giovedì 29 agosto 2019

1° Settembre 2019 – XXII Domenica del Tempo Ordinario


“Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti! Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,1.7-14).

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben visto per questo, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di nuovo: in particolare a coloro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a coloro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli. L’andare a “pranzo” da questa gente, significa però per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali il suo cibo, il suo nutrimento spirituale, i suoi insegnamenti, la sua Parola: un cibo ben più importante di quello materiale.
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto. Di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale era invitato anche il rabbi o il predicatore di turno. Il testo ci fa notare che in quel caso, trattandosi della casa di un capo dei farisei, oltre alla gente comune, dovevano essere presenti anche altre persone importanti, degne di riguardo.
Da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù si serve di questo particolare per la sua catechesi: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Egli osserva la scena, e nota la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Più o meno quello che succede di solito anche ai nostri giorni.
È chiaro che Gesù qui trova lo spunto nei comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: era tipico di quella società classista, di quella cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Cosa propone allora Gesù, anche per noi? Una cosa molto semplice: scegliere di non mettersi al posto d’onore, ma in un posto qualunque. E con questo Egli intende condannare gli eccessi, non tanto il giusto riconoscimento degli onori, del prestigio, dell’importanza di una persona: tant’è vero che aggiunge subito: “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
Inoltre, Egli approfitta per condannare anche quella “modestia” affettata con cui uno volutamente si mette all’ultimo posto, una modestia un po’ pelosa, di dubbia origine, tipica di molte persone, che in realtà non è altro che la “maschera” della superbia: “vorrei essere più di te ma non posso, non ci riesco, per cui assumo un tono dimesso, modesto, come se la cosa non mi interessasse”. È l’atteggiamento tipico di quelle persone che fingono, loro malgrado, di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, di essere umili, di considerarsi “gli ultimi”.
Mettersi all’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, non è scritto da nessuna parte nel vangelo; ma al contrario vuol dire darsi da fare per questo genere di persone, cercare di creare una società nuova, in cui non ci siano più “emarginati”.
La differenza è minima ma sostanziale: dobbiamo metterci cioè all’ultimo posto non perché ci sentiamo ultimi, ma perché non ci sentiamo “superiori” degli altri. In altre parole dobbiamo metterci all’ultimo posto perché siamo convinti che tutte le persone, tutti i presenti, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. Una società fraterna, d’amore, può sussistere solo se tutti si considerano e sono considerati uguali.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Legare la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché in realtà, dentro di noi, in fondo, in fondo, siamo delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine esteriore, per quanto grandiosa, può renderci felici: non lo può per definizione! Perché la felicità nasce solo dal nostro concreto vissuto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci appariranno sfocati, scontornati, eliminati, distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento. Allora dobbiamo reagire: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie.
Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?
Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata: Regno dei cieli, infatti, è percepire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore, quelle che riflettono l’amore di Dio. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli è dispensare presenza, affetto, amore ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza desiderare, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e senza valore. Regno dei cieli è sentirci parte integrante ed essenziale di questo mondo, esattamente come si sente un figlio, parte integrante di una famiglia vera, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre. Perché tutto questo è “normalità”, un soffio soprannaturale di Dio che nasce in noi con noi. Purtroppo è “crescendo “che la società ci fagocita, inducendoci proditoriamente ad abbandonare questo “regno dei cieli”. Sapientoni del nulla, legislatori microcefali, si affannano nel sostenere che tutto ciò è soltanto una grande “balla”, un miraggio per deficienti, una “illusione” insulsa per preti, suore, gente esaltata. Ma noi, in cuor nostro, sappiamo che non è così!
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).
Anche qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non inviteremo certamente chiunque incontriamo per strada. Non è questo che Gesù vuol dire. Inviteremo, piuttosto, soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli.
Il principio fondamentale che Gesù vuole trasmetterci è che non dobbiamo impostare i nostri rapporti secondo il famoso “do ut des”, io ti faccio dono di qualcosa per avere da te un contraccambio. Questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali: le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrirci in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, non sulla base dell’utile che possiamo ricavare.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce dall’amore, dalla gratuità. Fare qualcosa per interesse non produce gioia, soddisfazione, libertà, ma solo il calcolo, l’ansia, l’attesa di un riconoscimento, di un ricambio materiale, di uno sterile scambio di favori. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: per cui, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati e gioiosi, sappiamo già come comportarci. Amen.



giovedì 22 agosto 2019

25 Agosto 2019 – XXI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme… Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Lc 13,22-30).

Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il riferimento ad una necessaria e irrinunciabile progressione spirituale dell'anima. Se spiritualmente non siamo in cammino, se non ci muoviamo, siamo fermi. Se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. Le persone “vive”, camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono. Le persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono, si impuntano.
Ci siamo mai chiesto perché il Signore dica ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire” comporta necessariamente un avanzamento progressivo. Non si può seguire il Signore e rimanere fermi, rimanere sempre gli stessi, fossilizzarsi sulle stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella sua vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni alternative, più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al suo particolare percorso di sequela.
Vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta: perché è ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete continuamente senza alcun entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di andare al massimo, di trarre il meglio da se stessa; non costruisce il suo percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui. Ma così facendo rinuncia ad essere sé stessa, si lascia trascinare supinamente dal pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale.
Seguire il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale della vita, è quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle poste nelle interviste da tanti cronisti di oggi, fatte con l’intenzione di ricavarne magari uno “scoop” da dare in pasto allo “spettegolare” quotidiano. Ma Gesù non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà... allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci sul come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri si salveranno o no: il problema vero è se noi riusciremo a salvarci!
Un problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto dura, forte, decisa. Non sono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente un Dio diverso dal padre buono, dal buon samaritano, dal buon pastore, dal padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo, dal padre che ci cerca, che ci ama alla follia, che ci perdona ogni cosa, che accoglie tutti a braccia aperte. È un Dio “intransigente”, da temere e rispettare. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: “Signore aprici!”, Egli non ha dubbi o ripensamenti: “Non vi conosco, non so di dove siete…
È terribile! Eppure questa frase ha un senso profondo: non è Dio che ci rifiuta, che ci condanna: Egli ha creato ciascuno di noi con una sua esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, abbiamo distorto i nostri lineamenti sovrapponendo tutta una serie di maschere: quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza a tutti, convinto di potersi permettere qualsiasi sopruso; se insomma abbiamo preferito deformare le nostre sembianze originali, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano e ci rendono irriconoscibili, è naturale che Dio, nel presentarci a Lui, ci dica: “Non vi conosco. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!”. Chiaro? “Operatori di iniquità!”. Ma possibile? Proprio noi che ci sentiamo perfettamente in regola, noi, i “grandi”, i “sapientoni”, gli esperti di chiesa, di fede, di vangelo, noi, i cattolici “adulti”, impegnati nel sociale e nelle catechesi; ebbene sì, siamo proprio noi: e ci sentiamo dire: “fuori!”, “esclusi!”. Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, gli orgogliosi discepoli “duri e puri”, siamo al contrario destinati al “pianto e stridor di denti”. Quelli invece che noi deridiamo, quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità, delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’amore e nella gloria di Dio.
Beh, dev'esserci per forza qualche spiegazione che continua a sfuggire alla nostra ottusità di egocentrici! Allora, forse, prima che sia troppo tardi, sarà necessario rivedere subito tutta la faccenda dall’esatta prospettiva evangelica.
È vero, sono immagini di Dio particolarmente dure, di forte impatto emotivo, tipiche dello stile e della cultura del tempo. Immagini comunque che non devono farci erroneamente pensare ad un Dio prepotente e crudele, uno dalla condanna facile e immotivata; un Dio irremovibile, che decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Non è che se talvolta ci comportiamo male, se non seguiamo alla lettera le sue regole, Lui, per vendetta, ce la faccia pagare. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la condanna non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato di certe nostre premesse, una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte finale; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare di fare scelte di “non scegliere”, di condurre un certo vivere senza farsi domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò ha come diretta conseguenza un giudizio negativo.
Le facce della medaglia sono sempre due: da un lato c’è Dio che è grande, misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, e anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci sarà mai quella “presa” che ci salva. Se manchiamo questa “presa” la colpa non è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che dobbiamo aver paura. È di noi stessi: è di noi che non dobbiamo fidarci, del nostro agire fuori regola, dei ritardi delle nostre risposte, delle nostre mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza. Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza. Nessun altro. Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”, dobbiamo fare necessariamente delle scelte, dobbiamo “entrare” in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma la nostra stessa vita ci dirà: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile, impresentabile!”. E anche in questo caso non è una punizione della vita in quanto tale, non è un accanimento del “destino”: è semplicemente la conseguenza delle nostre libere scelte, del nostro agire.
“Sforzarsi”, in greco agonizomai, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”.
“Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare; “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
Un verbo che implica delle difficoltà. Nessuno dice infatti che queste iniziative siano facili; ma è giocoforza affrontarle, dobbiamo passarci dentro, perché per varcare quella porta dobbiamo risolverle. Talvolta fanno anche paura; forse ci faranno anche piangere, creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se facciamo finta di niente, verrà un giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente. Nessuno ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice: ma dobbiamo comunque entrare “dentro” in quel cammino, dobbiamo oltrepassare quella strettoia determinante.
Molti diranno: “Ma io sono già cristiano: io prego; io vado in chiesa quasi tutte le domeniche; io non ho mai fatto male a nessuno; io mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto: ma è evidente che tutto questo non è sufficiente: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Che vuol dire: “Come mai proprio noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Vuol dire che questo solo non basta poiché siamo rimasti “fuori” dalla nostra anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta che ci introduceva alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva a stretto contatto con Dio. Non abbiamo ascoltato la sua voce e non abbiamo agito di conseguenza.
Se continueremo a seguire la mentalità del mondo, continueremo purtroppo ad ignorare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi, fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere anche la “casa” stessa! È una eventualità che non va sottovalutata!
In conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è uno solo: c'è questa benedetta porta da passare, da entrarci dentro. O ci decidiamo a farlo in fretta, o rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta per noi irrimediabilmente chiusa. Tocca soltanto a noi scegliere! Amen!

 

giovedì 15 agosto 2019

18 Agosto 2019 – XX Domenica del Tempo Ordinario


“Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione…”. (Lc 12, 49-57).

Il vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali, risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”, diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell'uomo vecchio, quello incentrato su sé stessi, e la nascita dell’uomo nuovo, quello che ci fa vivere da figli di Dio.
Un cambiamento che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono sempre stati considerati all’opposizione, “dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza, le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano proprio questa situazione di ostracismo e di divisione.
Scegliere di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”, segno di “contraddizione”; in una società dell'immagine e del consumismo come quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico, difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”!
Le parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a rotolarsi nelle ingiustizie e nelle ignobili perversioni; Egli è venuto a portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che non va bene, di ciò che ferisce l'uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta” necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori).
Le persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano solo questo; questo ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “Pensate attentamente a Cristo che ha sopportato da parte dei peccatori una così grande ostilità contro la sua persona, proprio perché voi non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato…”. È chiaro? “Resistere fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto, come succede a noi!
La Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questo nostro tempo, di “salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”, di “principi morali inalienabili”. Ci nascondiamo: un po’ come vediamo fare certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi di indossare una veste, “una divisa”, che li distingue dagli altri, li identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento “superiore”, “convinto”, da “consacrati”, luminosamente “coerente” con la fede che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non è questo che Gesù vuole da noi: perché noi, come tutti gli uomini, siamo i “chiamati”. Ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: proprio perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non taciamole queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente, in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato. Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, professori di religione, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede e della morale cattolica! Perché è facendo così che la verità “ci farà liberi”.
In un ambiente sociale, in cui la verità è causa di schiavitù e di servitù, perché ignora o disprezza sia la sua stessa natura, che quanti la professano, noi cristiani dobbiamo essere convinti che è la verità, particolarmente la verità della nostra fede, che ci affranca, che ci rende assolutamente liberi.
L'uomo non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere la verità, l’essenza del suo essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per sé stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c'è verità c'è libertà, e dove non c'è verità, c'è inevitabilmente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità? Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità, della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è aver paura di essere sé stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità intellettuale, la propria personalità. La verità ci farà liberi. Non dubitiamone. È l'esperienza degli uomini grandi.
Il Vangelo nasce dunque sotto il segno della contraddizione: e sotto il segno della contraddizione cresce e si diffonde. È questo il dramma dell'alleanza fra Dio e il suo popolo, dramma che continua a riproporsi nella storia: Dio si racconta, si svela, si avvicina all'uomo, si offre di aiutarlo; ma l'uomo sistematicamente gli risponde “no, grazie”.
Siamo discepoli di un Dio che crea divisione, di un Dio che non ci lascia tranquilli, indifferenti, adagiati nelle nostre certezze, trincerati dietro le nostre tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri gruppi esclusivi di spiritualità; siamo discepoli di un Dio che ci scuote, che ci infiamma, che ci brucia dentro, che ci spinge fuori, nel mondo.
Chiediamoci allora: veramente sentiamo dentro di noi questo Dio che brucia il nostro cuore, la nostra anima? Ci brucia sul serio, al punto da non poter fare a meno di annunciarlo, di parlare di Lui a tutti quelli che avviciniamo? Lo difendiamo nelle discussioni con quanti lo negano? Di conseguenza: siamo mai stati derisi per le nostre convinzioni? No? Allora i casi sono due: o viviamo segregati in un limbo virtuale, tagliati fuori, avulsi dalla realtà, oppure viviamo molto poco da autentici cristiani: la nostra testimonianza è talmente insignificante e priva di mordente che nessuno si accorge di noi. Viviamo da “tiepidi”; ma proprio per questo nostro essere “né caldi né freddi” rischiamo di essere “vomitati” da Dio, come scrive l’Apocalisse. 
Noi siamo discepoli di Cristo: non dimentichiamolo mai! E come tali siamo chiamati da Lui per essere dei rivoluzionari, degli incendiari: gente che scuote, che infiamma tutto il mondo; gente che predica e professa apertamente l’Amore di Dio per le sue creature, gente che vuole diventare sé stessa, realizzando ciò che Lui ha seminato nell’intimo di ciascuno! Amen.


giovedì 8 agosto 2019

11 Agosto 2019 – XIX Domenica del Tempo Ordinario


“Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate”.

Continuiamo la lettura del capitolo 12 del Vangelo di Luca. Un capitolo estremamente importante, perché traccia il percorso che ogni discepolo deve seguire per fondare il Regno di Dio nella sua vita.
Oggi Luca insiste particolarmente sulla “tensione” verso la Vita, una “molla” che nella nostra vita di cristiani non deve mai allentarsi. Per questo dobbiamo spogliarci di tutta la zavorra che ci impedisce di camminare speditamente, dal peso, dalla stanchezza del “fare” troppo, del voler apparire ad ogni costo: cose che inevitabilmente addormentano la nostra anima.
Dobbiamo mantenerci “leggeri”, dobbiamo portare con noi solo lo stretto necessario, le cose che “durano”, che servono a darci la carica nel nostro percorso. E sono tante, come per esempio quelle emozioni intime, quel tesoro che nessuno potrà mai portarci via: l’amicizia e la vicinanza di tante persone buone; la gioia del sentirci utili agli altri, la consapevolezza di essere vivi e grandi perché figli di Dio e della Vita; la felicità che proviamo nel constatare che la nostra vita ha un senso, un ideale, per il quale siamo disposti a lottare, a combattere, a resistere e a soffrire; la commozione che procura la nascita di un figlio; la profondità dei sentimenti che scorgiamo negli occhi dei nostri cari, quando nel silenzio li ammiriamo e sentiamo la nostra anima che si fonde con la loro; i colori dell’autunno, il profumo dell’erba appena tagliata, il suono del vento, il canto degli uccelli; la gioia di sentirsi “vita” in mezzo a tanta Vita; la percezione che Dio c’è, che non c’è motivo di aver paura perché con Lui ci sentiamo protetti da tutto quanto possa capitarci. Sono solo emozioni, ma sono il “tesoro” che nessuno potrà mai portarci via. Sono la nostra forza, la carica potente per il nostro cammino.
Liberiamoci invece del superfluo, di tutto quello che è un peso, di tutto quanto ci ostacola, ci rallenta: evitiamo in tutti i modi di considerarlo il nostro tesoro, l’unico nostro interesse, l’unico riferimento, l’idea fissa del nostro vivere quotidiano.
Fatti borse vere, procurati nutrimento e beni che non passano, che durano, che non invecchiano, dove la ruggine, i ladri e le tarme non arrivano.
I soldi? Ci possono essere rubati. Le ricchezze? Possiamo perderle. L’auto? Ce la possono distruggere. Gli oggetti? Possono rompersi. Le persone? Possono morire. Tutto ciò che è di questo mondo è infatti destinato a passare. Solo l’anima, le nostre emozioni positive, il nostro tesoro celeste, rimarrà inalterato e nessuno potrà mai sottrarcele.
Impariamo a conservarlo e a gestirlo nella nostra anima e non avremo più bisogno di possedere alcunché. Impariamo ad arricchirci di soprannaturale e la nostra anima non avrà più bisogno di altre ricchezze. Tutto ciò che di materiale noi conquistiamo, prima o poi lo perderemo, e saremo infelici. Solo ciò che non possiamo perdere (Dio, l’anima) ci offrirà una vita “piena”, sempre, ora e in futuro.
Perché “dove è il nostro tesoro, là sarà anche il nostro cuore”. Allora chiediamoci: “Qual è la cosa a cui pensiamo di più durante il giorno? La cosa che tiene maggiormente impegnata la nostra mente? È il sesso? Sono i soldi? È il lavoro? Sono le paure del giudizio altrui? È l’odio?” Perché questo è il nostro tesoro, lì sta il nostro cuore! E l’amara realtà, ma noi ci trasformiamo con grande disinvoltura proprio in questo “tesoro”; diventiamo esattamente così (sesso, soldi, paure, odio ecc.) perché quello è il centro dei nostri interessi, della nostra vita: dov’è il nostro cuore, quelli siamo noi!
Tutte le raccomandazioni di Gesù riportate qui da Luca, hanno motivazioni diverse, ma sono legate tra loro da un unico tema: “Siate svegli, non dormite, siate consapevoli, state attenti, rimanete in tensione per non prendere sonno”. Perché, purtroppo, il sonno della ragione genera mostri, il sonno dell’anima genera morte.
L’uomo è combattuto sempre da due tendenze: quella di accontentarsi di quanto ha fatto, di fermarsi, di rinunciare a nuove esperienze, e quella contraria di andare sempre avanti, di evolversi, di progredire continuamente. Quante volte capita anche a noi di dire o di pensare: “Va bene così: sono abbastanza religioso; so amare gli altri; sono impegnato quanto basta, mi sento di essere nel giusto; per cui anche se non divento migliore, posso comunque fermarmi, posso finalmente riposarmi!”. Ma ci sbagliamo di brutto: perché fino a quando un organismo continua a crescere, dimostra di essere vivo; se invece smette di migliorare, di crescere, vuol dire che è morto, senza vita.
Tutte le nostre crisi esistenziali derivano quindi dallo scontro tra queste due voci: una che ci suggerisce di fermarci, di accontentarci del risultato raggiunto, l’altra, al contrario che ci sprona continuamente ad affrontare nuove prove, a provare nuovi stimoli, a progredire. È il nostro dilemma: perché nella vita o si va avanti e si progredisce oppure ci si ferma e si regredisce.
Troppi sono quei cristiani, purtroppo, che dormono credendo di essere svegli. Sono convinti di andare avanti e non si accorgono che sono immobili, immersi nelle loro fantasie, nei loro sonni.
Tenersi pronti, aspettare il ritorno del Signore in questa nostra “veglia” che si chiama vita, significa “convertirsi”, mettere a frutto i nostri talenti, quei doni che Egli ci ha consegnato al nostro ingresso nel mondo. Dobbiamo farlo: dobbiamo cambiarla radicalmente questa nostra vita, perché forse fino ad oggi, più che “vita”, è stato in realtà un sopravvivere nell’indifferenza e nel crearci false illusioni.
Per essi il risveglio al sopraggiungere del Padrone sarà decisamente duro, sarà come una sberla in faccia, un pugno allo stomaco. Si accorgeranno di non avere nulla da offrirgli.
Tenersi pronti, aspettare il ritorno del Signore in questa nostra “veglia” che si chiama vita, significa “convertirsi”, mettere a frutto i nostri talenti, quei doni che Egli ci ha consegnato al nostro ingresso nel mondo. Dobbiamo farlo: dobbiamo cambiarla radicalmente questa nostra vita, perché forse fino ad oggi, più che “vita”, è stato in realtà un sopravvivere nell’indifferenza e nel crearci false illusioni.
Ricordo una storiella molto carina che dice: «Un tizio bussa alla porta di suo figlio: “Carlo, svegliati”. Carlo risponde: “Non voglio alzarmi papà”. Il padre urla: “Alzati devi andare a scuola”. Ma Carlo: “Non voglio andare a scuola”. “E perché no?”, gli chiede il padre. “Per tre motivi, risponde Carlo. “Prima di tutto, è una noia; secondo i ragazzi mi prendono in giro; terzo odio la scuola”. E il padre gli risponde: “Bene, ora ti dico io i tre motivi per cui devi andare a scuola; primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside».
Una storiella che farebbe anche ridere, se in fondo non fosse così vera. Nella vita siamo tutti campioni nel campare scuse, nel giustificare le nostre scelte, pur sapendo che non sono quelle giuste; ci ostiniamo a sprecare tempo prezioso, trastullandoci con i nostri giocattoli preferiti (denaro, automobili, vacanze, vestiti, fama, potere).
I nostri propositi di conversione, talvolta anche seri e impegnativi, sono comunque proiettati costantemente nel “domani”, dovendoci prima occupare delle mille cose “più urgenti”; in pratica viviamo molto bene nel nostro “piccolo mondo”, convinti di poter raggiungere traguardi invidiabili, che poi, puntualmente, si rivelano inefficaci. Non amiamo “cure” spirituali drastiche; quelle che noi chiamiamo “conquiste”, sono in realtà esperienze provvisorie, superficiali, passeggere, temporanee: perché il punto fermo è che in fondo noi non vogliamo “crescere”, non vogliamo impegnarci, non vogliamo “guarire”; stiamo bene così.
Continuiamo ad illuderci di salvarci, assumendo eccezionali “compresse curative”: miracolosi “placebo”, infallibili “salvavita”, osannati dai “dotti” cerusici del momento, ma assolutamente inefficaci e inconcludenti.
Purtroppo, “svegliarsi” all’improvviso da questo nostro irresponsabile dormiveglia, sarà decisamente imbarazzante e doloroso: perché il momento della verità, il momento in cui tutte le nostre decantate certezze cadranno a pezzi, arriverà puntualmente per tutti. E allora scopriremo in un istante tutta l’inconsistenza e l’inutilità della nostra vita Ci accorgeremo di non avere nulla in mano: di ritrovarci davanti a Dio e a noi stessi, alla fine di un allucinante passaggio nel tempo, completamente nudi e indegni.
Solo allora capiamo il valore della vita: “Come ho fatto a vivere così? Come ho fatto a non accorgermi? Incredibile!”.
Nel sonno avevamo confuso l’irreale col reale. L’importante allora è svegliarci, vedere le cose che ci circondano nella loro giusta luce, vedere le persone per come realmente sono e non per come noi vorremmo che fossero, vedere le cose nella loro realtà, perché soltanto ciò che esiste è reale. Svegliarci e dire a noi stessi: “Tu ci sei”: è poter chiamare ogni cosa col suo nome, anche se quello che abbiamo scoperto non è per nulla edificante. Svegliarci significa dire: “Tu sei violenza: questo è il tuo nome. Tu sei trauma: questo è il tuo nome. Tu sei paura, terrore, soffocamento: questo è il tuo nome. Tu sei fallimento, abbandono, tradimento: questo è il tuo nome. Tu sei energia, forza, possibilità: questo è il tuo nome”. Chiamare ogni cosa per nome è fondamentale, perché dà forza, vigore, alla vita. Chiamare una cosa per nome significa farla esistere, renderla reale, dirle: “Mi piaccia o no, tu esisti!”.
A questo porta il senso di parole come “vegliare”, “consapevolezza”, “lucerna accesa”; termini che indicano appunto il vedere tutto ciò che c’è da vedere, il rendersi conto di ogni cosa, il non nasconderci nulla, il chiamare tutto per nome, con il suo nome.
“Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate”. 
Quando viene Dio? Quando meno ce l’aspettiamo. Per questo non dobbiamo perdere tempo, per questo dobbiamo prepararci per essere pronti. Non sappiamo quando, ma egli verrà. Dio è come il ladro: viene nel momento in cui meno ce l’aspettiamo, viene al di fuori delle nostre logiche umane, viene secondo le Sue logiche, quelle divine.
Molte volte vorremmo che il nostro cammino di fede fosse programmato, vorremmo sapere quali passi dover fare, quali insidiosi pericoli evitare; vorremmo che la nostra “salita” fosse graduale, comoda, in modo da poter valutare preventivamente il percorso, gli ostacoli, la meta finale.
Ma non è così! Questo appartiene al nostro innato bisogno di sapere tutto, alla nostra curiosità, al nostro voler sottomettere ogni cosa ai nostri programmi: dove andare, chi e cosa incontrare, data e ora della fine del viaggio. È il nostro bisogno di gestire, di manipolare, di avere tutto sotto controllo! Ma Dio è ingestibile: nessuno mai sarà in grado di programmarlo, manipolarlo, controllarlo.
“Allora Pietro disse: Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Il Signore rispose: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi”.
Le parole di Gesù valgono per tutti. La vita non è nostra: noi ne siamo solo gli amministratori e un giorno dovremo restituirla. Il tempo non è nostro, dobbiamo solo gestirne quel po’ che ci è stato concesso, mettendolo a frutto. Nulla ci appartiene, niente e nessuno è di nostra proprietà.
Da qui il dovere di trattare ogni cosa, ogni essere umano, ogni creatura vivente, con tutto il rispetto, l’amore, la cura, di cui siamo capaci. Soprattutto dobbiamo iniziare ad amministrare meglio noi stessi, il nostro mondo interiore, la nostra anima, evitando di “addormentarci”, di vivere nelle distrazioni, “fregandocene” di tutto e di tutti: perché il Padrone improvvisamente verrà e, che ci crediamo o no, pur nella sua misericordia, ci chiederà un dettagliato resoconto di come abbiamo amministrato questa nostra vita. Amen.


giovedì 1 agosto 2019

4 Agosto 2019 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario


“E Gesù disse loro: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede” (Lc 12,13-21).

Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo. Forse centinaia, migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; sarà invece “rinnegato, portato davanti ai tribunali; tuttavia non deve temere di nulla, perché Dio ha cura di lui, pensa personalmente a lui; a Dio nulla sfugge di quello che lo riguarda; perfino i suoi capelli sono contati!
Sono considerazioni profonde: ma improvvisamente un tale lo interrompe per porgli una sua questione personale, completamente fuori tema, specifica, di nessun interesse per gli altri. Ciò che preoccupava il tizio era infatti un problema di ordine economico: per poter espandere i suoi commerci, incrementare i suoi utili, le sue ricchezze e darsi finalmente alla bella vita aveva cioè urgente necessità di ampliare i suoi magazzini, insufficienti a contenere i raccolti eccezionali dei suoi poderi; ma c’era un problema: suo fratello non voleva cedergli proprio quella parte di eredità comune, indispensabile all’ampliamento. È chiaro a questo punto che i suoi progetti economici gli stanno molto più a cuore degli insegnamenti di Gesù: “Mio fratello sta commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”.
Ma Gesù che gli legge dentro, di rimando: “Sono forse io il giudice che deve sentenziare tra te e tuo fratello?”. In altre parole: “Tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché sei avido, perché invidi chi ne ha più di te, perché li brami. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non sequestrarmi per i tuoi interessi. Ammesso anche che tu abbia la tua parte di eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono a nulla se il tuo cuore non è libero; non ti servono a nulla, perché tu vivi solo per i soldi, vivi solo per accumulare, sei schiavo delle tue ricchezze”.
Attenzione: Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Dice: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che come te pensano solo ad arricchirsi, perderanno la vita; perderanno la parte più feconda, più creativa, più vera della vita; perdono cioè l'anima”.
Gesù va oltre la distinzione giusto/sbagliato che gli era stata proposta, e praticamente dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Non è possibile infatti che uno completamente preso dalla smania della crescita esteriore, della sua immagine, del suo potere, della sua fama, delle sue ricchezze, possa trovare interesse anche per il suo interno, per la sua anima, per le sue relazioni con Dio.
La parabola con cui Gesù spiega questo concetto, sembra addirittura una maledizione divina: “Visto che tu hai accumulato tanto, io ti tolgo tutto!”. Sembra quasi che Dio se la rida di noi, si prenda gioco di noi, ma il significato della parabola non è questo. È una triste considerazione, una anticipazione di quanto accadrà a tutti quelli che durante la loro vita non pensano di “arricchirsi” anche e soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno nessun interesse per la propria anima, che svendono la propria esistenza soltanto per il lusso, le ricchezze, i “magazzini” stracolmi, le cose materiali: “Chi vive così, finirà così!” dice Gesù. Le illusioni passeggere del presente devono fare i conti con il futuro, con la realtà che non conosciamo, con le certezze che ora non vogliamo prendere in considerazione.
L'uomo della parabola, preoccupato solo di arricchirsi, come tutti i ricchi del vangelo, è anonimo. Non ha un nome proprio perché è privo di identità: tutta la sua attenzione è concentrata all’esterno; la sua vita è una continua ricerca di quelle ricchezze che ancora non possiede, e che forse mai potrà possedere, ma che egli comunque vuole a tutti i costi; ha svenduto la sua anima, la sua personalità, in cambio di beni effimeri, temporanei. E in questa affannosa ricerca finisce col perdere l'unica cosa preziosa che possiede: sé stesso.
Gesù l’ha detto chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la crescita dei nostri figli, la forza trainante di una vera amicizia? Equivale vivere, come quell’uomo, in una situazione tragicamente irreale, con una visione del tempo totalmente sfasata: per lui il presente non esiste, parla e pensa unicamente al futuro: “Farò così, farò colà, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, tutto passerà, perché tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive per sempre. La vita ha una sua parabola temporale ben definita e immutabile: inizia, cresce, raggiunge il suo apice, finisce. Ciò che in questo percorso abbiamo rinviato, scartato, perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Anche quell'uomo si illudeva: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. Quante persone continuano a rimandare continuamente i momenti più importanti della vita, perché c’è il lavoro, la carriera, l’affermazione sociale, i guadagni da aumentare, la corsa al benessere economico. Purtroppo il meglio, quello che conta, quello che vogliono, è sempre lontano e deve essere raggiunto. Tutto il resto, come vivere in pace con la propria coscienza, con Dio, con loro stesse, con la famiglia, con gli amici più cari, tutto può aspettare: e rimandano, rimandano, rimandano. Poi, un giorno, improvvisamente, tutti i loro progetti, i loro sogni, i loro traguardi, si frantumano di fronte ad un evento tragico, ad un contrattempo impensabile, ad una malattia fulminante. Dalla sera alla mattina, ogni loro ambizioso progetto si rivela una inutile, stupida, irrazionale illusione.
Purtroppo noi, per natura, siamo portati a desiderare tutto ciò che non abbiamo, e non ci rendiamo conto che possediamo già il meglio, tutto il desiderabile, che dentro di noi abbiamo già “il tesoro” più grande e prezioso al mondo, la nostra anima. Nessuna ricchezza, nessun prestigio, nessun riconoscimento esteriore può farci sentire più importanti, se non sentiamo la necessità di essere interiormente noi stessi; nulla al mondo può farci sentire più sicuri se non siamo sicuri di noi stessi; nessun Dio materiale può farci sentire più vivi, più realizzati, se non riusciamo a vivere degnamente la “vita” interiore dello Spirito che ci inabita.
Questo vangelo ci interroga dunque, e a ragion veduta, sul nostro rapporto con le cose effimere, con il denaro, con la vita.
La saggezza popolare diceva una volta che i soldi “sono lo sterco del demonio”. Ma, sterco o non sterco, gran parte della gente ci sguazzerebbe volentieri dentro. In realtà il denaro, in sé e per sé, non è né buono né cattivo: è però attraverso l’uso che ne facciamo che dimostriamo a tutti il nostro grado di maturità e di saggezza: il denaro infatti altro non è che la “materializzazione” dei nostri valori, la dimostrazione cioè di quello che più ci sta a cuore, di quello in cui noi crediamo sul serio: se all’esteriorità, all’apparire, o all’interiorità, alla nostra dignità spirituale.
Amen.


giovedì 25 luglio 2019

28 Luglio 2019 – XVII Domenica del Tempo Ordinario


“Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11,1-13).

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era più naturale infatti, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile.
Qui Gesù spiega ai discepoli e a noi non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.
«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Dio è proprio così, figlio mio!”.
Ecco: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio.
È Gesù che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con la sua stessa accoglienza.
Quella che Gesù ci propone è l’immagine di un Dio decisamente nuova: a Dio infatti non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù ci propone un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto, come modello di credente, poiché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, i puri, gli osservanti, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza esteriore, ancorché stretta e letterale, a tutta la legge (il sacerdote e il levita) ma vuole che l’amore che Lui nutre per noi (un amore che dobbiamo sentire, percepire, accettare) si dilati, si espanda e si riversi su tutta l’umanità (il samaritano): “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Con Gesù tutto è cambiato, rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, ma è Lui che ci serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se le religioni ci dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù, “to eu anghelion” - la “buona notizia”, ci dice ciò che Dio fa spontaneamente per l’uomo: lo ama aldilà di tutto e di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.
«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva. Noi infatti non “santifichiamo il nome di Dio”, cioè già lo “bestemmiamo”, sprecando la nostra vita con i suoi doni; bestemmiamo Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; bestemmiamo Dio tutte le volte che non i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite prescindendo da lui, senza amore, senza fondamenta, senza ideali: sono futili, superficiali, banali. Allora possiamo anche confessarci di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio, ma dobbiamo soprattutto ricrederci, chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la grandezza, la bellezza, la meraviglia delle aspettative che Dio ha riposto in noi. Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto sappiamo di Dio. Allora adoriamo il suo mistero; per cercare di capirlo non abbassiamolo alle microscopiche possibilità della nostra mente. Dio è infinitamente più grande delle nostre possibilità, Dio è oltre, Dio è un’esperienza che non finiremo mai, amandolo, di scoprire, di conoscere, di sperimentare; per quanto ci sforziamo di capirlo, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà sempre, ci sbalordirà in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.
«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun re fu all’altezza! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, si è rivelato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la intransigente osservanza delle leggi (i farisei). Poi venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è vicino a noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più vera la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù, alludendo al pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il pane “che costruisce”. Questo concetto, tradotto in greco “epiousion”, e in latino “super-substantialem”, quindi un pane che va ben oltre il semplice “cibo quotidiano”, il pane del fornaio; chiediamo infatti un qualcosa di soprannaturale, decisamente più importante: è quel pane sostanzioso, quel pane vero, che sfama l’anima. Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di questo pane per l’anima: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegni qualcosa, che ci faccia riflettere, il contatto con la natura, un abbraccio dove poterci sentire “contenuti”, amati; un po’di preghiera con cui sentirci a casa, al sicuro, tra le Sue braccia, ascoltare il canto dell’anima, concentrarci sul nostro respiro per sentire la vita che vibra in noi, chiudere i conti in sospeso, concentrarci sul nostro motivo di vita. Noi in questo modo possiamo pian piano plasmare la nostra vita, nutrirla, darle la forma che desideriamo.
Tocca a noi scegliere il cibo “nutriente”: non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Attenzione, perché non voler scegliere, è già una scelta, spesso problematica!
Non è vero infatti che una cosa vale l’altra: una donna non vale l’altra; avere per amico una persona o un’altra, non è la stessa cosa; non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere lo shampoo, il bagnoschiuma, il dentifricio solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’ “igiene” della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita davanti, ciò che abbiamo sottomano; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Il nostro “pane”, lehem, se invertiamo le lettere, diventa meleh, “sale, saggezza”: la nostra “saggezza” deve essere pertanto il nutrimento di ogni giorno, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, gustosi, pieni di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio, dell’universo.
«E condona (afiemi ) i nostri peccati…»
Il “pane” (lehem: l-h-m) e la “saggezza” (meleh: m-l-h), sono anche “perdono”, (mahol: m-h-l).
Anche il perdono è quindi il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che abbiamo fatto e continuiamo a fare, e la forza di perdonare da parte nostra quanti ci fanno del male. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che pro’ continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti?
“Perdono” in ebraico si dice anche kafor, che vuol dire “ricoprire la ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono.
Il perdono deve essere il nostro “habitus” di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.
«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Noi possiamo condonare, perdonare tutto ai nostri fratelli, solo se noi stessi abbiamo fatto esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “condonare”.
«Non ci indurre in tentazione».
Ritengo più corretta e pertinente questa traduzione, piuttosto che quella recentemente imposta “non abbandonarci nella tentazione”: infatti il verbo greco eisenènkes, e quello latino inducas, esprimono entrambi alla lettera lo stesso concetto, cioè “in-ducere, indurre, introdurre, portare dentro, far entrare nella tentazione”.
Nell’Antico Testamento il termine tentazione però non indica mai una “sollecitazione al male”. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo. In realtà, quindi, la tentazione, la prova, altro non è che un passaggio obbligato attraverso cui crescere, maturare, e poter andare avanti ricchi delle nostre esperienze. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, la nostra anima si illumina di una luce, di una consapevolezza, di una potenzialità, di una forza, prima completamente nascosta, latente. Il senso quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, perché dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, la generosità che c’è in noi.
Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”; Dio non tenta nessuno! Gli chiediamo invece di risparmiarci qualunque situazione pericolosa; come a volergli dire: “sai che sono debole e povero; vigila tu su di me perché le tentazioni e le prove non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che la tentazione del maligno abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano e fa’ che non cada sotto un peso troppo grande per me”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente in linea con la misericordia e l’amore di Dio.
Dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: nella prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.
Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio per padre.
Ogni padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia superabile. E sapere che Dio non ci riserverà mai nulla di male, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde alle nostre aspettative; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito, perché in ogni caso noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, mi ama, e questo mi basta”. Fidiamoci allora anche noi di lui. Tranquillamente. Amen.


giovedì 18 luglio 2019

21 Luglio 2019 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi” (Lc 10,38-42).

Continuando il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai tempi di Gesù, il quale, così facendo, ha infranto ancora una volta usanze, schemi e convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante. Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un messaggio “nuovo”.
Storicamente dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania: è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide di fermarsi a casa delle due donne.
A questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia perfetto, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica, “esteriore”.
Maria, invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta, ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo, quello di Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo insegnamento.
Marta non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.; tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi.
Marta questo non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le dà una mano; ella purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: lei quindi si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto dando da fare per te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di cuore!”. Ma non succede…
Lei non ha dubbi: Gesù in casa sua deve sicuramente trovarsi bene: è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua, per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco perché dobbiamo imparare a conoscere le nostre necessità, a conoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle sugli altri, pretendendo che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede. Perché Marta non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù dalla sua parte contro di lei?
Purtroppo troppe persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire.
Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che deve decidere ciò di cui Egli ha bisogno. Quando Egli arriva, non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta, e il suo cuore si fa vuoto, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.
Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di cosa parlare. Impariamo ad ascoltare, e tutto viene da sé. Non pretendiamo di indottrinare e di cambiare la gente secondo i nostri gusti.
Facciamo come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque possa entrare, portare sé stesso, sentirsi a proprio agio e mostrarsi serenamente per quello che è. Offriamo agli altri quella stessa accoglienza che tutti noi vorremmo ricevere.
Il vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù: stava cioè a contatto con la terra (humus), e ciò indica prima di tutto un suo atteggiamento di umiltà (humilitas). Ed è così che dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quello spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni impossibili; avranno la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, potranno sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati. Per loro deve ripetersi quella stessa occasione che Gesù ha avuto con Maria: sperimentare cioè l'amore vero, l’amore autentico. 
Ecco perché, invece di scegliere immediatamente il ruolo di Marta, più semplice e meno impegnativo, dobbiamo imitare con decisione quello di Maria: infatti solo costruendo “amore”, il mondo diventerà migliore. Poi affronteremo anche Marta, con i problemi del lavoro, della casa, del cibo, delle cose da fare. Prima di tutto però deve esserci carità, amore, ascolto, le cose più importanti di cui il mondo ha bisogno: sono gli elementi essenziali che ci evitano di morire dentro, insensibili, egocentrici, accartocciati dalla nostra aridità. Amen.