giovedì 25 febbraio 2021

28 Febbraio 2021 – II Domenica di Quaresima


“E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…” (Mc 9,2-10).

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.

Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?

La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora pratichiamo l’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere.

Trasfigurazione: è dunque ciò che possiamo anticipare oggi con l’amore; perché solo chi ama sinceramente, chi è perdutamente innamorato, può cogliere i particolari più belli, più intimi, più commoventi, della vita: come guardare il sole che si specchia sul volto radioso della persona amata, ammirare l’innocenza negli occhi spalancati di un bambino, apprezzare la vera saggezza attraverso le rughe di un vecchio, commuoversi di fronte ad un volto segnato dal dolore per la perdita di una persona cara, rimanere estasiati ammirando la muta grandiosità di un cielo stellato o il sorgere del sole dalle acque immobili del mare: sono momenti rari, magici, che trasmettono sensazioni così profonde, commozioni così intense, da non riuscire talvolta a nascondere le lacrime.

Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo amorfo. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.

La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere; momenti in cui ci sentiamo “speciali”, in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza e il coraggio di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.

Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché davanti a noi si ergono tanti Tabor di mistica salvezza: dobbiamo permettere alla Luce, all’Amore di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la Vita ci immerga, che viva in noi, che ci faccia sussultare, muovere, rinascere continuamente.

“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”, e anche “principio di luce”. Bene: la nostra trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che avvizziscono la vita. Se in questi giorni di quaresima non approfittiamo di recidere energicamente i nostri legami col male, convinti che tutto sommato la nostra vita non è poi così malvagia e che potremo comunque migliorarla quando decideremo di cambiare abitudini e stile, siamo soltanto dei poveri illusi; soprattutto non arriveremo mai ad avere una vita “trasfigurata”. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, non permettiamo a zavorre pericolose di rallentarci, di ostacolarci: il nostro taglio deve essere netto, deciso, definitivo.

Solo il cordone ombelicale che ci lega a Dio non va mai reciso; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo costantemente, con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significa al contrario lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare l’amore nel nostro cuore. Un canale che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, senza mai correre il pericolo di perderci nel vuoto”. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché abbiamo Dio-Amore che abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.

Ma anche allora, siamo del tutto sinceri? Per noi è veramente bello stare con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra casa, oppure in Chiesa, nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro è solo l’entusiasmo stanco di chi si trascina dietro abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per darci delle risposte sincere, per dedicare più tempo a Dio, per rimettere la nostra vita in perfetta sintonia con Lui.

Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire.

Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel disinteresse più totale; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orrende sono le nostre città, orrende sono le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono i nuovi stili di vita.

È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci a impersonare freddi, ottusi e infelici pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Amen.

  

giovedì 18 febbraio 2021

21 Febbraio 2021 – I Domenica di Quaresima

“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12-15).

 È la prima domenica di quaresima. La Parola ci riporta oggi al primo capitolo del vangelo di Marco, che nel suo stile stringato ed essenziale, in tre versetti liquida l’esperienza di Gesù nel deserto. Subito dopo la teofania del battesimo in cui la voce del Padre lo riconosce come Figlio amato, Gesù deve affrontare un altro evento, completamente diverso: lo stesso Spirito di Dio lo spinge nel deserto: cioè quel Dio che nella teofania battesimale lo qualificava come “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti, di privazioni, dimora dei demoni e del male.

“Com’è possibile?” ci chiediamo: “come può un Padre dimostrarsi così insensibile, incoerente, nel mandare il figlio amato in un luogo tanto pericoloso, arido, inospitale, come il deserto”?

Ovviamente, se pensiamo in questo modo, dimostriamo di non aver capito nulla di Dio; soprattutto di non aver capito nulla della missione salvatrice di Gesù.

Noi, purtroppo, con i nostri paraocchi, siamo abituati a ragionare solo in un certo modo: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un suo regalo; se, al contrario, una cosa è brutta, ostica, dolorosa, difficile, allora non è Dio che ce la manda, ma è satana, è un castigo, permesso sì da Dio, ma causato direttamente dal diavolo, dalle forze del male.

Solo che in questo caso non abbiamo capito che “il deserto” non è un fatto negativo. I due momenti che vedono protagonista lo Spirito di Dio, sono infatti strettamente correlati, e si inseriscono perfettamente nel progetto divino della redenzione umana attraverso l’incarnazione di Gesù: riconosciuto “figlio di Dio” nel battesimo, Egli avrebbe potuto appellarsi alla sua natura divina, rifiutando di misurarsi col male; al contrario, rimane coerente alla sua realtà di uomo: accetta cioè di vivere fino in fondo questa vita umana con le sue prove, talvolta anche difficili e dolorose, ma tutte con una prospettiva altamente positiva e meritoria: perché nel deserto, luogo della prova e della fedeltà di Gesù alla sua missione, Egli propone all’umanità una via, un comportamento indispensabile ad ogni singolo uomo per amministrare correttamente quella sua vita, meraviglioso dono di Dio.

Un dono, la vita, che non è un regalo già pronto, finito, incartato e infiocchettato: ma, come una pianta, va coltivata, cresciuta, seguita, trattata con cura; è come un compito da svolgere, un quadro da dipingere, un manufatto da costruire in tutta la sua bellezza.

Dio ci affida questa minuscola parte del suo universale “progetto” di vita, questa piccola tessera che noi dobbiamo “elaborare, perfezionare” per poterla reinserire al suo posto nel maestoso mosaico dell’intera creazione.

È una grande responsabilità, che richiede lavoro, applicazione, volontà, coraggio. Le contrarietà sono all’ordine del giorno, dobbiamo superarle: ma troppo spesso noi preferiamo abbandonare il compito assegnatoci da Dio, senza combattere, senza lottare, dimostrando di non aver capito nulla del suo progetto; perché Lui si aspetta da noi un comportamento positivo, vuole che vinciamo i nostri demoni, le tentazioni del male: ci vuole vincenti, vuole che il nostro impegno, i nostri progressi, risplendano preziosi agli occhi del Padre.

Purtroppo le contrarietà, il dolore, le difficoltà, le tentazioni che incontriamo nella vita, non sono delle pietre che Dio semina sul nostro cammino per farci inciampare, per farci cadere, come se lui si divertisse in questo. Lui non ama la nostra sofferenza: lui ama noi e vuole che siamo sempre felici. Sono invece parte integrante della vita umana, come ci insegna oggi Gesù stesso, che da uomo le ha affrontate.

Lui ha vissuto tutto ciò nella sua vita umana, senza appellarsi mai, pur potendolo, alla sua natura divina!

Rileggiamolo allora quel versetto che inizialmente ci aveva scandalizzato: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche…”.  

Il “deserto”, quindi, non è stata una “cattiveria” del Padre, ma è stata la “fedeltà”, la coerenza di Dio Figlio che, assumendo le nostre sembianze umane, ha accettato di farsi carico anche delle relative debolezze, comprese perfino le tentazioni di satana: e tutto questo, per diventare, come dice Clemente Alessandrino, nostro “pedagogo”, nostro “maestro”, nostra guida: per insegnarci cioè come dobbiamo comportarci nella nostra vita.

È quindi Dio, è la Vita stessa, che ci chiedono una gestione responsabile dei nostri progetti: per questo motivo lo Spirito spinge anche noi nel “deserto”, luogo difficile, impegnativo; luogo che ci ricorda i quarant’anni di faticose esperienze, vissute dal popolo ebraico, per poter raggiungere la terra promessa; luogo, il deserto, che ci fa capire come, per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di assoluto, dobbiamo prevedere un tempo di prove, di preghiera, di assiduo lavoro, di solitudine interiore.

Ebbene: la Quaresima rappresenta questo nostro passaggio nel deserto; è il tempo in cui siamo particolarmente chiamati a crescere, a prendere decisioni risolutive, a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo maturare? Cosa debbo lasciare e cosa riprendere?”.  

La quaresima è il tempo in cui anche noi dobbiamo lasciare l’Egitto, terra di schiavitù, per andare verso la terra promessa, terra di libertà.

Un passaggio che va fatto necessariamente nel deserto: perché è lì che dobbiamo spogliarci di noi stessi, vederci per quello che siamo realmente; è lì che dobbiamo affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne, per diventare esperti camminatori sulla strada che conduce a Dio. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare e concludere. È un’esperienza ineludibile. È il nostro “esodo”: dalla negligenza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida e indolente quotidianità.

Fintanto che il tempo della vita ci scivola via, calmo e silenzioso, noi stiamo bene nel nostro guscio autoreferenziale, tutto funziona, siamo soddisfatti, non ci sono problemi di sorta. Improvvisamente però, quando le cose cambiano, il meccanismo si inceppa, il rapporto con noi stessi si incrina. Non ci accontentiamo più di quel che facciamo; non ci basta, cominciamo a pretendere di più; ci sentiamo soffocare, siamo insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene, ora non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide si impongono.

È normale: siamo arrivati ai margini del nostro “deserto”: che fare? Dobbiamo affrontarlo: non è un percorso facile, non è una passeggiata: il deserto abbonda sempre di pericoli, insidie, ostacoli, tentazioni: sono gli “stop” inevitabili della vita, quelli che ci mettono in crisi, quelli che ci fanno vivere male interiormente, che sono una sofferenza spirituale: un’esperienza sicuramente dolorosa e negativa, ma che, se affrontata correttamente, ci porterà un risultato vincente, costruttivo. Dopo infatti aver operato il nostro “reset” interiore, ci scopriremo più profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più capaci di amare, più maturi, più liberi.

Dio dice al popolo ebreo: “Ti ho fatto camminare nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i miei comandi” (Dt 8,2). Soltanto il deserto, infatti, può mostrare anche a noi cosa abbiamo dentro, solo il deserto può toglierci le illusioni costruite negli anni, le incrostazioni, le nostre maschere; solo il deserto può spogliarci, riportarci all’essenziale, all’originale, alla nostra candida e innocente nudità.

Perché il deserto è proprio così: è “tentazione”, è “peirasmòs”, vale a dire controllo, prova, verifica”.

Lo eviteremmo molto volentieri; lo vediamo come “zona di pericolo”, zona infestata dai demoni, da tutte quelle voci insidiose che ci demoliscono, ci scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; ti sei lasciato andare; sei un’incapace!”. Chi vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio rientrare nel mondo, stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere insensate, con rumori assordanti, con vuoti divertimenti, annegarle definitivamente nelle mille attrazioni inutili: e quanti cristiani oggi lo fanno!

Ma questa è la nostra vita. Le esperienze positive, piacevoli, ce la rendono certamente bella, pienamente godibile; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci trasformano. È incontrando e vincendo i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli. Non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di non poter far nulla, di essere vittima prescelta dei demoni, di ottenere dalla vita solo schifezze, disordini, difficoltà, problemi, confusioni. Non attacchiamoci a questo pretesto, non rinunciamo a combattere, non “tiriamo avanti” carponi, ma rialziamoci sempre vincitori.

Soprattutto perché lo dobbiamo a Dio, che pazientemente e con amore abita in noi: non dimentichiamolo mai.

Mercoledì scorso il sacerdote ci ha imposto la cenere sul capo: non è stato così, per gioco, ma per ricordarci quanto siamo deboli e provvisori: è stata l’occasione per un bagno di umiltà.

Ebbene, con questa stessa umiltà, nel nostro deserto quaresimale, riconosciamo davanti a Dio la nostra debolezza, ammettiamo le nostre infedeltà, chiediamo la sua costante e misericordiosa protezione. Soprattutto non dimentichiamo mai a chi apparteniamo, da dove proveniamo, dove siamo diretti, di quale dignità siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Buona quaresima! Amen.

 

giovedì 11 febbraio 2021

14 Febbraio 2021 – VI Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!” (Mc 1,40-45).

 Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso.

Difficilmente, noi oggi, riusciamo a capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.

Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.

Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.

Gesù dunque, di fronte a quest’uomo psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica un amore tipicamente al femminile: quell’amore che una madre prova per il suo neonato, un amore viscerale, un insieme di amore, misericordia, compassione, tenerezza, dolcezza.

Gesù lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.

E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.

Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.

Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce del vangelo: che fare allora?

Come il lebbroso del vangelo: buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.

Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: il pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, dopo aver coraggiosamente raggiunto Gesù, rimane sconcertato, sbalordito: il Maestro, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile, che suscita in lui una nuova, fortissima voglia di vivere: “Allora non sono così ripugnante, anch’io posso essere amato, anch’io posso vivere!”.

Ma subito dopo, consapevole della propria situazione, si ritrae da quell’abbraccio: “No, non farlo; sono un peccatore, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non temo la tua malattia!”. E trattenendolo con le braccia, gli dice: Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo infatti il significato del verbo greco “katharìzo” usato da Gesù, che significa appunto tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato primitivo”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine originale di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alienato, distrutto.

“Guarisci!”: ci ordina con voce chiara Gesù dentro di noi; “torna all’origine”: che significa “ripristina in te la somiglianza divina, mediante una radicale conversione della tua vita.

Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: ignoriamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo la nostra originale “forma” divina; ci lasciamo piuttosto impunemente “trasformare”, “sformare”, “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.

Ma la vita non ci appartiene: se infatti qualche funesto evento viene ad interrompere questa nostra tragica allucinazione, se improvvisamente tutto il nostro fatuo e posticcio scenario ci crolla addosso, e tra le sue macerie sentiamo la necessità dell’immediato intervento di Dio, ebbene: in quel preciso istante la nostra presunzione, la nostra tanto agognata “trasformazione”, ci apparirà nella sua squallida realtà: una inguardabile “deformazione” spirituale. E nello sconforto, una domanda ci assalirà: “Come ho fatto a ridurmi così?”. E ci vedremo nella cruda realtà: impresentabili, colpevoli, falsi, indegni, inadeguati.

Se però avremo l'umiltà di abbassare lo sguardo fin nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo scorgere, anche nel buio più totale, un piccolo spiraglio, una minuscola zona di luce, che pur trascurata, abbandonata, oltraggiata, è rimasta integra, intatta. 

È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito di Dio, il sigillo del suo amore divino impresso in noi; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.

È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.

“Sii purificato!”: e per questo Gesù si aspetta da noi che andiamo da Lui, e, buttandoci in ginocchio, ripristiniamo il contatto con Lui, nostra Sorgente di Luce.

È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.

 

giovedì 4 febbraio 2021

7 Febbraio 2021 – V Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1,29-39).

 Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.

Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.

Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.

Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.

Sappiamo dalla presenza di questa “suocera”, che Simone è sposato, che ha una famiglia, e che possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che l’attività del capo famiglia è la pesca, alla quale si dedica nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, attrezzatura e lavoro.

E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresenta pertanto il loro unico sostentamento.

C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssousa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di rancore, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.

Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.

Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.

“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si toglie cioè dalla sua paura, dal suo totale disappunto, dalle sue preoccupazioni per ciò che le sta accadendo.

“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si adegua. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.

Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il vangelo dice addirittura che “si mise servirli”.

Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: l’odio si tramuta in umile servizio, il rancore in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo più lontano possibile si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.

Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.

Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.

Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno.

Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.

“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!

Oggi invece sembrano spariti: la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste. Possiamo stare tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!

Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, eccome!

Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.

Un esempio pratico? “Demoni” sono tutte le accattivanti lusinghe del male, le luci scintillanti del peccato che accecano la ragione. Noi pure possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.

Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.

Non è infatti comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che noi possiamo vincere i nostri demoni! Amen.

 

giovedì 28 gennaio 2021

31 Gennaio 2021 – IV Domenica del Tempo Ordinario

 

“In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafarnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-28).

 È sabato, giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, seguito dai quattro discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e si mette senza tanti preamboli ad insegnare ai presenti.

Per inciso: sappiamo dai vangeli che Gesù non è mai entrato nelle sinagoghe per partecipare a cerimonie, o per pregare: qui lo fa, ma come sottolinea Marco, direttamente per insegnare!

Un comportamento il suo, con cui forse voleva farci capire che certe preghiere, certe sfarzose liturgie, certe catechesi roboanti, oggi come allora, non sono per niente gradite a Dio.

Il che, tradotto in chiaro, ci porta a pensare: se le nostre preghiere, le celebrazioni, le liturgie delle nostre chiese non sono compiute esclusivamente a lode di Dio, se non si trasformano in vita cristiana vissuta, in amore, passione, coraggio, fiducia, in apertura e solidarietà verso i fratelli, rimangono tutte soltanto delle “sacre” rappresentazioni, spesso neppure belle ed edificanti, che lasciano Dio completamente indifferente; se le nostre liturgie si limitano ad un insieme di movimenti sciatti, disordinati, meccanici, consunti dall’uso, se la nostra partecipazione è soltanto sterile ripetizione di formule ormai inaridite dalla ripetitività, prive di convinzione, di presenzialità, di consapevolezza, di spiritualità, ebbene: sono celebrazioni che non servono assolutamente a nulla, che non riusciranno mai a creare quella particolare atmosfera soprannaturale attraverso cui poter incontrare, ringraziare, lodare, il Dio della Vita.

Ecco perché le liturgie devono emozionare, devono appassionare il nostro cuore, devono potenziare la nostra fede, tutte le nostre risorse; devono soprattutto soddisfare la nostra anima creando quell’incontro specialissimo con l'Infinito, con il Dio Amore, che ha scelto di “rimanere” con noi, in noi.

Gesù dunque entra nella sinagoga, legge e spiega: predica e la gente si “stupisce”; rimane sorpresa, ammirata, (in greco “exeplessonto”, “sbalordivano, rimanevano sconvolti”), da ciò che dice, da come parla, perché lo fa con “autorità”, con credibilità, convinzione e fascino: la sua esposizione è decisamente superiore a quella degli scribi; tutti i presenti si rendono conto che, a differenza loro, le sue parole provengono direttamente da Dio, le sentono scendere in profondità nei loro cuori, cariche di umanità, di vita, di liberazione.

“Non come gli scribi”: un giudizio forte, pungente, quasi impietoso, questo di Marco, ma assolutamente veritiero, concreto, reale: con Gesù non c’è “scriba” che possa competere!

Un parere conciso, di quattro parole, che ci invita a riflettere: noi, che ci riteniamo cristiani osservanti, noi che partecipiamo assiduamente alle liturgie della Chiesa, noi che pensiamo di conoscere bene la sua Parola, noi che talvolta siamo chiamati anche a proclamarla nell’Eucaristia domenicale, ebbene proprio noi dobbiamo stare molto attenti a non trasformarci in altrettanti “scribi”; dobbiamo cioè svolgere sempre i nostri piccoli “ruoli” con grande umiltà, consapevoli dei nostri limiti, per evitare che un minuscolo servizio a Dio, diventi occasione di vani personalismi, di puerili protagonismi.

“Vigilate”, ci suggerisce tra le righe il vangelo: perché lo “spirito impuro” dell’orgoglio, può introdursi con grande facilità nell’animo di tutti.

Ma chi erano esattamente questi “scribi”? Inizialmente erano i materiali “trascrittori” dei testi sacri (in greco “grammateus” = scrivano, amanuense), che gradualmente si sono imposti nella comunità con una autorità così esclusiva, da ritenersi superiori allo stesso sommo sacerdote, superiori persino alla stessa Torah, della quale si dichiaravano infallibili interpreti, gli unici autorizzati a commentarla in pubblico nelle sinagoghe: quando parlavano era come se parlasse Dio stesso in persona. Solo che i loro interventi, i loro insegnamenti, erano diventati stucchevoli, monotoni, sempre uguali: praticamente consistevano in aride sintesi di regole minuziose, di leggi, di vincoli cavillosi, il cui unico scopo era di lanciare accuse, critiche e rimproveri contro la condotta dei presenti per le loro inosservanze.

Il risultato? Una tortura, poiché tutti, chi più chi meno, si sentivano colpevolizzati e mortificati: nessuno infatti avrebbe potuto ritenersi del tutto innocente di fronte ai 613 precetti della legge mosaica, particolarmente rigida e intransigente.

Poi nella sinagoga arriva Gesù: con le sue parole, con la sua legge dell’amore, egli fa esplodere nell’animo dei presenti un turbinio di sentimenti completamente nuovi, rivoluzionari, che in un attimo stravolgono il clima rigido e terrificante che condizionava il loro rapporto con Dio.

In sostanza Gesù dice: “Dio vi ama tutti, proprio tutti, come figli suoi, di un amore senza limiti; è questa la “buona notizia” (eu-anghelion = il vangelo) che io vi sto annunciando. Non importa se pregate come previsto o no, se siete in regola con le purificazioni o no, se siete perfetti osservanti oppure no: Dio vi ama comunque, al di là di queste cose. Egli ama ciascuno di voi in maniera esclusiva, a prescindere da come siete, da come vi chiamate, da come vi presentate”.

Parole autorevoli, convincenti, completamente nuove e diverse da quelle degli scribi: parole che offrono nuove prospettive di salvezza; parole che infondono vigore nei cuori dei presenti, poiché hanno finalmente compreso il valore rivoluzionario, innovativo e risanante, di termini sconosciuti come “liberi, riscattati, apprezzati, amati da Dio”. E lo dimostrano apertamente, esternando a gran voce la loro profonda soddisfazione.

Nella sinagoga, tra i tanti, c’è anche un uomo “dallo spirito impuro”, che improvvisamente si mette a urlare; il suo spirito (ruah) non è quello di Dio, ma appartiene al male, è “impuro”, è contrario a Dio; egli inveisce con rabbia, con odio, contro la persona di Gesù, che ha appena parlato di salvezza, di amore: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”.

Anche qui il testo sollecita alcune riflessioni: prima di tutto, perché questo tizio parla al plurale? Che ruolo pensa di interpretare attribuendosi l’autorità di parlare a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno intende rappresentare tutti gli uomini, ed è a nome della collettività che egli si esprime usando il plurale. Ma perché tanta avversione nei confronti di Gesù e del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica tranquillamente; solo che, fatto singolare, questa volta la gente capisce perfettamente quello che l’oratore espone, lo apprezza e si immedesima immediatamente nella bontà delle sue parole: è questo il motivo cruciale dell’avversione di satana.

In pratica, con la sua stravolgente novità dell’amore profondo e gratuito di Dio per l’umanità intera, Gesù distrugge quella che è la teologia ufficiale, l'insegnamento tradizionale degli scribi. Da qui la furia dello “spirito immondo”, l’avversione rabbiosa contro Gesù, e contro Dio che Egli vuol far conoscere a tutti.

L’uomo che lui ora possiede, in fin dei conti, è un poveraccio, imbottito di credenze antiche, di superstizioni popolari, di leggi opprimenti: le autorità religiose gli hanno sempre insegnato che Dio è vendicativo, terribile, crudele, che può distruggere, in caso di peccato, intere città: e lui, soggiogato dalla tradizione ebraica, ne è fermamente convinto.

È l’emblema di chi non pensa: è un “pensato” da altri. Non vive: sono gli altri che vivono per lui. Solo che non può giustificarsi, lui come nessun altro, dicendo: “Io faccio solo quello che mi ordinano; obbedisco e mi basta!”. Noi tutti infatti abbiamo una testa: pensiamo, ragioniamo e qualunque cosa facciamo, siamo “noi” che la facciamo, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni, è nostra unica responsabilità accettare o rifiutare la voce di Dio.

Nei vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggerli e rileggerli, e non troveremo mai, neppure una sola volta, la richiesta di Gesù di “obbedire” (upakòuein) a Dio. Mai!

Due sole volte in Marco, e cinque in tutti gli altri vangeli, è presente la parola “obbedire, obbedienza” (Cfr. Mt 8,27; Mc 1,27; Mc 4,41; Lc 8,25; Gv 3,36): ma non è mai riferita all’uomo; quelle che obbediscono sono sempre le forze della natura o quelle del male, ostili a Dio: una di queste volte è infatti presente nel vangelo di oggi: “gli spiriti impuri obbediscono (upakùousin) a Gesù!”. Gesù dunque non ci chiede mai di obbedire a Dio: ci chiede piuttosto, ripetutamente e caldamente, di assomigliare, di imitare Lui e il Padre (Cfr. per esempio Lc 6,36-38; Gv 13,14; 15,10.12); una cosa che, riuscendo ad attuarla, ci spalancherebbe nuovi orizzonti.

“Che vuoi da noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. Domande folli, irrazionali, da dissennati, di chi non vuole arrendersi all’evidenza: eppure quante volte assomigliamo anche noi all’indemoniato della sinagoga! È proprio così: ce ne stiamo nascosti, indifferenti, ma quando Gesù ci smaschera, quando ci mette di fronte alle nostre responsabilità, ai nostri sotterfugi, reagiamo anche noi urlando: Che vuoi tu da noi?”; ma Gesù, con uno sguardo, manda in frantumi la nostra arroganza, le nostre solide impalcature, i nostri progetti, i nostri alibi: come un uragano, spazza via ogni nostra illusione, e tutto ciò che noi credevamo vero, reale, remunerativo, si dimostra falso, inesistente, fallimentare!

“Taci! Esci da lui!” sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: sono le Parole con cui Egli ci salva, ci libera dai nostri demoni; sono le uniche Parole che possono estirpare dal nostro cuore, dalla nostra mente, tutti quegli “spiriti immondi” che ci posseggono, e guarirci.

Guarire per mano di Gesù, venire risanati, perdonati sacramentalmente, è un evento di misericordia, di amore, straordinario, meraviglioso: ci fa sentire nuovamente liberi, leggeri, ci restituisce la nostra identità, la nostra dignità, la nostra serenità, la nostra vita.

Ma guarire a volte “fa anche male”, è addirittura “straziante”, doloroso; perché significa strappare violentemente dal nostro cuore lo spirito impuro; dobbiamo cioè distaccarci radicalmente da tutto ciò che credevamo certezza, libertà, fantasia creativa, vita (spirito) e che, al contrario, si è rivelato nient’altro che insicurezza, schiavitù, distruzione, morte (impuro).

È un’esperienza dura, un’esperienza dolorosa che richiede coraggio: perché significa aprire, spalancare, quelle porte sbarrate, che ci rifiutiamo sempre di aprire, sapendo che nascondono realtà che ci fanno vergognare, scelte spiritualmente velenose ed esecrabili.

Inutile tentare la fuga, inutile opporci a tale percorso purificatore: per risorgere a nuova vita, dobbiamo necessariamente scendere nel nostro intimo e con la fiamma del dolore, del rimorso, cauterizzare le ferite inferte dal maligno.

Percorrere la vita sulle orme di Cristo, non è un gioco; richiede tutto il nostro impegno: perché è molto meglio prevenire la cancrena, che dover poi ricorrere a dolorose amputazioni.

In questo non basta essere prudenti, aver timore, ma è necessario misurarci, combattere con coraggio, fronteggiare quel nemico, che è sempre pronto a colpire, a lacerare, a straziare la nostra anima. Non permettiamogli scioccamente di anestetizzarci: è il suo mestiere, e lo sa fare molto bene.

Pietro, nella sua prima lettera, è da questo che ci mette in guardia; scrive infatti: il nemico, “tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret”; come un leone ruggente va cercando qualcuno da divorare; “cui resistite fortes in fide”, resistetegli, saldi nella fede; infatti, prosegue Pietro, “dopo che avremo sofferto, Dio ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà… (1Pt 5,8). 

Adottiamo questa raccomandazione come nostro programma di vita: perché, dopo la sofferenza, avremo da Dio, serenità, conforto, amore infinito. Amen.

 

 

giovedì 21 gennaio 2021

24 Gennaio 2021 – III Domenica del Tempo Ordinario

“Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini. E subito lasciarono le reti e lo seguirono” (Mc 1,14-20).

 Il vangelo di oggi torna ancora sul tema della “chiamata”, della vocazione.

Gesù passa e guarda: vede Simone e Andrea, due pescatori che stanno gettando le reti, e li invita a seguirlo per essere suoi discepoli.

Non sappiamo cosa Gesù abbia notato di tanto interessante in loro: due poveretti che stanno semplicemente facendo il loro lavoro: un lavoro umile e ordinario, che non ha assolutamente alcuna attinenza con la missione per cui vengono scelti.

Ma Gesù vede più lontano di noi; capisce al volo chi sono in realtà. Lo capisce dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Egli li osserva infatti nella loro quotidianità, per come affrontano gli inevitabili imprevisti del momento, deducendo da ciò la loro grandezza. Perché non sono mai le cose che facciamo a renderci importanti, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farle.

Gesù non ha bisogno di chiedere ai due pescatori i loro “curricula” o gli “attestati di frequenza” a qualche “università” rabbinica del tempo. Nulla. A Gesù basta guardarli in faccia per decidere di chiamarli ad essere “pescatori di uomini”.

È una proposta sconvolgente, quella che prospetta loro; un radicale cambiamento della loro vita: nonostante ciò, essi accettano immediatamente, piantano tutto, e lo seguono.

Esteriormente, è vero, non è cambiato nulla: ma è il loro intimo, il loro animo, è la loro mentalità che è completamente cambiata, rivoluzionata.

Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano il loro “assoluto”, ora non più. Hanno capito che nella vita ci sono altri impegni, altri ideali, importanti e altrettanto fondamentali, che vanno affrontati con un entusiasmo diverso, con un “amore” diverso: un sentimento nuovo, travolgente, che vuole essere anteposto a tutto, che vuole guidare la loro vita, che vuole suggerire ogni loro pensiero.

E lo hanno capito guardando a loro volta Gesù: una persona che non è preoccupata per il lavoro, che non si affanna per impegni e scadenze, per cosa mangiare o per come vestirsi; una persona che è spinta da un’unica preoccupazione: di avvicinare continuamente nuove persone, di offrire loro amore, amicizia, carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Sicuramente Gesù non è ricco: ma l’uomo che essi vedono, è sereno, felice, e soprattutto tanto amato.

“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo”.

I primi discepoli hanno dunque accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa è il passato: convertirsi, cambiare stile di vita, modo di vedere, è il loro “adesso”. Non possono più tergiversare, far finta di nulla: l’impulso interiore che avvertono è solo quello di seguire Gesù, e collaborare alla costruzione del Regno di Dio.

Quando sentono parlare del “Regno di Dio”, le persone rimangono piuttosto disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso, all’altra vita, chi pensa a chissà cosa. Niente di tutto questo: il regno di Dio è la Vita Vera, quella che dobbiamo vivere qui nell’oggi seguendo fedelmente gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che ci riguarda deve essere finalizzata alla realizzazione della Vita (ego sum Via, Veritas et Vita), deve cioè concorrere alla realizzazione della presenza di Dio in noi e, nostro tramite, nel mondo.

Ecco perché è importante anche per noi scegliere adesso, perché non possiamo rimandare: perché questa è una scelta che impegna, che cambia radicalmente la nostra quotidianità. Una scelta che deve realizzare, concretizzare, trasformare in vita vissuta il messaggio evangelico in cui crediamo.

Il Regno di Dio non può più aspettare, esige un nostro immediato intervento: e dobbiamo iniziare subito col mettere ordine al nostro disordine spirituale.

Tutti i discepoli hanno ricevuto una proposta ardita, rischiosa, provocante, fuori dai loro schemi; era decisamente controcorrente. Ma le parole di Gesù rinfrancarono la loro debolezza, riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui.

Sicuramente si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cos’abbiamo noi di speciale?”. Nulla! Assolutamente nulla. E noi come loro.

Dio non sceglie uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto e sceglie sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a seguirlo.

Gesù, nella sua missione terrena, non ha mai cercato persone già sante e perfette per essere suoi discepoli, ma solo umili, disponibili, aperti: Pietro, per esempio, la “roccia” su cui doveva poggiare la Chiesa, dubitò e lo rinnegò più volte; Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “boanèrghes” (Mc 3,17), “figli del tuono”, proprio perché “peperini”, suscettibili, carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro “regno”; Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se non c’era e non vedeva, lui non credeva; Giuda era attaccato ai soldi e, addirittura, per trenta miseri denari lo tradì.

Ebbene, tutte queste miserie confermano che Dio lavora con il poco a sua disposizione: uomini comuni, limitati, pieni di difetti, spesso immaturi; uomini, però, che non hanno esitato a mettersi completamente al suo servizio.

Il vangelo dice infatti “lasciate le reti” (afèntes tà dìktua): lasciarono cioè le loro idee, i loro pregiudizi, le loro fissità e lo seguirono.

Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo una cosa: di lasciare le “nostre case”, i nostri riferimenti, le nostre certezze, di fidarci di lui e seguirlo.

Ma non è sempre facile per noi: non siamo proprio convinti di lasciare ciò che siamo, ciò che sappiamo, ciò che viviamo, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di impegnativo: ci sentiamo inadatti a seguire Gesù, preferiamo rimanere con le nostre reti bucate.

Nella nostra vita siamo dei campioni nell’aggrapparci a quanto ci capita a tiro - lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur di non schiodare dalle nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni, vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma questo è semplicemente assurdo.

Se ci fissiamo su quanto potrebbe succederci l’indomani, nel futuro, su cosa ci accadrà o non ci accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, è la nostra fine, ci demoralizziamo, diventiamo schiavi di ogni possibilità.

Il segreto della vita che Gesù ci prospetta è invece quello di abbandonarci, di fidarci, di smettere di voler pianificare tutto a nostro esclusivo tornaconto.

Dobbiamo convincerci, che quel “venite dietro a me” non è un ordine, ma una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di enorme valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una “sequela”, inizialmente difficile, ma sempre possibile per tutti: chiediamo allora a Dio il coraggio di “andare”, di seguirlo, di non rinunciare mai ad essere come lui ci vuole, di non resistergli, di lasciare “tutto”, per diventare anche noi “pescatori di uomini”.

Già, perché questo dobbiamo essere nella sua Chiesa: “pescatori di uomini”.

Oggi la Chiesa ha dimenticato questa missione: tutti indistintamente, pastori e fedeli, siamo diventati cerebrali, freddi; ci lasciamo blandire da questo mondo, dalla pubblicità, dall’apparire, dalle ovazioni mediatiche; ci preoccupiamo più dell’ovvio e delle futilità, piuttosto che di tutelare apertamente quei principi fondamentali della nostra fede cristiana e cattolica, intoccabili e mai negoziabili; non ci preoccupiamo più di evangelizzare nuovi popoli, di rettificare e consolidare la fede dei nostri fratelli più deboli, ormai assorbiti dal relativismo dominante; non siamo più l’espressione visibile di un Cristo invisibile, ma sempre presente tra noi; in una parola la Chiesa oggi non sa più “guarire” i suoi figli e i suoi fratelli, come sapeva fare Gesù.

Ma una Chiesa che non “guarisce”, che non “irrobustisce” più la fede in chi vacilla, che non la rende ricchezza insostituibile per chi la cerca, che non traccia più la strada sicura al gregge, che non cerca di ricondurre all’ovile le pecore smarrite; una Chiesa che non si preoccupa più di “salvare” gli uomini per questa vita, come può pensare di poterli salvare per l'altra?

Purtroppo il paventato fumo di satana ha ormai ammorbato i suoi settori vitali: adoratori del dio sesso e del dio denaro, continuano a deturpare impunemente il suo volto splendido, riducendola da immacolata Sposa di Cristo a squallida meretrice.

Ci consola e ci sostiene la promessa di Cristo: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo, èos tès suntelèias tù aiònos” (Mt 28,20).

Ed è vero: perché ci sarà sempre nella Chiesa un insopprimibile manipolo di umili e santi profeti, che con la loro voce, le loro preghiere, la loro predicazione e la loro vita esemplare, riusciranno ad avere la meglio su tale sudiciume e, come già il profeta Giona per la biblica Ninive, scongiureranno la sua totale distruzione.

È quindi al seguito di questi degni e instancabili “pescatori”, che dobbiamo prontamente tornare anche noi al “metodo” di Gesù; per farlo non abbiamo più molto tempo, personalmente non abbiamo secoli a nostra disposizione, perché, come ci ricorda san Paolo, “il tempo si è fatto breve!” (1Cor 7,29).

Il “metodo” di Gesù da praticare? L’amore: Egli per tutti è stato padre, pastore, medico, taumaturgo: guardava le persone, le amava, le conquistava.

Il suo era un amore profondo, concreto; un amore che raggiungeva i malati guarendoli all’istante nel corpo e nell’anima; raggiungeva i morti ed essi subito riprendevano vita; era un amore misericordioso, fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di conforto, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia; ma era anche un amore severo, non dimentichiamolo mai, che quando necessario, rovesciava banchi e mercanzie, sferzando venditori e ladri che occupavano vergognosamente l’area del sacro Tempio.

L’uomo contemporaneo, galvanizzato dal materialismo ateo, ha un bisogno assoluto, vitale, di percepire, di sentire, di “toccare” con mano questo amore di Dio; ha necessità estrema di questo amore che, unico, risana l’anima, trasforma il cuore, illumina la mente.

Sì, noi per primi abbiamo bisogno di questo amore. La Chiesa tutta ne ha bisogno!

Perché quello di Dio è “agàpe”, è amore puro: è la sua stessa definizione, è la sua identità; dice infatti Giovanni “Deus caritas est”; meglio: “O Theòs agàpe estin”, “Dio è Amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane (mènei) in lui” (1Gv 4,16b): ricordate domenica scorsa? “Maestro, dove abiti?”, “pù mèneis?”: anche qui per tre volte lo stesso verbo “mèno”, rimanere!

L’amore di Dio, insomma, è la nostra “residenza”, è la garanzia illimitata, senza scadenza, dell'eterna sopravvivenza nostra e della Chiesa di Cristo. Amen.

 

  

giovedì 14 gennaio 2021

17 Gennaio 2021 – II Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: Ecco l'agnello di Dio!” (Gv 1,35-42).

 Il Vangelo di oggi ci descrive la “vocazione” dei primi discepoli di Gesù. Del primo conosciamo il nome: è Andrea, fratello di Pietro; il secondo dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Essi sono entrambi discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonino il loro maestro e si mettano silenziosamente al seguito di Gesù, felici in cuor loro di poterlo seguire.

Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la diffidenza di quest’ultimo: Simone infatti segue il fratello senza dimostrare al momento alcuna eccitazione, alcun interesse o curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare, gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che nonostante sulle prime sia rimasto un po’ sospettoso, diffidente, superato il momento, si entusiasma come e più degli altri, raggiungendo col tempo vette di pensiero, di amore e di intuizione, inarrivabili da tutti gli altri.

Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna appassionarsi, lasciarsi entusiasmare, lasciarsi andare. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza fare calcoli, senza compromessi, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.

È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere “Chiesa”? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile scorgere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…

Dobbiamo capire invece l’importanza del lasciarsi appassionare da Gesù: perché solo se siamo entusiasti, convinti, gioiosi, potremo a nostra volta coinvolgere altri a seguirlo, come hanno fatto i primi discepoli del vangelo: il Battista con Andrea e l'altro discepolo, Andrea con suo fratello Simon Pietro, Filippo con Natanaele, e così via.

Del resto è una cosa naturale: se incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, che ci fa vivere bene, soddisfatti, ne parliamo subito volentieri con gli altri, desideriamo che anch’essi facciano la nostra stessa esperienza.

L’evangelizzazione, la missione, il proselitismo, avvengono soprattutto per contagio: “Sapessi chi ho incontrato, cosa ho visto! Dai, vieni anche tu!”. E noi li seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché vediamo in loro grande entusiasmo, gioia, energia: sentiamo cioè che quella esperienza ha procurato loro un gran bene: rimaniamo quindi colpiti dalla loro “testimonianza”, e ci diciamo: “Perché non fidarci? Perché non proviamo anche noi?”.

A volte preferiamo rispondere: “No, grazie, non mi interessa, non fa per me!” e lasciamo cadere la cosa. Ma se non abbiamo neppure provato! Infatti non è vero che non fa per noi: è che siamo sospettosi, abbiamo paura, non vogliamo metterci in gioco. Ciò significa purtroppo che dentro di noi, nel nostro cuore, siamo già morti!

“Che cosa cercate?”, chiede Gesù ai due discepoli: una domanda che continua a ripetere anche a ciascuno di noi.

Attenzione alle parole: Gesù non chiede “chi” cercate, ma “cosa” cercate. Sembra irrilevante, ma la differenza è fondamentale: perché sono le “cose” che cerchiamo, che desideriamo, quelle che stabiliscono se, alla fine, siamo degni del “chi” vogliamo incontrare.

Il desiderio, infatti, se da un lato è la nostra spinta, la nostra carica iniziale, dall’altro costituisce anche il nostro limite massimo raggiungibile.

Se infatti il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta, il nostro cercare si ferma, non va oltre; se il nostro desiderio è di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì.

Certo, i desideri dell’uomo in genere non vanno oltre le “cose” concrete: l'auto nuova, oggetti di tendenza, un buon lavoro, vacanze e divertimenti, un cospicuo conto in banca, una casa signorile.

Ma sappiamo che queste cose non placano il desiderio dell’uomo: sembra, ma non lo fanno! Una volta raggiunto l’obiettivo, infatti, egli verrà nuovamente assalito dall’insaziabile voglia di “altro”, continuerà a trascinarsi nella insoddisfazione, alla ricerca angosciante di “cose” sempre nuove.

C’è però un “desiderio” innato, vero, originale, inscritto nell’anima, che è di origine soprannaturale, celestiale (desiderio, da “de-sidera”; letteralmente: “che riguarda le stelle, di natura celeste, divina”); un desiderio veramente speciale, senza limiti, che ci appassiona, che crea una tensione continua verso il divino, verso Dio, al quale il nostro cuore anela inquieto fin dalla nascita, come ci spiega sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”, “il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te (Confessioni, 1,1,1)

Questo ci spiega dunque la domanda di Gesù: “Cosa cercate?”, una richiesta che, detta con altre parole, significa: “Se cercate, se desiderate la vera vita, la sua pienezza immortale, la libertà assoluta, la completa felicità, allora seguitemi, perché questo è quanto Io vi offro. Se invece cercate o desiderate altro, se volete solo “cose” di questo mondo, caduche, instabili, transitorie, cercatele altrove!”.

A questa domanda esplicita, invece di una risposta, i due discepoli pongono a Gesù un’altra domanda: “Maestro, dove dimori?”. Una domanda peraltro che, vangelo alla mano, per noi lettori contemporanei, contiene già una chiara risposta: è il testo greco, più pertinente, che ce la suggerisce: “Pù mèneis? dove rimani?”, non “dove dimori o dove abiti” della traduzione italiana.

Il significato profondo del verbo mèno (rimanere) - usato quasi con ostinazione da Giovanni per ben 10 volte in soli 7 versetti del capitolo 15 del suo vangelo - ci rivela apertamente dove Gesù “rimane”. Egli dice: “Rimanete in me” (mèinate en emòi) “Chi rimane in me ed io in lui” (o ménon en emòi kai egò en autò)” ... “Rimanete nel mio amore” (menèite en tè agàpe mou) e via dicendo (Gv 15,4-10).

Gesù in pratica ci invita a “rimanere” in Lui; è questo il luogo in cui dobbiamo raggiungerlo, perché è lì, nel suo amore, nel suo e nostro cuore che egli “rimane” (abita, dimora): non un luogo fisico, raggiungibile materialmente, ma uno stile di vita ad imitazione della sua. Dobbiamo cioè vivere, agire in un certo modo, per seguirlo “dentro” di lui, “dentro” di noi, nel suo amore, perché è lì che Gesù “rimane”.

Ecco, questo è il grande, unico percorso che i discepoli devono fare nella loro vita: “rimanere” nel cuore, nell’amore di Dio, smettere di cercare “fuori”, Colui che va cercato “dentro”.

Perché la felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, ma nell’essere, nel rimanere con l’Amore. E ciò non dipende da Dio, ma solo ed esclusivamente da noi!

Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete” “Erchésthe kai ocsèsthe” (Gv 1,39). Non dà alcuna indicazione precisa ma: “Vuoi sapere dove abito? Vieni e vedi! Vuoi conoscermi meglio? Vieni e vedi. Sei tu che ti devi muovere: Vieni e seguimi! Lo devi scoprire tu da solo: Vieni e seguimi!”.

“Venire”, “seguire” sono verbi di movimento, sono dinamici: Gesù non invita nessuno a starsene seduto a pensare, aspettando che passi il tempo: il suo è un invito perentorio a muoverci, ad uscire dalle nostre posizioni, dalle nostre idee, dalle nostre convinzioni!

Purtroppo però, la nostra sequela è spesso un “vorrei, ma non ce la faccio”: una risposta nebulosa, di comodo, ad un invito che al contrario è chiaro e tassativo: “Vieni e vedi!”.

Egli vuole da noi un preciso cambiamento di vita: dobbiamo cioè evolvere, spostarci, progredire; ci vuole lontani dalle nostre posizioni di partenza.

Il motivo per cui Dio ci fa paura è sicuramente perché ci vuole protagonisti. La sua chiamata non si può ignorare, è un fuoco che ci brucia dentro: non sono ammesse mezze misure, compromessi, non sono tollerati i “distinguo” o le astuzie mentali: con Lui deve essere sempre “tutto”, non è ammesso il poco o niente. Con lui dobbiamo tendere sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non avere neppure quello.

Dobbiamo tutti “andare e vedere”; dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di come ci vuole: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”; ciascuno deve “andare e verificare”, deve guardare con i propri occhi. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono!” (Gb 42,5).

Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’Amore, vivere l'Amore è tutt'altra cosa. Conoscere interi trattati di teologia non ci autorizza a dire di conoscere Dio. Ma solo quando abbiamo superato cristianamente le prove e i dolori della vita, solo quando abbiamo provato la cruda sofferenza per la perdita di un figlio, di un genitore o di una persona cara, possiamo dire cosa significhi rifugiarsi nell’amore di Dio, cosa voglia dire fare esperienza del suo amore.

Quante volte invece ci permettiamo di parlare, di giudicare cose o persone che non conosciamo, che non abbiamo “sperimentato”. Se non sappiamo, tacciamo; se vogliamo sapere, informiamoci, andiamo a vedere, controlliamo personalmente.

Per vivere il vangelo ci vuole coraggio, determinazione. Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così.

Dio è rassicurante, perché ci dice: “Non aver paura, io sono con te!”; lo sarebbe meno se ci dicesse: “Vivi tranquillo, non avrai mai problemi!”.

Quando infatti Gesù vide i discepoli sbigottiti di fronte alle difficoltà da superare per raggiungere la perfezione, li rincuorò dicendo: “Se ciò non è possibile presso gli uomini, con Dio tutto è possibile” (Mt 19,26). E a San Paolo, indebolito dalle prove di Satana dirà: “Sufficit tibi gratia mea, Ti basta la mia grazia; poiché la mia presenza, la mia potenza, si manifesta soprattutto nella debolezza” (2Cor 12,9). Amen.