta integra, intatta. 

È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito di Dio, il sigillo del suo amore divino impresso in noi; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.

È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.

“Sii purificato!”: e per questo Gesù si aspetta da noi che andiamo da Lui, e, buttandoci in ginocchio, ripristiniamo il contatto con Lui, nostra Sorgente di Luce.

È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.

 

giovedì 4 febbraio 2021

7 Febbraio 2021 – V Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1,29-39).

 Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.

Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.

Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.

Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.

Sappiamo dalla presenza di questa “suocera”, che Simone è sposato, che ha una famiglia, e che possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che l’attività del capo famiglia è la pesca, alla quale si dedica nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, attrezzatura e lavoro.

E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresenta pertanto il loro unico sostentamento.

C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssousa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di rancore, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.

Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.

Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.

“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si toglie cioè dalla sua paura, dal suo totale disappunto, dalle sue preoccupazioni per ciò che le sta accadendo.

“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si adegua. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.

Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il vangelo dice addirittura che “si mise servirli”.

Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: l’odio si tramuta in umile servizio, il rancore in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo più lontano possibile si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.

Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.

Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.

Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno.

Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.

“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!

Oggi invece sembrano spariti: la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste. Possiamo stare tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!

Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, eccome!

Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.

Un esempio pratico? “Demoni” sono tutte le accattivanti lusinghe del male, le luci scintillanti del peccato che accecano la ragione. Noi pure possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.

Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.

Non è infatti comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che noi possiamo vincere i nostri demoni! Amen.