giovedì 15 febbraio 2018

18 Febbraio 2018 – I Domenica di Quaresima


«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).

Con il vangelo di oggi che fa riferimento al deserto e alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. È in questo istante che Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Com’è possibile?” ci chiediamo perplessi: “perché lo Spirito si comporta in maniera così apertamente contrastante, incoerente!”. Se pensiamo così, però, dimostriamo di non aver capito Dio, dimostriamo di esserci fatta di Dio un’idea completamente sbagliata. Noi umani, in proposito, siamo abituati a interpretare le cose a modo nostro: se la cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che proviene direttamente da Dio, che è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è può essere Dio che ce la manda, lui che è solo così buono e misericordioso! ma deve essere sicuramente un castigo, una punizione che viene dal demonio, dal male.
Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene sempre da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: se poi è negativa, preoccupiamoci piuttosto di capire il vero motivo di quella “prova” che Dio ci manda: perché sempre di una “prova” si tratta, mai di una “ingiustizia”, di una “cattiveria”, di un “male” fine a se stesso. E allora, invece di prendercela con Dio, cerchiamo di capire cosa Lui vuol dirci, cosa vuole insegnarci, su cosa dobbiamo lavorare; cerchiamo quindi di individuare qual è la strada giusta da imboccare, dov’è lo strapiombo da evitare, la difficoltà da superare, quale il comportamento da mantenere.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori. Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: il male, il peccato sono le nostre azioni, sono il prodotto della nostra libertà, la scelta di fare quanto lui ci prospetta; Satana, è il tentatore, colui che cerca di portarci lontani da Dio, colui che ci sottopone a continui “esami di maturità”, è un’esperienza che è parte fondamentale della nostra vita di creature decadute, un “passaggio obbligato” attraverso cui tutti dobbiamo passare per evolvere, per maturare, per poter liberare l'energia e le potenzialità enormi che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, l’avversario, svolge soltanto una funzione tutto sommato necessaria, positiva, costruttiva, utile alla nostra crescita; un intervento il suo molto importante per la nostra educazione, per poter maturare, per renderci responsabili nell’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro indolenza, della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi e prendere le dovute decisioni: un comportamento facile facile, perché se è il demonio che vuol “punirci”, noi, cosa possiamo fare? Assolutamente nulla!
Se però consideriamo le difficoltà della vita, le contrarietà, le tragedie, se consideriamo il male, le sofferenze, le angosce non come “punizione” di Dio, oppure opera del demonio, ma come espressione della volontà di Dio finalizzata esclusivamente al nostro bene, allora arriveremo a capire che il “male” è semplicemente una prova da della vita, una situazione che dobbiamo affrontare in vista di un “bene” decisamente superiore, impensabile: la visione continua e totale dell’Amore assoluto, il suo godimento eterno.
Allora arriveremo a capire che Dio non può volere il nostro male. E come lo Spirito, dopo l’attestato di stima e amore, costringe l’uomo Gesù nel deserto, nelle prove, nella sofferenza, così continua a fare anche con noi, “abbandonandoci” nel “deserto” della nostra umanità; e lo fa perché dobbiamo imparare a combattere i nostri demoni, a confrontarci faccia a faccia con loro e uscirne vincitori, purificati, dimostrando di essere dei figli in grado di conservare la fede, la fiducia, nel proprio Padre.
La funzione di Satana, quindi, esercitata mediante la tentazione (peirasmos), è soltanto quella di “verificare”, di fare una “prova”, “un test”, sulla nostra autenticità di cristiani, sulla consistenza del nostro “credo”, sulla coerenza della nostra vita. È semplicemente un “esame” cui non possiamo esimerci. Non è Dio che vuole “bocciarci” a tutti i costi.
Assolutamente no. Sono le nostre libere scelte che lo decidono; scelte espressamente volute, mediante le quali dimostriamo, documentiamo, riveliamo ciò che siamo in realtà: quali sono le nostre capacità, la nostra volontà, la forza della nostra fede, la potenza del nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità, la nostra “maturità” spirituale.
La tentazione in sé non è il male; è semmai l’opportunità che abbiamo per capire cos’è il male, un male che essa ci propone come un bene assolutamente desiderabile; è la possibilità che abbiamo di confrontarci col nostro “alter ego”, quel nostro “io” segreto che non vogliamo vedere né tanto meno far vedere, quell’io che preferiamo ignorare.
Ebbene, la tentazione ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla sua zona d’ombra dentro di noi: ne seguirà uno scontro, una lotta interiore a volte molto impegnativa, ma solo uscendone vincitori riusciremo a far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha posto dentro di noi. E allora tutto sarà più bello, tutto sarà più luminoso, tutto nella nostra vita sarà più sopportabile, più facile, più entusiasmante.
Come infatti ci rivela il Vangelo, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Da quel momento non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione.
Una conferma che le tentazioni, dono di Dio, ci infondono quella forza irresistibile, quella maturità, quella convinzione che altrimenti mai avremmo raggiunto.
Ecco allora la necessità di entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Perché ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, ottiene sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nelle zone d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere, di coltivarle, di valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente, dobbiamo scontrarci col male per uscirne vincitori. Non a caso il vangelo parla di “deserto”. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo, fatica, costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una iniziativa, vuol dire che quel progetto non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.



giovedì 8 febbraio 2018

11 Febbraio 2018 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1,40-45). 

Riviviamo per un attimo la scena del vangelo: un povero lebbroso si butta ai piedi di Gesù e lo supplica: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Lui e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si riconosce malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Egli quindi si abbandona a Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi”.
Curiosa questa richiesta: non chiede di venir “guarito” come sarebbe naturale per chi è affetto da una malattia corporale; Marco in tutto il racconto usa sempre il verbo katarìzo, purificare, rendere puro, inducendo a pensare che si trattasse più di una “infermità” spirituale, che di una situazione corporale compromessa: è pur vero che i “lebbrosi” erano ritenuti tali in quanto peccatori, e che quindi per guarire dovevano “purificarsi” dai loro peccati; ma l’insistente ripetizione di questo verbo rende sicuramente ancor più applicabile a noi la morale del racconto.
Oggi infatti possiamo vivere tutti più tranquilli, poiché la malattia della lebbra è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti: una lebbra meno visibile ma molto diffusa, altrettanto grave e invalidante: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri.
In questo senso tutti noi siamo dei lebbrosi; la nostra vita deve misurarsi continuamente con questa malattia devastante, in tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: con la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta la propria vita perché, quando si guarda dentro non trova nulla, nessun ideale per cui valga la pena di vivere; con la lebbra del rimorso di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; con la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; con la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ma dobbiamo soprattutto fare i conti con una lebbra moralmente ancor più invalidante: con la lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…; tutte lebbre deformanti, che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi inattaccabile da queste forme di lebbra? Sicuramente pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Buttiamoci a terra anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, è spinto infatti dalla necessità vitale di amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di sentirsi accolto da qualcuno, che qualcuno lo apprezzi, che non lo eviti. Ha bisogno insomma dell’Amore che salva.
Gesù di fronte a tanta umiltà e fiducia, prova verso di lui un sentimento molto forte, intenso, quasi di simpatia: è “mosso a compassione”; anzi il termine greco “splanknistheis” va più in profondità, spiega cioè questa compassione come espressione dell’amore materno, di un amore viscerale, tenero, infinito, fatto di tenerezza, dolcezza, misericordia, compassione.
E questo è esattamente l’amore di Gesù: un amore “materno”, un amore che da sentimento, diventa soprattutto azione: “ekteino” “stende la mano”: immaginiamo a questo punto la reazione di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga; e quando Gesù, sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro, si muove decisamente nella sua direzione allungando le braccia, a lui, consapevole della sua deformità, viene spontaneo ritrarsi, quasi a sfuggirgli, a scappar via; ma il Maestro “epsato”, più che “toccarlo” “lo afferra”, lo stringe a sé, lo trattiene con forza, dimostrandogli tangibilmente tutto il suo amore, la sua determinazione (“lo voglio”), e gli dice: “sii purificato”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti affranchi dal rancore, dall’amarezza, dalla vergogna, dal rifiuto della gente che ti ha deturpato, riacquisterai la tua luce, la tua bellezza originale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire anche per noi “purificarci”: ritornare ad essere noi stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea, quel progetto meraviglioso che Dio ha previsto per noi, un progetto che i fatti e le situazioni della nostra fragile umanità hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire: “Amico, liberati da tutte queste incrostazioni, torna ad essere ciò che eri, quella creatura divina che Dio ha plasmato con il suo soffio di vita.
Noi “malati terminali”, deturpati e resi irriconoscibili dalla nostra “lebbra”, buttiamoci dunque ai piedi di Gesù: chiediamo a gran voce di tornare ad essere le creature pure delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Dimostriamogli di aver preso la nostra decisione di conversione, e per il resto confidiamo umilmente in Lui: “Sì, io lo voglio!”. Egli è sempre pronto a correre in nostro aiuto; ma siamo noi in ogni caso che dobbiamo fare il primo passo, perché Dio non può fare nulla se noi non lo vogliamo.
Può sembrare impossibile che un malato grave rifiuti l’offerta di una pronta guarigione, ma purtroppo è così. Perché, nel nostro caso, voler “guarire” spiritualmente, significa “riportare luce e brillantezza” nel buio profondo della nostra anima, fare una pulizia radicale, eliminare con forza le incrostazioni della nostra lebbra deformante. E ciò, nonostante l’intervento amorevole di Dio, richiede da parte nostra una seria e concreta volontà, una ferma decisione a rimettere ordine nella nostra vita disordinata.
È impossibile “guarire” senza questa radicale determinazione. Noi vorremmo invece una purificazione piena ed immediata senza far nulla; senza cambiare situazioni e idee, senza rivedere le nostre presunte verità, le nostre certezze, il nostro modo di non vivere. Ma guarire così è impensabile! Significa al contrario insistere nel nostro percorso di autodistruzione, significa lasciarsi decomporre sempre più dalla “lebbra”, significa abbandonarsi al degrado totale fino al punto di non ritorno. “Io voglio purificarti” continua a ripeterci Gesù: ma noi, siamo realmente disposti a farci “guarire”? Amen.





giovedì 1 febbraio 2018

4 Febbraio 2018 – V Domenica del Tempo Ordinario


«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).

Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù, fissata la sua provvisoria dimora, passava i giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre in casa sua e guarire la sua parente. Un normale episodio di quotidianità che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per una naturale curiosità che ci spinge ad andare oltre e a chiederci quale fosse la malattia che ha colpito la suocera.
Marco parla di “febbre”, una febbre talmente alta da costringerla a letto, ma non dice nulla sulla causa di questa “febbre”. C’è però una spiegazione che potrebbe essere molto realistica. Se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva abbandonato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, togliendo materialmente a lei e a sua figlia il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti.
Profondamente angustiata da tali preoccupazioni, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera sì un “testacalda”, ma sempliciotto, credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante della situazione.
La sua “febbre” non è altro quindi che il risultato di una lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è il segno esteriore di quella sofferenza che le sconquassa l’anima e che non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23s). E questo è esattamente il suo comportamento coerente: corre e va subito da lei. E, come dice il vangelo “si accostò, la sollevò e la prese per mano”.
Fermiamo un attimo l’attenzione su questi verbi:
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era una grande distanza spirituale, ma è Gesù che prende l’iniziativa, è Lui che si fa vicino, che riduce questa distanza, e la incontra.
“La sollevò” (egheiro) che significa “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”: la donna è distesa, abbandonata a se stessa, non vuole avere nulla a che fare con Gesù; ma Gesù le parla, le sta vicino, le dimostra comprensione; e la donna alla fine gli dà ascolto, e si “si solleva” dalla paura che la domina, dalla preoccupazione per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è Lui; perché possa fare di Lui una esperienza diretta e “personale”, perché lo possa “conoscere” a fondo, possa “impadronirsi” di Lui.
A questo punto cosa accade tra loro? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo possiamo supporre che la donna, colpita dalla disponibilità, dall’attenzione, dall’umanità di Gesù, abbia finalmente capito che quell’uomo non era un pazzo, né un fuori di testa. E pertanto lo accetta, lo accoglie immediatamente. Anzi, come sottolinea il vangelo, si alza subito dal letto ed inizia a “servirlo”. Tutta la sua rabbia, il suo astio, sono quindi improvvisamente scomparsi.
Appena incontra Gesù da vicino, appena Lui la tocca, in lei avviene una trasformazione fulminea e radicale: il suo è un passaggio istantaneo dall’ignorarlo, al mettersi al suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto; dall’ignorarlo, dallo stargli il più lontano possibile, al volergli stare sempre accanto; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo in cuor suo come un vero amico, un maestro affidabile, uno su cui poter contare, uno sempre disponibile.
Gesù come al solito ci offre anche oggi un insegnamento fondamentale: c’è qualcuno che ce l’ha con noi, qualcuno che prova rancore nei nostri confronti, perché, magari involontariamente, gli abbiamo fatto un qualche torto? Come dobbiamo comportarci? Purtroppo la prima reazione, quella naturale, è quella di stargli alla larga il più possibile. Ma questo non risolve il problema, semmai crea altra diffidenza, ingigantisce le distanze.
Impariamo invece dal comportamento che Gesù ha riservato a questa povera donna che era arrabbiata con Lui. Egli fa immediatamente due cose. La prima: prende l’iniziativa e va di persona a trovarla. Noi invece preferiamo rimanere nella nostra rabbia, continuiamo a fare gli offesi, pensando che lo sgarbo ricevuto sia in assoluto il più grave: quindi non noi, ma è l’altro deve fare la prima mossa, è l’altro che deve venire da noi per fare ammenda. È vero, quando veniamo feriti, è umano chiuderci in noi stessi: ma se continuiamo a rimanere bloccati dal nostro risentimento, annulliamo qualunque possibilità di incontro; se ci isoliamo nel silenzio, se ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo assolutamente nulla. La seconda cosa: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: è arrabbiata con Lui e col genero, senza sapere come stanno realmente le cose; lei non lo conosce, non sa chi sia, come viva; non sa che il suo modo di pensare, di agire, di vivere, è completamente diverso da “quello di tutti gli altri”; Simone nel piantare la famiglia, il lavoro, tutto, per seguirlo, ha fatto effettivamente una scelta radicale, contraria ad ogni buon senso, difficile da capire, una scelta che la suocera da sola non avrebbe mai potuto approvare, condividere. Aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.
Nel mondo purtroppo c’è tanta rabbia, tanto rancore, tanto dolore: è una prerogativa della nostra condizione umana. Quando una persona è arrabbiata, significa che nel suo intimo è profondamente ferita; e con una persona così debole e sofferente, dobbiamo avere tanta dolcezza, tanto riguardo, tanta comprensione, altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona “ammalata”; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo sul piano della rabbia, non facciamo altro che alimentare una guerra stupida, senza senso; se invece ci incontriamo nell’amore, allora ci capiremo, allora verranno meno l’indifferenza, il rancore reciproco.
È quanto faceva Gesù per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
Molti demoni”: ma quanti dovevano essere all’epoca gli indemoniati? Oggi la gente non crede più al demonio. È portata a pensare al demonio come ad una “creatura”, un personaggio vivo e reale, in carne ed ossa, che quando opera lo fa autonomamente, fuori dalla nostra percezione: e poiché non lo vediamo, possiamo stare tranquilli: non è un fenomeno che ci deve preoccupare. È un fenomeno d’altri tempi!
Ma noi sappiamo bene, invece, che non è così. Il demonio è presente eccome! Il Vangelo ci spiega che è un essere spirituale, uno spirito, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci accompagna e ci segue ovunque, uno che merita tutta la nostra attenzione, perché è un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza: perché suo compito è quello di convincere, di persuadere la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che sono contrarie all’Amore, che esulano dall’Amore. “Demoni” sono quindi tutte le affascinanti lusinghe del male, le luci invitanti del peccato che oscurano la ragione. E autentici “demoni” siamo anche noi, quando adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta. “Demoni”, insomma, siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari quando essa è completamente indebolita, profondamente ferita, totalmente incancrenita.
Come combattere questo demonio? Matteo scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto. Perché la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore. È infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che li possiamo vincere, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere come la sua, intensa: umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è con l’arroganza, con la presunzione, che possiamo vincere i nostri demoni! Amen.
  


giovedì 25 gennaio 2018

28 Gennaio 2018 – IV Domenica del Tempo Ordinario


«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-28).

È sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto di discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e senza tanti preamboli inizia ad insegnare.
E che succede? I fedeli presenti lo ascoltano attentamente, e si rendono immediatamente conto che, pur non essendo uno “scriba”, pur non essendo uno “abilitato” ad annunciare e a commentare la Parola di Dio, Egli parla e insegna con una autorità decisamente superiore alla loro; si rendono conto cioè di stare ad ascoltare uno che, a differenza dei “dottori”, è evidentemente ispirato da Dio, in collegamento diretto con Lui, un suo inviato speciale: le sue parole, che fanno vibrare nel profondo i loro cuori, sono infatti cariche di umanità, di amore, di vita, di speranza, di liberazione. E, profondamente ammirati, si dicono tra loro: “Costui non può essere uno “scriba” qualunque!”.
Ma chi erano mai questi scribi? Da semplici tecnici, esperti nella materiale trascrizione dei testi sacri (l’ebraico sôphêr, da cui scriba, significa appunto scrivano, amanuense) sono progressivamente diventati dei personaggi autorevoli, superiori al sommo sacerdote e alle altre autorità, superiori persino alla stessa Torah, di cui si proclamavano gli unici custodi, gli infallibili interpreti, i soli autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato Gesù, entrato praticamente in casa loro, di sua iniziativa e senza alcun preavviso, prende in mano il rotolo della Torah e con grande autorevolezza impartisce una magistrale lezione di vita e di stile, una di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito.
Ovviamente, se la folla dei presenti non si fosse apertamente schierata a fianco di questo sconosciuto dalla grande “autorità”, l’iniziativa di Gesù si sarebbe sicuramente risolta con una dura reprimenda verbale e materiale. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il vangelo, quasi a voler stornare l’attenzione, prosegue annotando che uno degli abituali frequentatori della sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mette improvvisamente a urlare contro Gesù: una singolare annotazione, che ironicamente suggerisce una domanda: come mai questo poveraccio, nelle precedenti riunioni tenute dagli scribi, non si è mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro interpretazioni, con le loro spiegazioni, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro piena fiducia; non si è mai chiesto se ciò che insegnavano rispondesse a verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande: “Questo credevano i miei padri, questo mi hanno insegnato gli scribi, questa è la verità”. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra “autorità”; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio (“Io so chi tu sei: il santo di Dio!”), ma non può accettarlo come Dio, perché egli in cuor suo ha già il suo Dio. E quando Gesù, semplicemente guardandolo, sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza: Che vuoi tu da “noi”, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone!
Ebbene: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre malattie, dei nostri lutti. Ma non è colpa di Dio; non è Dio che li vuole: sono purtroppo i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità peccatrice, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere. Questo tipo di etichettatura religiosa, è la più forte resistenza che noi opponiamo a Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Siamo un po’ come l’indemoniato del vangelo di oggi: ce ne stiamo buoni buoni nella sinagoga. Ma quando Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e urliamo tutto il nostro rifiuto, il nostro “no”, a Lui e alla Verità: “Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci?”. Ebbene sì! Dio, quando serve, viene per mandare in frantumi le nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione, l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo verità, salvezza, e non lo era.
Ma ascoltiamo attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che c’entri con noi?”. Usa il plurale; ora, è vero, l’uomo non è solo, con lui c’è il demonio. Ma qui egli parla anche a nome degli scribi, i creatori del demone che strazia l’uomo. Le parole di Gesù minacciano anche loro, li destabilizzano, mandano in rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini, annullando così la Parola di Dio” (Mc 7,7.13).
Insomma sono “loro”, sempre “loro”, i lavoratori del sacro. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche noi? Questo vangelo infatti provoca parecchio anche noi. Noi ci definiamo cristiani, cattolici, osservanti, spieghiamo la Parola e parliamo di Dio agli altri. Dobbiamo stare molto attenti, perché anche noi, nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì, non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche, specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli che sono convinti di sapere già tutto, e non accettano più alcuna direttiva pastorale perché, tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? È una possibilità molto concreta: senza rendercene conto, diventiamo anche noi come “loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao, come l’indemoniato. Nella nostra fragilità spirituale siamo purtroppo tutti infermi, siamo tutti, chi più chi meno, preda dei nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide” per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
“Taci! Esci da lui!” urla Gesù all’indemoniato e a ciascuno di noi; parole dure, forti, autorevoli, perentorie. Ma anche risolutorie e salvifiche. Parole in grado di liberarci dai nostri demoni, di strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Certo, guarire è una cosa meravigliosa; ci fa sentire finalmente liberi e leggeri, ci fa recuperare la nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita. Ma guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché significa staccarsi da ciò che chiamiamo certezza (spirito) e che invece si rivela malvagio, condizionante (impuro). È una esperienza dura, che richiede molto sacrificio, perché va ad aprire delle porte che non vogliamo aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del dolore.
Il vangelo dice “straziandolo e gridando forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo “straziare” (sparassein, tirare fuori, strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso, di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non aspettiamo allora che il “nemico” ci immobilizzi; perché, come dice Pietro, lui è sempre pronto, e svolge egregiamente il suo compito: “adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da divorare(1Pt 5,8).
Resistiamogli saldi nella fede . Amen!

  

giovedì 18 gennaio 2018

21 Gennaio 2018 – III Domenica del Tempo Ordinario


«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,14-20).

Anche oggi il vangelo ci parla di “chiamata”, di vocazione. Gesù camminando sulla riva del “mare” di Galilea, vede due pescatori, Simone e Andrea, intenti a gettare le loro reti. Per noi nulla di straordinario: ma cosa avrà mai visto Gesù di tanto speciale in quei due, da indurlo a fermarsi, rivolgere loro la parola e sceglierli entrambi come suoi discepoli? In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile e ordinario, che nulla aveva in comune con la missione che Lui intendeva affidare loro.
Gesù però capisce immediatamente chi è disponibile a seguirlo: da come si comporta nelle piccole cose, da come vive la normalità, da come si esprime, da come si relaziona col prossimo: cose semplici, piccoli particolari che rivelano comunque la personalità di un uomo.
Gesù dunque, osservando questi uomini nella loro quotidianità, scorge immediatamente tutto il loro potenziale, la loro grandezza.
Non è mai ciò che facciamo, ma è il metodo, la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende grandi e importanti sia noi che quanto facciamo. Gesù non ha bisogno di chiedere a quelli che incontra per la strada il loro curriculum vitae o degli attestati di frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla di questo. A Gesù basta vedere queste persone nella loro normalità per capire subito e a fondo chi erano nel profondo del loro cuore, nei pensieri, nell’anima.
“Se mi seguirete, Vi farò diventare pescatori di uomini”, dice loro a bruciapelo. È una proposta sconvolgente, un programma di cambiamento radicale che avrebbe rivoluzionato totalmente la loro esistenza. Ma loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Anche se in seguito li troviamo a fare lo stesso lavoro con le reti, (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), anche se continuano a fare le stesse cose di prima, anche se intrattengono gli stessi rapporti con i loro familiari, i loro amici, anche se talvolta dimostrano di aver conservato il loro solito carattere, tuttavia non sono più gli stessi di prima: perché è la vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’Amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una barca non ci può amare. Una villa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro città o in campagna, ma non ci può amare. Ci può ospitare, accogliere, ma non amare. Così il lavoro non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale. Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a sognare case e ville sontuose, perché continuiamo a subordinare la felicità al possesso di ricchezze, di beni incalcolabili? Perché continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione, al di sopra di tutto e di tutti? La casa, le vetture, i beni, il lavoro, le ricchezze, non ci possono amare, e senza amore, non c’è alcuna felicità!
Ecco, in questo sta il nostro cambiamento; in questo sta la grande “conversione” della nostra vita. Se siamo convinti che la felicità risieda in quello che facciamo, in quello che abbiamo, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. È vero: la società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto, è l’assoluto; ci investe continuamente di paroloni, sempre gli stessi, che si rincorrono con frequenza e precisione maniacale: lavorare, produrre, con orari sempre più lunghi, tutti i giorni della settimana, domeniche e feste comprese, una carriera da consolidare, soldi, tanti soldi, concorrenza sfrenata, libero mercato, globalizzazione. Ma sono chimere, solo e stupide chimere! La vita passa inesorabile, e alla fine capiremo che tutto ciò, tranne l’amore, è solo spazzatura.
Se scorriamo le pagine del vangelo, troviamo forse scritto che Gesù ha lavorato senza sosta, che è stato ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che ha perso la calma per non aver raggiunto qualche “target”? Assolutamente no; lo troviamo invece continuamente a dare e ricevere amore e amicizia, ad usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Gesù non era ricco: ma come uomo era sicuramente molto amato e molto felice, perché era “libero” da preoccupazioni temporali.
Non potremo mai essere autentici discepoli di Cristo, non potremo mai essere la sua Chiesa, se non diventeremo anche noi “liberi”. Il termine stesso “Ecclesia” vuol dire letteralmente “i chiamati fuori”, i “diversi”: uomini, cioè, che non agiscono per far piacere agli altri, per avere la loro approvazione; uomini, al contrario, che sono “liberi”, completamente “affrancati” da qualunque tipo di pressione interiore, uomini che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono chiamati, con amore e generosità, spinti non dalla sete di consensi, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I primi discepoli accolgono dunque l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, in una parola di cambiare vita, è arrivato, è il loro “adesso”. Impossibile rimandare, far finta di nulla: e loro accettano senza indugi, senza tentennamenti: lasciano tutto e seguono Gesù per costruire il regno di Dio.
Quando si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. Molti pensano al Paradiso, all’altra vita; altri a chissà cosa. Niente di tutto questo: il Regno di Dio è la Vita Vera, quella reale, quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente le orme, gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita autentica, concorre a realizzare in noi il regno di Dio. Ecco perché è importante scegliere adesso, ecco perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente la nostra quotidianità, la scelta che realizza, che concretizza, che trasforma in vita vissuta oggi, ciò che un domani esploderà nella visione beatifica del nostro Dio. Il Regno di Dio è quindi agire adesso, subito: perché è adesso, subito, che dobbiamo mettere ordine al nostro disordine interiore.
I discepoli ricevono una proposta: ardita, rischiosa, provocante, controcorrente, fuori dai loro schemi. Ma le parole di Gesù riempiono la loro anima. Sentono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui. Sicuramente si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi? Cos’abbiamo noi di speciale?”. Nulla, non avevano nulla! Assolutamente nulla. E noi come loro.
Dio non ha mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di essere assolutamente perfetti, ma di essere disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più volte, anche se per gli altri era una “roccia”; Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, soprannominati “figli del tuono”, proprio per il loro carattere irascibile e permaloso, arrivisti al punto da pretendere per loro due i posti d’onore nel futuro “Regno” di Dio; Tommaso era sospettoso, malfidato, diffidente: se non toccava con mano, se non controllava personalmente, non credeva a nulla; Giuda era talmente attaccato ai soldi da arrivare a tradire lo stesso Gesù per trenta denari.
Ecco: una carrellata di miserie umane che ci confermano come Dio lavori con quel poco che ha a disposizione, uomini peccatori, pieni di difetti, pieni di limiti, immaturi; uomini, però, che alla sua chiamata non hanno esitazioni e si mettono completamente in gioco. Il vangelo dice che “subito lasciarono le reti”: lasciarono cioè “immediatamente” tutto quanto li teneva legati: le loro idee, i loro affetti, i loro pregiudizi, le loro “fissità”, le loro piccole manie, e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo la stessa cosa: di lasciare le nostre sicurezze maniacali, i nostri affetti malati, le nostre ricchezze fuorvianti, di fidarci di lui e seguirlo verso qualcosa di completamente nuovo, di sconosciuto, di incerto, ma di estremamente promettente e consolante.
La nostra vita, purtroppo, è un continuo aggrapparci a tutto, lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee, pur di non allontanarci dalle nostre posizioni. Il nostro più grande assillo è quello di cercare ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni; vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani, ma questo è semplicemente assurdo. Se ci fermiamo anche solo a pensare a ciò che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe veramente succederci di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, beh, allora è davvero la fine!
Il segreto della Vita che Gesù ci offre, è invece di abbandonarci a Lui, di fidarci, di smettere di voler programmare ad ogni costo il nostro domani. Smettiamola di preoccuparci; comportiamoci come i discepoli del vangelo: si sono fidati di Gesù e Gesù li ha portati dove mai si sarebbero sognati di andare da soli. Gesù ha compiuto con loro un’opera meravigliosa, proprio perché essi hanno rinunciato di pianificare personalmente la loro vita, l’hanno donata a Lui: hanno smesso cioè di decidere autonomamente, lasciando che fosse Lui a decidere per loro. In altre parole non si appartenevano più: erano sempre loro, all’esterno nulla era cambiato, ma dentro di loro tutto era cambiato.
Ecco: questo significa “donarsi” a Dio; questo significa “seguirlo”, lasciare che sia Lui a portarci là dove vuole portarci. Donarsi a Dio, seguirlo, non comporta sicuramente alcuna affermazione personale, non significa diventare qualcuno, ottenere cariche, onori, riconoscimenti; molto più semplicemente significa “abbandonarsi”, lasciarsi guidare, lasciarsi modificare, trasformare, ricostruire, riplasmare da Lui.
Quel “vieni e seguimi” detto da Gesù, equivale ad una reale proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di incalcolabile valore: non è un invito a fare un giro turistico, una vacanza, a festeggiare; ma è l'invito ad impegnarci in qualcosa di molto serio, alla Sua “sequela”, alla Sua imitazione. Preghiamo allora per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai a vivere la Sua vita, ad essere come Lui ci chiede; preghiamo di non resistergli mai, ma di essere sempre pronti, come i discepoli, di lasciare tutto e diventare come loro pescatori di uomini. Amen.


venerdì 12 gennaio 2018

14 Gennaio 2018 – II Domenica del Tempo Ordinario


In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!» (Gv 1,35-42).

Il Vangelo di oggi ci descrive la vocazione dei primi due discepoli di Gesù. Di uno conosciamo il nome: è Andrea; l’altro dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Entrambi sono discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonano il loro maestro e si mettono silenziosamente al seguito di Gesù. E in cuor loro sono felici, sono entusiasti di poter vivere questa inaspettata avventura.
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la sua diffidenza: Simone infatti non mostra né contentezza, né felicità, né interesse, né curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia in “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che al primo impatto era piuttosto “corazzato”, impenetrabile, sospettoso; ma una volta superata questa barriera, era in grado di raggiungere vette di pensiero, di amore e di intuizioni, assolutamente irraggiungibili dagli altri discepoli.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna lasciarsi entusiasmare, bisogna lasciarsi prendere, bisogna appassionarsi. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza compromessi, senza fare calcoli, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere Chiesa? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile vedere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo invece capire l’importanza del farci coinvolgere emotivamente da Gesù: solo se noi dimostriamo il nostro entusiasmo, il nostro essere convinti, la nostra gioia, potremo compiere quello stesso ruolo di intermediari, descritto per i primi discepoli nel vangelo di oggi.
La vera evangelizzazione, la vera missione, avviene infatti per contagio: “Oh, sapessi chi ho incontrato!? Vieni anche tu!”. E noi lo seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché sentiamo tutto il suo entusiasmo, la sua gioia, la sua energia: sentiamo cioè che quella esperienza gli ha fatto un gran bene. E siamo colpiti dalla sua “testimonianza”.
Perché allora non fidarci? Perché non provare? Perché non sperimentare anche noi? A volte invece preferiamo rispondere: “No, no, grazie, non fa per me!”. Ma se non abbiamo neppure provato! Non è vero che non fa per noi: è che abbiamo paura, è che temiamo di metterci in gioco, è che siamo già morti dentro!
Col battesimo, con i sacramenti della iniziazione cristiana, abbiamo espresso la nostra volontà di seguire la chiamata di Gesù. Poi, diventati adulti, Egli ci ha rivolto la grande domanda: “Che cosa cercate?” Attenzione, perché alla fine ognuno otterrà solo ciò che ha ardentemente cercato; ognuno cioè non avrà niente di più di ciò che ha desiderato. Se il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta non avremo nient’altro; se il nostro desiderio e di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì. Il desiderio praticamente se da un lato è la nostra spinta iniziale, dall’altro è anche il nostro limite massimo raggiungibile. In genere l’uomo desidera soprattutto “cose” materiali: l'auto nuova, l’ultimo modello di telefono, un grosso conto in banca, un buon lavoro, una casa signorile. Ma queste cose non arrivano mai a soddisfarlo pienamente: raggiunto quell’obiettivo, egli continuerà ad essere insoddisfatto, continuerà a cercare ancora “cose” nuove.
Il vero desiderio, quello della Vita piena, è invece qualcosa di grande, un qualcosa di natura celestiale, che raggiunge l’uomo sulla terra per essere realizzato: il termine de-siderio, letteralmente infatti vuol dire: “disceso dal cielo”, “de-sidera”: un progetto di cui l’uomo si appassiona, un sogno che egli sente di dover realizzare, una vocazione speciale, una chiamata divina, un qualcosa insomma di vitale importanza, cui il suo cuore si innamora.
I due discepoli chiedono a Gesù: “Maestro, dove abiti?”. In greco: pù mèneis? significa meglio: “dove rimani?”. Sembra la stessa cosa, ma il significato è diverso. I discepoli chiedono: “Dove stai? Dove abiti?”, semplicemente perché sono ancora ad un livello di comprensione superficiale; pensano cioè ad un posto fisico, ad un luogo. Ma quel verbo (mèno: trovarsi, rimanere, essere) indica più che un luogo, una realtà incorporea ben più profonda: Giovanni infatti lo mette più volte in bocca a Gesù quando vuol esprimere un particolare legame spirituale: come per esempio quando parla del “rimanere in lui, del rimanere nel suo amore ecc…”(Gv 15,5-9). Un verbo dunque che allude ad un rimanere sostanzialmente diverso: che non si riferisce cioè ad un luogo ma ad un modo di vivere, un modo di essere.
Per cui quando i discepoli vogliono conoscere il luogo in cui Gesù “abita”, dimostrano di non aver capito che Egli abita, meglio che Egli “rimane”, dentro di loro, ed è lì che lo devono trovare.
Ecco allora che questo deve essere il nostro grande impegno nella vita: smettere di cercare fuori quello che invece va cercato dentro. Perché le persone che cercano solo fuori, pensano di trovare la felicità nelle cose esteriori: ma non funziona così. La felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, nel possedere, ma nell’essere Qualcuno. La felicità cioè è quello stato d’animo che noi raggiungiamo quando viviamo in simbiosi con il Qualcuno che è dentro di noi. Un traguardo che dipende solo ed esclusivamente da noi! Per questo ai due che si aspettavano da Gesù una risposta circostanziata, un luogo materiale e riconoscibile in cui seguirlo, Egli dice: “Venite e vedrete”. Non dà cioè alcuna indicazione precisa: “Volete sapere dove abito? Venite e vedrete! Volete conoscermi meglio? Venite e capirete. Dipende solo da voi. Non ci sono altre possibilità.
“Venire”, “seguire” sono infatti verbi di movimento, sono verbi dinamici: Gesù cioè non invita nessuno a starsene seduti, a vivacchiare oziosamente, aspettando che il tempo passi: il suo è un invito perentorio a muoversi, ad uscire dalle nostre posizioni egoistiche, dalle nostre idee egocentriche, dalle nostre convinzioni bislacche; il suo è un ordine: “muoviti, guarda in alto, datti da fare!”.
Quante volte sarà capitato anche a noi di voler cambiare, di scuoterci dal nostro letargo, di cambiare, per poi non concludere assolutamente nulla. Purtroppo la nostra sequela è un “vorrei, ma non posso! Anzi “non voglio, sto bene così!”. Ci dimentichiamo troppo in fretta che seguire Gesù, significa muoversi, cambiare, evolvere, migliorare. Chi non vuol camminare, chi è pigro, chi preferisce starsene tranquillo, non arriverà mai a “vedere” a “conoscere” veramente Dio. “Vieni e vedi!”. Dio insomma ci chiama a fare il nostro percorso di vita.
Per questo abbiamo paura di Lui: perché ci coinvolge, ci butta nella mischia. È un fuoco che ci brucia dentro; uno che non accetta compromessi, che non tollera i nostri “distinguo”, le nostre astuzie mentali; a Lui non piacciono le mezze misure, non fa sconti a nessuno: o tutto, o niente!
Con lui dobbiamo mirare sempre al massimo, perché se ci accontentiamo del poco, non arriveremo neppure a quello. Dobbiamo insomma “vedere”, incontrarlo dove si trova, dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di cosa Egli voglia da noi: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”. Ciascuno deve “verificare”, deve controllare personalmente. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Ecco: fare esperienza di Dio, vederlo, verificarlo, constatarlo, viverlo: è questo che fa la vera differenza in chi vuole essere discepolo.
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’amore, vivere l'amore è tutt'altra cosa. Solo quando siamo stati innamorati, solo quando abbiamo vissuto gioie e dolori, sappiamo esattamente cosa vuol dire amare. Essere laureati in medicina o in psicologia, non ci rende automaticamente medici o psicologi. È l'esperienza, l'incarnarsi nel ruolo, il continuo provare, che ci fa capire cosa vuol dire essere medici o psicologi. È come aver studiato a memoria tutto il manuale della patente: ma se non guidiamo, se non proviamo, se non ci esercitiamo, non sapremo mai cosa voglia dire guidare un'auto.
Esperienza vuol dire letteralmente “uscire da sé (dal latino ex-per-ire) per viaggiare, andare, conoscere (ire) le cose della vita da tutti i lati (perì)”. Quello che in genere vediamo, quello che sappiamo, rappresenta soltanto un raggio di luce, non è mai il sole pieno! Un punto di vista, è la vista da un punto. Per questo dobbiamo muoverci, dobbiamo continuamente progredire, altrimenti non arriveremo mai a conoscere la grandezza, l’importanza della vita.
Ecco perché seguire il vangelo è difficile; ecco perché ci vuole coraggio.
Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai che tutto andrà bene, che tutto sarà semplice”. Non è così. Dio è rassicurante non perché ci garantisce l’assenza di qualunque problema, ma perché ci assicura la sua presenza costante: “Non temere, non sei solo, Io sono con te qualunque cosa accada!”.
Certo, chi non vorrebbe una vita senza bufere, un viaggio senza pericoli, senza rischi. È per questo che cerchiamo di evitare il più possibile nuove esperienze, nuovi impegni, nuovi coinvolgimenti. Ma Dio, come ho detto, non promette questo, ma la possibilità di vivere con Lui una vita intensa, alla grande, una vita in cui dobbiamo esporci, in cui dobbiamo metterci in gioco, lottare senza sosta; una vita in cui sicuramente otterremo delle sconfitte, ma anche delle entusiasmanti vittorie. Gesù insomma non ci illude. Seguirlo comporta molti rischi.
Con lui è possibile che le cose non vadano come vorremmo: dovremo fare i conti anche con il male, con la sofferenza; tutto è possibile; ma è sempre e comunque una grande esperienza che merita di essere vissuta.
La vita è il dono più grande che Dio fa agli uomini: viverla intensamente, entusiasticamente, nel suo Amore, significa dimostrargli la nostra riconoscenza, riconsegnandola nelle sue mani, ricca di esperienze d’Amore: al contrario viverla nella dissolutezza, nella disonestà, sperperandola stupidamente, in maniera insulsa, è il più grave oltraggio nei suoi confronti. Amen.


giovedì 4 gennaio 2018

7 Gennaio 2018 – Battesimo del Signore


«In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottomettersi al battesimo. Un battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia, sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che voi veniate da me per un semplice lavaggio esteriore che senso ha? non serve assolutamente a nulla”. Il punto focale è infatti proprio questo: il battesimo di Giovanni poggia tutto sulla ferma volontà di non peccare oltre, di astenersi in futuro da ogni altra colpa.
Il Battista tuttavia conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle volte al passato, ma con il dito puntato in avanti, indica l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
È a questo punto che succede qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da Giovanni, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che mette in difficoltà i presenti e più tardi i primi discepoli della giovane Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazaret”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell'antica alleanza: non a caso Gesù ha lo stesso nome di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si fa battezzare. All’inizio del suo ministero, cioè, Egli si presenta, in tutto solidale con gli uomini, in fila come tutti gli altri peccatori. Ma egli non confessa i suoi peccati, come tutti gli altri: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita.
Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c'è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare: per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che vuol dire “salire”, lo stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù “sale” finalmente in cielo. Stesso verbo, stesso significato.
Lo scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, lacerati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni varco. Dio non si concedeva più, non si comunicava più, al suo popolo. Non c'era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia diceva: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l'uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l'interposizione di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l'uomo, torna a donarsi all'uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di una deflagrazione. La differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso”: il velo enorme che nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio, improvvisamente, si squarcia irreparabilmente, definitivamente. Il Dio velato, il Dio nascosto, si rivela definitivamente in Gesù, in Gesù crocifisso. È lui l'immagine visibile di Dio. È il Crocifisso, il segno dell'amore di Dio reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più ritirare il suo amore per l’umanità.
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L'articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù.
Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità.
Ecco perché analizzando il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare lo stretto contatto che esiste con il racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non muore mai: non si dice mai che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso Spirito d’Amore che Egli donerà a tutti nella Pentecoste, lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco dice: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34). È la voce dell'amore di Dio. Tutta la vita di Gesù è immersa nell'amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest'amore, questa voce di Dio, che fa sentire anche noi al sicuro, protetti, amati, sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo amore, possiamo fare tutto.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce.
Poi, dobbiamo “volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché spesso abbiamo paura di sentire quello che potrebbe dirci; preferiamo non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo calarci in tutti i rumori di questo mondo. E invece no. Dobbiamo al contrario creare intorno a noi il silenzio dell’ascolto! Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le altre voci. Vi ricordate Elia? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12). Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell'amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L'amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché sappiamo contraccambiare. Dio ci ama perché siamo “noi”. Quando in collegio, dovevamo andare a colloquio col Padre spirituale, avevamo imparato che bastava non raccontargli certe cose, e lo facevamo contento, evitando così di ricevere interminabili ramanzine e severe “penitenze”. Ma con Dio non è così.
A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Noi dobbiamo soltanto dirgli: “grazie, Padre nostro!”. Amen.