giovedì 7 gennaio 2021

10 Gennaio 2021 – BATTESIMO DEL SIGNORE

“In quei giorni, Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni” (Mc 1,7-11).

 Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, in prossimità del Giordano, parla ai presenti sulla necessità di sottoporsi al battesimo.

Quello che lui propone è un battesimo di “conversione”, un battesimo cioè fondato sulla metànoia, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Il battesimo, quindi, è il simbolo, la prova, dell’avvenuta conversione: l’immersione nelle acque del Giordano simboleggiano il “lavaggio”, la “pulitura” di tutti i peccati commessi.

Ovviamente, chi vuole questo battesimo, deve prima convertirsi, decidere cioè di cambiare stile di vita; altrimenti quella cerimonia non avrebbe alcun significato.

In pratica, il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che voi veniate da me per un semplice lavaggio esteriore che senso ha? non serve assolutamente a nulla”.

Il battesimo di “conversione”, infatti, poggia tutto sull’individuo, sulla sua ferma volontà di non peccare oltre, di astenersi in futuro da ogni altra colpa. E non è cosa di poco conto, perché il convertirsi sul serio, il cambiare i propri modi di vivere e di pensare, è molto impegnativo, molto difficile.

Il Battista conosce perfettamente i limiti umani, e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: con le spalle rivolte al passato, ma con il dito puntato in avanti, indica l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.

Viene dopo di me colui che è più forte di me”: egli ne è consapevole. Gli altri devono capirlo. L’annuncio di Giovanni presuppone la fede, il suo è un appello che suscita ed esige la fede.

Inutile continuare a vedere Dio assiso solitario nell’alto dei cieli, al di fuori della nostra vita e della nostra storia. Il Cristo, Figlio di Dio, è uomo tra gli uomini, si trova ormai nella storia, nelle singole situazioni concrete, in tutti gli uomini. Ed è qui che si vede la infinita superiorità e potenza che differenzia Gesù il Messia, da Giovanni il precursore. E qui si nota anche la diversità dei due riti battesimali: mentre Giovanni usa solo l'acqua, Cristo manderà il suo Spirito che assieme all'acqua toglierà radicalmente il peccato dal cuore dell'uomo.

Ma procediamo per gradi: il Battista dunque sta portando avanti la sua missione predicando la conversione del cuore e della mente, quando, improvvisamente, succede qualcosa che ha dell’imprevedibile: gli compare davanti Gesù, e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati.

Marco è lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazareth e fu battezzato”.

In quel verbo “accade” egli fonda la spiegazione dei fatti: intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell'antica alleanza: non a caso Gesù ha lo stesso nome di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa del perdono, dell’amore e della libertà.

Gesù dunque prima di iniziare il suo ministero, raggiunge il Battista sul Giordano e si fa battezzare; e lo fa, solidale con gli uomini, mettendosi in fila come tutti gli altri peccatori.

Ma egli, a differenza degli altri, non ha alcun peccato da farsi perdonare: si battezza soltanto per trasformare definitivamente il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo completamente nuovo, simbolo di vita.

Se Giovanni fa immergere nel Giordano le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, passando dalla morte del peccato alla vita di una conversione che toglie, cancella, elimina completamente quanto c’era stato prima, Gesù non vive questo battesimo di morte; il suo è un battesimo di resurrezione.

Marco sottolinea questa lettura, ricorrendo ad un verbo particolare: “anabàinon”, che significa “salendo” dall’acqua; ci saremmo aspettati un più corretto “uscendo” dall'acqua, visto che ne era entrato dentro. Marco invece usa lo stesso verbo “salire” utilizzato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù “sale” finalmente in cielo. Stesso verbo, stesso significato. Lo scopo del Battesimo di Gesù, infatti, non sta tanto nell’eliminazione del peccato originale, nella purificazione dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere su di Lui, e con Lui su ogni uomo, il dono santificatore dello Spirito del Padre.

Marco infatti continua: “E subito salendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli squarciati (“skizomènus”), lacerati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni varco. Dio non si concedeva più, non comunicava più col suo popolo. Non c'era più colloquio fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia diceva: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l'uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza altre possibili chiusure.

Ebbene, questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l'uomo, torna a donarsi all'uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva.

Marco non dice semplicemente “i cieli si aprirono”: perché, come si sono aperti, potrebbero anche rinchiudersi poi nuovamente. Egli usa un termine (si squarciarono) che richiama l’immagine di una potente deflagrazione: lo squarcio, infatti, rispetto all’apertura, crea un passaggio definitivo, immutabile; qualunque tentativo di chiuderlo risulterà per sempre impossibile: il passaggio dello Spirito, tra cielo e terra, è pertanto assicurato per sempre.

È lo stesso verbo “squarciare” che Marco usa per descrivere i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso”.

Nel tempio un velo enorme e pesante, lungo circa 25 metri, impediva l’accesso al “sancta sanctorum”, la parte più interna del tempio riservata alla presenza di Dio, in cui si custodiva l’arca dell’alleanza: solo il sommo sacerdote, una volta all'anno, poteva entrarvi e invocarlo con il suo Nome impronunciabile. Ebbene, che succede? Appena Gesù muore, questo velo si squarcia, rendendo impossibile una sua riparazione. Il Dio che era nascosto dal velo del tempio, il Dio velato, il Dio occultato, si è definitivamente rivelato in Gesù crocifisso.

È lui l'immagine visibile di Dio. È il Crocifisso, il segno ormai visibile dell'amore di Dio; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, neppure se lo rifiutiamo, neppure se non lo vogliamo più, neppure se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo.

Dio, dopo Gesù, non potrà mai più “nascondersi”, mai più rifiutare il suo amore all’umanità. Perché? La spiegazione ci viene dall’azione dello “Spirito”, l’amore che lega indissolubilmente il Padre a suo Figlio. Possiamo intuirlo da Marco, che nel suo vangelo, con un parallelismo meticoloso, ce ne offre un valido chiarimento.

Lo Spirito che discende su Gesù dopo il suo battesimo, non è uno spirito qualunque, è “Lo Spirito” to pneuma: l'articolo determinativo “to” indica infatti Dio stesso, nella totalità del suo amore, della sua vita, della sua potenza, che discende “come colomba” su Gesù e lo qualifica: “ci fu una voce (phoné) dal cielo. Tu sei il Figlio mio, l'amato”.

Quello stesso “pneuma” disceso dal cielo, Gesù, morente sulla croce, con gran voce (phoné), lo restituisce al Padre celeste. Una volta poi asceso in cielo e ricongiunto col Padre, farà ridiscendere to pneuma sulla terra, come permanente Consolatore e Consulente prima degli apostoli, e poi, tramite loro, di tutti gli uomini che diventeranno credenti col il battesimo.

È così che lo Spirito di Dio, l’Amore di Dio, ha preso la sua stabile dimora tra gli uomini: tutti da allora possiamo beneficiare della sua azione santificatrice; tutti possiamo godere di quello scambio amoroso tra cielo e terra, tra Padre e Figlio, di quella presenza che ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti.

Nella nostra vita abbiamo necessità vitale di un amore che ci ami al di là di tutto, che sia sempre presente, che non si tiri mai indietro, che sia libero, incondizionato, spontaneo.

L'amore umano però, anche il più grande, il più bello, prima o poi pone sempre delle condizioni: sappiamo per esperienza che per essere amati, dobbiamo dare sempre qualcosa in cambio, scendere a qualche compromesso.

Ma con Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, belli, sensibili, onesti. Dio ci ama così come siamo, ci ama perché siamo proprio “noi”. Anche se siamo impresentabili, sporchi, laceri, Lui ci ama comunque, ci ama sempre, continua a parlare al nostro cuore, nonostante tutto: perché Lui è l’Amore vero, l’amore gratuito, l’amore che sgorga dal suo cuore trafitto, l’amore che salva e che si chiama “Grazia.

Qualcuno però potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che mi parla! Non ho mai sperimentato questo suo amore tanto speciale!”. Certo: ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non ci parla, ma perché noi siamo sordi: non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dagli assordanti schiamazzi del mondo; non sperimentiamo il suo amore, perché evidentemente siamo inebetiti e sazi di rifiuti, di qualunque altro surrogato.

Eppoi, scusate, la voce di Dio noi dobbiamo “volerla sentire”! Dobbiamo desiderare con forza il suo amore risanante! Non è un desiderio che nasce in noi automaticamente: spesso infatti siamo bloccati, abbiamo paura di ascoltare quello che Dio vuol dirci; preferiamo non sentirlo, facciamo gli indifferenti. E invece no! Dobbiamo al contrario creare intorno a noi il “silenzio dell’ascolto”! Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le altre voci, le altre esperienze inutili e fuorvianti. 

Vi ricordate Elia? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12): Dio non ama il baccano da discoteca, le gozzoviglie orgiastiche delle osterie e dei night: Dio, al contrario, ama il silenzio, il raccoglimento, l’umile predisposizione interiore, il “chiostro” del nostro cuore. Mettiamoglielo ogni tanto a sua disposizione, e la nostra vita cambierà! Amen.

 

 

venerdì 1 gennaio 2021

3 Gennaio 2021 – II DOMENICA DOPO NATALE

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... e il Verbo si fece carne.” (Gv 1,1-18).

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa domenica, è un brano profondo e difficile: San Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino l’hanno definito come il vangelo che va al di là dell’umana comprensione.

A differenza di Luca e Matteo, Giovanni non è un narratore, che racconta con scrupolosi particolari la nascita e l’infanzia di Gesù. Il prologo del suo Vangelo è plasmato in un modo teologicamente molto esigente: Gesù è la Parola di Dio: non può essere una Parola qualunque, senza senso. Dio-Parola aveva rivelato il suo eterno potere per mezzo della creazione, aveva mandato i profeti, suoi messaggeri, perché parlassero di lui; nonostante ciò, Egli era rimasto nel mistero, imperscrutabile, invisibile, celato dietro i principati e le potenze celesti.

Ad un certo punto si è rivelato personalmente: incarnatosi in Gesù Cristo, ha voluto parlare finalmente agli uomini, e lo ha fatto in maniera diretta, chiara, distinta.

In principio c’era il Verbo: prima ancora della creazione del mondo, esisteva dunque il Verbo, la Parola divina, che doveva guidare e realizzare l’intera creazione: è la Sapienza di Dio, che esisteva “prima ancora che esistesse il tempo, prima di creare la terra”, come ci conferma il libro dei Proverbi (8, 22-24). In pratica esisteva da sempre!

Era il Logos: un termine che in greco, ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni dichiara che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, il cui contenuto era donare la vita, dono divino per eccellenza.

Un’idea che ci riguarda da molto vicino, perché vuol dire che non siamo qui per caso: siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi. Pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto creativo di Dio: siamo qui per un motivo ben preciso: accogliere in noi, e promuovere nel mondo, il messaggio di quel Dio-Verbo, che si è fatto carne per rivelarsi a noi, redimerci dal nostro primordiale peccato d’orgoglio, darci la possibilità di ridiventare figli del Padre, creatore di Vita.

Per questo Dio ci ha creati: perché ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci vogliono, magari la gente ci rifiuta, magari noi stessi non ci approviamo, non ci piacciamo; ma Dio ci ha voluto e continua a volerci: ci ha scelti uno per uno, perché gli serviamo per realizzare il suo Progetto: ha bisogno delle nostre braccia, delle nostre gambe, della nostra testa, per difendere i principi, affidatici dal Verbo incarnato, contro l’azione di quel mondo che si ostina a rifiutarli.

La vita è un dono che Dio ci ha fatto; il dono che noi facciamo a Dio, è di viverla secondo la sua Parola. È questo che Lui vuole da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”.

Che vuol dire “in abbondanza”: che praticamente dobbiamo vivere “in pieno”, investendo tutta la nostra persona: corpo, anima, mente; dobbiamo buttarci, rischiare, metterci in gioco, combattere. Chi non rischia nulla, vive per nulla, il suo futuro non sarà che nulla. Chi rischia è quindi un uomo libero: perché solo chi vive rischiando, vive la propria vita come dono da restituire a Dio; vivere col freno tirato, senza rischi, significa sprecare la vita: il più grande peccato che l’uomo possa commettere. In questo senso, allora, non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo la luce che risplende nelle tenebre.

Ma le tenebre non l’hanno accolta”. Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude in particolare alle autorità religiose, che hanno avversato Gesù in ogni modo, in ogni occasione: uomini del Tempio, freddi, inflessibili, autoritari: dei “morti viventi”, dei senza cuore.

“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Gesù, il verbo incarnato, è la vera luce che illumina; ma attenzione, evitiamo di prendere degli abbagli, non confondiamo la luce con le tenebre, perché il potere, l’orgoglio, la superiorità, la mancanza d’amore, la rigidità mentale, ecc., non sono “luce”, non vengono da Dio, non possono riconoscere Dio.

Non lasciamoci incantare da luci, ancorché luminosissime, ma “diverse” dalla Luce vera; noi siamo creature di Dio, siamo “divini”, cioè ripieni, impregnati di Dio; non dimentichiamo mai chi siamo veramente, da dove veniamo, e dove dobbiamo tornare.

Se dimentichiamo che nel cuore abbiamo l’impronta di Dio, e viviamo come se non lo conoscessimo, siamo come dei re detronizzati, degli emarginati che sopravvivono in schiavitù. Una vera disgrazia!

“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.

Ecco, questo è il progetto originario, il motivo pilota, l’idea primordiale di Dio per ognuno di noi: farci diventare suoi figli.

Per anni ci hanno insegnato che l’uomo è stato creato per “servire” Dio, che Dio è il padrone del mondo, inavvicinabile, che preordina ogni cosa, che in quanto suo servitore l’uomo deve ubbidirgli sempre, prontamente e fedelmente, perché Dio, se non stiamo attenti, ci punisce prima in vita con dei castighi, e dopo, alla morte, con l’inferno, con la dannazione eterna.

Ma non è così: in realtà noi non siamo “servi” di Dio, siamo piuttosto degli amici, dei figli che sono serviti continuamente e di tutto punto da Dio. Abbiamo presente la lavanda dei piedi? (Gv 13,1-20). Ecco, è Dio che serve l’uomo, non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede particolari preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui, al contrario, che è venuto a portare i suoi servizi, il suo amore a noi. La fede, allora, non va più alimentata da quanto noi facciamo per Lui, ma da tutto quello che Lui fa per noi.

Altra cosa importante: noi non siamo figli di Dio per nascita, per diritti acquisiti; lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8).

Questa di Giovanni è la teologia dell’amore: “trasgressiva” rispetto a quella “vendicativa” di una volta: Dio non è più rinchiuso nelle chiese, nei suoi tabernacoli, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”; non è più immobile, statico, com’era nel Tempio, ma è dinamico, in costante cammino verso l’eskaton finale insieme alla sua gente. Dio non è più un luogo (tempio), ma è un tempo (“kairòs”): perché nell’istante stesso in cui nasce amore, lì c’è Dio.

Il Vangelo dice ancora che: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.

Prospettiva meravigliosa: perché vuol dire che questa nostra carne, il nostro corpo, è immagine, è somiglianza di Dio. Vuol dire che il Verbo di Dio è realtà, concretezza, carne umana come noi.

Se Dio non si fosse incarnato in Gesù, non avremmo mai potuto ammirare il suo volto: “chi vede me, vede il Padre!”. Dio ha avuto bisogno del volto, delle mani, degli occhi, della bocca, esattamente come gli uomini, per esprimere la sua Parola, per farsi vedere, per agire, per fondare e diffondere il suo Regno su questo mondo.

Diceva Tertulliano: “Caro salutis cardo, la carne è il cardine della salvezza”. Senza l’incarnazione di Dio non vi è salvezza. “Incarnazione” infatti vuol dire che Dio è sceso sulla terra, è presente qui, da noi e con noi, per salvarci.

“Dio non si conosce”, continua a insistere la mente; “Dio si riconosce eccome!” le ribatte il cuore. Noi possiamo vedere Dio dovunque, oppure da nessuna parte: dipende solo dai nostri occhi.

In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù ad essere come Dio, ma è Dio che è come Gesù. Pertanto, se vogliamo sapere chi è Dio, cerchiamo, guardiamo, conosciamo, studiamo Gesù.

Infatti, se ciò che vediamo, che ammiriamo con gli occhi e con l’anima, non è pura bellezza inebriante, non è amore infinito, non potrà mai essere il Dio di Gesù.

Sulla sommità di una vetta dolomitica, ricordo un cartello che diceva: “Non cercate Dio: ci siete immersi”. Infatti Lui era lì, lo si sentiva... e per vederlo, bastava guardarsi intorno! Amen.



venerdì 25 dicembre 2020

27 Dicembre 2020 – La Santa Famiglia di Gesù, Maria, Giuseppe

“Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, e anche a te una spada trafiggerà l’anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,22-40).

 Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo nel recarsi al Tempio.

Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per due distinte prescrizioni della legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito.

Maria e Giuseppe fanno tutto seguendo le prescrizioni previste dalla Legge.

È interessante notare come Luca ripeta per ben cinque volte la parola “Legge”, quasi a sottolinearne l’importanza. Si tratta infatti di una antica usanza, recepita, assorbita e interpretata nel corso dei secoli, dalla “tradizione”, che per il popolo era vincolante come e forse più delle leggi scritte.

È difficile anche per noi staccarci dalla ritualità imposta dalle tradizioni. È molto difficile infatti, talvolta impossibile, distaccarci da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti continuano a fare.

Maria e Giuseppe salgono dunque al Tempio. E qui incontrano un personaggio singolare, un certo Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”).

Il Vangelo non ci dice se sia vecchio. Ci dice però che era un uomo giusto e timorato di Dio. Si potrebbe pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti del Tempio non vengono mai descritti come assistiti dallo Spirito Santo!).

Ma Simeone non è un sacerdote del tempio, è un profeta, non un uomo del culto, ma un conoscitore della vita.

Maria e Giuseppe cercano un rappresentante della Legge per riscattare il loro primogenito, e trovano invece un uomo dello Spirito, le cui parole non si rifanno ad alcuna regola o prescrizione, ma sono parole esaltanti, gravi, profetiche, riferite al futuro del loro figlioletto. Essi rimangono attoniti di fronte a tali dichiarazioni: già i pastori avevano parlato di un “salvatore”, già l’angelo aveva parlato di lui a Maria come del Figlio dell’Altissimo, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”: ma cos’è tutto questo? A cosa si riferisce quest’uomo?

Sono andati al tempio perché la madre del bambino venisse purificata, e invece trovano quest’uomo che preannuncia la purificazione di Israele per opera del loro figlio: per questo, egli sarebbe diventato per molti la “pietra d’angolo” su cui molti avrebbero costruito, su alcuni avrebbero gettate le loro basi, mentre per altri egli sarebbe stato “pietra di scandalo”, pietra d’inciampo che li avrebbe fatti cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).

Seguire Gesù infatti non è mai semplice, indolore; non è come percorrere un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con frequenti fontanelle d’acqua e molte panchine su cui riposare.

Gesù ci mette davanti a scelte onerose, a crocevie misteriose, a inevitabili cadute: le sue verità sono dure e radicali; ci mette di fronte a noi stessi, senza poterci rifiutare. Il suo è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento: con Lui è impossibile sonnecchiare tranquilli. Le risposte che vuole sono sì, sì, no, no. È per questo che il suo vangelo è per alcuni “vita”, per altri “morte”.

Simeone dunque predice a Maria ciò che avverrà: non le dice nulla, ma insieme le dice tutto. Ella ascolta attentamente, anche se non comprende tutto di quanto le viene detto.

Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva in proposito sant’Ambrogio: “Maria è il tempio di Dio, non il Dio del tempio!”: Ella cioè, nel corso dei secoli, è stata ricoperta di così tanti privilegi e titoli soprannaturali, da impedirci di vederla così com’era, madre giovanissima, quando ancora nessuno poteva pensare che diventasse la “Madonna”!

Il vangelo sottolinea più volte che Maria, proprio nello svolgere la sua missione di madre, rimaneva sorpresa, meravigliata, “non capiva”: accolse infatti il messaggio dell’angelo senza capirne l’esatto significato, non avendo chiara tutta la sua importanza, ma disse “si”. Non capì neppure il vero significato dei messaggi di suo figlio Gesù, ma semplicemente lo seguì sempre. Questo fu il suo grande merito: da madre che era, divenne sua umile discepola.

Lei conosceva la tradizione profetica ebraica secondo cui il popolo eletto sarebbe stato salvato dal Messia. Ma qui Simeone prevede un’altra cosa: suo Figlio sarebbe stato: “luce per illuminare tutte le nazioni”, ma anche “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Sarebbe stato cioè un “Messia” completamente diverso da come tutti se l’aspettavano: e, altra cosa importante, Egli sarebbe stato il Salvatore non soltanto del popolo eletto, ma di tutta l’umanità.

Ma ciò che colpisce particolarmente Maria è una frase del vecchio veggente: “a te una spada trafiggerà l’anima”. A quale “spada” si riferiva Simeone?

Forse alludeva ad alcune espressioni del Figlio, oscure, difficili da capire, che le avrebbero causato dispiacere, sconforto, incomprensione? Una cosa è certa: ben presto si sarebbe resa conto che le sue aspettative materne, riposte nel figlio, si sarebbero realizzate in maniera ben diversa da come lei pensasse.

Forse alludeva al profondo dolore che avrebbe provato il suo cuore di madre, constatando che i suoi vicini, i suoi compaesani si sarebbero espressi contro suo figlio, mal sopportandolo, avrebbero deriso, rigettato le sue affermazioni straordinarie, le sue opere miracolose: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone?” (Mc 6,3); per dire: “Ma chi si crede di essere? Conosciamo molto bene lui e la sua famiglia!”. I parenti stessi lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è addirittura un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un pazzo perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16): e si accordano per farlo morire (Mc 3,6).

Gesù insomma sarebbe stato considerato da tutti un pazzo, uno stravagante, un fuor di senno: uno meritevole di morte. Sarà questa la spada preannunciata da Simeone?

Oppure si riferiva a quell’altra difficile prova che avrebbe dovuto affrontare, di dover cioè anteporre a tutto, al suo stesso intimo e profondo legame di madre con suo figlio, la missione soprannaturale di Gesù, che l’avrebbe infine portato sul Golgota?

Tutto questo Maria l’ha intuito più che capito, l’ha gradualmente interiorizzato, e soprattutto l’ha fedelmente praticato negli anni in cui Gesù, nella sua famiglia, “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.

Ebbene: è esattamente questo lo spirito che dovrebbe appartenere ad ogni genitore, questo il comportamento che dovrebbe regnare sovrano anche le nostre moderne famiglie: accogliere la volontà di Dio, agire sempre nel rispetto condiviso dei propri doveri.

Purtroppo, in questi tempi, la “famiglia” sta vivendo una crisi profonda: la sua naturale composizione di padre, madre, figli, non si presenta più come l’unico modello di unione sociale; oggi c’è la pretesa di considerare “famiglia” qualunque tipo di convivenza, sia etero che omosessuale.

Non esistono più doveri fondamentali, fedeltà, rispetto reciproco, ma solo un latente egoismo esibito come amore; solo “diritti” individuali, inizialmente dormienti, ma sempre pronti a riemergere per sopraffare l’altro: è purtroppo l’immagine ricorrente delle attuali libere convivenze, quasi sempre posticce, volubili, instabili, pronte a sfasciarsi alla prima difficoltà. Nessuno più crede al matrimonio cristiano, unica istituzione in cui è possibile coltivare, salvaguardare, accrescere i valori umani e spirituali di una vera, autentica, naturale famiglia. 

Ma per questo dobbiamo forse arrenderci e concludere che oggi è impossibile amarsi? No! Dico soltanto che, come ci insegna la festa di oggi, sentimenti profondi come l’amore oblativo, l’accoglienza, il rispetto, la dedizione, sono patrimonio esclusivo della “famiglia”, quella autentica, quella che Dio ha sognato e voluto, creando la prima coppia uomo/donna.  In essa, anche oggi come allora, amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere i figli in un progetto di famiglia è possibile.

Maria e Giuseppe ce lo documentano: è infatti nella loro famiglia che Dio ha scelto di nascere, di sottomettersi alle naturali e normali dinamiche famigliari, di vivere cioè tra le fatiche di un rapporto di coppia, condivise però e superate con amore e tenerezza.

Riscopriamo allora anche noi questo “antico” e infallibile modo di essere famiglia: riscopriamolo nell'autenticità, nella sincerità, nella fede, nel difficile cammino di amore e di comprensione reciproca.

E perché queste festività possano trasformarsi veramente nella festa dell’intera famiglia, i genitori abbiano cura di “presentare” i loro figli al “Tempio”, sull’esempio di Maria e Giuseppe: se poi sono cresciuti, e al Tempio non vogliono più andare, non si scoraggino: li portino spiritualmente con la preghiera, e con la loro fede li pongano ugualmente nelle mani del Padre, per ottenere da lui una particolare benedizione. Consapevoli che questa, sicuramente, si trasformerà in speciali grazie, in future benedizioni. Amen.

  

giovedì 17 dicembre 2020

20 Dicembre 2020 – IV Domenica di Avvento

“In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1, 26-38).

 Quello tra l’arcangelo Michele e Maria, l’inesperta ragazzina di Nazareth, è stato un incontro semplice, silenzioso, nascosto, che ha comunque ispirato, durante i secoli, l’arte di migliaia di pittori, scultori, poeti e scrittori, e che noi invece – noi gli evoluti del ventunesimo secolo – guardiamo con la consueta superficialità, come se si trattasse di una favoletta.

E, invece, no: il vangelo di oggi ci racconta ciò che è realmente accaduto! Con tutti i particolari. Dalle poche ma magistrali pennellate di contorno, delicatamente incisive com’è nello stile di Luca, emerge prepotentemente la grandezza del pensiero di Dio. In un paesino incollato ad un pendio roccioso, lontano dalle grandi strade commerciali, in una misera ma dignitosa casupola, ricavata nella roccia, avviene l’assurdo di Dio, l’inizio di una storia diversa, una storia di salvezza. Dio, stanco di essere incompreso dagli uomini, decide di venire tra loro a raccontarsi. La lunghissima storia di amicizia e di amore col popolo eletto non è stata sufficiente a Dio per farsi capire, tanto che, alla fine, sceglie di farsi uomo, di incarnarsi, di diventare uno di noi: ma per farlo gli serve un corpo, ha bisogno di una madre.

E Dio, per realizzare questa sua decisione, non sceglie la moglie dell’imperatore, non una scienziata o una premio Nobel, non una dinamica imprenditrice dei nostri giorni; ma una piccola adolescente, Mariàm (la bella). È a lei che Dio, l’onnipotente, chiede di diventare la sua “porta” d’ingresso nel mondo.

Contro ogni buon senso, Maria accetta: ci crede immediatamente, e di fronte a tanta meravigliosa incoscienza, noi non sappiamo se sorridere o scuotere la testa; restiamo comunque ammutoliti davanti alla sconcertante semplicità del dialogo con l’angelo, al coraggio di questa ragazza ancora acerba, che parla alla pari con il soprannaturale, chiedendogli spiegazioni e chiarimenti.

Ma Dio non guarda con i nostri occhi, non ragiona con la nostra mente. Per calarsi nella storia, Egli sceglie un umile paesino sconosciuto, Nazareth; e a Nazareth, come madre, sceglie una altrettanto umile e sconosciuta bambina, Maria.

E nel silenzio, senza pubblicità, si consuma il grande mistero della divina umanità.

Nessun collegamento satellitare, nessuna diretta televisiva, nessun network avrebbe mai potuto riportarci l’accaduto.

Solo un assordante silenzio lo accompagna ancora oggi; e ci indica le illogiche scelte di Dio.

A noi che cerchiamo sempre il consenso, la notorietà, l’efficienza, la produttività, Dio propone una logica nuova, diversa, la logica del “nascondimento”, basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sulla fede sincera, che ottiene sempre risultati imprevisti e sconcertanti; basata soprattutto sull’umiltà, una virtù misconosciuta e oltraggiata dall’uomo, fin dalla sua creazione.

Siamo alla fine dell’Avvento: tra cinque giorni siamo a Natale.

Dopo la figura di Isaia, il profeta dell’annuncio del Messia, dopo il Battista, il precursore che addita il Messia già adulto, oggi è d’obbligo fermarci a meditare sulla terza grande figura dell’avvento: su Maria, la figura centrale, colei cioè che offre il suo grembo per il divino concepimento del Dio uomo.

E che messaggio ci trasmette in pratica Maria? “Accogliete il Signore. E non soltanto in occasione dell’imminente natale, ma in ogni momento della vostra vita!”. Ma cosa significa “accogliere il Signore”?

Significa fare come ha fatto lei: significa accettare i Suoi progetti, le Sue proposte, lasciarsi portare da Lui, fidarsi di Lui. Ogni giorno, dovunque, sempre, in ogni situazione. Significa accettare di diventare la sua casa, significa accoglierlo in noi, ospite unico, infinito, nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà. Senza paure o condizionamenti.

“Non temere, Maria”. Certo, non è stato sicuramente facile per Maria accogliere questo progetto di Dio: una scelta che doveva essere assolutamente libera, da innamorata, nonostante le enormi difficoltà che le comportava. La sua è stata una risposta generosa, franca, consapevole ma, soprattutto, una risposta dettata dall’amore.

Una risposta, quella di Maria, completamente diversa dalle nostre, legate alle circostanze, succubi del rispetto umano, stanche sul nascere, condizionate dai nostri calcoli e dal nostro tornaconto.

Per noi risulterà sicuramente impossibile ricordare i nostri numerosi “si”, ripetitivi e frettolosi, espressi a Dio nel momento del bisogno! Quante distrazioni, quanti tentennamenti, quanta ignoranza, quanta superficialità! Altro che risposte libere e gioiose continuano ad essere le nostre! Sono in pratica lo specchio di quella che è la nostra vita: azioni calcolate, egoistiche, interessate, volubili. Ma per Dio queste non sono delle “risposte”: Egli pretende in esse un consenso irrevocabile, irrinunciabile, definitivo; un’adesione totale della nostra esistenza, senza mai pretendere nulla in contropartita.

Certo, è sicuramente lecito avere dei dubbi. Li ha avuti anche Maria: “Come è possibile questo?”. Ma i dubbi sono a monte, precedono la risposta; devono semmai essere l’occasione per dare una risposta ancor più vincolante e cosciente, più consapevole, più autonoma.

I dubbi servono infatti per accrescere la nostra fede. Perché avere fede significa riporre in Dio le nostre certezze, sempre, in qualunque situazione della nostra vita, bella o triste che sia; significa fortificare le nostre risposte, renderle irremovibili, immutabili, togliere loro qualunque possibilità di ripensamenti; significa poter superare qualunque ostacolo ci si pari davanti, come Gesù stesso ci ha assicurato: perché “tutto è possibile a chi crede” (Mc 9, 23).

“Eccomi, sono la serva del Signore”; con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui, ha messo la sua vita a completa disposizione di Dio. Questa è fede; questo significa credere veramente. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire, il modo con cui anche noi dobbiamo rispondere alla nostra chiamata.

La fede di Maria non è stata tanto nel credere a un certo numero di verità, quanto nell’essersi fidata ciecamente di Dio, nell’essersi completamente abbandonata a Lui.

Maria ha accolto Dio nella sua vita. Ha creduto che “nulla è impossibile a Dio”. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi, in maniera totale e gioiosa. Ha concepito Cristo, come dice S. Agostino, “prima nel cuore che nel suo corpo”.

È questo l’esempio luminoso che ci viene proposto oggi da Maria. Imitiamola dunque, imitiamola con fede, “concepiamo” anche noi Gesù nel nostro cuore. Diventiamo partecipi di questa sua sublime vocazione. Del resto, come hanno scritto Origene e S. Bernardo, “che beneficio avrei, se Gesù fosse nato soltanto una volta a Betlemme, e non continuasse a nascere per fede nel mio cuore?”

Ecco: dobbiamo far nascere Gesù in noi; dobbiamo accoglierlo nella nostra vita con tanta fede, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo, così come Lui stesso ci ha insegnato durante la sua vita terrena.

Proprio quando pensiamo di avere sbagliato tutto nella vita, quando non siamo soddisfatti dei risultati ottenuti o ci sentiamo attratti dall’assordante richiamo del mondo, guardiamo a Nazareth, guardiamo al silenzio di Maria, alla sua umile dedizione, al suo composto modo di fare, e lasciamoci sbalordire, lasciamoci incantare da tanta semplicità e fedeltà. Anche noi, sul suo esempio, non abbandoniamo, non rinunciamo, non molliamo mai; per nessuna ragione.

Tra una settimana è Natale. Presentiamoci anche noi a Betlemme, umilmente, senza pretese, così come siamo: ascoltiamo anche noi la voce del Signore che silenziosamente dice al nostro cuore: “lasciati amare; non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro!”. Che vogliamo di più da Dio? Egli è così: dobbiamo solo aspettare; dobbiamo chiudere gli occhi, e lasciarci finalmente incontrare! Amen.

 


Tu sei Dio,

nostra salvezza,

inquietante tenerezza!

Ti sei fatto carne nella fragilità,

Debolezza che invaghisce,

Povertà che domanda e affascina!

Intuirti è meraviglia,

riconoscerti è gioia,

incontrarti è stupore,

abbandonarsi a Te è amore.

È tormento.

È pace.

Amen!

 BUON NATALE 2020

BUON ANNO 2021

A tutti voi, amici e compagni di viaggio, con

FB, KENOSIS, L’APOLOGETA,

INTROIRE SECUM

 Mario

Roma, Natale 2020

marilabium@virgilio.it

 

 

 

 

giovedì 10 dicembre 2020

13 Dicembre 2020 – III Domenica di Avvento

“Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce…” (Gv 1, 6-8. 19-28).

 Anche questa domenica il vangelo si concentra sulla figura del Battista. Ma oggi Giovanni non è l’asceta duro di domenica scorsa, non è il profeta austero, intransigente, l’annunciatore di catastrofi qualora gli uomini non si dovessero convertire.

Oggi ci viene dipinto da Giovanni, l'evangelista suo omonimo, come un “testimone”, un “indicatore”; noi moderni diremmo come un “navigatore stradale”, un cartello segnalatore che dice: “Non guardate me, guardate più in là, oltre me: andate nella direzione che io vi indico”.

Il Battista è qui enigmatico, non spiega, non dice chi verrà né come verrà. Dice soltanto: “Preparate la via… verrà uno che non conoscete… e io di fronte a lui sono niente”.

Bene: è proprio questo lo spirito dell’avvento. Giovanni “sente” che qualcosa deve succedere, che qualcosa deve arrivare; e attende, aspetta. Sente che sta per giungere qualcuno, ma non sa esattamente chi.

Attendere, vuol dire aspettare qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito, che deve arrivare. La vita è una continua attesa; dobbiamo infatti conservare la sorpresa, l'imprevisto, il poter essere “sorpresi”, perché se conosciamo già tutto, se abbiamo già provato e scritto tutto, che vita è? Che attesa è?

Prepararsi pertanto vuol dire: “Acconsenti che ti succeda qualcosa di cui non puoi disporre, che non puoi controllare, che non puoi gestire. Permetti che la vita ti faccia delle sorprese”.

Noi invece, per natura, tendiamo a controllare tutto. Pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il “più in là” rispetto a noi. Se, incontrandolo, Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio qualche volta non ci scuote rudemente, magari con un salutare ceffone, per svegliarci, per scuoterci, per rientrare nei ranghi, per farci capire che è Lui che ci ama incondizionatamente, che è Lui il nostro unico bene, non è Dio.

Dio lo troviamo molto di più nell’imprevisto, piuttosto che non in tutto ciò che noi pre-vediamo. Lasciamoci allora sorprendere dalla Vita! Permettiamole di manifestarci tutta la sua importanza, la sua ricchezza. Ricordiamoci che Dio/Vita lavora sempre per noi, con noi, mai contro di noi; se lo intralciamo, se lo ostacoliamo, lo facciamo contro noi stessi.

Nel vangelo viene posta a Giovanni Battista una domanda che dovrebbe farci molto riflettere: “Chi sei tu?”. Già: “Chi siamo noi?”. Risposta: “Sono un uomo, una donna, un marito, una mamma, un bravo cristiano!”. Sì, d'accordo, noi siamo tutto questo, ma non è tutto. Questo, semmai, è il nostro “ruolo” provvisorio, è il vestito che indossiamo nella vita, ma “dentro”, chi siamo noi?

Il ruolo, quella parte di noi cioè che ci distingue, quella esterna che gli altri vedono, è infatti limitato, è limitante: ci permette di vivere solo una vita parziale, circoscritta.

È vero, tutti abbiamo un ruolo nella vita: molti però vivono sempre e soltanto quello. Sicuramente perché recitare sempre la stessa parte, continuare a vivere nei panni dello stesso personaggio, ci rassicura: lo capiamo, lo interpretiamo bene, ci è familiare. E non ci accorgiamo che un po’ alla volta ci ingabbia, ci riduce in schiavitù, ci impedisce di vivere la nostra totalità. È l’aspetto negativo del “ruolo”, perché purtroppo sono in tanti quelli che, strada facendo, rinunciano alla parte migliore di loro stessi, perdono la loro identità spirituale, il loro essere “altro”, essere “Spirito”: non se ne accorgono, si ostinano a “interpretare” una vita incompleta, sterile, esanime, immedesimati esclusivamente nel loro ruolo esteriore.

Per cui la domanda rimane invariata: “Al di là di tutti i ruoli, di tutti i nostri travestimenti materiali, chi siamo noi?”. Chi siamo noi, dentro, in profondità, nell’intimità dell’anima?

Questa è la domanda cui dobbiamo rispondere. Cos’è che ci rende originali, irripetibili, esclusivi, rispetto a tutte le creature del mondo? Cos’è che ci rende diversi? Chi ci rende unici davanti a Dio? È il suo Spirito: è il suo “soffio vitale”. È l’impronta creatrice di Dio che ci ha voluti a sua immagine e somiglianza.

Ora, non coltivare con grande impegno, con cura, questa nostra identità divina, non cercare di migliorarla, di accrescerla, di perfezionarla, significa accettare passivamente di “cosificarci”, di alienarci, di ritornare la “massa” informe di fango primordiale; significa che l’essere “unici”, essere preziosi agli occhi di Dio, conosciuti per nome, amati singolarmente da Lui, non ci interessa, non ci attira, non ci esalta, non ci commuove; significa che non proviamo alcun rimorso, alcuna vergogna di rifiutare questa nostra dignità soprannaturale; che non proviamo alcun imbarazzo assimilandoci ai tanti fantasmi in circolazione, a quella miriade di doppioni senza valore, che volutamente rinnegano il loro “originale”, soffocano la loro anima, rifiutano stupidamente lo Spirito di Dio; significa insomma scegliere di essere dei morti viventi, la cui vita è non-vita, ogni loro azione inutile, ogni ideale inattuabile.

“Tu, chi sei? Egli confessò e non negò...”. Il Battista inizia a dire prima di tutto cosa non è: “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”. È importante rifiutare subito i ruoli che gli altri ci attaccano addosso, tutte le etichette che ci incollano; è importante ribellarsi e dire agli altri: “No, non sono uguale a voi, non sono come voi! Io sono io; non sono te e nessun altro. Io ho il mio nome. Non vi piaccio come sono? Non soddisfo le vostre aspettative? Non rientro nei vostri schemi? Pazienza!”. È l’inizio della libertà. Della nostra libertà. Perché noi siamo “altri”!

Affermare la propria identità, di non essere ciò che gli altri vorrebbero, toglierci tutte le maschere, le definizioni, le incrostazioni che gli altri ci hanno sovrapposto, è un’operazione molto impegnativa, difficile, spesso anche dolorosa.

Ma se coraggiosamente ci togliamo di dosso ciò che non ci appartiene, che deturpa il nostro essere “unici”, pian piano emergerà la nostra originalità, chi siamo veramente, immagine e somiglianza di Dio.

“Io sono voce di uno che grida: Preparate la strada”. Giovanni è dunque un profeta; è questo il suo ruolo: ma oltre a ciò, egli ha trovato chi è veramente, la sua vera identità, ha capito qual è esattamente la sua missione: “Essere voce”. Egli ha trovato il vero motivo per cui vivere, la ragione per cui è stato creato, ciò che dà senso e valore alla sua vita. Lui è la “voce” che deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate; il Signore vi passerà vicino, non lasciatevelo scappare! Dio c’è, ma se voi insistete a tenere gli occhi chiusi, non lo vedrete mai!”.

Il Battista dà, presta la voce, ma le parole sono di un Altro. È testimone della Luce, illumina anche, ma non è la Luce. È come la luna che riflette una luce non sua; non è lei la fonte della luce: la sua “luce” viene dal sole.

Questo è il Battista: e come il Battista, dobbiamo essere anche noi “voce”; dobbiamo essere strumento, mezzo, veicolo di Qualcun altro. Dobbiamo cioè essere l’amplificatore, l’altoparlante della Voce che sussurra al microfono del nostro cuore.

È questo il nostro compito principale, primario: dare voce all’Infinito, al Dio, all’Oltre; dare voce alla Forza, allo Spirito che ci scuote dentro, ma che non ci appartiene.

Sì, perché noi viviamo in Lui: la vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità, la maternità, non è nostra, non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi, siamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non siamo Dio.

Il soggetto è sempre e solo Dio. È Lui che parla, Lui che ispira, Lui che chiama.

Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Sentirle sue, quando non lo sono affatto. L’uomo è soltanto un “amministratore” del creato, è semplicemente la “voce” che deve esprimere lode e riconoscenza al Creatore di tutto.

Anche quest’anno Dio busserà al nostro cuore. Vuole ancora una volta ri-nascere dentro di noi. Gli apriremo il nostro cuore? Lo riconosceremo? Gli crederemo? Fermiamoci un istante per tempo, e pensiamoci. Seriamente. Amen.

 

 

giovedì 3 dicembre 2020

6 Dicembre 2020 – II Domenica di Avvento

“Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (Mc 1,1-8).

 Dove troviamo il Battista? Nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio: il deserto è l'unico ambiente ideale per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”.

Nel deserto non c’è posto per la fantasia: se non fai qualcosa di concreto per vivere, muori. Lì conta solo l'essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze mondane, le convinzioni inutili: nella solitudine ci troviamo davanti a noi stessi, alla nostra coscienza, e tutto ciò che negli anni abbiamo nascosto, dimenticato, tutto ciò che non vorremmo mai vedere, mai incontrare, puntualmente, crudamente, riemerge.

Nelle Chiese noi abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: parliamo di Dio e in nome di Dio, ma continuiamo a rimanere in superficie, non ci convertiamo, non cambiamo dentro, rimaniamo sempre gli stessi, praticamente giustifichiamo “religiosamente” le nostre iniquità, il nostro vivere nelle tenebre.

Il deserto, a differenza della confusione, della folla, è autentico, aperto, sincero, non nasconde nulla; ci dice: “No, amico mio, devi convertirti e devi cambiare. Non illuderti. Non nasconderti. Dove vai? Pensi di fuggire? Cerchi di evitare la verità? È qui che si vede se ami Dio: perché se ami Dio, come dici, devi drasticamente cambiare, devi “convertire” il tuo cuore, la tua vita”.

Leggendo attentamente il Vangelo appare evidente, che per vivere coerentemente in Gesù Cristo, è indispensabile abbandonare quella che è la “nostra religione”, quella che abbiamo "addomesticata" a nostro uso e consumo, troppo spesso teatro di esibizionismi.

La religione, per definizione, ci consegna tante belle regolette, ci spiega cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare, ci rassicura, ci dice che se faremo così andremo in paradiso e se faremo colà andremo all'inferno; ci dice chi sono i bravi, i puri, gli ammessi, e chi invece sono i cattivi, gli esclusi.

Ma di tutto questo c'è ben poco, quasi nulla, nel Vangelo di Gesù. Perché credere in Lui, avere fede, significa avere un solo obiettivo: amare. Significa colmare continuamente il nostro cuore alla fonte del suo amore, per poi riversarlo su ogni creatura, su tutti i fratelli, discretamente, con rispetto, compassione, tenerezza.

La regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”. La regola di Gesù è invece: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le aiuti a crescere? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti?

Beh, come si vede, la differenza c’è, e non da poco.

Il Battista, nonostante il suo annuncio sia duro e severo, ha grande successo con la gente, al punto che le autorità religiose si allarmano. In realtà egli dice: “Guardate che non sono io quello che deve venire, non sono io il Messia”. Ma nonostante ciò, per il potere egli rimane un pericolo. Per questo sarà diffamato. Quando non si può eliminare l'avversario basta screditarlo e diffamarlo. Se non troviamo in lui del male, parliamone male, e per tutti diventerà una persona da isolare, un male da evitare.

Ma perché con il Battista? Perché ha carattere, perché non guarda in faccia a nessuno; è uno che non le manda a dire: e questo non piace a nessuno.

Inoltre quello che dice non è tanto facile da accettare: annuncia cose insolite, novità oscure, parla di un “battesimo di fuoco”, da ricevere necessariamente, dopo quello d’acqua.

In genere noi, quando diciamo: “Sono cristiano”, lo diciamo perché siamo stati battezzati e registrati in parrocchia nel libro dei battesimi. Ma per il vangelo non è proprio così.

Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”; ma dove? Nelle tenebre che regnano dentro di noi. Anche “Giordano” vuol dire “immergersi”; e dove va a finire il Giordano? Finisce nel Mar Morto. Ecco: è esattamente questo che ciascuno di noi è chiamato a fare: immergersi “nella mortalità” di questa vita, immergersi in ciò che sembra morto, finito, senza senso, disperato, per poter riemergere dalla morte alla Vita.

Gesù, con la sua discesa nella nostra storia (la kenosi), ha rivelato che, nel buio mortale di questa vita, c'è una luce divina che non muore mai.

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.

Nonostante Egli fosse già stato battezzato nelle acque del Giordano, il battesimo che Gesù, con angoscia mortale, aspettava di ricevere è quello di fuoco, la tragica conclusione della sua missione sul Golgota.

Il nostro battesimo di fuoco deve essere invece un cammino dentro di noi: un cammino che per prima cosa deve eliminare tutto ciò che di negativo si è sedimentato in noi, in profondità, tutto ciò che distorce la nostra immagine spirituale: deve essere un cammino di purificazione, di liberazione, che porterà a scoprire chi siamo veramente, a far risplendere nuovamente la nostra anima, le nostre sembianze divine, quelle indistruttibili. Solo così, chi ci guarderà a fondo, potrà realmente scorgere in noi qualcosa di soprannaturale, potrà ammirare in trasparenza quel Qualcuno che abita in noi, ben più grande di noi, di cui siamo ancora soltanto una pallida somiglianza, una sfocata immagine.

Che non bastano: il nostro percorso di totale identificazione in Lui, è ancora lungo e impegnativo. Non serve averlo “programmato”: dobbiamo realizzarlo!

Non possiamo diventare pienamente figli di Dio, immagine originale del Padre, rimanendo inattivi, insensibili, sordi ai suoi continui solleciti. Vogliamo raggiungerlo e stamparlo a fuoco dentro di noi?

Diamoci allora veramente da fare: cerchiamo in questo Avvento di risanare, di ripulire a fondo, la nostra anima, il nostro cuore, la nostra umanità. Amen.

  


 Oggi il Battista, dopodomani Maria Immacolata: sono le due figure che ci conducono al Natale. Entrambi ci annunciano un figlio ma con prospettive diverse.

Maria è la madre accogliente: “C'è qualcosa che vuole svilupparsi in te, accoglilo. Se questo qualcosa, questo figlio, non è secondo i tuoi programmi, non importa, accoglilo lo stesso.

Se questo figlio ha un nome diverso da quello che tu pensavi, non importa, accoglilo lo stesso.

Se questo figlio non è come tutti se l'aspettavano e ti spiazza, non importa, accoglilo lo stesso”.

Maria, come qualunque altra donna quando partorisce un figlio, lo stringe a sé, ama “suo figlio”: non perché è il più bello, il più buono o perché è come lei se l'aspettava; lo ama perché è suo, perché viene da lei, è parte di sé stessa, perché ha bisogno del suo amore, della sua cura e della sua tenerezza.

Anche il Battista è in attesa del Messia. Anche il Battista non vede l'ora del suo arrivo. Nelle sue parole si percepisce tutta l’ansia, il desiderio per la sua venuta: “Preparate la strada e raddrizzate i sentieri”. La sua stessa vita di profeta è vissuta in funzione di Colui che deve venire.

Sì, Gesù è l'Aspettato ma non come se l'aspettava il popolo. Non è potente come un nuovo Davide, con l'esercito, le armi, le spade e i cavalli. Non è forte come un nuovo Elia, che distrugge le falsità, combatte l'ingiustizia e uccide i malfattori. Non è condottiero come un nuovo Mosè che lo libera dalla schiavitù dei nuovi Egiziani, i Romani.

Il Battista dovrà cambiare opinione e convertirsi: “Lui è diverso da come me l’aspettavo!”: e non fu per niente semplice per lui accettare questo “figlio”!

Ma il “figlio” del nostro Natale, è Colui che vuole nascere, che vuole venire a stabilirsi in noi. Anche noi dobbiamo accettare, accudire questo “figlio”: un lavoro continuo, difficile... ma è così. Se lo rifiutiamo lo uccidiamo sul nascere.

È un "figlio" che ci è anche Padre. Non è come noi lo vorremmo, è diverso: per questo lo dobbiamo accogliere com'è, soprattutto quando ci chiederà di cambiare le nostre idee, i nostri pensieri; quando ci chiederà di aprire la mente anche su ciò che per noi è inconcepibile.

Lui vuole vivere in noi. Dio vuole nascere in noi. Accogliamolo, accettiamolo, perché è lui, Gesù, che vuole nascere ogni anno in noi. Amen.

 

  

giovedì 26 novembre 2020

29 Novembre 2020 – Prima Domenica di Avvento – Ciclo B

“Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento” (Mc 13,33-37).

 Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.

Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.

Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nelle bellezze della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.

È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, immaginare quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato. Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione.

Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. Noi invece ci stanchiamo subito: vogliamo risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretendiamo raccolti veloci, abbondanti, senza applicarci alla semina. L’attesa è invece sempre impegnativa, spesso snervante: dobbiamo soprattutto essere convinti che il seme di Dio è quello migliore, che per germogliare e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno soprattutto della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, tutto è mutevole. “Se Gesù con il suo Vangelo è ancora fermo a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti Lui ai nostri tempi moderni, aggiorni Lui la sua Parola, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo”.

Illusi! Come pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, che ci condiziona, che ci sottomette, questa è la verità.

Solo se continueremo a lavorare in silenzio, a dissodare, a vangare il terreno, a concimare, a rimuovere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti del nostro lavoro.

Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando: mai cedere al sonno della pigrizia. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.

“Vegliare” non vuol dire smettere di lavorare, far finta di nulla, tirare avanti aspettando che “succeda qualcosa”: se non facciamo nulla, non approderemo mai a nulla; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la “Voce”, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Perché quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo necessariamente rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se non capiamo il perché, anche se la morte ci terrorizza, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.

Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode insulse del momento: purtroppo viviamo situazioni in continua evoluzione, in costante travisamento; i media ci spingono sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può definire vita.

Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo cambierò”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, quando sarò “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono propositi idioti, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da ogni impegno per amare Dio; serve piuttosto conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, riconoscerlo nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è un alibi perverso con cui giustifichiamo la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare più tardi?

Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere, tutto sommato, come gli altri, anzi migliori degli altri; di essere insomma dei cristiani “a posto”, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche piccolo ritocco ogni tanto! Non dimentichiamo mai che furono i “perfetti” che procurarono a Gesù una fine tragica sulla croce. Fu ucciso proprio da quelle persone che si spacciavano per osservanti, le più in regola, le più brave, le più religiose.

Non creiamoci false e ipocrite aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché altro non è che subdola presunzione, una superbia ben truccata e difesa.

Quando ero ragazzo mi capitava di incrociare spesso, un monaco molto anziano che invariabilmente, ricambiando il mio saluto, mi sussurrava sospirando: “Sta’ in campana, Mario!”. Nient’altro. Solo queste parole. Una “perla” di saggezza, con la quale evidentemente voleva mettermi in guardia dalle facili illusioni della vita: “Sta’ pronto, sta’ in campana!”. Una raccomandazione, grave e minacciosa per la mia età, che continua a risuonarmi nella mente.

Aspettiamo allora l’incontro finale con Dio, pregando ogni nuovo giorno, al mattino, al nostro risveglio, con grande umiltà: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi sopportare le contrarietà, come se fossero l’ultimo dono che posso offrirti. Fammi pregare, come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità che ho qui su questa terra di parlare con te”. Amen.