giovedì 15 marzo 2018

18 Marzo 2018 – V Domenica di Quaresima


“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.  (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le grandi leggi dell’esistenza: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire; per diventare “grandi”, adulti, bisogna infatti morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Seguire la propria vocazione costa a volte enormi sacrifici. Anche Gesù, uomo come noi, vive la fatica di essere fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli vive la paura della morte, ma come il seme che cade in terra, sceglie di morire per portare quel suo frutto, che è la salvezza per il mondo.
Giunto dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme, dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che fino a quando agiva in periferia, la sua vita non era in pericolo; i suoi nemici non avrebbero avuto alcun motivo di perseguitarlo fino a quando il suo messaggio non avesse colpito in maniera esplicita e diretta i loro interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare la sua missione anche a Gerusalemme, nella città “santa”, centro della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: una volta presa, non sarà più come prima, mai più.
La vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte un po’ più complesse. Prima o poi, però, arriverà anche per noi il momento delle scelte difficili, di quelle senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte in quel particolare momento o mai più. Sono momenti decisivi in cui, con le nostre decisioni, diamo un senso alla vita, le diamo una forma, la nostra; la personalizziamo.
C’è un termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”, “gloria”, in greco doxa. Ora, quando noi lo leggiamo, pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli onori tributati ai vip, ai divi della tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio si rivela nella nostra vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. È in questo senso infatti che la “gloria di Dio” è in Gesù: Dio, cioè, si è reso visibile in Gesù, e lo ha fatto come in nessun’altra persona. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente vedere chi è Dio: in particolare Egli fa apparire Dio, la gloria, quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione, quando dice le beatitudini; ma lo fa soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, donandoci la sua vita perché noi potessimo vivere: «Se il “bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto…»; “bar” in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: Gesù, dicendo queste parole, alludeva a se stesso, sapeva perfettamente che era Lui, il “Figlio”, a dover morire per portare molto frutto. È Lui, infatti, che giorno dopo giorno, accetta questa sua missione dolorosissima, ma inevitabile. In qualche momento, è vero, viene assalito dall’angoscia, tentenna, perché Egli odia la morte: ma non arriva mai a pensare di potersi sottrarre, perché sa di dover dimostrare al mondo la “gloria” del Padre.
«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Gesù ci anticipa la fine alla quale sta andando incontro; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni non racconta il Getsemani, non descrive la passione, l’angoscia di Gesù, come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il turbamento, la passione, di Gesù. In questi pochi versetti, il vangelo concentra tutta la missione del Figlio di Dio, che è poi anche la nostra storia personale. Gesù è pronto ad annunciare agli uomini il nuovo messaggio di amore e speranza, di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un bivio: o fermarsi qui, tradire la sua missione evitando la croce, oppure proseguire fino in fondo e sacrificare la propria vita affrontando una morte orrenda.
Questo è il perenne aut aut di quanti vogliono seguire il suo esempio: essere fedeli alla volontà del Padre e alla propria vocazione costa più di qualunque altra cosa: perché ci sono momenti in cui tutto sembra finire, tutto sembra cadere, tutto sembra illusorio. Un solo conforto, sempre: la certezza dell’amore del Padre. Di “nostro” Padre.
Si, perché anche noi siamo “bar”, siamo “figli” dello stesso Padre di Gesù; ma soprattutto siamo come Gesù il “seme”, siamo quel “seme” che Egli ha piantato nel nostro cuore col Battesimo, il “seme” della Sua amorevole presenza: un atto d’amore il suo, che ci impegna seriamente durante tutto l’arco della vita: perché non possiamo vivere ignorando quel seme, o peggio, rendendolo inefficace, soffocandolo, uccidendolo: perché in questo modo siamo noi a crocifiggere nuovamente Gesù, siamo noi a soffocare Dio tra i rovi della nostra indifferenza, a uccidere la sua Voce.
È un seme, il nostro, che deve costituire la molla, lo slancio vitale che determina la nostra maturazione spirituale e umana: un seme quindi che dobbiamo metabolizzare, curare, che dobbiamo far crescere, che dobbiamo portare a maturazione.
È chiaro che per poterlo fare, dobbiamo “estirpare” dal nostro io, dalle nostre radici, qualunque erbaccia: il nostro narcisismo, il nostro egoismo, il nostro orgoglio; dobbiamo in una parola prendere coscienza della nostra “missione”, dobbiamo fare i conti con la nostra vita.
Purtroppo noi non amiamo misurarci troppo con la realtà, la temiamo, perché spesso ci sconvolge, distruggendo l’immagine di “persone brave e buone” di cui andiamo tanto fieri; molti di noi infatti vivono soltanto per loro stessi, sono semi” che marciscono senza portare frutto. Sprecano il loro tempo per cose inutili, senza alcuna importanza; sono esclusivamente concentrati su loro stessi: si credono bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di paura. La loro vita non è di aiuto a nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in loro nessuna saggezza, nessuna profondità. Passano senza lasciare traccia, sono vite inutili, vuote, senza significato; hanno ricevuto in dono la Vita, ma non l’hanno donata al prossimo. Moriranno tristi perché potevano essere alberi carichi di frutti e di vita, ma hanno lasciato intorpidire il seme dal gelo del loro egoismo; hanno avuto paura di esporlo al sole dell’amore. Frutti acerbi è il loro raccolto. Sono dei falliti.

Il vero servizio, la vera carità, è mettere in circolo i frutti che abbiamo dentro; ma se dentro non abbiamo niente, se la nostra anima è un deserto arido, cosa possiamo donare?
Noi siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo compiuti, solo così vedremo la nostra forza, il nostro seme, rinascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori di altra Vita; solo così ci sentiremo una piccola parte attiva di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.



giovedì 8 marzo 2018

11 Marzo 2018 – IV Domenica di Quaresima


«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,14-21).

Il testo della Parola di oggi ci riporta la conclusione del colloquio che Gesù ha intrattenuto con un certo Nicodemo. Ora, di Gesù sappiamo tutto, ma chi è questo Nicodemo? Per capire meglio e apprezzare questa pagina del vangelo è necessario fare la sua conoscenza. Giovanni lo considera un personaggio molto importante, anzi lo definisce “maestro”, un titolo che in tutto il suo vangelo, egli riconosce soltanto a due persone: a Nicodemo appunto (Gv 3,10), e a Gesù (Gv 13,14). Nicodemo è un fariseo, un dottore della legge di Israele, uno studioso molto apprezzato e seguito dal popolo, un dialettico di grande abilità oratoria, convinto dell’infallibilità delle sue argomentazioni, fondate sulla sua profonda conoscenza del testo sacro e della tradizione. Il sapere però, per quanto enciclopedico, non è tutto nella vita! Anzi a volte la sua vastità costituisce un serio intralcio al raggiungimento di una esistenza serena, soddisfatta, felice. Proprio per questo Nicodemo stava attraversando una crisi dottrinale profonda, aggravata anche dalle notizie che gli giungevano sulla dottrina e sulle opere straordinarie di questo “nuovo maestro”.
Ora, noi sappiamo che tra Gesù e i farisei non scorreva buon sangue: tra loro non c'era mai stata alcuna condivisione né tanto meno qualche convergenza di vedute: oltretutto, pochi giorni prima, un Gesù particolarmente furioso aveva provveduto a “purificare il tempio” da commercianti, venditori, ladri e quant’altro, che operavano in stretto accordo con le autorità religiose: farisei, scribi, grandi sacerdoti. Un grave affronto pubblico ricevuto direttamente in “casa loro”, che aveva ancor più acuito la loro rabbia e il desiderio di vendetta. Per questo Gesù è costretto ad adottare un comportamento più cauto, sapendo che qualunque sua parola o movimento può venire strumentalizzato per combatterlo, ferirlo, condannarlo.
Un clima piuttosto pericoloso che indubbiamente valorizza l’iniziativa del fariseo Nicodemo di incontrare Gesù. A differenza dei suoi colleghi, però, egli è un osservatore attento, scrupoloso e imparziale del “fenomeno” Gesù: la sua vita, i miracoli, gli insegnamenti, il suo comportarsi in maniera benefica e misericordiosa verso tutti, hanno già in qualche modo minato le sue certezze, procurandogli dubbi e interrogativi sia sull’origine divina che sul ruolo di questo sedicente messia: da studioso serio, onesto e meticoloso qual era, egli vuole vederci chiaro.
E va da Gesù in piena “notte”. Come mai Giovanni sottolinea l’orario “notturno” di questo incontro? Vuole forse indicare qualcosa? In genere egli usa il termine “notte” quando vuol mettere in evidenza l’antitesi insanabile tra le “tenebre” della notte, in cui operano le forze del male (Giuda per esempio esce dal cenacolo in piena “notte” per tradire Gesù), e la luce solare, luminosa, trasfigurante del giorno, in cui Gesù conduce apertamente la sua azione pastorale.
In questo caso però ci sono due spiegazioni più plausibili: o è stato lo stesso Nicodemo a scegliere la “notte” per non farsi scoprire da qualcuno del sinedrio o del popolo in un colloquio privato col “nemico”, screditando così la sua integrità professionale di personaggio pubblico, oppure con questo termine l’evangelista ha voluto descrivere lo stato d’animo di Nicodemo che, assalito da dubbi profondi, si rende conto di non possedere argomenti per condannare il nuovo corso della predicazione di Gesù: la sua mente pertanto brancola nel buio della notte, è confuso e sente vacillare le sue “vecchie” sicurezze, prive di luce e di speranza.
L’inizio del suo colloquio fa pensare più a questa seconda ipotesi: “Sappiamo (parla a nome dei farisei) che sei un maestro venuto da Dio; nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2). In pratica riconosce molto onestamente la possibilità che Gesù sia veramente di origine divina. Ma qui si blocca, non sa andare oltre. La sua situazione personale è complicata e non sa come affrontarla. Prende tempo, ha timore di esternare i suoi problemi, i suoi dubbi, e si tiene sulle generali. Sente che gli manca qualcosa, ma non sa cosa. Non conosce la natura di questo profondo malessere; soprattutto non capisce perché questo suo “bisogno di verità” sia diventato improvvisamente così tanto urgente.
Anche se al suo esterno non traspare nulla, Gesù ha già capito tutto, non gli servono tanti discorsi, egli conosce perfettamente l’assillo di quel poveretto: “caro amico, è vero: la tua vita, così com’è, non ti soddisfa, non ti offre soluzioni valide; nessuno, infatti, può vedere e capire il regno di Dio, “se non colui che nasce dall’alto”; un’espressione oscura, questa di Gesù, che mette ancor più in crisi il suo interlocutore: perché in greco ànothen”, ha due significati diversi: uno di luogo (“dall’alto”) e uno di tempo (“di nuovo”). Nicodemo ovviamente non sa cosa rispondere; prende per buono il significato temporale del termine, e replica: “Come può un uomo nascere di nuovo se è già vecchio? Non può mica rientrare nel grembo di sua madre e nascere un’altra volta! (Gv 3,4). Non si accorge di aver travisato il senso del discorso. A questo punto Gesù cerca di illuminare la sua mente in difficoltà, di chiarire pazientemente il suo equivoco: “È vero, tu sei già nato, ma è stata tua madre che ti ha fatto nascere: non sei stato tu a voler nascere, non l’hai scelto tu. È opera sua, non tua. Tu invece devi fare una seconda nascita: questa volta devi essere tu a decidere di “partorirti”, di nascere ad una vita nuova: come? modificando radicalmente quello che sei ora, realizzando tutto il potenziale che c’è in te, espandendo e alzando le tue vedute, affrancandoti dalla tua mentalità legalistica, ormai superata. In altre parole devi cambiare, devi rinascere non dalla carne ma dallo Spirito per vivere una vita completamente nuova. E questo dipende solo da te, da nessun altro. Sarà una nascita dolorosa: ma questa volta sarai tu a soffrire, non tua madre; sei tu che devi porre fine a questa tua vita materiale, per rinascere ad un altro mondo, un mondo completamente diverso, un mondo in cui regna la Libertà, l’Amore. Nel tuo mondo attuale tutti dicono di vivere: ma il loro è un sopravvivere; solo i rinati nello Spirito vivono realmente”.
“Rinascere dall'alto” (e non di nuovo!) è quindi un’altra cosa: vuol dire vivere in una prospettiva spirituale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito. Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità della vita; rischiamo cioè di vivere unicamente per i soldi, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento, la famiglia, i figli, il coniuge: rischiamo di trasformare tutte queste cose nella nostra unica missione, nel nostro unico scopo di vita.
Invece non dobbiamo mai dimenticarci chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall'Alto) e dove andiamo (nell'Amore di Dio). Non siamo qui per caso o per sbaglio: siamo qui per un motivo ben preciso, un motivo specifico.
Una risposta, quella di Gesù, che segnala la necessità di adottare un serio programma di vita. Dobbiamo cioè impegnarci a “credere”; dobbiamo “fare luce” in noi, sulla nostra vita; dobbiamo smetterla di vivere ignorando i problemi, di vivere sopravvalutando le nostre risorse, le nostre forze; non dobbiamo più vivere nell’ignoranza, nell’indifferenza, convinti, magari, di essere dei buoni cristiani, addossando agli altri, alla società, a questo mondo, la colpa del nostro malessere. Non illudiamo noi stessi, siamo deboli e insicuri. Non fingiamo il contrario, ostentando una superiorità che non c'è. Facciamo chiarezza, dentro di noi, introduciamo Luce, e capiremo che non siamo soli, che Lui è dentro di noi, che l’Infinito abita nel nostro finito.
Purtroppo noi abbiamo lo sguardo sempre fisso per terra e non ci accorgiamo della realtà meravigliosa che ci circonda. Abbiamo una visione superficiale, limitata, terrena delle situazioni. Siamo completamente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri fastidi personali, senza accorgerci che giriamo soltanto intorno a noi stessi. Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, che telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…). Non angosciamoci per le stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per queste cose? Ci sono nella vita tragedie ben più dolorose da superare!
Guardiamo allora in alto, perché solo guardando in alto, verso Dio, potremo uscire vincitori; con Lui potremo superare ogni cosa; con Lui potremo distruggere qualunque ombra della notte. 
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…”. Ecco: quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, disperati, ricordiamoci di queste parole di Gesù, meditiamole nel profondo del nostro cuore e diciamoci: “Sì, Dio mi ha amato così tanto, da sacrificare suo Figlio proprio per me”. Proviamoci. Sicuramente ci sentiremo più al sicuro, più protetti, più amati. Amen.




giovedì 1 marzo 2018

4 Marzo 2018 – III Domenica di Quaresima


«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (Gv 2,13-25).

Il Tempio di Gerusalemme non era l’equivalente delle nostre chiese. Era un luogo sacro esclusivo, il più santo della terra, l’unico in cui Dio si manifestava. In esso si svolgevano le sacre liturgie, si bruciava l'incenso sacro a Jahweh, si offrivano sacrifici cruenti; in esso ogni pio ebreo convergeva da tutta la Palestina per celebrare la Pasqua.
Anche Gesù, raggiunta a tale scopo Gerusalemme, si reca immediatamente al tempio, aspettandosi di incontrare tante altre persone pie che volevano adorare Dio, famiglie ridotte che magari si stavano organizzando tra loro per scegliere l’animale da offrire in comune come loro vittima pasquale: era infatti obbligatorio consumare tutta la carne dell’animale offerto, per cui le famiglie poco numerose si riunivano tra loro per poter adempiere l’obbligo. E invece cosa vi trova? Affaristi, commercianti, cambiavalute, sensali, venditori di buoi, di pecore, di colombe. Da luogo sacro di preghiera si era trasformato in un vero e proprio mercato, centro di guadagni sporchi e di indegni interessi. Per assicurarsi un introito di denaro sicuro e costante, i sommi sacerdoti e gli scribi, avevano pensato bene di introdurre l’obbligo di recarsi al tempio, oltre che per le feste tradizionali, anche per pagare il proprio “riscatto” mediante l’offerta di alimentari o di animali, ogniqualvolta si disobbediva a qualche precetto della legge. L'avidità di tali personaggi era agevolata oltretutto da una Legge meticolosissima che prevedeva innumerevoli divieti e obblighi, oltre ai 613 della sola Torah, per cui, essendo oggettivamente impossibile osservarli tutti e sempre, il povero peccatore era costretto a recarsi continuamente al tempio “per pagare” a Dio (meglio: ai tenutari del tempio) il proprio “sacrificio” di espiazione. Una iniziativa che procurava alle autorità religiose somme di denaro talmente ingenti, da trasformare il tempio in una delle più floride banche del Medio Oriente, nonché luogo operativo per una folla di veditori, commercianti e affaristi di ogni tipo.
Vedendo tanto degrado, Gesù si scaglia furiosamente contro quella gentaglia, rovescia i loro banchi e con una frusta li rincorre e li percuote, ripulendo definitivamente il tempio da tutti quei parassiti.
Un vangelo forte quello di oggi: conosciuto come “la purificazione del tempio” o “la cacciata dei venditori dal tempio”. Ma, se leggiamo attentamente tra le righe, il testo ci fa capire che Gesù non solo “purifica”, non solo “caccia” la gente indegna dal tempio, ma arriva addirittura ad eliminarlo: Gesù cioè di fronte a tale decadenza, a tale “distruzione” dell’antico tempio di Jahweh, propone in tre giorni la ricostruzione, la “risurrezione”, di un nuovo “tempio”, di una immagine di Dio completamente nuova, di un Dio che fino ad allora era sconosciuto a tutte le religioni: un Dio che non ha bisogno né di “offerte” né di sacrifici; un Dio che diventa lui stesso offerta e sacrificio a favore dell’uomo: un nuovo tempio, un nuovo culto, in cui non è più l'uomo che si toglie il pane di bocca per “offrirlo” a Dio, ma è Dio che si fa pane per nutrire l'uomo.
Con il Dio di Gesù finisce il tempo della schiavitù, dei servi, del “servire”: è Lui stesso che si pone a servizio dell’uomo; Lui è un Dio che non vuole più essere “pagato”, un Dio che non vuole più essere considerato un “banchiere”, Lui non concede grazie e protezione in cambio di offerte.
Non gli servono i nostri “contratti”, le nostre promesse, i nostri “voti”: “se mi concedi questa grazia, io ti faccio voto di non…”. Non funziona più così. Smettiamo allora di continuare ad “insultare” Dio con queste nostre misere contrattazioni. Egli non ha bisogno di trattare con noi, non è un “sensale”, non gli servono le nostre “condizioni”: egli vuole soltanto il nostro amore, un amore che sia autentico, generoso, filiale, riconoscente, gioioso: “Misericordia, amore io voglio e non sacrifici!”.
Un vangelo, che ci propone anche altre considerazioni importanti.
In particolare la prima è che il vero “culto”, la preghiera delle nostre chiese, non ha bisogno di essere spettacolarizzata, non deve essere esibita a beneficio degli altri, non gradisce una partecipazione puramente esteriore, non deve essere chiassosa, sguaiata, al pari di una rappresentazione teatrale. In Chiesa, casa di Dio, si va per incontrarlo, per ossequiarlo, per ascoltare la sua voce, i suoi consigli, per fare un carico speciale del suo amore, mangiando la sua carne di vittima immolata per noi. Le nostre messe, le nostre liturgie devono portarci insomma a fare una personale esperienza di Dio. Dobbiamo uscire dalla chiesa “confortati”, toccati nell’anima e nel cuore dal suo amore, dobbiamo uscire con nuovi propositi, con nuova energia, con nuova voglia di vivere, con il fermo proposito di essere più “cristiani”, più misericordiosi, più compassionevoli col prossimo; dobbiamo uscire più credibili nel testimoniare la nostra fede, sentendoci più protetti dall’amore di Dio.
A Gesù non interessano quelli che vanno in chiesa per apparire, che fanno l'elemosina per farsi notare, pensando con quella di sanare una situazione di vita cristianamente compromessa, che si guardano in giro come a cercare l’approvazione dei presenti: “Guardate tutti cos'ho fatto!(Mt 6,1-4). L'elemosina, di qualunque genere e di qualunque entità essa sia, deve essere fatta di nascosto, unicamente per amore: di Dio, della sua Chiesa, dei povero, dei sofferente, di quanti sono meno fortunati di noi.
Gesù detesta qualunque tipo di ostentazione: in particolare non sopporta proprio quelle persone che pregano per farsi ammirare, per esibire la loro devozione, per sbandierare ai quattro venti il loro fervore cristiano: “Quando pregate non fatelo per essere visti... non sprecate parole come i pagani...” (Mt 6,5-8). Gesù non tollera quella gente che digiuna, che prega, che frequenta gruppi di alta spiritualità solo per soddisfare il proprio amor proprio. Il loro cristianesimo non serve a nulla. Dio non vuole questo. Gesù definisce questa gente “ipocriti”, commedianti, attori, istrioni. Non si lascia ingannare dall’apparenza, come capita a noi uomini: lui capisce al volo se una persona agisce con amore e sincerità. Non è la preghiera che ci rende “divini”, ma è l'amore che mettiamo in essa. Soltanto quando la preghiera è mossa dall’amore diventa “divina”, gradita a Dio.
C’è poi un’altra considerazione suggerita da questo vangelo: quel tempio che Gesù ha purificato, quel tempio che Gesù pretende ordinato e immacolato, rappresenta la nostra anima, la nostra persona, la nostra vita. Sì, perché dentro di noi convive e agisce liberamente la stessa congerie di mercanti, cambiavalute, pecore, buoi, colombe: quell’ammasso di brutture che deturpavano il tempio di Dio. Siamo noi, infatti, quei “mercanti”, quando cerchiamo soluzioni di compromesso, di basso profilo, quando preferiamo la via facile e larga del “così fan tutti”, piuttosto che quella ripida e stretta dell’impegno corretto; siamo quei “cambiavalute”, quando facciamo sì la carità, ma in cambio di un tornaconto, di un utile, di un riconoscimento, pur sapendo che l’amore non è commerciabile, ma deve solo essere donato; siamo le “pecore”, quando ci comportiamo senza criterio, da irresponsabili, quando rinunciamo alla nostra identità, quando accettiamo passivamente di fare qualunque cosa ci venga proposta, male compreso; siamo i “buoi” quando, dimostrando esteriormente un’apparente mitezza, siamo al contrario testardi, ottusi, cocciuti, irremovibili dalle nostre posizioni; siamo infine le “colombe”, quelli cioè che saltellano di ramo in ramo, gli incostanti che non si fermano mai, che sono alla ricerca perenne di nuove emozioni: facciamo la “ruota” e “tubiamo” felici ad ogni nuovo proposito di migliorare, salvo poi abbandonarlo sistematicamente nel totale disinteresse.
Tutti questi elementi negativi, grazie al nostro orgoglio, trovano ampia libertà di azione nella nostra vita: noi infatti amiamo moltissimo esibirci, ostentare i nostri meriti, le nostre qualità, le nostre possibilità. Ci consideriamo troppo elevati, troppo superiori per abbassarci a compiere umili iniziative di volontariato, confinate nel silenzio, nella modestia, nel nascondimento.
Ebbene, in questa quaresima di conversione, armiamoci di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte queste squallide icone che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo questo nostro tempio: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore; restituiamogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, e potremo tornare a vivere, finalmente, “liberi e immacolati” nell’Amore Infinito. Amen.




giovedì 22 febbraio 2018

25 Febbraio 2018 – II Domenica di Quaresima


«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…» (Mc 9,2-10).

Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela la sua vera natura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi continuiamo a interpretare ancora come un’esperienza triste, funerea, votata alla penitenza, ai sacrifici, alla preghiera continua? Cosa vuol dire?
La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole offrirci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice praticamente che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita può un giorno diventare radiosa solo se pratichiamo l’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sul nostro Tabor eterno, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare nel contemplare quelle cose meravigliose che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere.
Trasfigurazione: è a questo che ci porta l’amore; perché solo chi ama sinceramente, chi è perdutamente innamorato, può cogliere i particolari più belli, più intimi, più commoventi, della vita: come guardare il sole che si specchia sul volto radioso della persona amata, ammirare l’innocenza negli occhi spalancati di un bambino, apprezzare la vera saggezza attraverso le rughe di un vecchio, commuoversi di fronte ad un volto segnato dal dolore per la perdita di una persona cara, rimanere estasiati ammirando la muta grandiosità di un cielo stellato o il sorgere del sole dalle acque immobili del mare: sono momenti rari, magici, che ci trasmettono sensazioni così profonde, commozioni così intense, da non riuscire talvolta a trattenere le lacrime.
Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo amorfo. Vuol dire lasciarsi “trasfigurare”.
La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere; momenti in cui ci sentiamo “speciali”, in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza e il coraggio di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.
Senza queste ricariche di “Dio”, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché davanti a noi si ergono tanti Tabor: dobbiamo permettere alla luce, alla gioia di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci immerga, che viva in noi, che sussulti, che si muova, che rinasca continuamente.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”, come anche “principio di luce”. Bene: la nostra trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che avvizziscono la vita. Se in questi giorni di quaresima non approfittiamo di recidere energicamente i nostri legami col male, convinti che tutto sommato la nostra vita non è poi così malvagia e che potremo comunque migliorarla quando decideremo di cambiare abitudini e stile, siamo soltanto dei poveri illusi, e soprattutto non arriveremo mai ad avere una vita “trasfigurata”. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla implacabile e devastante. Se vogliamo crescere, se vogliamo camminare spediti verso la luce, non possiamo lasciarci rallentare da zavorre pericolose, il nostro taglio deve essere netto, deciso e definitivo.
Solo il cordone ombelicale che ci lega a Dio non va mai reciso; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo costantemente con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significa al contrario lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare l’amore nel nostro cuore. Un canale che, per quanto in basso possiamo cadere, ci terrà sempre uniti a Lui, e non correremo mai il pericolo di perderci nel vuoto”. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi abbiamo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: abbiamo cioè Dio-Amore che abita nel nostro cuore; allora possiamo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello per noi stare qui con te”. Ma anche allora, siamo del tutto sinceri? Per noi noi è veramente bello stare con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra casa, oppure in Chiesa, nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro è solo l’entusiasmo stanco di chi si trascina dietro abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per ritagliarci degli spazi di silenzio, per darci delle risposte sincere, per dedicare più tempo a Dio, per rimettere la nostra vita in sintonia con Lui.
Per farlo, come ci ordina la Voce del vangelo di oggi, dobbiamo “ascoltare”.
Dobbiamo “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo imparare ad ascoltare Dio attentamente: è da questo che dobbiamo ripartire.
Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel disinteresse più totale; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orrende sono le nostre città, orrende sono le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono i nuovi stili di vita.
È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di “trasfigurazione”, ma di quella vera, autentica, divina; ciascuno di noi ha assoluto bisogno della bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore.
Non esiste al mondo alcun chirurgo estetico, alcuna ricchezza, che sappiano trasformarci in persone altrettanto “belle”! Solo noi possiamo raggiungere quella bellezza assoluta, quella bellezza interiore che ci deriva dalla somiglianza con Dio, somiglianza che ci nobilita e ci trasfigura divinamente. Se non siamo immagine di Dio, assomigliamo soltanto a freddi, duri e infelici pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Amen.




giovedì 15 febbraio 2018

18 Febbraio 2018 – I Domenica di Quaresima


«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).

Con il vangelo di oggi che fa riferimento al deserto e alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. È in questo istante che Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Com’è possibile?” ci chiediamo perplessi: “perché lo Spirito si comporta in maniera così apertamente contrastante, incoerente!”. Se pensiamo così, però, dimostriamo di non aver capito Dio, dimostriamo di esserci fatta di Dio un’idea completamente sbagliata. Noi umani, in proposito, siamo abituati a interpretare le cose a modo nostro: se la cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che proviene direttamente da Dio, che è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è può essere Dio che ce la manda, lui che è solo così buono e misericordioso! ma deve essere sicuramente un castigo, una punizione che viene dal demonio, dal male.
Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene sempre da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: se poi è negativa, preoccupiamoci piuttosto di capire il vero motivo di quella “prova” che Dio ci manda: perché sempre di una “prova” si tratta, mai di una “ingiustizia”, di una “cattiveria”, di un “male” fine a se stesso. E allora, invece di prendercela con Dio, cerchiamo di capire cosa Lui vuol dirci, cosa vuole insegnarci, su cosa dobbiamo lavorare; cerchiamo quindi di individuare qual è la strada giusta da imboccare, dov’è lo strapiombo da evitare, la difficoltà da superare, quale il comportamento da mantenere.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori. Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: il male, il peccato sono le nostre azioni, sono il prodotto della nostra libertà, la scelta di fare quanto lui ci prospetta; Satana, è il tentatore, colui che cerca di portarci lontani da Dio, colui che ci sottopone a continui “esami di maturità”, è un’esperienza che è parte fondamentale della nostra vita di creature decadute, un “passaggio obbligato” attraverso cui tutti dobbiamo passare per evolvere, per maturare, per poter liberare l'energia e le potenzialità enormi che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, l’avversario, svolge soltanto una funzione tutto sommato necessaria, positiva, costruttiva, utile alla nostra crescita; un intervento il suo molto importante per la nostra educazione, per poter maturare, per renderci responsabili nell’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro indolenza, della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi e prendere le dovute decisioni: un comportamento facile facile, perché se è il demonio che vuol “punirci”, noi, cosa possiamo fare? Assolutamente nulla!
Se però consideriamo le difficoltà della vita, le contrarietà, le tragedie, se consideriamo il male, le sofferenze, le angosce non come “punizione” di Dio, oppure opera del demonio, ma come espressione della volontà di Dio finalizzata esclusivamente al nostro bene, allora arriveremo a capire che il “male” è semplicemente una prova da della vita, una situazione che dobbiamo affrontare in vista di un “bene” decisamente superiore, impensabile: la visione continua e totale dell’Amore assoluto, il suo godimento eterno.
Allora arriveremo a capire che Dio non può volere il nostro male. E come lo Spirito, dopo l’attestato di stima e amore, costringe l’uomo Gesù nel deserto, nelle prove, nella sofferenza, così continua a fare anche con noi, “abbandonandoci” nel “deserto” della nostra umanità; e lo fa perché dobbiamo imparare a combattere i nostri demoni, a confrontarci faccia a faccia con loro e uscirne vincitori, purificati, dimostrando di essere dei figli in grado di conservare la fede, la fiducia, nel proprio Padre.
La funzione di Satana, quindi, esercitata mediante la tentazione (peirasmos), è soltanto quella di “verificare”, di fare una “prova”, “un test”, sulla nostra autenticità di cristiani, sulla consistenza del nostro “credo”, sulla coerenza della nostra vita. È semplicemente un “esame” cui non possiamo esimerci. Non è Dio che vuole “bocciarci” a tutti i costi.
Assolutamente no. Sono le nostre libere scelte che lo decidono; scelte espressamente volute, mediante le quali dimostriamo, documentiamo, riveliamo ciò che siamo in realtà: quali sono le nostre capacità, la nostra volontà, la forza della nostra fede, la potenza del nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità, la nostra “maturità” spirituale.
La tentazione in sé non è il male; è semmai l’opportunità che abbiamo per capire cos’è il male, un male che essa ci propone come un bene assolutamente desiderabile; è la possibilità che abbiamo di confrontarci col nostro “alter ego”, quel nostro “io” segreto che non vogliamo vedere né tanto meno far vedere, quell’io che preferiamo ignorare.
Ebbene, la tentazione ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla sua zona d’ombra dentro di noi: ne seguirà uno scontro, una lotta interiore a volte molto impegnativa, ma solo uscendone vincitori riusciremo a far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha posto dentro di noi. E allora tutto sarà più bello, tutto sarà più luminoso, tutto nella nostra vita sarà più sopportabile, più facile, più entusiasmante.
Come infatti ci rivela il Vangelo, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Da quel momento non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione.
Una conferma che le tentazioni, dono di Dio, ci infondono quella forza irresistibile, quella maturità, quella convinzione che altrimenti mai avremmo raggiunto.
Ecco allora la necessità di entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Perché ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, ottiene sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nelle zone d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere, di coltivarle, di valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente, dobbiamo scontrarci col male per uscirne vincitori. Non a caso il vangelo parla di “deserto”. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo, fatica, costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una iniziativa, vuol dire che quel progetto non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.



giovedì 8 febbraio 2018

11 Febbraio 2018 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1,40-45). 

Riviviamo per un attimo la scena del vangelo: un povero lebbroso si butta ai piedi di Gesù e lo supplica: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Lui e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si riconosce malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Egli quindi si abbandona a Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi”.
Curiosa questa richiesta: non chiede di venir “guarito” come sarebbe naturale per chi è affetto da una malattia corporale; Marco in tutto il racconto usa sempre il verbo katarìzo, purificare, rendere puro, inducendo a pensare che si trattasse più di una “infermità” spirituale, che di una situazione corporale compromessa: è pur vero che i “lebbrosi” erano ritenuti tali in quanto peccatori, e che quindi per guarire dovevano “purificarsi” dai loro peccati; ma l’insistente ripetizione di questo verbo rende sicuramente ancor più applicabile a noi la morale del racconto.
Oggi infatti possiamo vivere tutti più tranquilli, poiché la malattia della lebbra è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti: una lebbra meno visibile ma molto diffusa, altrettanto grave e invalidante: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri.
In questo senso tutti noi siamo dei lebbrosi; la nostra vita deve misurarsi continuamente con questa malattia devastante, in tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: con la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta la propria vita perché, quando si guarda dentro non trova nulla, nessun ideale per cui valga la pena di vivere; con la lebbra del rimorso di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; con la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; con la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ma dobbiamo soprattutto fare i conti con una lebbra moralmente ancor più invalidante: con la lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…; tutte lebbre deformanti, che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi inattaccabile da queste forme di lebbra? Sicuramente pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Buttiamoci a terra anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, è spinto infatti dalla necessità vitale di amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di sentirsi accolto da qualcuno, che qualcuno lo apprezzi, che non lo eviti. Ha bisogno insomma dell’Amore che salva.
Gesù di fronte a tanta umiltà e fiducia, prova verso di lui un sentimento molto forte, intenso, quasi di simpatia: è “mosso a compassione”; anzi il termine greco “splanknistheis” va più in profondità, spiega cioè questa compassione come espressione dell’amore materno, di un amore viscerale, tenero, infinito, fatto di tenerezza, dolcezza, misericordia, compassione.
E questo è esattamente l’amore di Gesù: un amore “materno”, un amore che da sentimento, diventa soprattutto azione: “ekteino” “stende la mano”: immaginiamo a questo punto la reazione di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga; e quando Gesù, sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro, si muove decisamente nella sua direzione allungando le braccia, a lui, consapevole della sua deformità, viene spontaneo ritrarsi, quasi a sfuggirgli, a scappar via; ma il Maestro “epsato”, più che “toccarlo” “lo afferra”, lo stringe a sé, lo trattiene con forza, dimostrandogli tangibilmente tutto il suo amore, la sua determinazione (“lo voglio”), e gli dice: “sii purificato”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti affranchi dal rancore, dall’amarezza, dalla vergogna, dal rifiuto della gente che ti ha deturpato, riacquisterai la tua luce, la tua bellezza originale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire anche per noi “purificarci”: ritornare ad essere noi stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea, quel progetto meraviglioso che Dio ha previsto per noi, un progetto che i fatti e le situazioni della nostra fragile umanità hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire: “Amico, liberati da tutte queste incrostazioni, torna ad essere ciò che eri, quella creatura divina che Dio ha plasmato con il suo soffio di vita.
Noi “malati terminali”, deturpati e resi irriconoscibili dalla nostra “lebbra”, buttiamoci dunque ai piedi di Gesù: chiediamo a gran voce di tornare ad essere le creature pure delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Dimostriamogli di aver preso la nostra decisione di conversione, e per il resto confidiamo umilmente in Lui: “Sì, io lo voglio!”. Egli è sempre pronto a correre in nostro aiuto; ma siamo noi in ogni caso che dobbiamo fare il primo passo, perché Dio non può fare nulla se noi non lo vogliamo.
Può sembrare impossibile che un malato grave rifiuti l’offerta di una pronta guarigione, ma purtroppo è così. Perché, nel nostro caso, voler “guarire” spiritualmente, significa “riportare luce e brillantezza” nel buio profondo della nostra anima, fare una pulizia radicale, eliminare con forza le incrostazioni della nostra lebbra deformante. E ciò, nonostante l’intervento amorevole di Dio, richiede da parte nostra una seria e concreta volontà, una ferma decisione a rimettere ordine nella nostra vita disordinata.
È impossibile “guarire” senza questa radicale determinazione. Noi vorremmo invece una purificazione piena ed immediata senza far nulla; senza cambiare situazioni e idee, senza rivedere le nostre presunte verità, le nostre certezze, il nostro modo di non vivere. Ma guarire così è impensabile! Significa al contrario insistere nel nostro percorso di autodistruzione, significa lasciarsi decomporre sempre più dalla “lebbra”, significa abbandonarsi al degrado totale fino al punto di non ritorno. “Io voglio purificarti” continua a ripeterci Gesù: ma noi, siamo realmente disposti a farci “guarire”? Amen.





giovedì 1 febbraio 2018

4 Febbraio 2018 – V Domenica del Tempo Ordinario


«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).

Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù, fissata la sua provvisoria dimora, passava i giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre in casa sua e guarire la sua parente. Un normale episodio di quotidianità che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per una naturale curiosità che ci spinge ad andare oltre e a chiederci quale fosse la malattia che ha colpito la suocera.
Marco parla di “febbre”, una febbre talmente alta da costringerla a letto, ma non dice nulla sulla causa di questa “febbre”. C’è però una spiegazione che potrebbe essere molto realistica. Se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva abbandonato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, togliendo materialmente a lei e a sua figlia il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti.
Profondamente angustiata da tali preoccupazioni, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera sì un “testacalda”, ma sempliciotto, credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante della situazione.
La sua “febbre” non è altro quindi che il risultato di una lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è il segno esteriore di quella sofferenza che le sconquassa l’anima e che non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23s). E questo è esattamente il suo comportamento coerente: corre e va subito da lei. E, come dice il vangelo “si accostò, la sollevò e la prese per mano”.
Fermiamo un attimo l’attenzione su questi verbi:
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era una grande distanza spirituale, ma è Gesù che prende l’iniziativa, è Lui che si fa vicino, che riduce questa distanza, e la incontra.
“La sollevò” (egheiro) che significa “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”: la donna è distesa, abbandonata a se stessa, non vuole avere nulla a che fare con Gesù; ma Gesù le parla, le sta vicino, le dimostra comprensione; e la donna alla fine gli dà ascolto, e si “si solleva” dalla paura che la domina, dalla preoccupazione per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è Lui; perché possa fare di Lui una esperienza diretta e “personale”, perché lo possa “conoscere” a fondo, possa “impadronirsi” di Lui.
A questo punto cosa accade tra loro? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo possiamo supporre che la donna, colpita dalla disponibilità, dall’attenzione, dall’umanità di Gesù, abbia finalmente capito che quell’uomo non era un pazzo, né un fuori di testa. E pertanto lo accetta, lo accoglie immediatamente. Anzi, come sottolinea il vangelo, si alza subito dal letto ed inizia a “servirlo”. Tutta la sua rabbia, il suo astio, sono quindi improvvisamente scomparsi.
Appena incontra Gesù da vicino, appena Lui la tocca, in lei avviene una trasformazione fulminea e radicale: il suo è un passaggio istantaneo dall’ignorarlo, al mettersi al suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto; dall’ignorarlo, dallo stargli il più lontano possibile, al volergli stare sempre accanto; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo in cuor suo come un vero amico, un maestro affidabile, uno su cui poter contare, uno sempre disponibile.
Gesù come al solito ci offre anche oggi un insegnamento fondamentale: c’è qualcuno che ce l’ha con noi, qualcuno che prova rancore nei nostri confronti, perché, magari involontariamente, gli abbiamo fatto un qualche torto? Come dobbiamo comportarci? Purtroppo la prima reazione, quella naturale, è quella di stargli alla larga il più possibile. Ma questo non risolve il problema, semmai crea altra diffidenza, ingigantisce le distanze.
Impariamo invece dal comportamento che Gesù ha riservato a questa povera donna che era arrabbiata con Lui. Egli fa immediatamente due cose. La prima: prende l’iniziativa e va di persona a trovarla. Noi invece preferiamo rimanere nella nostra rabbia, continuiamo a fare gli offesi, pensando che lo sgarbo ricevuto sia in assoluto il più grave: quindi non noi, ma è l’altro deve fare la prima mossa, è l’altro che deve venire da noi per fare ammenda. È vero, quando veniamo feriti, è umano chiuderci in noi stessi: ma se continuiamo a rimanere bloccati dal nostro risentimento, annulliamo qualunque possibilità di incontro; se ci isoliamo nel silenzio, se ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo assolutamente nulla. La seconda cosa: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: è arrabbiata con Lui e col genero, senza sapere come stanno realmente le cose; lei non lo conosce, non sa chi sia, come viva; non sa che il suo modo di pensare, di agire, di vivere, è completamente diverso da “quello di tutti gli altri”; Simone nel piantare la famiglia, il lavoro, tutto, per seguirlo, ha fatto effettivamente una scelta radicale, contraria ad ogni buon senso, difficile da capire, una scelta che la suocera da sola non avrebbe mai potuto approvare, condividere. Aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.
Nel mondo purtroppo c’è tanta rabbia, tanto rancore, tanto dolore: è una prerogativa della nostra condizione umana. Quando una persona è arrabbiata, significa che nel suo intimo è profondamente ferita; e con una persona così debole e sofferente, dobbiamo avere tanta dolcezza, tanto riguardo, tanta comprensione, altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona “ammalata”; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo sul piano della rabbia, non facciamo altro che alimentare una guerra stupida, senza senso; se invece ci incontriamo nell’amore, allora ci capiremo, allora verranno meno l’indifferenza, il rancore reciproco.
È quanto faceva Gesù per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
Molti demoni”: ma quanti dovevano essere all’epoca gli indemoniati? Oggi la gente non crede più al demonio. È portata a pensare al demonio come ad una “creatura”, un personaggio vivo e reale, in carne ed ossa, che quando opera lo fa autonomamente, fuori dalla nostra percezione: e poiché non lo vediamo, possiamo stare tranquilli: non è un fenomeno che ci deve preoccupare. È un fenomeno d’altri tempi!
Ma noi sappiamo bene, invece, che non è così. Il demonio è presente eccome! Il Vangelo ci spiega che è un essere spirituale, uno spirito, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci accompagna e ci segue ovunque, uno che merita tutta la nostra attenzione, perché è un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza: perché suo compito è quello di convincere, di persuadere la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che sono contrarie all’Amore, che esulano dall’Amore. “Demoni” sono quindi tutte le affascinanti lusinghe del male, le luci invitanti del peccato che oscurano la ragione. E autentici “demoni” siamo anche noi, quando adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta. “Demoni”, insomma, siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari quando essa è completamente indebolita, profondamente ferita, totalmente incancrenita.
Come combattere questo demonio? Matteo scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto. Perché la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore. È infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che li possiamo vincere, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere come la sua, intensa: umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è con l’arroganza, con la presunzione, che possiamo vincere i nostri demoni! Amen.