giovedì 28 marzo 2019

31 Marzo 2019 – IV Domenica di Quaresima


“Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15,1-3.11-32).

Il vangelo di questa domenica ci presenta un testo “classico” della quaresima: la parabola del figliol prodigo o del Padre misericordioso. Una delle parabole più incisive del Vangelo che ci descrive in maniera sublime il comportamento di un Padre innamorato che riabbraccia con gioia il figlio che è ritornato a casa, nonostante se ne fosse andato sbattendo la porta, e gli avesse estorto insolentemente un’eredità che non gli spettava. Un Padre che lo perdona e che dimentica tutte le offese, che lo stringe al suo cuore, dimostrandogli tutto il suo amore, la sua dolcezza, la sua misericordia.
È una parabola molto gratificante per noi poiché, nei nostri rapporti con Dio, stabilisce una nuova “meritocrazia” non più si basata sul “quanto”: “Quanto preghiamo; quanto siamo religiosi; quanto siamo bravi; quanti errori abbiamo evitato; quanto siamo in regola con le leggi”. Il nuovo criterio di valutazione, è soltanto: “Tu ami?”. Perché Dio, rapportandosi a noi, per primo dice: “Io ti amo. Ho fiducia in te; credo in te, al di là di quello che sei veramente, al di là di ciò che hai fatto. Io ti amo, e ti aiuterò a rialzarti quando cadi, perché io sarò sempre al tuo fianco”.
È una parabola in cui l’amore paterno ha il sopravvento sull’ingratitudine e la cattiveria dei suoi figli. Due figli che sembrano diversi, che hanno comportamenti solo apparentemente opposti; ma che in realtà hanno lo stesso problema: entrambi non si sentono apprezzati dal padre, entrambi non lo amano, anzi lo considerano addirittura un nemico: entrambi sono dominati dall’egoismo, entrambi si comportano non da figli, ma da mercenari.
Il minore cerca di arraffare quanto più può dei beni del padre: lotta addirittura contro di lui, pretende da subito un’eredità che può far sua soltanto dopo la morte del genitore. Praticamente gli dice: “Tu per me sei già morto. Non ho più nulla a che vedere con te: perciò mi prendo quanto mi spetta e me ne vado, tu per me non esisti più!”.
Il maggiore a sua volta dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. In pratica fa capire al padre di sentirsi trattato come un servo, uno schiavo: gli ha sempre dimostrato rispetto e ubbidienza, è vero, ma in cuor suo covava rabbia, risentimento, odio: il padre, troppo preso dalla perdita del minore, non si sarebbe accorto di lui, non avrebbe apprezzato il suo lavoro, il suo attaccamento al dovere. Egli ha vissuto quindi dominato solo dall’ossessione di dimostrargli quanto lui fosse migliore del fratello ingrato e dissipatore: “Tu mi rifiuti, non mi ami, non mi apprezzi per quanto valgo, per la mia professionalità, per la mia dedizione e fedeltà; tu sei concentrato solo sull’altro tuo figlio, ma un giorno ti accorgerai dell’errore, di quanto ti sei sbagliato!”.
Tra i due figli si era creata una distanza incolmabile, un muro insormontabile si era innalzato tra loro: niente affetto fraterno, solo invidia e rancore.
Il maggiore infatti non darà mai del “fratello” all’altro: tant’è che rivolgendosi al padre gli dice: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute”. La sua rabbia è tangibile. “Tuo figlio”: si sente l’odio per colui che, a suo modo di vedere, l’avrebbe defraudato dell’amore paterno: “Io ho vissuto sempre onestamente al tuo fianco, mi sono sempre comportato bene con te, ma tu tratti questo tuo figlio scellerato, meglio di me!”.
Ci tiene a sottolineare: “Ha dissipato tutto con le prostitute”: il testo non dice se ciò sia realmente accaduto; ma, vero o no, il tentativo di screditare il fratello, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo davanti al padre, è evidente. Non sono tanto i soldi, l’eredità, che divide i due, ma è proprio l’esclusiva dell’amore paterno.
Ma il padre? Il padre li ama invece entrambi: profondamente e senza preferenze; ma lascia che ciascuno dei due lo capisca da solo: entrambi devono maturare, devono ricredersi, correggere personalmente le proprie deficienze, i propri sentimenti, la propria vita. E per arrivare a tanto, entrambi devono compiere un difficile percorso interiore, dentro la loro anima: in una parola devono “convertirsi”.
Il minore, dopo aver ottenuto dal padre quanto erroneamente riteneva già suo, intraprende questo viaggio purificatore: ma lo inizia in maniera tragica, dissipando la sua dignità di figlio, sperperando qualunque possibilità di recupero: cade talmente in basso, da sottrarre il cibo ai porci per poter sopravvivere. E qui capisce finalmente il suo tremendo errore: decide di tornare alla casa paterna, di chiedere perdono per il suo peccato. Ma non è ancora completamente guarito: egli torna per fame, per interesse, non mira all’amore paterno ma, per non morire di stenti, si accontenta di essere accolto come servo tra i suoi servi.
La sua catarsi, la sua conversione totale, avviene solo nell’incontro col padre: un padre che, dimentico di ogni offesa, di ogni oltraggio, in costante apprensione per questo figlio smarrito, non appena lo vede da lontano, corre premuroso fuori di casa, lo aspetta a braccia aperte, lo stringe al suo cuore; un padre che sembra aver perduto ogni dignità, ma che con il suo abbraccio forte, generoso e risoluto, decreta il trionfo finale dell’amore.
Ora la situazione cambia: il figlio minore, “rientrato in sé”, parla del suo errore, della sua strafottenza, di ciò che ha imparato a sue spese, di ciò che ha capito, del suo vitale bisogno di amore. Un amore del quale ora, completamente pentito e purificato, può saziarsi.
Anche il maggiore a questo punto parla: egli però non ha fatto alcun viaggio di conversione, in lui nulla è cambiato; è ancora lì a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: lui non ha ancora capito. È rimasto nella sua rabbia, nel suo odio, nella sua invidia.
Anche se non si è allontanato da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. È rimasto un ribelle, sordo ad ogni invito: per lui sarà più difficile entrare nella casa del Padre, perché egli nasconde, difende, giustifica il suo peccato, con l’orgoglio, con la presunzione di chi si sente perfetto.
Quale considerazione, allora, quale richiamo ci lascia questa parabola? Uno in particolare, ritengo: l’importanza fondamentale di “parlare” col Padre: di esprimergli le difficoltà, le delusioni, le contrarietà, le sconfitte, con le quali dobbiamo misurarci in questo nostro faticoso viaggio di ritorno alla Sua casa; apriamoci con Lui, comunichiamogli ciò che proviamo nel nostro cuore; nella nostra confusione, ascoltiamo il suo invito chiaro e accorato: “Non importa se hai peccato contro di me: ritorna! Non importa se mi hai offeso oltre ogni limite, se hai oltraggiato gravemente il mio cuore; sappi che Io, tuo Padre, sono sempre pronto a ricominciare con te tutto da capo; non ti respingerò mai! Fino all'ultimo ti cercherò, ti starò addosso: se solo aprirai il tuo cuore di figlio, ti sarà impossibile rifiutare il mio amore”.
Questo ci dice oggi Gesù: il suo è un invito pressante, vitale, che non possiamo disattendere. Sono parole che devono iniettare, nella nostra stanca e indolente quotidianità, una overdose di entusiasmo, di ottimismo, di fiducia, di umiltà, nella prospettiva filiale di incontrare anche noi, nel perdono, l’infinito amore del Padre, di fonderci in quell’abbraccio misericordioso con cui ci spalanca le porte della Sua casa celeste. Amen.

venerdì 22 marzo 2019

24 Marzo 2019 – III Domenica di Quaresima


“Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,1-9).

Nel vangelo di questa domenica Gesù fa riferimento a due fatti di cronaca avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato di un gruppo di Galilei, forse dei rivoltosi, che si erano recati a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di alcune persone coinvolte nel crollo della “torre di Siloe”.
All’epoca tutti erano convinti che le disgrazie, le malattie, la morte, erano la giusta punizione di Dio per le colpe commesse dai malcapitati o dai loro antenati.
Pertanto quelli che erano al seguito di Gesù, pensavano che la loro estraneità a disgrazie del genere, fosse dovuta ad una loro condotta giusta e rispettosa della legge.
Ebbene, Gesù sconfessa decisamente questa convinzione: “Quelli che sono morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe personali o quelle dei loro antenati; e non è vero neppure che, per il fatto che siete qui sani e salvi, voi siete più giusti di loro”.
In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non vanno in alcun modo considerati come punizione divina per la nostra cattiva condotta. Dio non vuole questo; non ce l’ha con noi in alcun modo, non ci ha preso di mira, non si comporta come se si fosse stancato di noi. Bestemmiano gravemente quanti si lasciamo andare ad esclamazioni del genere: “Ma che male ho fatto io perché Dio mi castighi in questo modo?”. È una esclamazione contro la bontà di Dio, contro il suo amore, la sua misericordia: eppure, quante volte sarà successo anche noi di esprimerci in questo modo!
Gesù vuol dirci invece che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità. Non è Lui che condiziona la nostra vita: siamo noi che ce la gestiamo come vogliamo. Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare le cose in un modo piuttosto che in un altro. Egli, nel suo paziente amore, ci lascia completamente liberi di fare le nostre scelte: le quali, alla fine della nostra vita, determineranno un premio o un castigo. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in assoluta libertà. È da sciocchi pensare che Dio stia nascosto dietro l’angolo, pronto a colpirci con il pungolo del castigo ad ogni nostra mossa sbagliata; al contrario è un padre amoroso che segue ogni nostro passo con attenzione, sempre disponibile ad intervenire per darci una mano, per correre in nostro aiuto ad ogni nostra richiesta. Lui ci ama veramente, e chi ama sul serio non si diverte a fare del male, a punire, a procurare dolori e sofferenze a quanti ama. Il punto è invece un altro: è come noi rispondiamo a tanto amore; se noi replichiamo a Dio con altrettanto amore: perché solo in questo modo tutto ciò che la vita ci riserva sarà più affrontabile, tutto sarà più sopportabile, tutto più superabile.
Subito dopo aver chiarito pazientemente questo problema, Gesù prosegue: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Un’affermazione con cui sembra contraddire quanto esposto in precedenza. Dice cioè: “se non cambierete vita, se non la smetterete di fare peccati, anche voi morirete allo stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”. Cosa vuol dire Gesù con queste parole? È per caso una minaccia, un’intimidazione, un ricatto? Nel senso che se non cambiamo vita, se continuiamo a vivere nei nostri peccati, Dio per punizione ci farà morire? Assolutamente no! Non è questo il senso delle sue parole: Egli vuol semplicemente dire: “Guardate che tutto quello che voi fate nella vostra vita, un giorno avrà delle conseguenze, delle ripercussioni”; in altre parole: “Se voi continuate a comportarvi negativamente, se nella vostra vita seminate solo erbacce, i frutti che alla fine andrete a raccogliere, saranno altrettanto negativi! Le parole di Gesù, quindi, non hanno un tono ricattatorio, ma prospettano solo una naturale conseguenza: ottenere in questa nostra vita frutti buoni o cattivi, dipende soltanto da noi, dalle nostre mani, dalle nostre scelte. Ecco perché dobbiamo essere attenti e guardinghi; se ci rendiamo conto di vivere nell’errore, di tenere Dio fuori dai nostri pensieri, dai nostri interessi, dal nostro amore, dobbiamo correre ai ripari. In altre parole dobbiamo “convertirci”. Questo è il punto fondamentale. E la quaresima è il tempo propizio per farlo.
“Convertirsi” infatti vuol dire cambiare drasticamente direzione; shub” in ebraico indica appunto un cambio radicale di rotta: se nel nostro percorso stiamo andando in una direzione sbagliata, dobbiamo fare una decisa inversione di marcia. Questo è convertirsi.
“Ma di cosa debbo convertirmi? Non mi pare di essere peggio degli altri!”. È il pensiero che passa in noi ogni qualvolta sentiamo parlare di “conversione”. Purtroppo molti dei nostri comportamenti, apparentemente insignificanti, ci portano a morire dentro, a perdere la nostra percezione interiore: ci rendono superficiali, ci allontanano sempre più da noi stessi e da Dio. E non ce ne accorgiamo.
Non sottovalutiamo i “segni”; non giustifichiamo sempre e comunque i nostri comportamenti, le nostre decisioni. Non esaltiamoci invano per le nostre fuorvianti ideologie, non perdiamo la nostra lucidità, non ottenebriamo la nostra mente. Comportiamoci da “responsabili” amministratori della nostra vita.
A conferma di tutta questa sua catechesi, Gesù narra la parabola di un padrone che di fronte ad un albero di fichi, che per anni non aveva mai prodotto un solo frutto, lo fa tagliare per farne legna da ardere. Cosa vuol dirci Gesù con questa storiella? Semplice: “Cercate di non ridurvi a fare la stessa fine di quell’albero”.
Anche noi infatti, siamo già “cresciuti”, siamo diventati cristiani “adulti” e sappiamo molto bene cosa si aspetta da noi il “padrone” della vigna: dobbiamo solo essere noi stessi, rispondere positivamente alla nostra natura di figli di Dio, essere coerenti con la nostra condizione di cristiani, dobbiamo, in altre parole, portare frutto: dobbiamo cioè far crescere, sviluppare e maturare in noi, con la nostra vita, quei doni che lo Spirito ha seminato nel nostro cuore col battesimo. Dobbiamo, insomma, quando il “padrone” passerà per la raccolta, essere carichi di frutti maturi e gustosi. Se ci presentiamo carichi soltanto di foglie, sappiamo già quel che ci aspetta.
Del resto, non dobbiamo fare “miracoli”, gesti eroici: la vita offre a tutti la possibilità di portare frutto, in base alle proprie capacità; a tutti offre occasioni speciali, particolari, uniche, perché ciò avvenga. Tutti abbiamo incontrato persone perbene, disponibili, positive, pronte a darci un consiglio, una buona parola, un aiuto morale. Tutti nella vita abbiamo vissuto anche situazioni particolarmente dolorose e tragiche, che attraverso la sofferenza ci invitavano a rivedere il nostro rapporto con Dio. Come abbiamo reagito noi a tali situazioni? Le abbiamo accolte, oppure le abbiamo accantonate, disattese, rimandate? Perché una cosa dobbiamo avere sempre ben chiara: che a forza di rinunciare, di rimandare, di tralasciare, arriveremo prima o poi ad un punto di “non ritorno”; verrà cioè un giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più nulla: e, non avendo prodotto nulla di buono, il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato: dentro purtroppo era già arido, rinsecchito, morto. 
Che questa nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, una quaresima di preghiera: una quaresima in cui riscoprirci, in cui convertirci, da cui ripartire alacremente con il nostro cammino per raggiungere il Dio di Gesù. Amen.


giovedì 14 marzo 2019

17 Marzo 2019 – II Domenica di Quaresima


«In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-36)

Per capire bene il vangelo di oggi, dobbiamo fare un passo indietro. Poco prima della trasfigurazione sul Tabor, Gesù comunica ai suoi che Lui deve andare a Gerusalemme, dove soffrirà molto da parte degli anziani e dei sacerdoti, i quali lo uccideranno; ma il terzo giorno lui risorgerà da morte. (cfr. Mt 16,21). A queste parole, la reazione di Pietro è immediata: lo prende in disparte e gli assicura: “Questo non ti accadrà mai!”.
Come mai Pietro non accetta questo annuncio di Gesù? Perché non è assolutamente questo che tutti, discepoli compresi, si aspettano da Lui. Tutta la gente ormai guardava a Gesù come ad un Messia trionfalistico, uno che ricalcasse le orme di Mosè e di Elia, i due antichi personaggi, che nella mentalità comune rappresentavano la Legge e i Profeti, ossia l’antica promessa di Dio: era il massimo che per quel tempo si potesse immaginare! Come mai? Mosè era stato il grande liberatore e il grande condottiero che aveva liberato il popolo dalla schiavitù; era stato così grande e così vicino a Dio da ricevere le Tavole della Legge, e da poter ammirare la gloria stessa di Dio. Elia, invece, era stato il più grande profeta, colui che aveva ripulito Israele da tutti i falsi sacerdoti di Baal: in un solo giorno aveva ucciso 450 falsi sacerdoti (1Re 18,20-46), scannandoli con le proprie mani. Anche Lui aveva parlato e incontrato Dio.
Due personaggi insomma che, secondo la tradizione popolare, non sarebbero morti, ma rapiti in cielo (Dt 34,6; 2Re 2,11). Per questo tutti si aspettavano il loro ritorno alla fine dei tempi.
Cresciuti con queste convinzioni, i discepoli che seguono Gesù, si aspettano quindi che Egli assomigli a loro, che sia cioè, come Mosè ed Elia, potente, trionfante, giusto, liberatore. Non possono accettare un Gesù che parla di passione e morte: per la loro mentalità la morte è la fine di tutto, è il fallimento di qualunque missione.
E allora cosa fa Gesù? Prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo, (e siamo al vangelo di oggi), sale su un monte alto e si apparta a pregare.
E qui Gesù chiarisce le cose: Mosè ed Elia discorrono con Gesù. Non è più Gesù che deve essere come Mosè e come Elia, ma sono Mosè ed Elia che discorrono, che sono visti in funzione di Gesù.
Pietro ne è estasiato: “Come è bello stare qui, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia”. Nonostante sia completamente rapito, frastornato da questa visione, Pietro non desiste dalle sue idee e continua a mettere Mosè, e non Gesù, al posto d’onore, al centro dei tre. Continua cioè a rimanere ancorato ai suoi schemi, continua a vedere Gesù come il Messia, la reincarnazione di Mosè, il carismatico liberatore del suo popolo dalla schiavitù. Ma Gesù non è così. E la voce di Dio scioglie ogni dubbio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. È Gesù che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certamente, ma niente in confronto al Figlio di Dio. La vera identità di Gesù viene solennemente ufficializzata dall’alto: e in quel momento tutte le fantasiose supposizioni dei discepoli inesorabilmente crollano, vanno in frantumi.
Gesù non è colui che tutti volevano. Invece del condottiero forte e potente, è un Messia debole e sofferente: non potrà mai essere un Mosè o un Elia, non arriverà mai a rompere la testa e a ucciderà tutti gli operatori di iniquità di Gerusalemme; anzi saranno loro a ucciderlo.
Ma nonostante la rievocazione di questa tragica fine, Gesù continuerà per la sua strada, sarà sempre solo sé stesso, sarà Gesù e basta! Egli non ha paura di esser sé stesso, anche a costo di diventare impopolare.
Del resto, essere sé stessi, spesso comporta grossi disagi per tutti: ma il beneficio enorme che se ne ricava, è l’autenticità, l’essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la propria vita dovunque ci porti.
Noi siamo unici: è per questo che esistiamo. Siamo tutti figli unici di Dio! Se così non fosse non ci saremmo, perché il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie in natura non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto è solo follia umana. La maggior parte delle persone, per essere accettata, per non essere allontanata, accantonata, tende infatti a conformarsi agli altri, ad imitare gli altri, cerca di fare come fanno tutti.
Al contrario noi siamo qui a questo mondo per vivere autonomamente il nostro mandato, per compiere la nostra personale missione, per far emergere la nostra unicità, la nostra originalità.
Essere come tutti, essere dei cloni umani, degli umanoidi, vuol dire aver fallito in pieno la nostra unicità, la nostra personalità.
Noi dobbiamo andare sempre avanti per la nostra strada. Nostro unico modello da seguire è Gesù che fu l’unico per eccellenza, diverso da tutti, da qualunque schema: chi segue Dio non può seguire nessun altro. Noi apparteniamo a Lui soltanto; e con Lui non saremo mai soli, vivremo immersi nel suo amore.
La vera felicità viene infatti dall’amore, dal sentire che qualcuno è con noi, sta con noi, è dalla nostra parte, condivide tutto di noi. È una sensazione esplosiva, una sferzata vitale alla nostra debolezza, una iniezione di forza, di coraggio, di voglia di combattere, di andare avanti.
È la nostra trasfigurazione: allora il tempo può anche scorrere velocemente intorno a noi, ma noi non ce ne accorgiamo, abbiamo un obiettivo ben preciso; allora viviamo, ma la nostra vita, le nostre fatiche, le nostre lotte, non ci pesano, perché hanno finalmente un senso; allora non ci lasciamo distrarre dalle futilità, ma ci concentriamo in quella che è la nostra meta; allora ci rendiamo conto che la nostra esistenza è una benedizione per noi e per il mondo; allora capiamo che per noi è un importante esistere, perché gli altri hanno bisogno di noi. Allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, perché qualunque cosa ci accada non sarà senza un motivo positivo, perché tutto “viene da Dio”.
Di fronte ad una esperienza dolorosa, tragica, invece di rifiutarla immediatamente con fastidio e repulsione, dobbiamo chiederci: “Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, con questa prova? Cosa vuole insegnarmi?”. Allora capiremo che tutto ciò che accade ha un suo senso positivo. Dobbiamo smetterla di lamentarci, di fare le vittime, dobbiamo imparare invece a “trasfigurarci”: perché “trasfigurazione” significa conforto, sicurezza, “felicità vera”.
È stato così per Gesù, che sul Tabor si è sentito approvato, protetto, riconosciuto, amato, dal Padre. E sarà sempre così anche per noi. La felicità sta tutta qui: guardarsi dentro, non fermarsi al significato esteriore delle cose, alle brutture della vita, ma entrare nel silenzio dell’anima e ascoltare la voce del Padre: la nostra trasfigurazione infatti è renderci conto che, al di là dei nostri limiti, delle nostre debolezze, siamo figli amatissimi di Dio. La nube che ci circonda, la quotidianità, la materialità, spesso ci distoglie da questa verità: ma il sole dell’amore divino la penetra, la dissolve, e il nostro sguardo potrà finalmente ammirare Dio che si riflette in noi trasfigurandoci: e potremo godere di quanto ci circonda, della bellezza, della felicità della nostra vita, suo incalcolabile dono.
Certo la vita è lavoro, è durezza, è sacrificio: ma se la viviamo con Lui, è trasfigurazione, è felicità. Perché a ben guardare con gli occhi della fede, tutto nella vita può essere trasfigurazione: un fiore, un tramonto, il volo degli uccelli, la risacca silenziosa del mare, le cime maestose, le montagne e le valli innevate, è tutto trasfigurazione; se ci capita di piangere, di commuoverci, di fronte a parole come: “Ti amo! Ti voglio bene! Sei la mia ragione di vita!”, questa è trasfigurazione.
Se ci capita di prendere in braccio un figlio, un nipote, appena nato, di guardarlo e di rimanere senza parole, increduli, di fronte al miracolo della vita, questa è trasfigurazione.
Se ci capita di piangere così, semplicemente, senza alcun motivo, perché ci sentiamo felici, questa è trasfigurazione. Se ci capita di appassionarci per la musica, per la poesia, per la verità, e decidiamo di voler vivere coltivando questi ideali, ebbene: questa è trasfigurazione. Se ci è capitato un evento tragico che ci ha sconvolto la vita, che ci ha “distrutti”, ma intimamente, nel nostro cuore, percepiamo forte la voce amorosa di Dio che ci conforta, questa è trasfigurazione. 
Il monte della Trasfigurazione è infatti la nostra anima, il nostro cuore: lì noi capiremo l’essenziale. Lì capiremo l’importanza di sentirci figli di Dio, lì sentiremo la sua voce che ci sussurra: “Coraggio, sii felice, io sono sempre qui con te, perché tu sei il mio figlio prediletto!”
Ecco: Noi abbiamo bisogno di questa sicurezza: e dobbiamo imparare anche noi ad esclamare più spesso come Pietro: “Che bello, Signore, essere qui!”. Quando entriamo in chiesa per la Messa, gridiamolo nel nostro cuore: “che bello esser qui!”. Ripetiamolo durante l’intera liturgia: quando ci alziamo, nel silenzio, nel canto, nell’omelia, nella comunione: “che bello!”. 
Trasfiguriamo le nostre preghiere liturgiche in tanti momenti di bellezza! Bellezza della Parola, bellezza degli arredi, del canto, del silenzio, dello stare insieme come comunità... Non adagiamoci mai sulle bruttezze della vita; il nostro sguardo non si concentri soltanto su ciò che non va bene! Il nostro dovere di cristiani è di essere più contagiosi, più convincenti, più esemplari nel professare la gloria di Dio, la sua maestà, il suo amore, mormorando: “Signore, è bello per noi essere qui, alla tua presenza!”.
Allora partecipare all’Eucaristia domenicale sarà per noi come salire sul Tabor e riempirci gli occhi e il cuore, della bellezza, della luminosità, della gioia della trasfigurazione. Amen.


giovedì 7 marzo 2019

10 Marzo 2019 – I Domenica di Quaresima


«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).

Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve rappresentare uno stile di vita, un sistema di autocontrollo; per noi, “quaresima”, è infatti quel tempo che ci serve per rialzarci, per riabilitarci e fortificarci di fronte ad una qualche situazione spirituale un po’ compromessa; è quel tempo in cui dobbiamo camminare, crescere, faticare, piangere, lavorare; è insomma il tempo di “conversione”, del ritornare cioè sui nostri passi, del rimetterci nella giusta direzione facendo un’inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, un tempo in cui ci rendiamo conto di non poter fare a meno Dio.
Noi spesso pecchiamo di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti siamo costretti a fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo alla fine ricongiungerci a Cristo, nostra Pasqua.
Chi non oltrepassa il suo Mar Rosso, chi non percorre il suo “esodo” nel deserto, non potrà mai incamminarsi verso la libertà, non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, le acque sorgive e rigeneranti della Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto: il vangelo di oggi ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora Satana, subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione, lo raggiunge con le sue richieste. Ma ogni suo tentativo viene prontamente respinto da Gesù.
È fondamentale anche per noi non arrenderci mai, non aver mai paura delle tentazioni, esattamente come Gesù ci ha insegnato: noi dobbiamo guadarle in faccia, dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, dobbiamo capirne subito il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle faccia a faccia, senza panico e incertezze. Il mondo in cui viviamo, la società, sono il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. Ma questo fa parte della vita, e noi lo sappiamo.
Questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, alla nostra vera entità: nudi, senza fronzoli, senza maschere, senza abbellimenti di facciata, senza ritocchi ad uso di chi ci guarda.
In greco “tentare” (peiràzein), significa “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa nascondiamo dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo. Una analisi, questa delle tentazioni, che nessuno può evitare, in quanto non dipendono da noi.
Tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un test di verifica, che evidenzia impietosamente la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle loro radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni servono in particolare per tenerci umili, per fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sulla eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza, sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma anche quella di chi ci sta vicino.
Purtroppo sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, da chi sta sopra di noi, dalla famiglia, dalla società? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Subito una vocina ci suggerisce: “A che ti serve credere, a che ti serve frequentare questa comunità, a che ti serve darti da fare, essere fedele, se poi chi ti dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarti con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarti, confortarti, capirti, si comporta così male con te?” Oppure: “Quel prete non mi piace; inutile andare in quella chiesa; non ci vado più e basta! Preferisco frequentare un’altra comunità, un’altra parrocchia; perché lì sto bene, trovo la mia pace interiore, vivo meglio il mio cristianesimo, c’è un prete veramente in gamba, allegro, che saluta sempre tutti!”. Ecco, questa è la prova classica dell’orgoglio: è veramente il nostro “profitto cristiano” che ci fa cambiare parrocchia, o è il nostro orgoglio che si è risentito? Perché, sotto sotto, il nostro “ego” ci assicura e ci convince: “tu vali, sei il più preparato, potresti fare cose eccelse, potresti far “resuscitare” una comunità “senza vita”, solo se “qualcuno” ti desse credito!”. E noi ci crediamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno.
Ebbene: in queste settimane di quaresima ci aspetta un bagno di umiltà: dobbiamo percorrere il nostro deserto con grande compostezza e umiltà, soprattutto con obiettività!
Eravamo convinti di avere una solida fede, ma poi al dunque, si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non si trattava di una fede profonda, convinta, ma del nostro orgoglio travestito da religiosità, da amore per il prossimo.
Ecco: la “quaresima” della nostra vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: e noi dobbiamo essere consapevoli di come realmente siamo, dobbiamo avere le idee chiare su cosa correggere, su cosa rimediare, su cosa fare nostro.
Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto della mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non conosciamo noi stessi! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi” dagli altri, di essere migliori in assoluto! Ci fa vedere come acquisito ciò che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi piace, ci piace così tanto, da crederci veramente: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, su di essa orientiamo la nostra vita.
Salvo poi, quando ci accorgiamo che tutto è soltanto una misera illusione diabolica, sentirci frustrati, profondamente delusi, dei falliti.
Ecco perché non possiamo perdere altro tempo. Ecco perché dobbiamo agire: perché il tempo favorevole è ora, è in questa quaresima. Amen.


venerdì 1 marzo 2019

3 Marzo 2019 – VIII Domenica del Tempo Ordinario


“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Lc 6,39-45).

Anche questa domenica proseguiamo nella lettura del “Discorso della pianura” di Luca.
Gesù anche oggi continua a puntualizzare quella che deve essere la fisionomia del cristiano, cogliendo, purtroppo molto bene, lo sbandamento tipico della società contemporanea, che ha definitivamente cancellato i fondamentali valori morali dell’uomo.
Una società alla deriva, in cui, cosa ancor più grave, i pastori, le guide, che dovrebbero contrastare tale situazione, sono invece cieche e mute, non offrendo più alcuna sicurezza al gregge, esposto in questo modo al costante pericolo di finire fuori dal retto cammino.
Lo sport seguito dai cristiani di oggi, per esempio, non è tanto l’innocuo calcio, ma quello di criticare il prossimo, comunque e a prescindere, a ragione o a torto.
Siamo tutti solerti nell’individuare “la pagliuzza” nell’occhio del vicino, e non ci accorgiamo delle travi che ci impediscono qualunque visuale corretta e serena.
“Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello!”, esclama Gesù.
Sono parole dure, ma estremamente vere, realistiche, che ci mettono di fronte al nostro non voler riconoscere e correggere i nostri errori personali, che al contrario siamo sempre pronti a giustificare e ad attenuare.
Siamo molto comprensivi e benevoli con noi stessi, mentre con gli errori degli altri siamo spietati, li giudichiamo sempre con estrema durezza. Basterebbe ascoltarci quando parliamo delle altre persone, dei vicini, dei colleghi, dei nostri capi, del parroco…
In ogni famiglia, in ogni comunità ci sono dei problemi: ma niente ci autorizza a sentirci superiori agli altri e ad esprimerci come se Gesù avesse parlato solo “per loro” e non anche e soprattutto “per noi”.
Ci comportiamo troppo spesso come dei bambini: sempre attenti a proteggerci, a far apparire il meglio di noi, per paura che gli altri vedano il peggio. Impariamo invece a vedere noi stessi e gli altri così come Dio ci vede. Non è che dobbiamo astenerci dal giudicare le situazioni, di esprimere pareri, ma di cambiare il nostro criterio di riferimento, di vedere le cose con lo sguardo pieno di speranza del Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Siamo tutti peccatori, siamo tutti figli: non abbiamo bisogno di fare bella figura davanti al Padre.
Una prima verità che possiamo infatti ricavare dal vangelo di oggi è che uno solo può giudicare: nostro Padre che è nei cieli. Noi infatti, chi più chi meno, siamo tutti “ciechi”, e nessun cieco può ergersi a guida di altri ciechi. Giudicare il prossimo equivale mettersi al posto di Dio.
E allora, come comportarci con le persone che sbagliano? Pretendere di imporci per correggerle è pura ipocrisia: spesso infatti, al posto di una correzione fraterna, esercitiamo una buona dose di superbia e di egoismo: pretendere di autonominarci “guide”, nonostante la nostra personale “cecità”, equivale infatti a quel “giudicare”, che è contrario alla carità.
Altro discorso invece è se la nostra correzione si basa sulla carità fraterna e sulla comprensione. È una soluzione che sicuramente aiuta noi e i nostri fratelli.
Noi infatti dobbiamo “vedere” soprattutto il lato buono degli altri, e di farne tesoro, cercando di imitarlo: il lato cattivo, invece, va prima di tutto analizzato nel nostro intimo, per evitare di cadere anche noi con loro. In questo modo il “guidare gli altri” si trasformerà in “coscienza sincera” dei nostri limiti
Mettere in pratica il nostro battesimo, senza rifornirci di carità e amore, significa fallire in partenza: è come il viaggio del carro pieno di vasi di terracotta: ad ogni scossone uno sbatte contro l’altro, finendo spesso per ridursi in cocci.
Purtroppo questa è la realtà con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente all’interno delle nostre comunità. Per questo dobbiamo essere cristiani “dal buon tesoro nel cuore”: dobbiamo avere cioè il cuore sintonizzato sul cuore di Dio, essere “buoni discepoli”, lasciarci forgiare dalla scuola dalla sua scuola di Vita: perché quando è veramente la carità a guidare la delicata opera fraterna di pulitura delle pagliuzze nel prossimo, non ci sarà più spazio per alcun giudizio di condanna. Sarà invece la “festa” piena di speranza, di vita risorta; sarà finalmente il “culto gradito” a Dio perché sarà Lui a manifestare attraverso i nostri cuori, la misericordia, la solidarietà, l'uguaglianza, la dignità ed il rispetto. Amen.


giovedì 21 febbraio 2019

24 Febbraio 2019 – VII Domenica del Tempo Ordinario


“A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”.
(Lc 6,27-38).

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare.
Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù si spinge oltre, ponendo a quanti vogliono seguirlo, delle condizioni ancor più impegnative e difficili da praticare: amare, benedire, pregare, porgere l’altra faccia, donare, fare del bene a tutti, essere misericordiosi, perdonare, non giudicare, non condannare, ed altri verbi simili, richiedono effettivamente un comportamento “superiore”, un comportamento che, per la nostra mentalità tiepida ed egoistica, deve essere supportato da una dedizione cieca e assoluta, un eroismo, una particolare vocazione alla santità, un livello notevolmente avanzato, in quell’ascesi mistica che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, bontà e tenerezza.
Ma non è questo il pensiero di Gesù: per lui sono azioni alla portata di tutti, indispensabili anche per chi sceglie di vivere semplicemente da buon cristiano, per quanti decidono di seguire gli insegnamenti del Signore, conducendo una vita normale.
Per questo le proposte del vangelo di oggi ci mettono in crisi profonda, perché nonostante ci suonino come un imperativo categorico, finiamo per leggerle e rileggerle senza viverle!
Abbiamo come l’impressione che siano dirette ad altri, forse più capaci, più buoni, più cristiani di noi. Per noi sono condizioni troppo difficili: ci vuole infatti una autentica padronanza di sé per arrivare ad amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto…
Tuttavia, a guardar bene non è tanto la nostra incapacità ad accostarci con amore al nemico, a chi ci fa del male; noi entriamo in crisi perché ci sentiamo colpevoli, sul banco degli imputati, in quanto ci rendiamo conto di essere degli ingrati approfittatori non volendo usare verso il nostro prossimo quella stessa condotta amorevole che Dio usa continuamente con noi.
In pratica le parole di Gesù di oggi propongono esattamente la visione fedele di come Dio si è comportato e continua a comportarsi con noi.
Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, eppure Lui ha continuato a rincorrerci quando Gli abbiamo girato le spalle; ha continuato a bussare alle nostre barriere, a tapparsi le orecchie alle nostre maledizioni, a sorridere ai nostri maltrattamenti, ad attendere pazientemente che sfogassimo la nostra rabbia sbattendogli la porta in faccia.
Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste, anzi, lui è stato ed è sempre pronto a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza e comprensione.
È la storia di questa sua comprensione ad oltranza che ci sconcerta, ci confonde; e, mentre ammiriamo il Suo volto misericordioso, mentre ci rendiamo conto dell’amore con cui ci insegue, dobbiamo tornare in noi, dobbiamo tornare ad essere Sua immagine, a fare tutto quello che ci dice. Non possiamo infatti rimanere insensibili a tanto amore!

Allora capiamo che quella che prima ci sembrava un’assurda imposizione, è semplicemente la risposta logica e obbligata di quanti come noi hanno già beneficiato di tanto amore, di tanta pazienza e misericordia.
E a questo punto la nostra storia personale cambierà; scopriremo finalmente la nostra vera vocazione di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. E così, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, diventeremo a nostra volta “guaritori” della miseria e dell’inimicizia dei nostri fratelli.
C’è però chi soffoca ancora nelle paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura – in realtà - di andare oltre tutti i parametri, le aspettative, dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio piuttosto frequente anche per noi. E solo se scendiamo in profondità, possiamo andare oltre.
Perché solo se ascoltiamo con grande umiltà la Parola di Dio, solo accogliendo nel nostro cuore la forza dello Spirito, ci sentiremo rassicurati, capiremo di non aver nulla da temere.
Impariamo allora a chiedere perdono al nostro prossimo da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale, in parrocchia; e se subiamo un torto, sappiamo di avere in mano una grande occasione: di poter cioè disorientare con la bontà coloro che non sono buoni con noi; di poter spiazzare con la mitezza i violenti; di poter fermare con la pazienza gli arroganti.
Allora capiremo perché S. Francesco sia arrivato a chiamare perfetta letizia il momento dell’offesa e della provocazione.
Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di amare senza alcuna ricompensa, senza nulla ricevere in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare come Dio ci perdona. E questo ci darà una grande gioia.
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”.
Allora capiremo finalmente cosa significa diventare una cosa sola con Lui. Amen.



giovedì 14 febbraio 2019

17 Febbraio 2019 – VI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente… Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…” (Lc 6,17.20-27).

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele, sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “ani”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “piegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; in pratica, con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini. 
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se si è in grado di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro marchio, il soffio divino di Dio, di quando eravamo ancora creta, ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua immortale dignità divina originaria.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra.
Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo altre aspirazioni più immediate: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei molteplici traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”.
Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo non solo le cose ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti abbiamo dentro di noi, due realtà che operano in modo contrastante: quella dell’uomo materiale e quella dell’uomo spirituale. Per il primo la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per l’uomo delle beatitudini la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è un insieme di rette: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: ritorna continuamente in sé stesso per attingere lo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere pertanto un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale nell’Amore del Padre. Amen.