giovedì 25 luglio 2019

28 Luglio 2019 – XVII Domenica del Tempo Ordinario


“Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11,1-13).

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era più naturale infatti, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile.
Qui Gesù spiega ai discepoli e a noi non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.
«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Dio è proprio così, figlio mio!”.
Ecco: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio.
È Gesù che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con la sua stessa accoglienza.
Quella che Gesù ci propone è l’immagine di un Dio decisamente nuova: a Dio infatti non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù ci propone un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto, come modello di credente, poiché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, i puri, gli osservanti, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza esteriore, ancorché stretta e letterale, a tutta la legge (il sacerdote e il levita) ma vuole che l’amore che Lui nutre per noi (un amore che dobbiamo sentire, percepire, accettare) si dilati, si espanda e si riversi su tutta l’umanità (il samaritano): “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Con Gesù tutto è cambiato, rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, ma è Lui che ci serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se le religioni ci dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù, “to eu anghelion” - la “buona notizia”, ci dice ciò che Dio fa spontaneamente per l’uomo: lo ama aldilà di tutto e di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.
«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva. Noi infatti non “santifichiamo il nome di Dio”, cioè già lo “bestemmiamo”, sprecando la nostra vita con i suoi doni; bestemmiamo Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; bestemmiamo Dio tutte le volte che non i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite prescindendo da lui, senza amore, senza fondamenta, senza ideali: sono futili, superficiali, banali. Allora possiamo anche confessarci di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio, ma dobbiamo soprattutto ricrederci, chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la grandezza, la bellezza, la meraviglia delle aspettative che Dio ha riposto in noi. Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto sappiamo di Dio. Allora adoriamo il suo mistero; per cercare di capirlo non abbassiamolo alle microscopiche possibilità della nostra mente. Dio è infinitamente più grande delle nostre possibilità, Dio è oltre, Dio è un’esperienza che non finiremo mai, amandolo, di scoprire, di conoscere, di sperimentare; per quanto ci sforziamo di capirlo, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà sempre, ci sbalordirà in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.
«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun re fu all’altezza! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, si è rivelato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la intransigente osservanza delle leggi (i farisei). Poi venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è vicino a noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più vera la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù, alludendo al pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il pane “che costruisce”. Questo concetto, tradotto in greco “epiousion”, e in latino “super-substantialem”, quindi un pane che va ben oltre il semplice “cibo quotidiano”, il pane del fornaio; chiediamo infatti un qualcosa di soprannaturale, decisamente più importante: è quel pane sostanzioso, quel pane vero, che sfama l’anima. Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di questo pane per l’anima: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegni qualcosa, che ci faccia riflettere, il contatto con la natura, un abbraccio dove poterci sentire “contenuti”, amati; un po’di preghiera con cui sentirci a casa, al sicuro, tra le Sue braccia, ascoltare il canto dell’anima, concentrarci sul nostro respiro per sentire la vita che vibra in noi, chiudere i conti in sospeso, concentrarci sul nostro motivo di vita. Noi in questo modo possiamo pian piano plasmare la nostra vita, nutrirla, darle la forma che desideriamo.
Tocca a noi scegliere il cibo “nutriente”: non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Attenzione, perché non voler scegliere, è già una scelta, spesso problematica!
Non è vero infatti che una cosa vale l’altra: una donna non vale l’altra; avere per amico una persona o un’altra, non è la stessa cosa; non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere lo shampoo, il bagnoschiuma, il dentifricio solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’ “igiene” della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita davanti, ciò che abbiamo sottomano; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Il nostro “pane”, lehem, se invertiamo le lettere, diventa meleh, “sale, saggezza”: la nostra “saggezza” deve essere pertanto il nutrimento di ogni giorno, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, gustosi, pieni di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio, dell’universo.
«E condona (afiemi ) i nostri peccati…»
Il “pane” (lehem: l-h-m) e la “saggezza” (meleh: m-l-h), sono anche “perdono”, (mahol: m-h-l).
Anche il perdono è quindi il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che abbiamo fatto e continuiamo a fare, e la forza di perdonare da parte nostra quanti ci fanno del male. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che pro’ continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti?
“Perdono” in ebraico si dice anche kafor, che vuol dire “ricoprire la ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono.
Il perdono deve essere il nostro “habitus” di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.
«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Noi possiamo condonare, perdonare tutto ai nostri fratelli, solo se noi stessi abbiamo fatto esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “condonare”.
«Non ci indurre in tentazione».
Ritengo più corretta e pertinente questa traduzione, piuttosto che quella recentemente imposta “non abbandonarci nella tentazione”: infatti il verbo greco eisenènkes, e quello latino inducas, esprimono entrambi alla lettera lo stesso concetto, cioè “in-ducere, indurre, introdurre, portare dentro, far entrare nella tentazione”.
Nell’Antico Testamento il termine tentazione però non indica mai una “sollecitazione al male”. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo. In realtà, quindi, la tentazione, la prova, altro non è che un passaggio obbligato attraverso cui crescere, maturare, e poter andare avanti ricchi delle nostre esperienze. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, la nostra anima si illumina di una luce, di una consapevolezza, di una potenzialità, di una forza, prima completamente nascosta, latente. Il senso quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, perché dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, la generosità che c’è in noi.
Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”; Dio non tenta nessuno! Gli chiediamo invece di risparmiarci qualunque situazione pericolosa; come a volergli dire: “sai che sono debole e povero; vigila tu su di me perché le tentazioni e le prove non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che la tentazione del maligno abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano e fa’ che non cada sotto un peso troppo grande per me”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente in linea con la misericordia e l’amore di Dio.
Dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: nella prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.
Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio per padre.
Ogni padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia superabile. E sapere che Dio non ci riserverà mai nulla di male, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde alle nostre aspettative; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito, perché in ogni caso noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, mi ama, e questo mi basta”. Fidiamoci allora anche noi di lui. Tranquillamente. Amen.


giovedì 18 luglio 2019

21 Luglio 2019 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi” (Lc 10,38-42).

Continuando il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai tempi di Gesù, il quale, così facendo, ha infranto ancora una volta usanze, schemi e convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante. Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un messaggio “nuovo”.
Storicamente dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania: è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide di fermarsi a casa delle due donne.
A questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia perfetto, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica, “esteriore”.
Maria, invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta, ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo, quello di Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo insegnamento.
Marta non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.; tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi.
Marta questo non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le dà una mano; ella purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: lei quindi si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto dando da fare per te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di cuore!”. Ma non succede…
Lei non ha dubbi: Gesù in casa sua deve sicuramente trovarsi bene: è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua, per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco perché dobbiamo imparare a conoscere le nostre necessità, a conoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle sugli altri, pretendendo che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede. Perché Marta non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù dalla sua parte contro di lei?
Purtroppo troppe persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire.
Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che deve decidere ciò di cui Egli ha bisogno. Quando Egli arriva, non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta, e il suo cuore si fa vuoto, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.
Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di cosa parlare. Impariamo ad ascoltare, e tutto viene da sé. Non pretendiamo di indottrinare e di cambiare la gente secondo i nostri gusti.
Facciamo come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque possa entrare, portare sé stesso, sentirsi a proprio agio e mostrarsi serenamente per quello che è. Offriamo agli altri quella stessa accoglienza che tutti noi vorremmo ricevere.
Il vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù: stava cioè a contatto con la terra (humus), e ciò indica prima di tutto un suo atteggiamento di umiltà (humilitas). Ed è così che dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quello spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni impossibili; avranno la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, potranno sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati. Per loro deve ripetersi quella stessa occasione che Gesù ha avuto con Maria: sperimentare cioè l'amore vero, l’amore autentico. 
Ecco perché, invece di scegliere immediatamente il ruolo di Marta, più semplice e meno impegnativo, dobbiamo imitare con decisione quello di Maria: infatti solo costruendo “amore”, il mondo diventerà migliore. Poi affronteremo anche Marta, con i problemi del lavoro, della casa, del cibo, delle cose da fare. Prima di tutto però deve esserci carità, amore, ascolto, le cose più importanti di cui il mondo ha bisogno: sono gli elementi essenziali che ci evitano di morire dentro, insensibili, egocentrici, accartocciati dalla nostra aridità. Amen.



giovedì 11 luglio 2019

14 Luglio 2019 – XV Domenica del Tempo Ordinario


“Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto...” (Lc 10,25-37).

Il vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento, puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.
Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma il classico verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.
La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua, oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della gente comune, non particolarmente religiosa: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutta la vibrazione del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è semplicemente l’osservanza delle regole, “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo tentatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: se osserverai la legge, sicuramente otterrai la ricompensa prevista dalla legge”. Chiuso. Tutto chiaro!
Ma l’esperto dottore non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.
E qui Gesù lo confonde completamente: la sua risposta questa volta, per essere capita, richiede una mentalità ben diversa da quella legale, tipicamente fredda, statica, razionale. Egli non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni di legge, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri no, erano esclusi! L’esatto contrario dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina di amare, non la legge!
Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico dei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica, dalla religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!
Il dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.
Un racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe preferibile evitarla, ma un uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto; e lo abbandonano sulla strada mezzo morto, solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel poveretto per essere soccorso? È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.
Questo in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col ruolo, continuiamo a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica.
Evitiamo allora di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita.
Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il samaritano.
Egli non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.
Tutti e tre (sacerdote, levita e samaritano) passano per la stessa strada e tutti e tre vedono l’uomo ferito. Ma del solo samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.
Come poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e del levita, invece, erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Noi tutti, del resto, possiamo incorrere nella nostra vita in due tipi di morte: quella fisica e quella spirituale: con la morte fisica, quella che segna la fine della nostra esistenza, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale, invece, viviamo sì all’esterno, ma siamo morti nell’anima. Non dimentichiamoci mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.



giovedì 4 luglio 2019

7 Luglio 2019 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


“Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10,1-12.17-20).

Tutti gli esegeti concordano nel dire che queste parole non appartengono personalmente a Gesù, pur riflettendo scrupolosamente il suo pensiero, ma sono di Luca, il quale, dopo l’ascensione di Gesù in cielo, di fronte a nuove problematiche, avrebbe fatto risalire direttamente a lui questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, che condensa, appunto, tutte le sollecitazioni da Lui rivolte ai suoi. Nel particolare momento storico in cui Luca riporta questo testo, dunque, Gesù non c’è più: spetta quindi ai discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione e nella catechesi, per assicurare a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio.
Sono parole, infatti, che esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per la realtà venutasi improvvisamente a creare nella Chiesa nascente: l’urgente necessità di trovare nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”. C’è insomma bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato al suo commiato da questo mondo: uomini in grado di mettere in pratica il suo esempio, soprattutto di parlare in nome suo al cuore della gente. La loro è una missione particolare: non servono discorsi asettici, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza letteraria, l’importanza, il valore del vangelo; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare questo “lieto annuncio”, a seguirne l’autore, Colui che per amore, per la salvezza dei popoli, ha sacrificato la sua vita sul patibolo della croce.
In particolare questi nuovi “settantadue”, ovunque vadano, qualunque sia la loro destinazione, devono semplicemente ripetere quello che Lui, il loro Maestro, ha fatto: guarire i malati e annunciare: “Il regno è qui, in mezzo a voi”. Non devono porsi come giudici intransigenti, ma come consolatori degli afflitti, guaritori delle anime e dei cuori in difficoltà.
Il mondo è sempre pieno di persone sofferenti nell’anima, persone che sono convinte di essere malate fisicamente, che cercano affannosamente dei medici in grado di guarirle, e non si rendono conto che la loro malattia è diversa, di altro tipo, non capiscono che per guarire devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, quella dello Spirito.
Ecco perché, soprattutto oggi, abbiamo bisogno di “medici” dell’anima in grado di far riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi, che facciano capire che tutti possiamo “guarire”, perché la Forza guaritrice è dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è infatti fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, è contagiosa, infetta anche il corpo, lo indebolisce, è inevitabilmente causa di gravi problemi.
Continuando poi la lettura del testo, c’è un particolare che merita di essere sottolineato: di fronte alla necessità di questi nuovi operai, Gesù prima di tutto si rivolge ai presenti con un generico: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate!”. Cioè: “Voi tutti siete chiamati”, nessuno escluso!
In genere però noi ci fermiamo alla prima esortazione, al “Pregate”: siamo infatti molto bravi con le parole: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa! C’è bisogno urgente di operai!”. Arrivati invece alla seconda, all’“Andate!”, preferiamo fare orecchie da mercante, e molto elegantemente ci defiliamo da qualunque coinvolgimento personale! Anche se in giro si fa un gran parlare di responsabilità personale, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione corale ecc. ecc., noi, per quanto ci compete, ci muoviamo molto bene solo con le buone intenzioni, con i bei discorsi, con ampi programmi destinati a terzi, molto poco con i fatti concreti.
Ci lamentiamo allora perché la società di oggi fa schifo? Rispondiamo noi per primi; responsabilizziamoci; comportiamoci coscienziosamente, anche nelle piccole cose, diamo il buon esempio. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Nicchiamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri fioretti. Dio ci vuole responsabilmente impegnati, all’opera!
Certo non è una cosa da prendere alla leggera. È un “sì” che non sarà sempre facile onorare. Saremo come agnelli che devono vedersela coi lupi. Nel mondo, infatti, sono accolti bene soltanto quelli che organizzano feste, che offrono pranzi, che ossequiano i potenti, che appoggiano indiscriminatamente qualunque loro iniziativa; in altre parole solo dimostrando di essere accomodanti, simpatici, aperti, senza esporsi mai di persona, senza mai contrastare apertamente le varie ideologie dilaganti. Ma se al contrario proponiamo il vangelo come regola di vita, se denunciamo apertamente ogni opposizione al suo spirito, ogni improponibile stile di vita, allora, automaticamente, ci troveremo in mezzo a lupi rapaci che tenteranno di sbranarci in tutti i modi. È sempre stato così, anche con Gesù; e noi dobbiamo metterlo in conto e prepararci!
Del resto va bene così. Perché è solo combattendo che emerge la nostra autenticità, lo Spirito di Verità che ci spinge da dentro; in altre parole, se siamo mossi da motivazioni false, deboli, umane, alle prime difficoltà lasciamo subito perdere (“Ma chi me lo fa fare?”), desistiamo immediatamente. Ma se abbiamo motivazioni forti, se abbiamo il fuoco nell’anima e la passione nel cuore, allora affrontiamo “il nemico” e andiamo avanti sempre, con determinazione, per la nostra strada.
Una strada che è lunga e faticosa da percorrere. Ecco perché dobbiamo essere “leggeri”. Se abbiamo troppi interessi personali da difendere, diventiamo troppo impacciati, troppo pesanti: dobbiamo liberarci dalla zavorra. Quando andiamo in montagna, ci carichiamo di uno zaino il più leggero possibile; perché se pesa troppo, ci rallenta e finiamo per non riuscire più ad andare avanti. “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Abbiamo una missione da compiere, uno scopo ben preciso da raggiungere, con indicazioni molto impegnative; dobbiamo procedere dritti per la nostra strada, senza “salutare nessuno”: se ci fermiamo a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarà anche bello, ma non arriveremo mai alla nostra meta.
Dobbiamo essere “liberi e leggeri”: solo così potremo viaggiare spediti. Se il benessere materiale è l’arte di avere il più possibile, il servire Dio, la spiritualità, è l’arte contraria: avere il minimo indispensabile. Dobbiamo essere rispettosi, caritatevoli, non imponiamo niente a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno loro poi a doversi giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare due volte”. Rispettare vuol dire allora tenere in considerazione soprattutto le esigenze e le scelte dell’altro, anche se sono diverse dalle nostre; rispettare è accettare che nella vita, oltre noi, ci siano anche gli altri. Dovunque andiamo, portiamo la pace: “Pace a questa casa”. Pace, in ebraico “shalom”, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente; pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento. È tradotta in greco con “eirène” che indica appunto benessere, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro di sé non ha pace, non è serena, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Comportandosi come suggerito da Gesù, i “settantadue” vanno e tornano entusiasti: “È proprio vero, Signore! Anche noi siamo riusciti a fare quelle stesse cose che tu hai fatto!”.
Ecco: se anche noi ci fidassimo più di Lui che di noi stessi, se camminassimo per le strade della vita ascoltando i suoi consigli, scopriremmo di non essere mai soli, di agire con la sua stessa forza: perché Lui è dentro di noi, con il suo Spirito, e con Lui possiamo arrivare a tutto, nulla ci è impossibile. Lo sottolinea Gesù stesso agli apostoli: “Non siate felici per il potere che scoprite di avere, per quelle cose che riuscite a fare. Non siete voi, non è merito vostro, ma è la Forza che è in voi che compie i vostri prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi saranno comunque scritti nei cieli”.
L’uomo passa, per quanto benemerito il suo nome ben presto verrà dimenticato. Dopo pochi anni dalla sua morte, nessuno più si ricorderà di lui. I nomi scritti sulla terra, quaggiù, svaniscono con il vento. Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. Amen.


giovedì 27 giugno 2019

30 Giugno 2019 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


“Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (Lc 9,51-62).

Un vangelo chiaro quello di oggi. Un vangelo esplicito, che ci offre una serie di indicazioni sulla qualità della sequela: indicazioni che non fanno sconti a nessuno. Soprattutto a quanti si riempiono la bocca di “buonismo” da parte di Dio, visto come un “bonaccione” che comunque “si accontenta”, per giustificare le loro scelte di vita opportunistiche, unilaterali, fondamentalmente egoistiche.
Siamo nel nono capitolo di Luca: un capitolo decisivo, in cui Gesù, che si trova in Galilea, prende “la ferma decisione” di raggiungere Gerusalemme per la Pasqua, pur sapendo che lì sarebbe stato crocifisso.
Per arrivarci però, è costretto a passare per la Samaria, terra dai rapporti non troppo idilliaci con i galilei: per cui ai discepoli che Egli aveva mandato per pianificare gli spostamenti suoi e del suo gruppo, negano ogni richiesta di accoglienza e di ospitalità notturna.
Probabilmente era gente prevenuta nei suoi confronti, gente a cui certi suoi discorsi su “cose” spirituali, non interessavano; non volevano sentirne parlare, non avevano nessuna voglia di cambiare, non volevano proprio saperne di guardarsi dentro; non volevano insomma problemi, difficoltà, “rotture”.
Luca legge questo rifiuto in chiave teologica: Gesù cioè viene rifiutato perché va a Gerusalemme. Rifiutare il suo viaggio a Gerusalemme (tutto il vangelo di Luca è in vista di questa “ascesa”, di questo ritorno del Figlio unico al Padre) è rifiutarlo nella sua essenza, nel suo volto, nella sua unicità e particolarità. Significa rifiutare lo stesso Gesù.
È quindi naturale che, di fronte a tanta puntigliosità, Giacomo e Giovanni, i “boanèrghes”, le teste calde, reagiscono da par loro, chiedendo per quel territorio un castigo immediato: che un “fuoco dal cielo” bruci tutti gli occupanti. Ma, a differenza di Jahweh che dimostra per mezzo di Elia tutta la sua potenza, incenerendo per ben due volte i soldati mandati dal re Acazia ad uccidere il profeta, avendo egli avuto l'ardire di annunciare la sua morte (2Re 1,1-18), a Gesù non interessa dimostrare la sua potenza; Egli vuole solo dare prova di tutto il suo amore. Gesù non è potente nella forza, ma nell’amore: la sua forza sta tutta qui, in un amore che non ha forza; il suo potere sta nel non avere potere. “Non ci vogliono? Lasciamoli stare. Andiamo altrove”.
Del resto, sembra dire, è anche giusto che qualcuno nella vita ci rifiuti: perché dovremmo andare bene a tutti? Ricordiamoci sempre, quando qualcuno ci rifiuta, che ciò è normale; non abbiamo il diritto di essere accettati da tutti. E se questo ci fa star male, se per questo soffriamo, siamo noi che sbagliamo: perché nella vita è nostro dovere convivere pacificamente con tutti: con quanti ci dicono “Sì” e con quanti ci dicono “No”.
Da questo capitolo dunque il vangelo di Luca non è solo Parola da ascoltare, ma anche e soprattutto “Via” da seguire, una via che si sviluppa progressivamente durante il suo camminare verso Gerusalemme e che termina lassù, in alto, sulla croce del Golgota.
Il volto “teso”, “indurito” (estèrisen) di Gesù che si avvia verso la sua passione, si pone in contrasto con il nostro volto, il volto di quanti si propongono di seguirlo senza un fermo proposito: i casi descritti da Luca nella seconda parte del vangelo di oggi, ci riportano infatti alla nostra pochezza, alla nostra superficialità, ai nostri “distinguo”, al nostro continuo rimandare qualunque seria decisione : perché l’unico scopo radicato nella nostra mente, nella nostra vita, è quello di emergere nell’avere, nel potere, nell’apparire.
Il testo ci presenta tre tipologie di adesione alla chiamata divina.
La prima riporta una promessa: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Una risposta categorica, sullo stile di quelle di Pietro. Il chiamato ha sentito impellente il desiderio di seguire Gesù, ha capito la bontà di tale aspirazione, ma – come Pietro - non ha fatto i conti con la caducità della natura umana, non ha capito che seguirlo significa andare oltre l’elemento umano, significa per l’uomo porre ogni sua sicurezza nel divino.
“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,56).
Perché cita le volpi e gli uccelli? Nella cultura ebraica la volpe è considerata l’animale più astuto ma anche ingenuo, insignificante. Erode, la “volpe” (Lc 13,32), furbo ma banale, cerca la salvezza nascondendosi nel suo palazzo, nella sua tana: e pensa di poter vivere tranquillo. Gli uccelli poi sono gli animali più semplici, meno impegnativi, con minori esigenze: “Guardate gli uccelli del cielo...” (Mt 6,26). Ebbene: sia le volpi che gli uccelli, hanno comunque la loro tana, il loro nido.
Gesù invece non ha nulla: tutto ciò che possiede non gli appartiene, e lo restituisce al Padre. Come la sua vita. Con questa dichiarazione, Egli toglie immediatamente, a chi vuol seguirlo, ogni illusione di ricchezza, di ambizione; seguirlo non conduce in alcun modo agli onori, alla gloria, alla popolarità, ma al disprezzo sicuro da parte della società e dei potenti. Seguire Gesù significa venir considerati come inutili, insignificanti, gente banale, senza carattere.
Prima condizione per seguirlo è pertanto: “Non aspettatevi nulla: nessuna ricchezza, nessun onore, nessun merito, nessun riconoscimento umano, nessuna poltrona particolare”: una prospettiva non invitante, in stridente contrasto con lo stile di vita adottato da tanti “discepoli”, da tanti “pastori” moderni e disinvolti.
Gesù ci mette dunque in guardia contro le false illusioni, le false aspettative. Tutti siamo un po’ degli illusi! Per esempio “illusione” è quando pensiamo di poter superare da soli, con la nostra sola volontà, tutte le contrarietà della vita; “illusione” è pensare di essere immuni da ogni malattia; che tutti gli eventi negativi che ci circondano, accadano soltanto agli altri e non a noi; “illusione” è pensare che una volta imboccata la strada per seguire Gesù, diventeremo automaticamente migliori, diversi, perfetti; “illusione” è pensare che Dio sia sempre pronto a rimuovere ogni ostacolo davanti ai nostri passi; “illusione” è dire che ci conosciamo a fondo; “illusione” è pensare che se tutti si comportassero come noi, il mondo sarebbe sicuramente migliore; “illusione” è credere che per essere felici nella vita, sia sufficiente crearsi la propria “tana”.
La seconda forma di sequela parte dall’iniziativa di Gesù che dice all’uomo, “seguimi!”. Una chiamata secca, inequivocabile; chi deve seguire siamo noi, non lui. E mentre nel caso precedente, come abbiamo visto, è Gesù che risponde all’iniziativa dell’uomo, qui è l’uomo, il chiamato, che obietta all’invito di Gesù: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. In effetti egli non dice di no, non chiede una dispensa, chiede solo una proroga!
Il motivo del resto è più che valido: seppellire il padre costituiva per la cultura ebraica l’obbligo più importante e più sacro per un figlio: il padre rappresentava infatti colui che trasmetteva la tradizione, i valori etici e religiosi del passato, il modello da seguire. Onorare il padre (il famoso quarto comandamento) significava appunto imitarlo, fare come aveva fatto lui, portare avanti il suo patrimonio, le sue credenze, la sua tradizione. In questo modo il padre viveva nel figlio.
Pertanto gli onori funebri, presieduti dal figlio, costituivano un obbligo che non poteva in alcun modo venire disatteso. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,59-60). Certo, seppellire il proprio padre è un impegno importantissimo, irrinunciabile: ma Gesù fa capire che seguire i suoi passi, aderire immediatamente alla sua chiamata, è un dovere ancora più importante, improrogabile. Una risposta a dir poco scandalosa la sua, inattuabile per quei tempi. Ma Gesù non è nuovo nel puntualizzare questa sua rivoluzionaria scala di valori: lo aveva fatto anche al momento della chiamata dei suoi discepoli, ordinando loro di abbandonare anche il padre. Tant'è che: “Essi, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,22). E non solo il padre: in realtà aveva chiesto che lasciassero il loro mestiere, le loro tradizioni familiari, che abbandonassero così, su due piedi, tutto ciò a cui tenevano di più; in una parola, tutto ciò che costituiva la loro vita.
Il significato è chiaro: tutte queste cose, tutto ciò che abbiamo sempre fatto, riguarda il passato, è successo ieri, appartengono ad un altro mondo. Il discepolo che vuol seguire Gesù, al contrario, è il presente, l’oggi, l’immediato: è una “nuova” vita. Bisogna essere “vino nuovo in otri nuovi” (Mc 2,21.22). Che vuol dire: “Il passato è passato, è morto; non dovete più fare le stesse cose di ieri. Di fronte alla chiamata di Dio, non siete più tenuti a sottomettervi a quelle usanze, a quelle tradizioni, che vi erano imposte dalla società, dalle vostre usanze, dalla famiglia; ma soprattutto, altro punto importantissimo, il discepolo deve fare le cose che si sente di fare, che gli vengono suggerite dal cuore, dall’amore; basta col fare le cose perché così fanno tutti gli altri: “Ma noi abbiamo sempre fatto in questo modo da che mondo è mondo!”.
È vero: basti pensare a tutte quelle “prediche” che ci hanno impartito fin da piccoli: “Sii bravo, non sbagliare, sii forte, datti da fare, impegnati, sbrigati, fammelo almeno per piacere, non vedi che mi fai soffrire? Non pensi a tua madre, a tuo padre? Fai sempre come ti hanno insegnato i tuoi genitori! Cosa dirà la gente in giro se non fai come loro ti hanno insegnato?”. Frasi che ci hanno costretto nostro malgrado, chi più chi meno, a rinunciare alla nostra personalità, ai nostri progetti, ai nostri sogni; frasi, che ci hanno costretto a non essere più noi stessi, ma quel qualcuno che gli altri pretendevano da noi.
Seguire Gesù implica al contrario un cuore libero; perché solo così potremo annunciarlo fino ai confini della terra.
Poi c’è la terza soluzione: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Anche quest’uomo è intenzionato a seguire Gesù: ma è meno convinto del precedente: l’altro chiedeva un po’ di tempo per adempiere un dovere sacrosanto; questi non ha una motivazione valida, chiede solo “un po’ di tempo”; rimanda al domani solo per il piacere di congedarsi da parenti e amici.
Quanto ci assomiglia! “Guarda Gesù, io ti seguirò sicuramente, ma prima devo sistemare alcune cosucce, prima devo laurearmi, prima devo sposarmi, prima devo sistemarmi; poi verrò!”.
Ma Gesù anche questa volta è chiarissimo: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,61-62). Sono parole che alludono alla vocazione di Eliseo: chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi, egli brucia senza esitazione il suo aratro, sacrifica i suoi buoi e obbedisce alla volontà Dio (1Re 19,19ss.). La chiamata di Dio ha priorità assoluta, esige una risposta immediata, bisogna decidere subito, non c’è tempo per guardare indietro, al passato. Tutti conosciamo cosa è capitato alla moglie di Lot che, fuggendo da Sodoma in fiamme, si voltò indietro a guardare: si trasformò in una statua di sale! (Gn 19,26). Quando Dio chiama non sono ammessi indugi, perché è quello il momento in cui dobbiamo decidere della nostra vita o della nostra morte.
Guardarsi indietro significa ripensarci, ritornare sui propri passi, nicchiare, farsi cogliere dai dubbi, aver paura dell’incognito: e questo non è possibile per chi aspira al Regno dei cieli.
La radice di tutti questi mali, di questi ripensamenti, è infatti l’attaccamento al nostro io, alle nostre comodità, alla nostra vita sicura e agiata: la nostra sarà anche una “rinuncia”, ma pilotata, addomesticata, adattata ai nostri gusti, alle nostre esigenze.
Gesù invece è l’uomo del “si, si, no, no”: esige risposte certe, non ama ripensamenti, gli assensi a metà. Non ama il piede su due staffe. Lui, presa la “ferma” decisione di andare a Gerusalemme per sacrificarsi, è andato sempre avanti, dritto per la sua strada. E questo rimane un grandissimo insegnamento per noi. Amen.


giovedì 20 giugno 2019

23 Giugno 2019 – SS. Corpo e Sangue di Cristo


“Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla” (Lc 9,11b-17).

Oggi la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia: Gesù non c’è più fisicamente con noi, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate.
Storicamente la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia: un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò miracolosamente del sangue, che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia, insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.
Ma cosa è successo esattamente in quella serata, cui si riferisce il vangelo di oggi?
Sappiamo che Gesù durante la sua vita pubblica aveva toccato ripetutamente il tema della “cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua tavola c’era posto per tutti, perché essa era il segno dell’amore infinito, smisurato, illimitato, incondizionato di Dio.
Finché Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli però sa bene di avere poco tempo da dedicare alla catechesi; deve quindi preparare con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.
Il suo gesto quindi è preparato, programmato, con un significato ben preciso: la cena che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale, una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa delle azioni rituali che saranno poi definite per i discepoli nella famosa “cena pasquale” del Cenacolo, durante la quale istituirà appunto l’Eucaristia, il sacramento della sua reale presenza nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando” di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea un rito in grado di riproporre un banchetto, quando lui non ci sarà più, intorno al quale tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza: “Quando voi direte: Questo è il mio Corpo e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la vostra tavola diverrà e sarà come la mia tavola finché io ero in vita”.
L’Eucarestia è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita. L’eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché l’amore di Dio vuole scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo caratteraccio? Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui, mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in regola con le leggi? Sei lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua dignità di uomo? Vieni qui, mangiamo insieme, rilassati, qui sei a casa tua, io ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”.
Ecco, l’Eucarestia è questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti, perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e saranno sempre figli suoi.
Quella sera dunque, prima di intervenire, Gesù vuole testare la fede dei suoi discepoli: “Dategli voi stessi da mangiare”. Bella mossa. Gesù in pratica si defila; essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono circa cinquemila: devono essere loro, personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno cioè gli occhi della fede.
Quante volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci guardiamo e diciamo: “Non siamo capaci, non abbiamo energia, non ne abbiamo il coraggio!”. Quando ci guardiamo, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”.
Gesù ci insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo: con cinque tozzi di pane riesce a sfamare migliaia di persone, tutti ne mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo da quel poco, uscirà qualcosa di grande. Egli ha fede, vive credendo nei suoi poteri conferitegli dal Padre e con Lui condivisi: e così è stato. E così sarà per chiunque crede.
Il problema di base è avere fede: il problema è credere fermamente che, condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti. E questo ci spaventa: perché la fede ci dimostra che la vita è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, che siamo noi a plasmarla.
E allora, quando ci accostiamo alla Comunione e prendiamo sulla nostra mano il corpo di Cristo, dobbiamo avere fede; dobbiamo essere certi che quel pane, quella piccola ostia, all’apparenza insignificante, riesce a sfamare milioni di persone. È il nostro pane, quel pane che placa la nostra fame d’amore, che inonda il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il nostro buio, i nostri tunnel; è quella forza che ci permette di ritrovare il giusto cammino nel nostro inutile girovagare senza meta. Quel pane è Dio stesso che viene in noi; è Lui che vuole venirci a trovare, che non si vergogna di entrare nella nostra casa in disordine, che vuole incontrarci da soli, che vuole saziarci, amarci. È Lui che viene per primo da noi, è Lui che ci offre la sua amicizia, che ci prende per mano così come siamo, rallentati dalle nostre miserie, e dolcemente ci ripete: “Vai bene così. Mi piace stare con te, quando sei vero, autentico, umile, spontaneo, senza camuffamenti, senza incrostazioni, senza maschere, né uniformi, né paraventi. Sii sempre te stesso, vivi nella mia amicizia”. Allora finalmente ci sentiamo a casa nostra. Perché con Lui non abbiamo nulla da dimostrare, non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo facciate da esibire, compromessi da salvare: con Lui possiamo essere tranquillamente noi stessi, e godere a piene mani del suo Amore.


giovedì 13 giugno 2019

16 Giugno 2019 – Santissima Trinità


“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità... Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,12-15).

La festa della Trinità ci dice che Dio è uno solo: non però un Dio solitario, ma un solo Dio in tre Persone, che non si “dividono” un'unica divinità, ma ciascuna di esse è Dio tutto intero. Spiega il Catechismo: “Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio…”. Ognuna delle tre Persone è la stessa realtà, cioè la stessa sostanza, la stessa essenza o natura divina. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano tre “modalità” diverse dell'Essere divino; essi sono realmente tre persone, distinte tra loro per le loro rispettive relazioni di origine: il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede da entrambi come vincolo d’Amore.
Detta così, la Trinità potrebbe risultare di non facile comprensione, frutto di concetti, di filosofie, di argomentazioni, di tesi e di antitesi; uno sforzo speculativo, di alto equilibrismo teologico, che cerca di spiegare l’essenza di Dio. Nel suo concreto, però, la Trinità è piuttosto semplice: in parole povere altro non è che l’esperienza dell’amore e della comunione reciproca di Dio Padre con Dio Figlio: un amore che tramite lo Spirito si fa uomo, Verbo, Parola, e si rivela in Gesù, diventando “comprensibile”, “accessibile”, all’umanità intera.
Per i primi discepoli è successo proprio questo: hanno capito che Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, non solo sosteneva di essere figlio di Dio, ma si comportava realmente come tale, da figlio di Dio: il Lui c’era veramente Dio, era Dio! In quell’uomo essi hanno sperimentato un mondo di amore, di comunione, di vita, infinitamente grande, profondo. E per dimostrare anche a noi questa essenza divina, hanno utilizzato l’immagine che più riusciva ad esprimere il concetto: l’immagine di una famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro reciproco Amore, lo Spirito. Tre persone, dunque, unite strettamente tra loro, legate tra loro, ma comunque distinte, ognuna con un proprio ruolo specifico
Ebbene, questa “relazione” intra trinitaria è l’immagine esatta di come devono essere improntati i nostri rapporti, tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra amici, tra ogni appartenente al genere umano: un rapporto tra persone diverse, ma unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.
Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio: abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo una grande, unica, entità, anche se ciascuno di noi ha una sua individualità, una sua personalità, una propria autonomia decisionale, un proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono conto di questa realtà: nelle loro relazioni pretendono l’annullamento della personalità altrui, al punto da trasformarli in un loro alter ego, una loro copia esatta; esigono che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono attenersi perfettamente ai loro “desiderata”. Sono persone egocentriche che non accettano alcuna contrapposizione, non sopportano l’altrui diversità ed autonomia. Un “punto di vista” è solo la vista dal loro unico punto: sono talmente limitati, da non rendersi conto che in questo modo annullano le persone, le rovinano, le derubano della loro individualità, rifiutano a priori qualunque valida opportunità di collaborazione e di integrazione comuni.
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di “comunione fraterna”, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni finiscono nel nulla di una triste realtà: chi non si adegua al pensiero “elitario” dei responsabili, chi pensa di raggiungere per altre vie lo spirito del vangelo, chi insomma nell’umiltà dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente viene escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa di cosa sia il vero bene. Eppure la dottrina della Chiesa insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta, uniformità, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, di una interpretazione del divino alla luce dell’Amore, dell’aprirsi e del donarsi con quella Carità che “unisce i cuori”.
Fare “unione” infatti non è fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. Fare “unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità. Certo, talvolta potremmo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore vero, quello che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non potremmo vivere.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, relazione, rapporto. In pratica ci fa capire che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, naturale, altrettanto non lo è il “sapersi” relazionare, che è una dote rara. Per questo dobbiamo imparare a costruire i nostri rapporti, le nostre relazioni, sull’esempio dell’Amore interpersonale della Trinità: purtroppo la maggior parte della gente non conosce il significato di “Trinità”; ignora quale potenza si possa sprigionare da una relazione interpersonale “trinitaria”; non capiscono: pensano soltanto che, sapendo parlare, sanno anche relazionarsi. 
Invece no: anzi dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso le “nostre” relazioni, prive dell’elemento fondante della carità, sono solo espressioni del nostro egoismo, una pretestuosa ricerca del nostro utile tornaconto; in tal caso, non siamo noi a gestire le nostre relazioni, ma sono le relazioni che gestiscono noi. 
Guardiamo allora nel profondo del nostro cuore, analizziamo la natura delle nostre relazioni, confrontiamole con le relazioni d’amore e di verità che intercorrono nella Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo; e preghiamo perché anche nella nostra vita sia l’Amore a renderci sempre più autentici e credibili. Amen.