giovedì 14 febbraio 2019

17 Febbraio 2019 – VI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente… Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…” (Lc 6,17.20-27).

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele, sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “ani”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “piegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; in pratica, con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini. 
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se si è in grado di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro marchio, il soffio divino di Dio, di quando eravamo ancora creta, ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua immortale dignità divina originaria.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra.
Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo altre aspirazioni più immediate: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei molteplici traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”.
Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo non solo le cose ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti abbiamo dentro di noi, due realtà che operano in modo contrastante: quella dell’uomo materiale e quella dell’uomo spirituale. Per il primo la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per l’uomo delle beatitudini la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è un insieme di rette: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: ritorna continuamente in sé stesso per attingere lo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere pertanto un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale nell’Amore del Padre. Amen.


giovedì 7 febbraio 2019

10 Febbraio 2019 – V Domenica del Tempo Ordinario


“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano” (Lc 5,1-11).

Luca, nel vangelo di oggi, ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli: sono Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli, tutti pescatori.
Il testo però si concentra soprattutto sulla figura di Pietro.
Siamo presso il lago di Genesaret. Ora, nei vangeli, il simbolismo del “lago” viene collegato molto spesso a particolari situazioni di vita : oltre che a fenomeni di tempesta improvvisa, di cambiamento radicale, di rovesciamento della situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), la sua superficie in genere sempre liscia, immobile, tranquilla, rende molto bene anche uno stile di vita monotona, nel nostro caso dei discepoli, che prima di incontrare Gesù conducevano una vita sempre uguale, ogni giorno sempre le stesse cose, senza sussulti, completamente piatta, come talvolta appunto sono le acque del lago.
Un’esistenza insomma, per alcuni aspetti, molto simile alla nostra vita spirituale: non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, anzi qualche volta anche noi permettiamo a Gesù di usare la nostra “barca”. Siamo convinti che stiamo bene così come siamo, che la vita è tutta in quel che facciamo. Pensiamo che il nostro sia l’unico modo di vivere; ma siamo purtroppo ancora molto lontani dall’immaginare quanto, al contrario, sia più esaltante uscire in barca con Lui! Forse abbiamo anche provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
Val la pena allora di chiederci: Ma noi, che abbiamo aderito alla chiamata di Gesù, ci impegniamo seriamente “nel gettare le reti”? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è sole nei nostri occhi, luce ed entusiasmo nel nostro cuore? C'è sufficiente “profondità” in quel che facciamo? “Maestro abbiamo provato tutta la notte e non abbiamo pescato nulla”. Come a dire: “Ci siamo occupati di tantissime cose, abbiamo fatto qualunque esperienza possibile, abbiamo sperimentato infinite tecniche, sondato ogni metro d’acqua, ma ci ritroviamo sempre a mani vuote; quando tiriamo le reti in barca, non troviamo mai nulla”.
La realtà è che se continuiamo a vivere con superficialità, a “pescare” senza impegno, è decisamente difficile riuscire a combinare qualcosa di buono: a quel livello, è addirittura impossibile!
Sulle rive del lago, gli apostoli stanno lavando le reti, afflitti anch’essi dai nostri stessi problemi: ma non appena sentono la voce di Gesù, il loro cuore inizia a vibrare; sentono che le sue parole risvegliano emozioni fino ad allora “morte”, emozioni che infondono nuovo vigore, che fanno rivivere; sentono che Egli indica loro nuove possibilità, che li spinge ad osare nella vita.
Gesù parla a tutti, si fa sentire con la stessa insistenza: ha parlato ai discepoli di allora, parla anche a noi, discepoli di oggi, a quanti nel battesimo egli chiama ad essere suoi fedeli collaboratori.
Ma noi, a differenza dei primi, che facciamo? Il nostro cuore non vibra, non si entusiasma? Sembra proprio di no: continuiamo a rimandare continuamente qualunque iniziativa! Eppure prima o poi dovremo deciderci: la barca è pronta, le reti anche. Non abbiamo più giustificazioni: sciogliamo dunque gli ormeggi e prendiamo il largo. È arrivato anche per noi il momento di rischiare, di osare, di andare. Dobbiamo aver fiducia in Lui. “Ma che ne sarà di noi? Che succederà? Ce la faremo? Soffriremo? E se poi ci sbagliassimo?”. Certo, se ascoltiamo la paura, se preferiamo star sdraiati sul bagnasciuga, non prenderemo mai il largo.
Seguire Gesù non vuol dire conoscere alla lettera tutto ciò che lui ha detto: è sufficiente amarlo e credere fermamente in Lui: non lo seguiamo perché conosciamo perfettamente le Scritture, ma perché ci siamo innamorati di Lui, perché sappiamo che con Lui potremo sicuramente diventare migliori.
Le proposte di Gesù sono sempre mirate, di grande respiro, di larghe e profonde visioni: ci permette sempre di scegliere, purché poi ci mettiamo seriamente in gioco.
Ogni sua chiamata, così come quella descritta nel vangelo di oggi, si articola sempre in due momenti, in due richieste semplici e chiare, ma insieme decise e autoritarie.
La prima è: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “esci fuori dalla tua normalità, allontanati dal tuo modello di vita, dal tuo modo di pensare, di agire, lascia tutto ed entra nella Vita vera!”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “È possibile”. Domande e dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, dobbiamo avere il coraggio di decidere.
Quando il padrone della Vita bussa al nostro cuore, dobbiamo dargli una risposta: nessun altro può sostituirci, nessun altro può farlo al posto nostro.
Molti sono quelli che dicono: “Sarebbe bello, ma non ci riesco, è troppo difficile, va troppo oltre le mie possibilità, non fa per me”. Quando invece sarebbe più onesto ammettere: “Ho paura; non mi va; sto bene così come sto; mi basta; è più comodo non fare nulla; io non sono un eroe!”.
Ma di che stiamo parlando? Che cosa ci basta? Di che cosa ci accontentiamo? Di sprecare il nostro tempo senza far nulla? Di vivacchiare con le solite compagnie, col solito gruppetto di amici che ormai non ci offrono più nulla? “Prendi il largo!”. Ci accontentiamo di frequentare sempre i soliti ambienti, i soliti ritrovi, di ascoltare l’esaltato di turno che straparla di politica, di donne, di sport, di soldi, di lavoro? “Prendi il largo!”.
Non ci capita mai di provare disgusto per le nostre giornate senza senso, di sentire alla sera un profondo desiderio di verità, di assoluto, di scoprire e di conoscere il vero motivo del nostro esistere? “Prendi il largo!”. Non succede mai di sentirci arrabbiati, insofferenti, stanchi di risposte preconfezionate, utilitaristiche, di comodo? “Prendi il largo!” ci ordina la voce suadente e insistente di Dio.
La seconda richiesta è: “Getta le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai fino in fondo; entra dentro il mistero di Dio, il mistero dell’Amore, della Vita”. Non possiamo entrare in contatto con Dio stando in superficie, all’esterno, fuori dall’acqua; dobbiamo vivere immersi nel nostro battesimo. Ci sentiamo figli di Dio? “Certo che sì!”, rispondiamo. Ma che importanza, che valore diamo a questo “si”? Perché a parole non risolveremo mai il nostro problema: una semplice risposta non ci cambia la vita: “Getta le reti!”. Siamo consapevoli di avere nella nostra vita una missione da compiere? Certo! Ma qual è la missione che Dio ci ha assegnato? Dobbiamo scoprirlo! Ma per farlo dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). Come si fa? In un solo modo: “Getta le reti!”. Non c'è altra possibilità.
Quando Pietro si rende conto di come può vivere con Gesù (la rete che tira su è piena, stracolma di pesci!), è preso dal panico, ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire Pietro con queste parole? Perché allontanare Gesù? Prima di tutto perché non si sente degno: viene assalito dallo sgomento, non si sente adeguato, all’altezza, ha paura per tanta imprevista e imprevedibile fortuna. Poi capisce, e sente il rimorso per aver sprecato a vuoto tanta parte della sua vita. Una delle sensazioni più amare che possiamo vivere è proprio quando, a quaranta, cinquanta, sessant’anni, o quel che è, improvvisamente ci svegliamo, e constatiamo quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Dio e, guardandoci alle spalle, ci rendiamo conto di aver sprecato una vita! “Dio, quanto sono stato stolto! Lo chiamavo vivere quando in realtà vegetavo soltanto”. Abbiamo allora la netta consapevolezza di aver vissuto un grande “bluff”, un tremendo fallimento, un continuo peccato di omissione. “Peccato”, in ebraico, significa infatti “mancare il bersaglio”: nella vita non abbiamo fatto centro, lo stile che avevamo scelto non era quello autentico. Il nostro peccato è stato quello di uscire in mare tutte le notti e non aver mai preso nulla. Abbiamo sprecato il nostro tempo.
“Signore, le tue, sono “parole di vita eterna”: l’abbiamo finalmente capito, l’abbiamo provato. Per questo vogliamo seguirti; per questo vogliamo lasciare tutto, metterci a rischio; vogliamo osare, vogliamo vivere per Te: e finalmente, sulla tua Parola, getteremo le nostre reti. Amen.


giovedì 31 gennaio 2019

3 Febbraio 2019 – IV Domenica del Tempo Ordinario

“In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino” (Lc 4,21-30).

La pagina del vangelo di oggi è il proseguimento di quella di domenica scorsa. Siamo ancora nella sinagoga di Nazaret. Gesù ha appena ultimato la lettura del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”, annunciando ai presenti che l’unto del Signore, l’inviato da Dio, è lui; che, in una parola, essi si trovavano di fronte il compimento di tale profezia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato. Il Messia, quello che aspettavate, è qui davanti a voi!”. Un profondo silenzio cala tra i presenti, tutti rimangono interdetti, increduli, in preda allo stupore: “Ma come, costui non è il figlio di Giuseppe, il falegname?”. E iniziano a mormorare, a criticare con acredine i suoi comportamenti, dentro e fuori la sinagoga, la sicurezza, il fatto che si prodigasse a favore dei bisognosi di altri villaggi: “Perché, visto che è tanto bravo, non fa anche qui da noi i miracoli che compie altrove?”. E Gesù: “Avete ragione, dovrei fare come dice il proverbio: “Medico, cura prima di tutto i tuoi famigliari, quelli che ti stanno vicino; purtroppo però io conosco un altro proverbio che dice: nessun profeta è bene accolto nella sua patria”. E riprendendo il commento del testo messianico di Isaia, con parole chiare ed esplicite, demolisce le loro aspettative, escludendo in modo categorico che l’azione salvifica del Messia, che essi stanno aspettando, sia un avvenimento di loro esclusiva, un privilegio riservato al solo popolo ebraico, ma, come avvenne per le missioni di Elia ed Eliseo, è un’azione aperta a tutti i popoli della terra. A questo punto, ancor più scandalizzati, passano immediatamente dal disappunto iniziale alla rabbia autentica; sopraffatti dai loro pregiudizi nazionalistici, in preda all’ira, reagiscono a queste ultime affermazioni con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, tentando addirittura di ucciderlo; ma Gesù, imperterrito, si fa largo tra quei scalmanati, e riprende il suo cammino, abbandonandoli alla loro mentalità chiusa e rancorosa.
Un’esperienza decisamente amara, questa di Gesù, vissuta oltretutto a casa sua, tra i suoi.
Quelli che lo respingono sono infatti suoi concittadini, gente che lo conoscono bene, che hanno vissuto per anni con lui, che lo hanno visto crescere; sono quelli che ogni sabato si sono riuniti con lui a pregare nella sinagoga: sono persone all’apparenza pie e religiose, ma che nel loro cuore non vogliono conoscere il Dio di Gesù. Vanno a pregare nella “casa di Dio”, ma non si curano di Dio; innalzano preghiere ma non pregano. Hanno a loro disposizione Gesù, ma lo buttano fuori dalla loro vita.
Un fatto che deve farci pensare seriamente, poiché è l’esatta proiezione, è l’“ante litteram”, di ciò che succede puntualmente anche a noi, oggi, a noi cristiani “adulti”.
Come i Nazaretani, anche noi andiamo in chiesa, ma come loro dimostriamo di poter vivere senza Dio. Andiamo in chiesa, condividiamo la Parola, ma all’uscita ci esprimiamo stupidamente contro Dio, la Chiesa, il prossimo.
Anche noi vorremmo un Gesù diverso da come ce lo descrive il vangelo; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo in linea con le nostre idee, con i nostri schemi, con i nostri parametri: e quando vediamo che non è così, lo rifiutiamo.
Rifiutiamo in pratica colui che solo può salvarci, che solo può guarirci; rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante volte vorremmo le persone che ci circondano diverse da quel che sono: le vorremmo simili a noi; fatte tutte in un certo modo, secondo le nostre esigenze; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente come noi lo immaginiamo.
Ma le persone sono come sono. Questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dalla vita di ogni giorno.
Quante volte rifiutiamo a priori situazioni, incontri, esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Quando invece se avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, potrebbero diventare la nostra salvezza.
Ma che amore può nutrire per il prossimo, per gli altri, chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta Dio, i fratelli, il prossimo, solo fino a quando gli sono utili, fino a quando può ricavarne un tornaconto? Che amore può mai offrire loro, chi pretende di imporre le proprie idee nella loro vita? Purtroppo saranno sempre e solo degli infelici, dei disadattati, dei meschini, perché vivono con un cuore completamente vuoto, senza vita, senza entusiasmo.
È vero, pensiamo: ma “questo a noi non può succedere, queste cose non ci appartengono: noi siamo cristiani, siamo credenti, non ci abbasseremo mai a tanto!”.
Errore! Leggiamo il vangelo: chi ha ucciso Gesù? Non certo i miscredenti, gli atei, i peccatori incalliti; lo hanno ucciso gli osservanti, i religiosi, i servitori del sacro, i cultori delle Scritture, quei credenti che più credenti non si può; talmente credenti, pii, zelanti, ripieni di autostima, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno; neppure per Gesù. Soprattutto per Gesù: perché per le vie della Palestina, egli predicava e donava a quanti lo avvicinavano ciò che loro apertamente rifiutavano: l’amore, la speranza, la Buona Novella; e lo uccisero non perché quello che insegnava non fosse buono, ma perché era nuovo, un qualcosa di talmente innovativo e rivoluzionario da mandare in frantumi i loro schemi, i loro programmi, le loro sapienti teorie, da stravolgeva le loro idee utilitaristiche di Dio, della Legge, del prossimo. Gesù annunciava un Dio diverso, una Legge nuova, ed essi, i “fedelissimi” della Legge, non glielo perdonarono; annunciava un Dio amico e innamorato di tutti, anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare.
A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la gente si aspettava.
Egli è rimasto sempre e profondamente sé stesso; e soprattutto non ha mai tradito la sua vocazione, la sua chiamata, la sua missione; ha condotto sempre una vita completamente coerente con quanto predicava; non ha mai permesso ai pregiudizi di limitarlo: non gli importava cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era insomma un uomo libero, con il compito di liberare il mondo dal male.
Questo Egli insegnava, questo egli proponeva insistentemente a quanti, schiavi delle leggi e dei pregiudizi di questo mondo, erano costretti ad un sopravvivere alienante, deludente, deprimente. L’uomo veramente innamorato del Dio Amore, fedele a Lui e al suo progetto divino, non sarà mai più tradito dalla vita, grazie a Lui. I suoi passi saranno sempre sicuri, illuminati dalla luce dello Spirito, il suo cuore costantemente sorretto dal suo Amore. Attraverserà il mondo senza essere più ostacolato dai demoni del mondo; semplicemente: “Passando in mezzo a loro”. Esattamente come ha fatto Gesù. Amen.



giovedì 24 gennaio 2019

27 Gennaio 2019 – III Domenica del Tempo Ordinario


“Anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”. (Lc 1,1-4; 4,14-21).

Sono le parole di apertura del Vangelo di Luca. 
Io le rivolgo a te, illustre N.N., sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta il tuo cuore: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore, uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla sua vita.
Ebbene: noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci interessa, non ci appassiona; ignorare tutto, o quasi, di lui, non ci crea alcun imbarazzo.
Eppure noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su che cosa? Su cosa poggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle nostre preoccupazioni? Siamo onesti con noi stessi; non riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è una fede solida, cosciente, granitica: non poggia su cognizioni incrollabili; al massimo si basa su quanto abbiamo sentito e sentiamo dire nelle prediche, su qualche ricordo ormai sbiadito della nostra infanzia, su delle pratiche e usanze che abbiamo continuato a mantenere da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh, lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui, vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! Perché l'amore è conoscenza, e la conoscenza è amore.
Una delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti pastori, è che rischiamo di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene, serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù. In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come il suo amore senza limiti sia continuamente a nostra disposizione.
Purtroppo il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi siamo tiepidi nei confronti di Dio. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo innamorati. Non possiamo impegnarci, dare la nostra vita a chi, nel profondo del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù, d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera, profonda, intensa.
Questa purtroppo è, più o meno, la nostra situazione! Immaginiamo di essere in regola solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni, oggi tanto di moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, per quei veggenti che puntualmente e mediaticamente propongono le loro apparizioni, magari condite da un eccentrico ascetismo orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di guardarci dentro.
E invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà, senza barare con noi stessi.
Certo, non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene, non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di chiedere luce al suo Spirito, Egli sicuramente ci illuminerà. Non accontentiamoci di quello che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi in cielo, sul Suo volto. 
Ascoltiamo, oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri; ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti da vicino.
Se ci avviciniamo al Vangelo, noi possiamo leggere la nostra vita: l’“oggi” della nostra vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se veramente sentiamo scandire un suo messaggio dentro di noi, vuol dire che Dio parla a noi di noi. Magari sono parole già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”. Non ne abbiamo capito il messaggio: “Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi”. Sì, Cristo è venuto proprio per noi; perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti. Lo siamo noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha mandato»: Dio ha mandato anche noi: le sue parole devono essere le “nostre” parole; anche se è difficile, anche se, guarda caso, Dio ci parla proprio oggi, quando abbiamo già troppo da pensare e da fare: figli, famiglia, lavoro, casa, tempo libero ecc.; proprio quando non possiamo sconvolgere, così su due piedi, tutte le nostre certezze, le nostre priorità. Vogliamo una vita serena, noi; una vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
Ma se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo, se i suoi insegnamenti non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore, non ci coinvolgono, non ci commuovono, tutto quanto cerchiamo di benessere, di tranquillità, non serve a nulla: tutto diventa insufficiente, inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a come lo dovremmo fare, per quale strada andare: facciamolo e basta. La strada che Egli ci indica è una sola: imbocchiamola oggi, facciamolo subito, perché domani, forse, è troppo tardi. Amen.


giovedì 17 gennaio 2019

20 Gennaio 2019 – II Domenica del Tempo Ordinario


«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in racconti di feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché Gesù era un uomo di azione, aperto, uno che viveva, che accettava volentieri di mangiare con le persone, che festeggiava con esse: non era un eremita, un solitario, un musone, una persona scostante: era uno che condivideva volentieri i momenti belli della vita con tutta la sua gente. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, della felicità, delle soddisfazioni della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio che vuole per ogni uomo gioia e felicità.
A questo matrimonio di Cana, Giovanni fa partecipare anche la madre di Gesù: doveva ritenerlo un evento molto importante, poiché egli in tutto il suo vangelo annota la presenza di Maria due sole volte: all’inizio del suo ministero, qui a Cana, e alla fine della sua vita pubblica, sotto la croce.
Gesù, per Giovanni, ha vissuto la sua missione pubblica lontano dalla madre: Maria però ha vissuto questo distacco assicurandogli continuamente la sua discreta presenza: per suo figlio lei è stata sempre un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un cuore spalancato in cui Gesù poteva trovare sempre accoglienza e amore.
Durante dunque questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È appunto Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”. Parole semplici le sue, ma che contengono l’invito ad intervenire immediatamente, per evitare l’imbarazzo degli sposi.
Sensibilità di madre, che si ripete anche nella “festa di nozze”, in quella avventura “nuziale” di grazia e di amicizia con Dio, che ogni singolo uomo è chiamato a realizzare nella sua vita: è sempre lei, Maria, che si pone appunto come intermediaria tra Dio e la nostra situazione spesso deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare le nostre nozze con Dio, ma spesso non ne siamo all’altezza, siamo “vuoti”, abbiamo esaurito il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Le nostre giornate sono inutili, prive di qualunque sapore, non c’è più gioia nella nostra vita. È proprio allora che dobbiamo dare retta a nostra Madre che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. Fidiamoci di Lei, fidiamoci delle Parole che Gesù ci dirà, e soprattutto mettiamole in pratica. “Fate quello che vi dirà”: a volte non capiamo ciò che Gesù ci propone; anzi lo capiamo benissimo, ma nel nostro orgoglio lo giudichiamo immeritato, irrazionale, illogico, stupido. Capiamo benissimo che Gesù vuole portarci a fare un certo cammino; e poiché non ne condividiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci; ci diciamo che quelle cose sono troppo difficili per noi, troppo dure, faticose, che è irrazionale doverci arrampicare per un sentiero di montagna, quando possiamo tranquillamente fare il nostro percorso in pianura.
“Fate quello che vi dirà”: sì, a volte Lui ci fa vivere esperienze veramente dolorose, momenti di grande sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di ribellione: ma la soluzione di ogni cosa sta sempre lì, nel fidarci di Lui: Egli è il Dio della Vita, conosce perfettamente le nostre possibilità, le nostre forze, e non sbaglia mai. Lasciamoci guidare da Lui, e quando la nostra debolezza è troppa, quando sentiamo di non potercela fare più, abbandoniamoci a Lui, lasciamoci portare in braccio, perché Lui è sempre lì, al nostro fianco, pronto ad intervenire in nostro aiuto.
I contenitori vuoti di Cana, le giare “di pietra”, stanno ad indicare appunto questo aspetto “pesante” della vita, i momenti in cui ci sentiamo rigidi, insensibili, pietrificati; stanno ad indicare che i nostri comportamenti privi di slancio, di amore, di passione hanno ormai sclerotizzato la nostra vita, privandola di quel respiro soprannaturale, ampio, diverso, in grado di alleggerire il nostro cammino. Quelle giare “di pietra” rappresentano, in altre parole, l’indurimento del nostro cuore, della nostra vita spirituale, delle nostre devozioni, delle nostre opere buone, delle nostre preghiere, delle nostre liturgie ormai stantie per la loro sciatta ripetitività: tutte cose che non ci trasmettono più nulla, non ci infondono più alcuna vitalità, nessuno slancio, che non sono più in grado di assicurarci la necessaria comunicazione con il Dio della Vita. 
Diventiamo vittime dell’abitudine, della quotidianità, fenomeni che frantumano i nostri sentimenti, la nostra volontà, le nostre aspirazioni, i nostri sogni. Non avremo più la forza per reagire, per andare oltre, per cercare il “nuovo”, il “bello” della vita, per affrancarci dalla zavorra letale della nostra insensibilità, del nostro disinteresse: e moriremo dentro. È vero: noi sicuramente moriremo nell’anima e nello spirito, se non troviamo il modo per ricaricarci quotidianamente di Dio, se non frequentiamo qualche incontro ecclesiale che ci offra orizzonti più ampi, che ci faccia riscoprire la ricchezza, la vitalità, la bellezza del nostro esistere cristiano. Moriremo inesorabilmente se sperperiamo tempo prezioso davanti ad una tv idiota e inguardabile, in discorsi inutili e chiacchiere da osteria, nella ripetitività di giornate senza costrutto e senza ideali. Moriremo inesorabilmente se non ci specchiamo nell’anima, se continuiamo a mentirci, a raccontarci “balle”, se ci nascondiamo dietro a sembianze di facciata menzognere, se ci appelliamo alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, solo per “incantare gli altri”: appariremo anche bravi, acuti, profondi, ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, a Colui che vorrebbe condividere la nostra vita. Moriremo inesorabilmente se deleghiamo le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri ideali agli altri, a questo mondo materialista, indifferente, cinico, a questa società ormai depravata. Moriremo inesorabilmente se andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, se preghiamo tanto per pregare, se crediamo solo superficialmente, distratti e disinteressati. Perché così tutto diventa abitudine, tutto diventa “senza vita”, senza calore, insensibile alle vibrazioni interiori, ai sussulti dello Spirito che ci inabita.
Prima o poi, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, finiremo col vivacchiare vuoti, esauriti, finiti, morti. Alcune persone, che si pensano vive, sono già morte dentro; altre sono in fin di vita; altre ancora presentano serie malattie allo stadio finale; la loro anima soffre e geme, ma sono ben pochi coloro che se ne accorgono.
Ogni giorno, ogni mattina quando ci alziamo, spetta pertanto solo a noi decidere se vivere o se lasciarci inesorabilmente morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, “senza più vino” possa al contrario ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere, deve essere pertanto una dimensione irrinunciabile del nostro vivere, un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione spirituale.
In questo senso “Cana” ci invita a cercare in profondità, dentro di noi; ci spinge a penetrare all’interno della nostra anima per irrorarla di “nuovo vino buono”. “Attingete e portatene al maestro di tavola”, ordina Gesù ai servitori. Dio, creandoci, ha già compiuto in noi il suo specialissimo miracolo, elevandoci ad essere sua immagine e somiglianza.
Noi dobbiamo solo credere in questo miracolo, e attingere con forza, abbeverarci continuamente alle sorgenti dello Spirito, per vivere confortati e rinvigoriti dal suo amore. Amen.


giovedì 10 gennaio 2019

13 Gennaio 2019 – Battesimo del Signore


“Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. 
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” 
(Lc 3,15-16.21-22).

Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione era molto attuale ed efficace e la gente lo seguiva con attenzione. In molti si chiedevano addirittura se non fosse lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre: lo sentivano parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”. Di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente correva da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmetteva è certamente quella di un Dio che ama; ma era anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – faceva capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. È necessario pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige la perfezione, non fa sconti, opera con giustizia, rigore, intransigenza: ripaga i giusti con il premio del paradiso, castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla sua presenza.
Farsi battezzare da Giovanni nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima immergendosi nelle acque del fiume, era quindi per chi lo seguiva l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Dio ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta sceso in acqua, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto il Padre lo ami, di quanto Egli sia importante agli occhi del suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo Vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che il rito del “battesimo d’acqua”, acquista per Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento storico, materiale, di routine; egli tenta qui di riportare una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento profondo, interiore, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso “segni e discorsi” celestiali che tutti avranno modo in futuro di percepire e comprendere: i “Cieli sono aperti”, sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) in stretta, indissolubile comunione, sono aperti per rendere comprensibile qualunque comunicazione.
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; sei unico per me: ti voglio bene!”.
Che cosa in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente siamo, o siamo stati, i destinatari di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare e neppure di un “sms”. Ma per tutti, questa occasione è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia quasi esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza per quanto è grandioso e bello.
Se vogliamo capire e dare seguito a questa “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni. Dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutte le nostre miserie, con il nostro nulla, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono spenta la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare, ripulire, tagliare, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: quello Spirito d’Amore che ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere bravi, giusti, perfetti, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché così non arriveremmo mai a incontrare e a conoscere l'amore di Dio; non potremmo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “patteggia”, non è soggetto a “conflittualità”, non “pretende” nulla: è solo “a servizio”, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
Fidiamoci della Voce del Padre; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente alla sua “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.


giovedì 3 gennaio 2019

6 Gennaio 2019 – Epifania del Signore


“Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (Mt 2,1-12).

Il brano del vangelo di oggi appartiene a quella serie di racconti di Matteo e Luca denominata “Vangeli dell’infanzia”. Uno potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”, se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri trattati teologici: non intendono, cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta delle illusioni”.
I caratteristici personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate dalla Bibbia sempre in negativo, con disprezzo; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del termine “maghi”, in greco, non è del resto molto accattivante: significa “imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi, cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre?
È chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico. Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono assolutamente casuali.
Il primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente personaggio (1Re 9,11.28), in quanto espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano, lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà modo di confermare: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Dio dunque non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli che lo riconoscono e lo accolgono.
Il secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28). Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza: Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa, un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele, il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”, il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di una mentalità religiosa elitaria.
Penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare, da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti.
Quando ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro, da accettare, inconsciamente, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza, un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si spezzi dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto pensare che ciò potesse accadere a noi. Perché il punto è proprio questo: ogni illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; una fede autentica, e non solo: anche autentica umiltà, autentica volontà, autentico carattere: perché con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; bisogna quindi ripartire da zero. 
Quando cade una nostra illusione, pur se fittizia e irreale, non è mai un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa, difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di marcia; perché solo così la “verità ci farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata fiducia. Detto così è facile: invece, com’è difficile il cammino nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche con una piccola notizia. Come è successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo allora con fiducia soltanto a Dio: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero e autentico fuoco d’amore. Amen