giovedì 27 dicembre 2018

30 Dicembre 2018 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ


“Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,41-52).

Nella prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Noi immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita.
Al contrario il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene, non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro unico Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la santa famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che i figli erano cresciuti, che avevano soprattutto bisogno della loro indipendenza.
Il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; come tutti i genitori non erano preparati a vedere il piccolo figlio in prospettiva del suo domani; anche a loro è accaduto e continua ad accadere a tutte le famiglie del mondo.
È la ruota della vita: i figli ne sono il centro. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, cerchiamo di essere il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Stiamo perdendo i nostri figli e non ce ne rendiamo conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma quel bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro proprietà”: pensarlo è un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima. 
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li unisce, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
In realtà è veramente difficile accettare che i figli siano grandi; è difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è difficile lasciare loro spazio; è difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non li aiutiamo a crescere, non facciamo il loro bene.
Quando finalmente Maria e Giuseppe trovano Gesù nel Tempio, gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, il richiamo dello Spirito, la Voce della Sua missione; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
Possiamo dire che la storia di Maria e di Giuseppe è costellata dal non capire, dal non comprendere, da un mistero incomprensibile: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Come mai allora noi vogliamo capire sempre tutto? Perché vogliamo avere sempre una risposta, una spiegazione? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere tutto sempre chiaro? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? Se smettessimo di voler capire tutto, se ci fidassimo un po’ più di Dio?
Una cosa fondamentale dobbiamo capire: che la nostra vita ha un compito ben preciso da assolvere: quello di tornare al Padre, con i frutti della nostra missione.
Per rispondere alla “vocazione” di Dio noi abbiamo delegato molto volentieri alcune persone (preti, suore, frati ecc.), come se loro soltanto avessero il compito di collaborare al grande Progetto di Dio. In questo modo ci siamo sicuramente messi a posto la coscienza, ma non il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti, soprattutto quando siamo soli e nel silenzio, siamo tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è infatti scoprire e realizzare ciò per cui esistiamo, il compito affidatoci dal Padre, attuare ciò per cui siamo stati pensati da Dio. 
Siamo agli sgoccioli di questo anno solare.
Porgo a tutti gli amici che mi seguono i miei migliori auguri per un radioso 2019.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita.
Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, Lui sì ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.



giovedì 20 dicembre 2018

23 Dicembre 2018 – IV Domenica di Avvento


«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica che precede il Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per ciò che sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze straordinarie; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno in grembo figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna sola, a quel tempo, era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, nemica secolare dei Giudei. Insomma, era un’impresa impensabile per chiunque volesse farla da solo.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di riservatezza, di umiltà, di silenzio: una donna dimessa che ubbidisce a tutti e se ne sta zitta e tranquilla, nella sua stanzetta; una madre insomma tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: Maria è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere accusata come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entrò “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. La fretta di abbracciare la cugina è talmente forte da farle dimenticare un saluto al padrone di casa Zaccaria: possibile che durante il viaggio sia diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa che è successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era muto a causa della sua incredulità all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto, immediatamente. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che solo loro due possono condividere: una intimità che Zaccaria non può né provare né capire.
In estrema sintesi, Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la felicità può capire la gioia.
Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha lo stesso cuore delle due donne.
Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed aver fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Il saluto di Maria, piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. È piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno, nella propria vita, trasmette ciò che ha, comunica quello che è.
Il loro saluto è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È un incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime delle due donne si sfiorano e si toccano.
Ebbene, sull’esempio di Maria permettiamo anche noi allo Spirito del Signore di incontrarci nel profondo del nostro cuore? O lo blocchiamo in superficie, a confrontarsi solo con le nostre esibizioni, col nostro apparire, con le nostre maschere esteriori? Non è certo così che dobbiamo incontrare Dio. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi e Lui. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda al panico, all'angoscia. Tutto questo non ha nessuna importanza, perché se riusciamo a incontrarLo nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo. 
Solo infatti incontrandoLo nella completa nudità del nostro cuore, possiamo trovare la serenità, confidargli le nostre paure, esternargli ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessargli le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo incontrandoLo possiamo aprirci e raccontargli i nostri sogni, spiegargli le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi.
Insomma: è la nostra vita interiore che dobbiamo comunicare a Dio, non vuote parole di comodo; è l’anima che dobbiamo offrirgli quando lo incontriamo nella preghiera, non squallide cerimonie. Allora, e solo allora, avverrà il nostro incontro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità di una vita in unione con Lui. E anche se ciò risultasse talvolta difficile, ci costasse fatica, ci facesse star male, ci facesse soffrire, pazienza, perché solo uniti saldamente a Lui è vivere una Vita vera. Amen.

giovedì 13 dicembre 2018

16 Dicembre 2018 – III Domenica di Avvento: Gaudete


“Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,10-18).

Nel vangelo di oggi la gente va dal Battista per porgli una domanda fondamentale: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi una grande quantità di persone si pone molto spesso: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un’iniziativa, un’associazione, un gruppo, qualcuno, a cui rivolgermi per risolvere i miei problemi?”
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare un personaggio veramente carismatico in grado di risolvere i loro problemi! Purtroppo abbondiamo invece di personaggi fasulli che si spacciano per “illuminati”, inviati di Dio, dotati di poteri soprannaturali, paranormali, extrasensoriali; e siccome nei deboli, sia la pressione emotiva della sofferenza, che il desiderio di sollievo spirituale, sono grandi, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per star bene spiritualmente, per risollevare la propria anima; si illudono cioè che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci intorno, per renderci conto di quanto ricco sia il mercato del sacro: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare messe, rosari, preghiere, secondo le nostre intenzioni, per le nostre necessità materiali e spirituali (ovviamente con offerta adeguata); c'è il tour operator che organizza, sempre ovviamente a pagamento, gite e pellegrinaggi nei luoghi sacri, volendo anche, per un ossequio personale, con i rispettivi “mistici” del momento; c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita che abbiamo vissuto prima dell’attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è il santone, in contatto diretto con qualunque santo a nostra scelta, che guarisce a distanza qualunque malattia, previo versamento di un'offerta; c'è una vasta gamma di gruppi carismatici sempre pronti ad accogliere chiunque a braccia aperte, assicurando felicità e benessere, purché facciano donazioni alle loro chiese; c’è infine una folla oceanica di maghi, indovini, fattucchieri, stregoni che vendono i numeri vincenti del lotto, che predicono il futuro, che fanno incontrare l'anima gemella, e via dicendo. 
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Quante persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile.
Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe.
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa.
Noi siamo tutti indistintamente per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è! Vorremmo che una preghierina ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile! Vorremmo che ci fossero delle formulette da recitare ogni tanto, per stare a posto con Dio e con la nostra coscienza; ma non c’è! Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte le nostre difficoltà sia sociali che economiche, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, la sua soluzione deve arrivare soltanto da te”. 
Alcuni si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile girare a vuoto: le occasioni e i punti per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi che in famiglia non ci si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché, ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. Il vangelo è chiaro in proposito: il contadino che divide il grano dalla pula, raccogliendo il primo e bruciando la seconda, è un’immagine molto dura ma emblematica, perché colui che tiene in mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva che deve farci pensare seriamente.
Tuttavia non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la causa della nostra poca carità: siamo noi che sopravvalutiamo le nostre buone azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo modo.
Se nella vita insistiamo ad affrontare tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere ignorando i principi fondamentali dell’esistenza, non capiremo mai che siamo noi gli unici responsabili della nostra vita, che spetta solo a noi, e a nessun altro, dirigerla, coltivarla, indirizzarla!
Giovanni battezza con l’acqua: figura di quei cristiani un po’ tiepidi, che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi scossoni.
Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello di Cristo, quello che sconvolge la vita, che si impadronisce dell’anima, che proietta il cristiano nel divino. È un battesimo di fuoco perché brucia dentro, infonde passione, forza, energia per andare sempre avanti, giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove possiamo appoggiare il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo tanto seguire; un battesimo che ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché porta allo scoperto, fa crescere, irrobustire quel soffio divino che ci portiamo dentro, trasformandolo in una forza impetuosa di vita.
Perché il grande “sacrificium” (da sacrum facere, fare una cosa santa), la grande “opera” dell'uomo, è di trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita spirituale, interiore, piena, vera, sorretta dall’Amore divino.
In una parola, come ci insegna il Vangelo, dobbiamo “rinascere nello Spirito”. Amen.



giovedì 6 dicembre 2018

9 Dicembre 2018 – II Domenica di Avvento


“La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,1-6).

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia, ci “invia nel deserto”, in noi stessi. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, non siamo più la stessa cosa.
Durante la giornata ascoltiamo un numero incalcolabile di parole! Ma la parola di Dio è un’altra cosa. Nella nostra vita abbiamo detto migliaia e migliaia di parole, molte anche buone ed edificanti, ma la parola di Dio è un’altra cosa. In Chiesa abbiamo “ascoltato” innumerevoli volte il vangelo: ma la parola di Dio è un’altra cosa. Sì, perché la parola di Dio è quella Parola che non scivola via come le altre, ci penetra in profondità, ci scuote, ci spiazza, ci destabilizza, ci tocca l’anima, ci colpisce il cuore. È quella Parola che sconvolge la mente, anche se non sappiamo spiegarci il perché; è quella Parola che ci risuona insistentemente nell’anima, che ci vibra dentro, che ci chiama in causa con un invito perentorio che non possiamo ignorare. È quella parola che ci è impossibile ignorare. È quella parola che pretende da noi una risposta concreta: e prima o poi dovremo dargliela. È quella parola insomma che una volta entrata, una volta che ci ha catturati, ci costringe a girare pagina: non possiamo più permetterci di rimanere quelli che siamo.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a sé stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone cercano il “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati
Predicare: kerysso, vuol dire urlare, dire ad alta voce. La radice ker indica il cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione per il perdono dei peccati.
Conversione è meta-noeo (“tornare indietro”) e indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare, il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo (in greco baptizein, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È la legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose, di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio, vittoriosi.
Il mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri, quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino, confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio, vittoriosi.
Il cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno di noi.
Siamo già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo diventare tali veramente.
Siamo un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E tutto questo “storto”, questo irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di noi?
Come possiamo essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene, se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra immagine originale in tutta la sua bellezza pura, naturale, divina: perché l’immagine che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o domande, perché quando si vede, quando c’è la Luce, tutto appare luminoso! Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo, bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e chissà cosa, Lui sorride e ci protegge. Amen.


giovedì 29 novembre 2018

2 Dicembre 2018 – I Domenica di Avvento – Anno “C”


“Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,25-28.34-36).
Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta, vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano, dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio d’uomo” viene conferito da Dio, il “Vegliardo”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso, alla sua persona divino-umana, Gesù ha inteso spostare l’attenzione dei contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un figlio d’uomo) umile e sofferente, al servo di Jahweh di Isaia, immagine che meglio lo descriveva nella sua missione redentrice del genere umano: rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”, che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” deve essere infatti l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata conferita una personale missione da compiere. Tutti infatti siamo chiamati a vivere qualcosa di grande, a dare alla nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il mondo.
Qualunque obiettivo vero, grande, potente, ha però un suo costo impegnativo: la vita stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più fragili, guardando questa nostra investitura dalla prospettiva delle difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà, sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano qualunque corso di catechesi, ogni incontro di spiritualità; sono onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento, siano al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di catechesi in un’altra sede, in quel Centro di spiritualità, al quale non posso sottrarmi! E poi, quanto facciamo qui è troppo elementare, poco istruttivo, non mi attira, non vedo “carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre “ispirazioni”, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella giusta attesa della venuta di Dio.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).

Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il verbo “pregare”, in greco “deomai”, significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per la nostra casa, il luogo dove Dio ci ha chiamati; dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là seguendo gli inviti di celebri santoni; più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.


giovedì 22 novembre 2018

25 Novembre 2018 – XXXIV Domenica del T.O.: Cristo Re dell’Universo


“Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” Gv 18, 33b-37.

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Gesù Cristo Re dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re, tra Pilato e Gesù. Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio davanti a Pilato.
Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo!
Nella sua carriera politico militare, ne aveva visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli hanno consegnato e che ora gli sta davanti è davvero singolare, unico: si definisce re!
A lui non interessa affatto la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria; l'unica sua attenzione è di non andare ad alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei.
Durante la scena del processo, così come descritta dai vangeli, c’è un particolare che va sottolineato: Pilato continua ad entrare all’interno del palazzo e ad uscire di fronte alla folla.
Da un lato è attratto da Gesù (entra), perché ne sente la verità e la bellezza. Ma dall'altro teme i Giudei (esce); teme le conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio, l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza.
Un po’ come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità di una cosa, ma sappiamo che aderirvi significa diventare impopolari; sentiamo la passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo che dovremmo cedere su certe posizioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci; sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le conseguenze.
Insomma, di fronte a queste situazioni come ci comportiamo? Pilato, ci dice il vangelo “se ne uscì”; preferì non approfondire la questione, preferì rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere.
E noi? Esattamente come lui! Ci barcameniamo, preferiamo tenere il piede su due staffe.
Al che Gesù ci dice: “se vi accontentate delle carrube dei porci (Lc 15,15) e non cercate, non desiderate qualcosa di meglio, non posso farci niente. Se vi basta il superfluo, le cose terrene, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare, mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la voce interiore che vi invita a darvi da fare seriamente, a desiderare di più, io non posso farci nulla.
Però da quello che scegliete apparirà quanto valete come uomini”.
Pilato dunque, ad un certo punto, chiede a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?” (v. 33).
La domanda ha il tono di una presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della Palestina, tu di dove sei re?”.
Pilato è interessato soltanto al ruolo sociale: “Sei per caso un nobile, un personaggio importante, un dottore della legge, uno scriba, uno che ha studiato molto?”
Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi ha potere.
Ma Gesù parla di un altro mondo; Pilato non può neppure immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
E Gesù di rimando: “Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto?” (v. 34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta cioè di farlo uscire dalla spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, che desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla paura di compromettersi, preoccupato per le conseguenze politiche che deriverebbero da una sua decisione veramente libera. Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così.
Pilato, re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. La sua risposta è banale, distratta, superficiale: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?” (v. 35).
Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi.
E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma, “chiunque è dalla verità” (v. 37), non può far finta di niente, non può stare tranquillo.
Non lo possiamo più neppure noi. Per questo dobbiamo cercare; dobbiamo aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni di vita, anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; anche quando ci accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo, perché solo così potranno riemergere quelle emozioni, quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti dentro di noi.
Non esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano.
Non esiste la libertà in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché liberate.
Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà.
Pilato si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle, risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei fatti.
“Il mio regno non è di questo mondo…” (v. 36).
Gesù e Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari diversi. Per Pilato “regno” vuol dire esercito, armi, potenza e territori.
Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio di sé, essere liberi di amare, di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non dipendere passivamente dagli altri.
A volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e questo ci rende impossibile l’incontrarci con lui.
“Dunque tu sei re?”, insiste Pilato (v. 37), nascondendo dentro di sé un sorriso di commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare, e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei qui incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, potrebbe salvarti! Sei proprio senza attenuanti!”.
E Gesù: Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (v.37).
Pilato si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo pur ritenendolo innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una folla assetata di sangue: pur di salvare la sua “ragione di stato”, si sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma non sa come uscire da questo imbroglio.
“Chi è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. “Gesù” è la nostra ovvia risposta.
Ed è la verità! Ma è una verità incomprensibile per chi guarda solo con occhi umani: per i Romani arrogarsi il titolo di re è motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettavano.
Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna; Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro Salvatore, il nostro Maestro.
È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re” di noi stessi, della nostra anima. Purtroppo per noi non è un’impresa semplice; essere re, dominatori incontrastati del nostro cuore, non è certo cosa facile se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, vergogna, aggressività.
Come possiamo definirci re, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come possiamo definirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo definirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo di non fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se sistematicamente ci inganniamo, nascondendoci per paura la verità? 
Ma chi comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è il nostro regno.
Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla e amministrarla come si deve? 
Chiudiamo per un istante gli occhi e riviviamo mentalmente le ultime ore di Gesù: un Re innalzato sul patibolo, inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e nemici; privato della sua reputazione, della sua credibilità, di quella fama di santità che faceva accorrere le folle piene di ammirazione; privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava aiuto, salvezza; privato della vita, di quella esistenza qui sulla terra, a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare in Lui il simbolo della nostra liberazione totale, della sua vittoria estrema sul mondo.
Appunto perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non commiserazione.
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero, maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che distrugge la nostra felicità. Fissando questa nostra libertà, guardiamo tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi.
Sì, perché noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e pensare di noi.
Siamo schiavi del successo evitando qualunque sfida del bene, per paura e ignavia.
Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine interiore.
Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Questi siamo noi.
Alla fine dell’anno liturgico, facciamo un bilancio serio e onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, Colui che ha conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore, ha attirato a sé tutto e tutti. Amen.


giovedì 15 novembre 2018

18 Novembre 2018 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,24-32).

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano, è vero, della fine di “un mondo”; ma non della fine “del mondo”.
Il testo di oggi parte improvvisamente dal v. 24 del capitolo 13 di Marco: Gesù, riferendosi ad un discorso già iniziato col versetto 1 dello stesso capitolo, lo completa e lo chiarisce; ecco l'antefatto: un discepolo, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito, estasiato, convinto come tutti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire; in altre parole, che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio impedisce la comunione vera tra Dio e gli uomini (Dio era presente solo nel Sancta Sanctorum, il cui accesso era negato ai fedeli).
Il tempio è distrutto, non serve più, perché ora Dio si è fatto presente con Gesù nella storia umana.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti (Mc 13,22). È un avvertimento. Il male c’è nella storia. Tocca a noi affrontarlo e combatterlo: dobbiamo essere noi a farcene carico in prima persona, per poterlo riscattare sulla croce, ed essere poi associati alla risurrezione.
E arriviamo al vangelo di oggi, che prosegue sullo stesso tema: “Dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio, di cui aveva già parlato) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli si riferisce semplicemente a quelle espressioni religiose molto presenti nella storia dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava in Jahweh l’unico Dio. Ma se andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane (sole, luna, stelle) sono destinate a cadere giù definitivamente: quel tipo di religione pagana, cioè, finirà, perderà il suo splendore e l’idolatria entrerà in crisi. Prima però è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). In altre parole: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo, alla paternità dell’unico Dio, tutta questa pseudo-religiosità è destinata a scomparire.
Ecco perché “le stelle cadranno” (Mc 13,25); meglio: “gli astri si metteranno a cadere”: il verbo greco indica un cadere continuo): ma qui non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti costruite dall’uomo di ogni tempo; quel cadere di continuo, attualizza l’azione fino al presente; e ciò vale anche per i potenti, per i principi, per i re, cioè per tutte quelle persone che si ritenevano e si ritengono “divine”, intoccabili, uniche: di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo, tutti subiranno la stessa tragica fine.
Un versetto di Isaia, esattamente il 12 del c. 14, ci aiuta a capire meglio questa profezia nel suo vero significato. Scrive il profeta: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che arrogandosi la condizione divina, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità.
E cosa dice Isaia di lui? “Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli nell’Ade, letteralmente nello Sheol, il regno dei morti!
Un concetto ripreso anche dalle parole poste sulla tomba di Alessandro Magno: “Basta questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Tutta la potenza sterminata di quell’uomo è finita sotto due metri di terra!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio; esattamente come avviene nella trasfigurazione in cui nella nube la voce dice: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). In altre parole: mentre “gli astri, le stelle” cadono, il Figlio dell’uomo “sale”, si innalza sulle nubi.
È una realtà, una regola, che trova la sua conferma sempre, in ogni tempo: ogni volta che cade, che viene meno un regime ingiusto, un potere disumano, la dignità dell’uomo, l’Uomo in quanto tale, si afferma, si nobilita. La caduta di un sistema oppressore o di una ideologia iniqua, di qualunque genere essi siano, è una liberazione per l’uomo. Pertanto non ci sarà una seconda venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma un nuovo risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco sono delle persone come il Battista: riferendosi a lui infatti dice: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Sono cioè quelle persone che diventano “messaggeri” di vita piena, i messaggeri umani di Dio: gli angeli non trasmettono una dottrina ma un’esperienza: essi quindi sono quelle persone che hanno già conosciuto Dio, che l’hanno già sperimentato nella loro vita e sono quindi in grado di comunicarlo agli altri. Saranno essi che “riuniranno gli eletti” (Mc 13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene del prossimo.
Pertanto: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno dai loro “cieli”, tutti quelli che hanno combattuto per alimentare la Vita, per farne fare esperienza agli altri, saliranno in cielo, vivranno in eterno.
Ebbene: cosa può dirci di particolare questo vangelo?
Dobbiamo saper valorizzare gli eventi contrari che ci capitano nella vita, perché essi si trasformeranno in una occasione positiva per noi, un’occasione da non perdere. In questo modo troveremo sempre la forza di fare anche quelle scelte che non vogliamo o abbiamo paura di fare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento. Può sembrare la fine, ma al contrario è la venuta in noi del Figlio dell’uomo, la nascita cioè di quella parte di noi molto più vera, più autentica, quella parte che altrimenti non avrebbe mai potuto nascere.
Perché è il Signore che guida le vicende umane, anche le più contrastate e penose, e lo fa seguendo il suo disegno di salvezza.
Noi nella vita tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, coltiviamo dei sogni; cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci prefissiamo e, per farlo, impieghiamo tutte le nostre energie.
Questo è sicuramente un bene: ma in tutto questo nostro attivismo, ci ricordiamo di Dio? Ci ricordiamo che lui ha un ruolo fondamentale nella nostra vita? Certo, i suoi interventi sono imprevedibili, si attuano all’improvviso, nella sorpresa, in tempi assolutamente non sospetti; ma questo è l’unico modo che gli rimane per agire, visto che noi siamo sempre super impegnati, avendo già pianificato ogni momento, ogni attimo della nostra vita. Del resto per farci capire qualcosa che altrimenti non vogliamo capire, l’unico modo è sorprenderci, darci all’improvviso anche qualche sberla per indurci a pensare, capire, rimediare.
Quando il buio si fa più fitto e il male raggiunge il suo parossismo, noi non dobbiamo disperare: sappiamo infatti che il sole sorge dopo le tenebre della notte, che la raccolta dei frutti avviene dopo la fatica della semina. Per questo dobbiamo andare avanti con coraggio e fiducia senza mai arrenderci, con un occhio al presente e l’altro puntato verso la meta.
Allora, quando stiamo bene, quando tutto va per il verso suo, viviamo questi momenti con intensità, con umiltà; e ringraziamo Dio.
Quando tutto ci crolla addosso, viviamo queste nostre sconfitte non come un castigo, ma come un’occasione, una spinta energica, per ricominciare; e ringraziamo Dio.
Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è vita, viviamola e ringraziamo Dio; quando la morte ci tocca da vicino, quando capiamo di essere arrivati al capolinea, viviamo dignitosamente quei momenti tremendi; e ringraziamo Dio.
Viviamo insomma tutta intera la nostra vita, ringraziando Dio per ogni singolo istante che ci concede, per poter godere meritatamente di questo suo dono. Amen.