giovedì 25 giugno 2020

28 Giugno 2020 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”. 
(Mt 10,37-42).

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo.
Un testo duro, difficile da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole, per noi “umani”, decisamente incomprensibili.
Ma cosa intendeva dire Gesù? Cosa voleva che i suoi discepoli portassero scolpita nella loro memoria? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno dopo giorno la sopravvivenza alle loro famiglie.
Quindi a gente “concreta”, parole concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; Io sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate. La vostra scelta di discepoli, essenziale e obbligata, è una sola: Io, il vostro Dio”.
Dobbiamo riconoscere che, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è certo semplice. Diciamo anzi che quel cammino è percorribile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
Si tratta di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo “cristiani” nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, e quindi anche a noi, per rianimare la nostra vita spirituale, troppo spesso asfittica e denutrita.
Nella vita, prima o poi, tutti devono affrontare un bivio decisivo: da un lato c’è la volontà di Dio, il sevizio di Dio, che però prevede quella croce che il Signore ci invita a prendere per seguirlo; dall’altro, una soluzione alternativa, più appetibile, più umana, più logica, più adattabile alla nostra mediocrità.
Ebbene: è esattamente in questi casi che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa.
Il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, mezze misure: Egli è categorico: vuole tutto, chiede tutto. Ma ci dà anche tutto: con la stessa generosità con cui una volta ci ha dato sé stesso sulla croce, così continua in ogni istante a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma di vita è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione per Lui, che diventi un fuoco travolgente, un fuoco interiore che ci spinga a fare per Lui anche le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, ma fino ad un certo punto; più in là non posso andare, non ce la faccio”. Questo non è più amore. La vera misura, l’unica che dobbiamo raggiungere, è amare Dio “sopra ogni cosa”, perché solo così potremo ottenere da subito la vera felicità.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli vuol stabilire un principio fondamentale: se facciamo la volontà di Dio, ossia se lo amiamo al di sopra di tutto, non ci perderemo mai. Al contrario ci perderemo sicuramente se agiamo contro la Sua volontà, se lo amiamo svogliatamente o per niente.
Vivere pertanto il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è uno stile di vita da prendere alla leggera, non è un passatempo piacevole: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo permanente; non sono ammesse scorciatoie; c’è un’unica strada, quella tracciata da Gesù, quella che passa attraverso il Golgota.
Per questo l’autenticità cristiana è vista da molti come semplice utopia; un progetto inavvicinabile, inattuabile.
Del resto, anche noi che ci diciamo cristiani, arriviamo a viverne solo le briciole, ci fermiamo purtroppo al più semplice “apparire”, alle pratiche esteriori, alle pie esibizioni, alle visibili commozioni, ai pubblici “mea culpa”; ci accontentiamo cioè di salvare la faccia, di essere considerati dagli altri “persone per bene”, osservanti, timorate e innamorate di Dio.
Ma per seguire veramente Gesù, per essere veri cristiani, non basta l’entusiasmo di un momento, non bastano le buone intenzioni, i grandi propositi.
Il vangelo di oggi è estremamente chiaro in questo. La “conversione” che Gesù vuole da noi deve essere profonda, totale, continua: dobbiamo cioè mettere Dio sempre e comunque al primo posto: tutto il resto viene dopo.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta…”: tremendo! Quante volte anche noi riusciamo a mortificare la nostra fede! Quanti di noi, per esempio, vanno alla messa domenicale, non per celebrare il Sacrificio Eucaristico, non per rendere gloria a Dio, ma per ascoltare il “profeta” di turno, il facondo oratore che sfoggia gigionescamente la sua arte omiletica (“vado a quella messa perché c’è Caio che predica così bene!”): e non pensiamo che in questo modo barattiamo scioccamente una misera “ricompensa” elocutoria, con quella vitale e insostituibile della reale presenza di Dio in noi, portatore di Grazia e benedizioni vitali!
Ecco perché è necessario scendere nel profondo del nostro cuore, porci di fronte alla nostra coscienza e chiederci umilmente: “Quanto conta Dio nella mia vita? Amo veramente Gesù e il suo Vangelo? Voglio appartenere sul serio a Dio? Gli ho mai chiesto di farmi diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico ci porta tutti obbligatoriamente ad essere santi, cioè a “vivere di Dio”, ad essere innamorati persi di Dio. Uno stile di vita che tutti dobbiamo fare nostro, non solo i preti, i frati, le suore!
Ogni cristiano che vuol seguire la chiamata di Cristo, infatti, proprio perché “umano”, è debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Seguire fedelmente Gesù è difficile per tutti, ci vuole tanta buona volontà, tanta umiltà, tanta perseveranza. I momenti bui, i mari in burrasca, le strade in salita, i precipizi, sono i nostri “pesi” quotidiani, con cui tutti dobbiamo fare i conti, nessuno escluso. Neppure i santi: i quali non sono persone “speciali”, impeccabili, ineccepibili; sono persone normalissime, che però vogliono a tutti i costi amare Dio: per Lui riescono a superare qualunque ostacolo, sono pronti a rialzarsi sempre, dopo ogni caduta, pronti a ricominciare ogni giorno il difficile percorso in salita che è l’imitazione di Cristo: l’unico percorso che, passando attraverso la croce, ci porta alla gioia della Risurrezione finale.
I santi sono insomma coloro che si affidano a Dio, che rinnovano continuamente i loro propositi di fedeltà, che vivono nell’amore a Dio e al prossimo. Sono l’esempio da seguire.
Perché solo imitandoli, anche noi “indecisi”, ritroveremo” l’entusiasmo, la voglia di realizzare in pieno la vita: una conquista che non avviene, come siamo soliti pensare, con la carriera, con le ricchezze, coi divertimenti; ma soltanto “perdendo” questa nostra vita, impiegandola cioè per la causa di Cristo, per il bene concreto dei fratelli.
Un percorso quindi che non prevede false affermazioni personali, forme di egoismo, sopraffazioni per il proprio tornaconto; un percorso però che ci assicura una tale quantità di amore e di gioia, da rendere stupenda, meravigliosa, straordinaria la nostra vita e quella degli altri.
“Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”, ama dire papa Benedetto, richiamando l’insegnamento di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. È dunque questo, condensato in pillole, il messaggio “nuovo”, il messaggio “bello” del Vangelo. È la grande novità di Gesù. Amen.




venerdì 19 giugno 2020

21 Giugno 2020 – XII Domenica del Tempo Ordinario


“Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.
(Mt 10,26-33).

Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo, nella loro missione apostolica.
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato sicuramente facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili gravi conseguenze. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù sia esistito o meno, non determina le scelte della loro vita: scegliere o non scegliere Cristo è, per esse, assolutamente ininfluente, come scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze.
Non così, per quanti invece decidono di seguire Cristo.
Il testo ci propone infatti quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto-manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci prospettano, in qualche modo, lo stile di vita dei primi cristiani: la loro era una esistenza di fede profonda, praticata nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, soprattutto quello di morire martirizzati: semmai l’unico rischio che potremmo incontrare è quello di venire isolati, di rimanere soli, messi alla berlina, non essere capiti, accettati.
Un niente: ma è una eventualità che mortificherebbe inevitabilmente il nostro “ego”, mettendoci nella impossibilità di ottenere riconoscimenti, consensi, attestazioni di stima da parte degli altri; una situazione che porterebbe ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cioè cristiani a singhiozzo, compatibilmente con le circostanze della vita: credere quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando cioè abbiamo un ritorno di riconoscimenti e ammirazione. Salvo poi, quando non ci conviene più, nasconderci, cambiare faccia, cambiare fede e religione con grande naturalezza e disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi non ci raccomanda tanto di professare pubblicamente la nostra fede, quanto di essere sempre coerenti con noi stessi, con la nostra fede, con la nostra coscienza; in una parola di essere persone autentiche, che sanno fare luce dentro di loro, proprio là dove convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti.
Vogliamo far sapere al mondo chi siamo veramente? Facciamolo praticamente con la nostra vita: perché in questo modo non solo cresciamo come uomini e come cristiani, ma testimoniamo coerentemente la nostra fede.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma la paura è la nostra fedele compagna di viaggio; noi abbiamo paura di tutto e di tutti, anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi.
Siamo troppo condizionati dal “rispetto umano”, dal giudizio della gente! Al punto da evitare talvolta di compiere per vergogna delle buone azioni: come per esempio di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere sinceramente in pubblico un nostro parere “cristiano” sulle questioni del momento. Dobbiamo purtroppo ammettere che la nostra fede è troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. Gesù è sempre chiaro, paradigmatico, esemplare, non lascia mai spazio a dubbi.
Ci colpisce in particolare la triplice raccomandazione di Gesù di “non aver paura”: e ci spiega chiaramente di chi e di che cosa dobbiamo aver paura: non delle ossessioni personali, non delle nostre idiosincrasie, e soprattutto non di “quelli che uccidono il corpo”: sappiamo bene, per esperienza, quanto gli uomini possano ferirci: possono infatti umiliarci, farci paura, farci pressioni, disonorarci. Possono infliggerci qualunque ferita corporale, ma non possono toglierci l’anima; a meno che noi stessi non glielo permettiamo. C’è qualcosa in noi che è solo nostro, di nessun altro: nessuno infatti può ferire, uccidere la nostra anima, senza che noi lo permettiamo.
Per quanto possiamo essere oggetto di pressioni, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a comandare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Nessuno può toglierci l’anima, questo nostro “soffio” divino: noi soli lo possiamo “soffocare”, nessuno può sottrarcelo. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, la nostra professione, la nostra laurea; non “siamo” la nostra posizione sociale, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” unicamente la nostra anima!
Allora non svendiamo noi stessi. Perché quando abbiamo perso noi stessi, la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, non ci rimane più niente. Troppe persone sprovvedute, anche cristiani, accettano purtroppo di svendere la propria anima per nulla: per i soldi, per la ricchezza, per il piacere, per il benessere, per la gloria, per il potere! Chiamano “vita” ciò che è morte; e chiamano morte ciò che invece è “Vita”.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e del numero dei capelli sul capo.
In pratica dice: “Nulla accade nel mondo senza che Dio lo sappia. Egli è più grande di tutto e di tutti, è il più forte”; “non cade un passero senza che Lui lo sappia”: che non vuol dire: “non vi capiterà mai di cadere”, ma: “se vi accade di cadere, Dio ne è a conoscenza”; in sostanza Gesù ci assicura che anche nella sofferenza, Dio c’è, non siamo mai soli, mai abbandonati a noi stessi; la sua presenza è sempre una presenza di salvezza, anche se non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza.
È comunque una grande consolazione sapere che tutto quanto ci riguarda, anche le cose più “insignificanti”, come la perdita dei capelli, è sempre presente al cuore di Dio.
Come possiamo pensare che il Dio che ci ha creati, che ci ha voluti, ci possa poi abbandonare a noi stessi? Che Colui che ci ha donato la vita, possa togliercela? Tranquilli, non è possibile: la liturgia stessa ci dice perentoriamente che “vita mutatur non tollitur”, la vita un giorno ci verrà cambiata, ma non tolta! Quindi non preoccupiamoci, viviamo serenamente la vita che Dio ci ha donato, nella certezza che Egli, anche se non lo capiamo, lavora per noi, agisce continuamente per noi, vuole sempre il nostro bene vero!
C’è, è vero, un avvertimento molto importante che conclude il vangelo di oggi: “Chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò!”. Parole severe che sembrano contenere addirittura una minaccia, una promessa di vendetta da parte di Dio, un ritorno all’antica legge del taglione: “Tu mi tratti così? Mi rinneghi con la tua vita? Io ti ripago con la stessa moneta: ti rinnego!”.
Una sentenza punitiva, tuttavia, che non è assolutamente imputabile a Dio, ma direttamente a noi; rientra cioè nel principio di “causa-effetto”: noi sappiamo infatti già fin d’ora che un giorno le possibilità che ci aspettano saranno due soltanto: o l’essere accolti come “benedetti” oppure rinnegati come “maledetti”; e ciò grazie esclusivamente alle nostre attuali scelte di vita: perché, in breve, chi ama sarà amato, chi disprezza sarà disprezzato.
Oggigiorno però, nel nostro cristianesimo annacquato, quell’incontro finale con Dio che si chiama “giudizio”, in base al quale conosceremo la nostra destinazione eterna, è stato completamente rimosso da ogni priorità e preoccupazione: nel tripudio dell’esaltazione assolutoria della divina Misericordia, ci siamo completamente dimenticati dei nostri doveri di cristiani, di discepoli “chiamati” a testimoniare il vangelo con le opere e il buon esempio: ci siamo cioè progressivamente adattati al principio del “fai come ti pare, tanto Dio è buono!”, con cui puntualmente addomestichiamo qualunque precetto o comandamento divino; del resto, perché preoccuparcene, se poi Dio, che è “misericordia assoluta”, alla fine ci salverà e ci premierà comunque? Opinione oggi molto diffusa e affermata anche nella Chiesa: una lettura del vangelo partigiana, distorta, incompleta, avvalorata peraltro da una catechesi che dovrebbe invece esprimersi in maniera più fedele, più veritiera e completa. Perché che Dio sia “Misericordia infinita”, è vero: ma è vero anche che è “Giustizia infinita”: altrimenti Dio farebbe un torto a sé stesso, alla sua “essenza” divina: cosa improponibile, inaccettabile, inammissibile.
In definitiva Gesù, con queste parole così perentorie, vuol dirci: “Fate attenzione: comportatevi per quello che siete (miei testimoni). La fedeltà al vostro ruolo sarà per voi l’unica garanzia per godere della mia amicizia eterna”. Che poi è semplicemente il presupposto anche di qualunque sano comportamento umano: “Io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui il cuore umano può godere” scriveva Jean-Jacques Rousseau.
Mai allora disinteressarci della nostra anima, mai infangare il volto del Gesù che vive i noi. A dirlo è facile, ma non è così: essere “cristiani” sul serio, essere discepoli di Gesù, comporta infatti sacrifici costanti. Brutto segno se a noi non costa nulla: perché vuol dire che non abbiamo centrato il senso del vivere cristianamente: forse ci siamo abituati a chiamare morte ciò che è vita. Oppure chiamiamo vita ciò che, magari, è morte certa.
Ciò che ci qualifica come veri cristiani, ciò che ci assicura di vivere nel giusto, di essere nel cuore di Dio, è proprio la fatica di essere testimoni fedeli, sono le continue difficoltà che dobbiamo superare quotidianamente per non deviare dal “nostro” cammino.
Allora qualunque cosa ci stia capitando, smettiamo di controllare le giornate, le persone, l'età che passa, cosa dice la gente di noi. Smettiamo di controllare, perché tanto c'è già Lui che controlla ogni cosa: ci pensa Lui. C'è Lui, non devo temere nulla, e anche se tutto sembra morte diciamoci: "Vado verso la vita!". Amen.



venerdì 12 giugno 2020

14 Giugno 2020 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo


“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,51-58).

La festa liturgica del Corpus Domini risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo successo al sacerdote boemo Pietro di Praga, che dubitava della presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino consacrati: per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro e durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: qui, alla frazione del pane, l’ostia si trasformò miracolosamente in carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue, macchiando vistosamente il corporale steso sull’altare. Una preziosa reliquia che possiamo ancora oggi ammirare e venerare nel famoso duomo di Orvieto.
Oggi, dunque, la Liturgia ci ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere” l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci immedesimiamo in Lui. È la festa dei discepoli, di tutti noi, la festa della condivisione, la festa che ci ricorda l’importanza e i doveri dell’essere Chiesa. 
Il vangelo parla più volte di “mangiare la carne” e “bere il sangue”. Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ricordo in proposito che una vecchia suora ripeteva severamente a noi ragazzini, durante la preparazione alla Prima Comunione: “Non masticate la particola, perché fate male a Gesù!”. Parole che mi hanno colpito così profondamente, che ancora oggi talvolta mi condizionano.
Ma all’epoca vigeva ancora la mentalità che discriminava rigorosamente la “materia” rispetto allo “spirito”. Si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano, che muore, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il più possibile la materia”.
Pertanto la “materia”, il corpo, era considerato solo un vile rivestimento, un contenitore, la prigione dello “spirito”: chi desiderava rispondere ad una vocazione religiosa, chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale, fustigare il proprio corpo, doveva purificarlo, in nome di Dio, da ogni godimento mondano. La via della santità passava attraverso la totale privazione di ogni piacere naturale: per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e l'affetto, per il divertimento e le sane risate. Qualunque debolezza in questo senso, era “peccato”, tutto era opera del demonio. Lo slogan era: “Il corpo è di Satana: bisogna combatterlo”.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo; inscindibili l’uno dall’altro: non esiste nessun corpo umano senza spirito, come nessun spirito, nessun’anima, senza il proprio corpo; ogni uomo è costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, infatti, anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Noi non ce ne rendiamo conto ma molte delle nostre malattie corporali dipendono da malattie dell'anima: in tal caso possiamo prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi in circolazione, ma non ne usciremo mai, perché non è il corpo che è ammalato, ma il nostro spirito: il corpo funge semplicemente da termometro, è il display, la “radiografia” del nostro spirito.
Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio perché il corpo è l’abitazione dello Spirito di Dio. Il corpo è di Dio. S. Paolo lo definisce “tempio dello Spirito Santo”. Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi ritmi, i suoi limiti, le sue possibilità; dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Senza ovviamente oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati oggi alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio, oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione della persona; l’amore che gli viene tributato è comunque ben lontano dal rispetto che ci ha insegnato Gesù, dall’amore con cui Lui ama il nostro corpo.
Quando andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè “è vero, è così, sto veramente per mangiare il Corpo di Gesù”.
È l’istante del nostro incontro materiale con Dio. Il Divino si riumanizza in noi, e dovremmo allora sentire il nostro cuore esplodere in umile preghiera: “Ecco, Signore: questo è il mio di corpo, te l’offro come tua abitazione: entra tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e Gesù di rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: insieme faremo grandi cose!”.
Se sapessimo ascoltare, sentiremmo sicuramente queste o simili espressioni: perché incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, una gioia reciproca, quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, anzi entra nella nostra umanità per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene perché è felice di stare a tu per tu con noi; viene per identificarsi con noi, Corpo nel corpo. E lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per catechizzare questo mondo ostile; durante questa nostra vita siamo noi il suo alter ego: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore.
Un compito molto impegnativo, per il quale è necessario “santificare” questo nostro corpo, averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente al peccato.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile? Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano!
Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa pertanto nutrirsi del cuore incandescente dell'Amore, significa assimilare la linfa di quella Vita più forte della morte, significa scoprire che Dio è più intimo con noi, di quanto lo siamo noi stessi.  
Ciascuno di noi è chiamato quindi ad abbandonare il suo agire da “uomo vecchio” per diventare altri “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo abbandonare la nostra identità per diventare Corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Non si tratta ovviamente di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere un cibo qualunque: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione lenta, studiata, progressiva.
In altre parole si tratta di una profonda “conversione”, un diventare “l’Altro”.
Nei vangeli, tutti quelli che hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima.
La loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Che cambiamento è avvenuto in noi? Dove, come, quanto, Dio ci ha “sconvolto” la vita? Che fuoco ha acceso dentro di noi?”.
Se non si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è ancora vera, autentica. Se continuiamo ad essere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, vuol dire che ancora non siamo riusciti ad immedesimarci con “Lui”. Allora il nostro “incontro” con Gesù Eucaristia, dovrà purificarsi, dovrà essere un incontro di vera “comunione”: in questo modo Egli, offrendosi a noi, compenserà il nostro nulla, trasformandoci da “esseri carnali”, in “esseri spirituali”: con la sua azione di grazia, cioè, noi arriveremo gradualmente a vivere della sua stessa Vita.
Preghiamo allora, oggi in particolare, Gesù Eucaristia, perché si attui questa nostra conversione, perché ogni discepolo su questa terra si apra al suo stupore e al suo amore di Dio, perché ogni prete, ogni cristiano, che agisce nel Suo nome, diventi sempre più trasparenza di Dio.
Preghiamo perché nessuno svilisca, “cosifichi”, invalidi, l'Eucarestia domenicale: ma al contrario essa si trasformi, all'interno della nostra settimana, in una forza dirompente, divinizzante, un salubre pungolo per sollecitare la nostra mediocrità, e diventare discepoli sempre più convinti e consapevoli dell'immensità di Dio. Non spegniamo mai lo Spirito Divino che è in noi: lasciamo invece che la Sua grazia ci raggiunga e ci trasformi radicalmente. Amen!


venerdì 5 giugno 2020

7 Giugno 2020 – Santissima Trinità


“Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-18 ).

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana; noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto purtroppo che ormai ripetiamo meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo, soprattutto a come lo facciamo. Dobbiamo infatti riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale degli stessi cristiani.
La festa di oggi ci pone pertanto davanti ad un problema: perché il Dio della teologia, dell’intuizione speculativa, non corrisponde più con il Dio della nostra vita pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità dei concetti? Eppure la Trinità divina almeno a livello di “intuizione” non ha bisogno di uno “sforzo speculativo”, di equilibrismi intellettuali, per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica fare esperienza di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare incommensurabile: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di famiglia, composta da un padre-madre, da un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, che si chiama Figlio, che si fa compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati,; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theos” = “il dio dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana, prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte, si fondono in unità (Padre-madre) nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro.
La reale funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare evidente. Come pure evidente è la percezione del nostro ruolo “trinitario”: quando eravamo bambini infatti abbiamo sperimentato un “unum” indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi con lei fin dal grembo della vita; ci sembrava che fuori di noi due non ci fosse nulla, ci sembrava di essere il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; eravamo unici, ma eravamo anche in tanti, e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che, maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Venire al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche la cosa che ci fa paura perché in quello stesso momento diventiamo “altri”: ognuno, da solo che era, dovrà confrontarsi con gli altri, dovrà cioè “altrificarsi”.
Così per molte persone sentirsi “altre”, sentirsi diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha il suo verso, il suo carattere, la sua strada, la sua corsia, la sua “chiamata”) diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Di contro, vi sono persone che vivono la loro “alterità” come una competizione, un continuo confronto: “Io sono meglio di te; sono più bello di te; tu sei più buono di me; sei più preparato”. “Competere” significa allora voler puntualizzare la nostra diversità, voler stabilire la nostra superiorità, dimostrare che non temiamo confronti. Vuol dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo. 
Il mondo familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane sono piene di persone che di nascosto, subdolamente, si combattono tra loro. Sentono l'altro come un nemico e tentano di zittirlo, di eliminarlo, di ucciderlo, non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i giudizi taglienti. Giudicare, in greco “krino”, vuol dire letteralmente “dividere”, “separare”; chi giudica con acrimonia, non ama, e non si ama; non accetta gli altri perché in realtà non accetta neppure sé stesso. Sminuisce gli altri per farsi più grande; e quindi sparla, trancia giudizi velenosi, crea maldicenza intorno a sé. Chi emette giudizi a vanvera è un illuso, un mitomane, perché pensa di essere solo lui perfetto, inattaccabile, superiore a tutti.
Certo, c’è ancora molta strada da fare, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria, in cui io sono io e tu sei tu, ma l’amore ci unisce entrambi.
Se sviluppiamo e viviamo la nostra “alterità” in funzione dell’amore, saremo sicuramente felici, ci sentiremo realizzati, saremo soddisfatti, di noi stessi per come siamo, e degli altri per come sono. Allora gli altri possono scegliere anche soluzioni diverse dalle nostre, senza che per questo proviamo invidia o rancore per le loro scelte; noi proseguiremo per la nostra strada e saremo felici: gli altri andranno per la loro di strada, e noi saremo felici per loro, perché capiamo che quella è la strada giusta per loro. Le cose a questo mondo si possono fare in tante maniere: solo che noi molto spesso definiamo “sbagliato” ciò che è soltanto differente: ci sono tanti modi di pregare, tanti modi di vivere la famiglia, tanti modi di pensare; ci sono innumerevoli possibilità, che riflettono tutte insieme l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà di progetti, la sua creatività, la sua generosità. Pretendere che tutti agiscano allo stesso modo, standardizzare qualunque iniziativa, significa essere malati di autovalutazione, non amare le iniziative e la libera espressione degli altri: amiamo cioè l’altro, solo perché rappresenta specularmente la nostra stessa immagine: attraverso lui, ammiriamo e amiamo in ogni caso noi stessi.
Il nostro relazionarci con l’altro in questo modo è però falsato sul nascere, perché non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita, non c’è amore: non ci sarebbe soprattutto il libero intervento creativo di Dio, che ci ha voluti creature diverse, creature uniche, inconfondibili.
L'amore vero, autentico, l’amore creativo, l’amore offerta, l’amore oblazione, si realizza infatti unicamente attraverso l'unione di due creature “distinte”, diverse. “Ti amo perché tu sei tu, non sei me. Ti amo te perché sei altro da me”. È questa l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo; insomma è questa la vera unione spirituale, l'incontro in profondità delle anime. Amare non consiste nel pensare le stesse cose, nell’avere le stesse idee, nel compiere le stesse azioni, nel sognare gli stessi ideali. Amare è incontrarsi nello Spirito, nel profondo dell'anima, e costruire, nella reciproca “alterità”, l’identità di una unione che si ispira a Dio, rendendolo concretamente visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza concreta di questo amore.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità che celebriamo oggi, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato, che è amore, festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia.
Ricordiamoci che questo Dio ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”: ha impresso cioè dentro di noi un DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere anche noi una vita d'amore, di comunione, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo la nostra vita. Amen.


venerdì 29 maggio 2020

31 Maggio 2020 – Domenica di Pentecoste


“Gesù disse loro: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
(Gv 20,19-23).

Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro una specie di grembo materno, si sentono avvolti, protetti, nascosti, al sicuro. I cinquanta giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, hanno segnato per loro un’esperienza terribile, un periodo di profonda e sofferta crisi interiore.
Improvvisamente un terremoto, un uragano, uno scossone tremendo si abbatte su di loro. Lo Spirito di Dio è sceso su di loro, ha invaso i loro cuori, ha spazzato le loro menti: la loro esistenza viene completamente stravolta; i loro pensieri, le loro certezze, la loro vita, che prima seguivano certi ragionamenti, all’istante cambiano, trasformano radicalmente tutto il loro essere: da incerti, timorosi, dubbiosi, diventano forti, intrepidi, decisi: in una parola diventano “altri”, sono irriconoscibili.
È la Pentecoste, il giorno dello Spirito: il giorno che ha segnato la loro totale, decisiva rinascita. Da un livello di superficie, di esteriorità, di facciata, sono passati ad un livello di grande profondità, di decisiva interiorità; da un dipendere da altri, da una insicurezza infantile, sono passati alla piena maturità, alla completa autonomia, alla totale libertà di pensiero.
Parlavano una lingua “altra”, che però tutti capiscono, perché dentro di loro hanno stabilito un contatto diretto con Dio. Prima Gesù era fuori, all’esterno: aveva trascorso con loro giornate intere, avevano mangiato e parlato insieme. Ora quel Gesù, risorto, non è più fuori ma dentro di loro, lo sentono forte e chiaro, potente e presente. Il loro terrore di perderlo ora si è trasformato nella certezza che nessuno avrebbe più potuto allontanarlo da loro.
Pentecoste è dunque una “irruzione” dello Spirito che sconvolge, rovescia, rigenera; per questo è sempre accompagnata da una crisi. Il verbo greco “crino”, da cui “crisis”, vuol dire separare, distinguere, giudicare: la “crisi” generata dallo Spirito consiste pertanto in un punto di rottura, di svolta, di separazione: un momento cioè in cui dobbiamo stabilire ciò che in noi va tenuto e ciò che va lasciato; dobbiamo riconoscere il nuovo e avere il coraggio di lasciare il vecchio.
È quindi impossibile crescere, evolvere, rinascere, senza dover di volta in volta affrontare e superare le nostre tante crisi: quelle della vita, degli anni che passano inesorabilmente, dei fatidici sessant’anni; della morte di persone a noi care; delle disavventure e delle difficoltà economiche, della perdita del lavoro. Le crisi spirituali e affettive: della fede che non ci sorregge più; della necessità di maggiori certezze; degli imprevisti della vita che ci crollano addosso; del naufragio di un amore, di una famiglia, dell’allontanamento dei figli.
Crisi che sono il corredo della nostra vita: ognuna di esse comporta per noi una sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci rende più forti, ci scuote, perché ogni crisi è sempre puntualmente accompagnata da quel particolare “intervento” dello Spirito che ci purifica, che ci trasforma, che rende la nostra Vita più vera, più matura, più libera, più trasparente; ogni crisi è anche quel momento specialissimo in cui sentiamo distintamente l’amore di Dio che opera in noi, che ci modella, ci plasma, ci forgia, ci rende come vuole Lui: è la personale Pentecoste che si ripete nella nostra vita, è la consolante azione dello Spirito in noi.
Eppure, se noi chiediamo alla gente cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E non sa rispondere perché purtroppo non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto.
Molti pensano che lo Spirito sia un “optional”, un qualcosa che a richiesta si può “aggiungere” alla persona, a “come” siamo; e poiché, per quanto li riguarda, stanno già bene così come sono, dello Spirito ne fanno volentieri anche a meno.
Ma lo Spirito non è un di più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, è parte del nostro essere, è un qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito di Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita; egli sta con noi da sempre, ci ha fatto nascere, è quel “soffio di vita” che Dio alitò inizialmente sull’uomo, e che ripete puntualmente ad alitare su ogni essere umano all’istante del suo concepimento.
Essere dello Spirito, allora, essere “spirituali”, non vuol dire pregare molto, compiere buone azioni, fare cose pie e religiose, frequentare la chiesa, partecipare ai pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere dello Spirito, vivere dimostrando “Chi” abbiamo dentro, a chi apparteniamo, chi è la nostra guida spirituale: è un particolare stile di vita.
Se guardiamo una persona, noi in genere ci fermiamo solo al suo apparire esteriore. Dobbiamo invece andare oltre, guardare l’anima delle persone, come faceva Gesù, che fu per eccellenza l’uomo del guardare oltre le apparenze, oltre la realtà materiale, colui che scrutava lo spirito di chi incontrava: il suo “modo” di vivere, che Lui chiamava “Regno di Dio”.
E lo diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un luogo lontano, ma è qui, dentro di te, oggi, adesso. Vederlo dipende dai tuoi occhi”. Gesù infatti guardando un fiore, un giglio del campo, vedeva Dio, perché vedeva la luce, lo Spirito del fiore; guardava gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro? Come sono liberi!”; vedeva i fatti che accadevano e vi leggeva la mano di Dio che interveniva per insegnare; vedeva i sofferenti, i poveracci, i bisognosi e mentre tutti cercavano di evitarli, Egli li avvicinava, li abbracciava, li baciava, coglieva il loro bisogno d’amore, donava amore; vedeva i peccatori e mentre tutti li consideravano nemici di Dio, Egli entrava dentro la loro anima, ne coglieva la luce nascosta, la loro forza, il desiderio intimo e profondo di rinascere; vedeva un pescatore qualsiasi e coglieva le sue potenzialità, lo vedeva già un suo “apostolo”. In croce era accanto ad un assassino, un omicida e, mentre tutti vedevano in lui il malfattore, Gesù gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”; condannato a morte, mentre noi proviamo soltanto rabbia verso i suoi carnefici, Egli vide in loro un barlume di luce, soffocato dalle tenebre del cuore, e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù insomma non vedeva l’esteriore, la facciata, il materiale; Gesù vedeva in ogni essere umano lo Spirito del Padre, la luce che c’è dentro ogni creatura.
Questo faceva Gesù; questo è l’insegnamento che Egli ci ha lasciato: ma noi siamo troppo distratti, indifferenti, assenti: abbiamo un sacco di cose da fare, siamo tesi, tormentati, assillati: nel nostro intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente sereni e felici.
Non riusciamo ad entrare in sintonia con lo Spirito che vive in noi.
Questo è il nostro problema: non riusciamo a vedere il divino, a vedere Dio. Siamo bloccati sul materiale delle cose, sollecitati in questo dalla moderna società, incapace di elevarsi allo spirituale. È una vera, autentica malattia: il nostro interesse dominante è “avere”, possedere: “Quanto costa? Quanti soldi hai? Quanti soldi servono? Quanti soldi ti danno?”; siamo concentrati esclusivamente sull’io, sull’egocentrismo più sfrenato: “Io…, io…; Io faccio così; se non ci fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là; parlo io; io so; io non ho bisogno…”. Poi ci scandalizziamo per quanto succede nel mondo, per le notizie dei telegiornali, dimenticando che i veri colpevoli siamo noi, siamo noi a comportarci così, è la “società”, solo che la società siamo sempre noi.
Quando il principale interesse della nostra vita consiste nel diventare “superiori” a tutti, è naturale che lo Spirito passi in seconda linea, che non ci attiri, che lo perdiamo strada facendo: se giudichiamo o valutiamo le persone in base al loro vestito, alle abitazioni, alle auto; se il nostro unico pensiero è il conto in banca; se il divertimento viene prima di ogni cosa; se ragioniamo solo in base al “do ut des”; se non preghiamo più, se non troviamo più il tempo per congiungere le mani, per fare silenzio, per metterci in contatto con la nostra anima, ebbene, ciò significa che siamo già al capolinea: vuol dire che ci siamo sganciati dallo Spirito, che abbiamo fatto del materialismo il centro dei nostri pensieri, dei nostri ideali, delle nostre scelte.
Dopo aver donato il suo Spirito agli apostoli, Gesù si preoccupa anche di renderli consapevoli su come dovranno comportarsi nei confronti dei fratelli: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Ora, stabilire chi perdonare e chi no, implica sempre una grande responsabilità: sappiamo però che Gesù, in proposito, ci ha insegnato che dobbiamo perdonare tutti, anche chi ci fa del male; che dobbiamo usare nei loro confronti carità, amore, comprensione. Non per sette volte, come pensava Pietro, ma per settanta volte sette: vale a dire sempre e comunque.
Se non perdoniamo, succede che la rabbia, il risentimento, il dolore per le offese ricevute, continueranno a vivere in noi: ogni mattina le rivivremo, ogni santo giorno verremo dilaniati dalla stessa collera: invece di lanciare gesti d’amore, lanceremo solo sassate: perché la vendetta genera vendetta. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza questo automatismo diabolico.
Il famoso domenicano Henri-Dominique Lacordaire, era solito dire ai suoi frati: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”.
Oggi è Pentecoste: preghiamo allora Dio che faccia scendere nei cuori di tutti i fedeli il suo Spirito, il Consolatore, l’Avvocato. Perché oggi più che mai, ne abbiamo un assoluto bisogno: oggi più che mai abbiamo bisogno nella Chiesa e nel mondo di una nuova Pentecoste! I potenti della terra sono infatti sempre più assetati di potere, e pensano solo ad aumentarlo, prevaricando su tutto e tutti; i ricchi mirano soltanto ad accrescere a dismisura la loro ricchezza, non curandosi in alcun modo dei miserabili che non hanno di che sfamarsi; i genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia il dialogo non c’è più, perché ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e intraducibile.
Nella Chiesa le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono meccanici, consunti dall’uso, e non invogliano più nessuno alla conversione. A chi è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi, distaccati, invischiati nel “mestiere”, e diventati irriconoscibili a Cristo stesso...
Abbiamo bisogno, Signore, che il tuo Spirito Santo scenda dal cielo, e come fuoco bruci tutte le sterpaglie che soffocano il mondo; e soprattutto ripeta ancora una volta il miracolo delle lingue! Sì, perché in questa nostra società, nonostante i potentissimi mezzi di comunicazione, non c’è più colloquio, non c’è più condivisione di gioia, di bellezza, non ci sono più parole di bontà e di perdono. Siamo bersagliati continuamente da sopraffazioni e violenze, da cattiverie e da odio, inondati dal fango di putride insinuazioni.
Per questo serve in fretta che Tu, Signore, ripeta dal cielo il Tuo miracolo d'Amore in particolare su quanti ti rappresentano: come avvenne in quel lontano giorno di Pentecoste, in cui i pochi Apostoli uscirono rinnovati dal cenacolo e fecero capire al mondo intero la bellezza della Tua Parola, vivendola e testimoniandola, fortificati dai tuoi santi doni. Amen.



venerdì 22 maggio 2020

24 Maggio 2020 – Ascensione del Signore


“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,16-20).

Oggi la chiesa celebra la festa dell'Ascensione: Gesù lascia questa terra e sale al cielo per ricongiungersi col Padre. L’appuntamento concordato con i discepoli è di incontrarsi in Galilea, su un “monte” noto ad entrambi: solo che giunti lassù i discepoli, vedendo Gesù ancora solo, vengono assaliti da nuovi dubbi: la scena che essi immaginavano era quella dei preparativi per organizzare finalmente la rinascita di Israele. Nel loro cuore, pertanto, tutto viene rimesso in discussione.
Gesù capisce subito la situazione, e li riporta alla realtà: li fa vivere un’esperienza che diventerà importante e decisiva non solo per loro, ma per noi e per tutti i discepoli che verranno: Gesù ci affida il difficile compito di continuare la sua missione nel mondo, assicurandoci la sua costante presenza. Non dice come: ma i discepoli di ogni tempo lo capiranno nel momento stesso in cui lo Spirito di Dio scenderà in ciascuno di loro, ed essi si trasformeranno, diventeranno “altri”.
I pochi versetti della pericope di oggi, concludono il vangelo di Matteo.
Costituiscono la sua sintesi dottrinale: ed è proprio dalla conclusione della vita terrena di Gesù, che dobbiamo partire per capire il compito della sua missione universale, la missione della Chiesa. È da qui che Egli inizia una nuova presenza sulla terra: Egli non c'è più, ma ci sono gli apostoli; Gesù non c'è più, ma c'è la Chiesa, sua presenza nel mondo: Lui “ascende” al cielo, se ne ritorna lassù da dove era venuto, e lascia qui in terra la sua Chiesa, noi, i “nuovi Gesù”.
In questo passo Matteo, per la verità, non fa alcun cenno all'Ascensione, non spende una parola per questo evento importantissimo. Contrariamente a Luca, che nel suo Vangelo e negli Atti ne parla ampiamente, Matteo non la nomina neppure: si limita a scrivere che Gesù, una volta risorto, appare agli undici e impartisce loro alcune disposizioni prima di andarsene.
La sua è semplicemente una scena di congedo: Gesù che se ne va e lascia ai suoi collaboratori le ultime volontà, lascia il suo testamento spirituale, le sue parole più preziose, a guida e conforto di quanti rimangono.
Matteo apre questo resoconto, sottolineando subito nei discepoli il loro stato d’animo contraddittorio: dapprima “si prostrano” per adorarlo, e subito dopo in cuor loro dubitano di lui: sembra casuale, ma in effetti è una annotazione magistrale, perché dipinge esattamente i due volti della Chiesa, il duplice modo di rapportarsi a Dio dei discepoli, dei cristiani di allora, di oggi, di ogni tempo: ci sono infatti persone che aderiscono immediatamente a Lui, lo sentono vicino, vivo, presente, dentro la loro vita; altre invece sono dubbiose, scettiche, persone che non si lasciano coinvolgere con facilità. Due atteggiamenti tipici dell’animo umano: l’interesse e il disinteresse.
Per questo motivo la Chiesa, fatta di uomini, non potrà mai essere una comunità che crede in Dio tutta allo stesso modo e con lo stesso grado di coinvolgimento. Anni e anni di storia ce l’hanno dimostrato. I nostri stessi stati d’animo cambiano frequentemente tra alti e bassi: in certi giorni siamo all’apice del fervore, crediamo in maniera convinta, totale, e in certi altri, la nostra fede si sgonfia, diventa tiepida, vacillante: in certi giorni esultiamo: “Dio c'è, lo sento, lo vedo, è vero!”; in certi altri siamo nello sconforto: “Dio dove sei? Perché mi fai questo? Che ti ho fatto di male? Perché non mi rispondi?”. La chiesa, in quanto comunità di uomini, non sarà mai perfetta: i suoi componenti sono infatti persone in cammino, deboli, traballanti, che cercano, come possono, di vivere nella loro vita la chiamata di Dio.
“A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Gesù mette in chiaro le sue credenziali: chi è, che poteri ha, il suo campo d’azione: Egli è il Signore della storia, ha il potere assoluto su ogni cosa, su tutti gli eventi, su ogni uomo. Egli è la salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso: è di tutti, per tutti. È Padre misericordioso, ma anche giudice imparziale.
Parole solenni, importanti, che oggi sentiamo anche noi risuonare distintamente nella nostra coscienza; parole che, per inciso, ci richiamano alla memoria i maestosi mosaici del Cristo “Pantocrator” (dal greco “pan-kratéo” = onni-potente): un Dio serio, autorevole, Padrone della vita e del mondo che, seduto sul suo trono, si appresta a giudicare gli uomini.
Un’immagine oggi accantonata del tutto, poiché ci evoca realisticamente quel momento tremendo in cui anche noi, messi alla sua presenza, dovremo sottoporci al suo giudizio finale: dovremo cioè rendere ragione di ogni cosa che ci riguarda, anche delle più segrete e nascoste: in quell’occasione il nostro animo, la nostra coscienza, il nostro cuore, la nostra vita, verranno esaminati: ogni nostra menzogna sarà svelata, ogni inganno rivelato, ogni lato buio, ogni ombra, messi in luce. Saremo privi di ogni maschera, tutti potranno vederci per quello che siamo realmente: ogni nostro bluff miseramente cadrà: scopriremo che dietro a tante azioni che noi pensavamo buone, si celava falsità, ottusità, cattiveria, mentre al contrario tante azioni giudicate cattive dal mondo, in realtà erano dettate dalla bontà, dall’altruismo, dalla preghiera, dall’ascolto della Parola di Dio. In quel giorno avremo veramente molte sorprese, e capiremo con quanta leggerezza abbiamo vissuto, con quanta presunzione abbiamo spesso agito, senza tener conto che un giorno Dio ci avrebbe giudicato con grande misericordia, è vero, ma anche con la dovuta giustizia.
Oggi dunque Gesù sale al cielo e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Gesù il responsabile, l'incaricato dell’annuncio; ora lui non c'è più; ma c'è la Chiesa, ci siamo noi. Siamo noi i nuovi responsabili. Per questo dobbiamo esserne sempre all’altezza, dobbiamo chiederci continuamente: “Ma io… faccio vedere il Cristo? Lo annuncio? I miei comportamenti, i miei gesti parlano di Lui?”.  Capite l’importanza di questo passaggio di ruoli?
Da questo momento in poi, nulla si può più lasciare al caso; la nostra vita non può essere più la stessa di sempre: essere “spirituali” a tutto campo, infatti, vuol dire anche essere concretamente “materiali”: dobbiamo cioè prenderci cura di questo mondo. Non possiamo rifugiarci soltanto nello spirituale, nella meditazione, nel colloquio estatico con Dio, ma dobbiamo calarci anche in questo mondo, percorrerlo in lungo e largo annunciando il messaggio di Cristo. Lui ce l’ha ordinato!
Sappiamo che il mondo è molto più contento quando ce ne stiamo per conto nostro, rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre liturgie: l’importante per lui è che ce ne stiamo lì, buoni, che non pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, nei suoi equilibrismi; vuole che non ci impicciamo di politiche sociali, di famiglia, di matrimoni omosessuali, di trasformazioni genetiche, di sfruttamento minorile, di lavoro nero. 
Solo in questo modo possiamo essere tollerati dai potenti della terra.
Ma Gesù non vuole che stiamo zitti: La sua voce di condanna si è sempre espressa contro ogni sopruso, Lui è l'unico nostro criterio di guida, a Lui e al suo Vangelo dobbiamo conformarci. Noi siamo il Gesù di questo tempo: non dobbiamo dimenticarlo mai! 
Lui non c'è più, è vero, ma ci siamo noi per Lui, e in Lui non possiamo rinnegare la sua Parola. 
Questa è la nostra realtà: se non ci sta bene, se non la consideriamo, allora smettiamola di definirci cristiani, “discepoli del Maestro”: smettiamo di ingannare noi e gli altri, poiché lontani da Lui, disallineati dal suo Spirito, non saremo mai nessuno.
C'è poi il grande mandato: “Andate! Fate discepoli! Apritevi!”.
Una fede chiusa, circoscritta, è una fede morta. La vera fede, al contrario, è aperta, dinamica, deve crescere, progredire, spingersi sempre più in avanti. 
La fede della Chiesa non può sopravvivere vivendo bloccata al suo passato, alimentandosi della sua storia, immergendosi nel suo vissuto secolare: il vangelo, la tradizione, il magistero, che giustamente costituiscono la sua spina dorsale, devono essere la molla che la spinge continuamente in avanti, verso il domani, verso il futuro. 
Per dare copiosi frutti spirituali, oltre che “cristiana”, legata cioè indissolubilmente a Cristo, deve quindi essere “cattolica”, universale, deve aprirsi, diffondersi a tutti gli uomini, al mondo intero, senza mai perdere la sua lucentezza, la sua originalità, la sua fedeltà.
Purtroppo, in ogni credente, la fede può mutare, può deteriorarsi, scomparire.
Sappiamo infatti che tutto ciò che vive, è destinato nel tempo a mutare, ad evolversi, a trasformarsi; anche se visivamente tutto può sembrare identico, immobile, invariato, nella realtà tutto cambia. 
Anche il nostro rapporto con Dio: Dio, è sempre Dio: i suoi principi, le sue raccomandazioni, il suo Vangelo, sono e rimarranno sempre quelli; siamo noi che cambiamo, e con noi, anche la nostra risposta alla sua chiamata d’amore: essa cambia, infatti, in funzione dell’età, della disponibilità individuale, della sensibilità di ciascuno.
Da qui la necessità, il dovere assoluto per ogni cristiano, di custodire gelosamente la propria fede, di curarla, approfondirla, purificarla, difenderla da ogni attacco contro la sua originale integrità.
Ogni tempo si caratterizza per le sue sfide innovative, per le sue battaglie culturali e religiose: per questo la nostra fede, la fede della Chiesa, deve essere pronta a combattere, a difendere la sua originalità, evitando di rimanere infettata dal virus di fasulle ideologie.
A questo proposito dobbiamo amaramente constatare che anche nella nostra cattolicissima Italia, la fede cristiana oggi è allo sbando: debilitata, ferita, imbastardita, fagocitata dalle novità del momento, si sta definitivamente spegnendo; siamo di fronte ad un cattolicesimo declassato, fuori moda, diventato religione “per vecchi, per chi non ha nient’altro da fare”: trascurata, accantonata, svilita dalle nuove generazioni, ha gradualmente smarrito il suo entusiasmo vincente, quella vitalità che la rendeva raggiante, appassionante, coinvolgente. 
Sarebbe ingeneroso scaricare come al solito l’intera responsabilità di questa situazione sui preti, sulla Chiesa, sul magistero: la colpa principale, questa volta, è soprattutto nostra, di noi cristiani tiepidi, demotivati, indifferenti, senza orgoglio, smidollati: cristiani spinti più dal “possedere” che dall’essere, preoccupati più di piacere al mondo che a Dio.
Fortunatamente, nonostante i cristiani, Cristo è sempre il vincente, rimane sempre il nostro Paraclito: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. È la nostra assicurazione sulla vita. Dio è con noi ogni giorno: nutriamoci allora di Lui quotidianamente perché:
Lui è alla nostra porta, accogliamolo;
Lui è in casa nostra, stiamogli vicino;
Lui è nel nostro cammino, incontriamolo;
Lui è la nostra guida, il nostro riferimento, seguiamolo;
Lui è fuori di noi, perché lo possiamo vedere; è dentro di noi per poterlo sentire;
Lui è con noi nel buio, per essere la nostra Luce;
Lui è con noi quando siamo soli nel dolore, per essere la nostra Consolazione;
Lui è con noi nella gioia, per essere nostro compagno e amico;
Lui è con noi negli entusiasmi, nelle passioni e nelle avventure, per essere nostro complice, nostro eroe;
Lui era con noi ieri, lo è oggi, lo sarà domani;
Lui è sempre a nostra completa disposizione.
Custodiamolo nel nostro cuore, come Lui ci custodisce nel suo! Amen.



venerdì 15 maggio 2020

17 Maggio 2020 – VI Domenica di Pasqua


“Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14,15-21).

Giovanni continua anche oggi a riferirci il discorso di addio di Gesù iniziato domenica scorsa: i particolari da chiarire sono ancora molti e importanti, perché devono essere capiti bene. Siamo dunque ancora nel cenacolo.
Gesù aveva appena annunciato la sua partenza per tornare al Padre, in un luogo dove non c'è più nulla da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, unico e insostituibile, un posto che lui andava a prepararci. Oggi Egli conferma questo suo distacco: ma nello stesso tempo assicura che il Padre non li avrebbe lasciati soli, avrebbe assicurato la presenza di un “Paraclito” che sarebbe rimasto per sempre accanto a loro, a noi, alla Chiesa di ogni tempo: anche se materialmente nessuno potrà più vedere il suo volto, Egli continuerà a rimanere con noi, ma in maniera diversa, in maniera spirituale, in noi, con il suo Spirito.
“Il Padre vi darà un altro Paraclito”. In greco, “Paraclito” significa “Avvocato”: avremo cioè un incaricato che ci difenderà contro le insidie del male, che ci assisterà quando siamo in pericolo, quando ci sentiremo soli, deboli, impotenti; uno che ci suggerirà sempre cosa dobbiamo fare, come comportarci al meglio. Ma significa anche “Consolatore”: avremo sempre cioè uno che ci capisce, che condivide i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre paure; uno che ci consola quando pensiamo di non farcela, che lenisce il dolore delle nostre ferite, che sa entrare nel nostro mondo interiore, nella nostra anima, che sa parlare al nostro cuore.
Gesù sa perfettamente che senza la sua costante presenza, i discepoli, e in futuro anche noi, avrebbero facilmente dimenticato la sua immagine e le sue parole. Per questo ha assicurato la presenza di “un protettore”, un avvocato, un “chiarificatore”: di uno insomma alla cui scuola i discepoli di ogni tempo avrebbero imparato a fondo cosa significhi fare “esperienza di Dio”.
Una prima considerazione: tutti dobbiamo entrare in familiarità con questo “Paraclito”; dobbiamo cioè conoscere lo “Spirito” di Dio, incontrare il Gesù dentro di noi, entrare in Lui, amarlo, vivere di Lui.
Parole facili da dire, ma non altrettanto da mettere in pratica, anche se, in realtà, le occasioni per poter concretamente incontrare Gesù nei vari momenti delle nostre giornate, della nostra vita, sono tantissime: dobbiamo solo aprire bene gli occhi, indossare gli occhiali della nostra fede, della nostra anima, del nostro cuore; dobbiamo insomma calarci in quella dimensione del nostro io occupata dallo Spirito: una dimensione “spirituale” di cui dovremmo avere la massima cura, e che invece noi con grande disinvoltura mortifichiamo in continuazione, riducendo il nostro cristianesimo a una inutile religione di facciata.
Abbiamo visto che anche il vangelo di oggi ritorna sul tema del “distacco”, motivo di smarrimento interiore nei discepoli; una separazione che provoca in loro tristezza, preoccupazione, un senso di solitudine, di impreparazione per i domani.
Gesù, il loro leader, il capofamiglia, il carismatico, se ne va e loro si chiedono se da soli potranno mai farcela. Come non capirli?
Da qui una seconda considerazione: tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di regole e leggi chiare, precise.
Tutti abbiamo bisogno di una guida che ci istruisca, che ci introduca nella vita, che ci faccia crescere, maturare, diventare adulti, e, a nostra volta, dei maestri.
Il desiderio di un padre è quello di vedere i propri figli diventare indipendenti, emancipati; è questo che lui vuole ardentemente: perché se li mantenesse sempre bambini, se li costringesse ad avere sempre bisogno di lui, a dover pendere sempre dalle sue labbra, dimostrerebbe di non amare i propri figli, sarebbe come se li usasse, li manipolasse.
Non è possibile rimanere sempre studenti; ciascuno ad un certo punto deve diventare maestro della propria vita. Nessuno può continuare a giustificarsi dicendo: “faccio solo quello che mi hanno insegnato!”. Se Dio avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo persone responsabili, non ci avrebbe dotati di un cervello. Al contrario ci dice: “hai le gambe, cammina; hai gli occhi, osserva; hai le orecchie, ascolta; hai il cervello, usalo”.
Di fronte a Lui dobbiamo essere completi, autonomi, non mezze calzette, non dei piagnucoloni!
Ecco perché, oggi soprattutto, la Chiesa nostra maestra, deve formare uomini liberi, uomini veri, dalla grande personalità; uomini forti, integerrimi nei costumi; uomini lungimiranti che sappiano interpretare la storia, che sappiano prevederla; uomini “alternativi”, come lo è stato Cristo Gesù; devono, in una parola, volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno. Devono saper guardare la luna, non il dito che la indica.
Oggi in particolare, i “pastori”, i “maestri” del Vangelo, gli inviati, che sono i primi depositari del Paraclito, lo Spirito della Verità, dovrebbero dimostrare di essere veramente dei “posseduti” da Dio, dovrebbero pensare, agire, insegnare sempre, come degli autentici “illuminati” dal Suo Spirito: perché solo così arriveranno a trasmettere il messaggio di Cristo ai fratelli, insegnando loro a conquistare, coltivare, accrescere, custodire la fede in Lui, a vivere nel Suo amore: soprattutto insegnando a meritarla, la fede, a difenderla, a perseverare in essa. “Perseverare nella fede”: un’espressione che è sparita completamente da catechesi, prediche, pubblicazioni cattoliche: un verbo – “perseverare” – che implica fatica, lotta, fedeltà e amore per un ideale, che mal si coniuga con l’idea oggi predominante di un Dio bonaccione, che passa sopra a qualunque offesa, che lascia correre, che perdona comunque tutto a tutti.
Purtroppo, la società contemporanea è fagocitata dal relativismo, l’anticristo imperante: la gente si sente affascinata, piuttosto che dalla Verità del Vangelo, da una congerie di insulsaggini, propagandate da preti, maghi, santoni e indovini che, lautamente retribuiti, sproloquiano dalle loro cattedre televisive.
È diventata ormai una moda rinunciare alla propria autonomia intellettuale, e affittare il cervello e la propria vita a questi falsi profeti, a questi squallidi buffoni, che pretendono di ergersi a Divinità infallibili, ad altrettanti Dei.
In questa situazione drammatica la Chiesa fallirebbe in pieno il suo mandato divino, se pensasse di trasmettere ai fedeli un Dio immagine, in formato “regalo”, semplicemente da ammirare, da pregare, da esporre, da esibire. Il Dio di Cristo non è così! Gesù non ci ha trasmesso un Dio statico, immobile, un Padre buonista, facilmente manipolabile dal nostro scaltro “savoir faire”: ci ha insegnato invece un Dio attento, onnipresente, che va cercato, seguito e amato tra mille difficoltà, tra mille dubbi, tra infinite sconfitte e piccoli progressi: la nostra è una fede seria, impegnativa, che non “impone” nulla, che non ha “regole” capestro, ma offre semplici “consigli” di vita, che esigono però concretezza, onestà intellettuale, amore sincero, fedeltà! Non offre una vita soprannaturale “tout court”, ma ci dice al contrario di costruirla, perfezionarla, alimentarla quotidianamente con i suggerimenti dello Spirito di Dio che abita in noi. La strada da percorrere è ovviamente in salita, lunga e difficile: è un percorso che esige da ciascuno serietà, maturità, convinzione, costanza.
Non basta infatti “vivere”, ma bisogna “saper vivere”, saper capire, saper giustificare, saper amare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che professiamo, a ciò che confessiamo, a come e perché lo traduciamo in vita vissuta.
Per questo il “credo” cristiano, quando è coerente e fedele allo Spirito, va sempre contro corrente, è in perenne disaccordo con gli schemi individualistici dell’uomo, è sempre motivo di rottura e di abbandono da parte dei pusillanimi, oggetto di critica atroce da parte del “mondo”: poiché, come dice Gesù, il “mondo” non può relazionarsi con lo Spirito, non lo vede, non lo sente, non lo conosce: opera in tutt’altra dimensione!
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”, dice Gesù.
Qui Giovanni parla di “comandamenti”: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma a pensarci bene, Gesù ci ha lasciato un solo “comandamento”: “Ama il Signore tuo Dio e il prossimo tuo come te stesso”.
È il “comandamento” dell’amore: ma definirlo tale, non è esatto, perché, in realtà, l'amore non si può imporre a nessuno. Non si può comandare di amare: l'amore è libero, nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo. L'amore vive solo dove c'è libertà.
Gesù quindi non ha “comandato” di amare, non l’ha mai “ordinato”; lo ha invece caldamente consigliato. L’unico comandamento vincolante, per chi vuole seguirlo, è quello di “vivere come Lui”, di “seguire i suoi passi”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio.
Se siamo costretti a fare le cose, se le facciamo a comando, in genere le facciamo per non deludere chi ce le ordina, le facciamo cioè per “rispetto umano”. Soltanto se le facciamo per amore, spontaneamente, vivremo nella Pace, nell’Amore, sentiremo crescere nell’anima quella soddisfazione intima che ci riempie il cuore.
Per raggiungere qualunque obiettivo è necessario “volerlo” veramente, sentire nel cuore quell’intimo impulso che ci spinge all’azione. Infatti i “maestri”, gli educatori, possono ben pretendere dai loro allievi che si impegnino seriamente nella vita, che osino, che puntino sempre più in alto, in una parola che siano “aquile”: ma se questi in cuor loro non sono convinti, se hanno paura di volare, se non sentono alcuna attrazione per l’altezza, per la bellezza, se non sentono il fascino del volo, poveretti! si sforzeranno anche, ma non arriveranno mai a nulla: una gallina, per quanto si sforzi, non potrà mai diventare un'aquila!
Gesù, anche per questo, ci ha assicurato la presenza del suo Spirito: proprio perché, grazie a Lui, trasformati da Lui, potessimo abbandonare la nostra naturale “pesantezza umana” per librarci fin lassù, in alto, tra le braccia del Padre: guidati dai suoi consigli potremo infatti diventare veri “esseri spirituali”. Lui può: perché è il nostro Maestro, la nostra forza, la nostra guida, il nostro avvocato, il nostro Consigliere, il Dio in noi. Con Lui nulla ci sarà impossibile. Gesù ce l’ha promesso!
Accogliamolo, allora, questo Paraclito Consolatore; apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando. Semplicemente amando. Perché questo è lo Spirito: Amore! È Lui che alimenta questo nostro cuore, creato dal Padre per ricevere e dare Amore: lo presuppone, lo suscita, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene compatta la nostra vita, nonostante le fratture, le contraddizioni, i fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva, la indirizza, la rinvigorisce. Tutto in noi, di noi, viene continuamente nobilitato dallo Spirito Amore: è questa la “buona notizia” di oggi. Amen.