venerdì 27 gennaio 2017

29 Gennaio 2017 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-12).

Il vangelo di oggi ci propone le “beatitudini”: un condensato di norme comportamentali che Gesù indica come insostituibili per quanti vogliono seguirlo come discepoli.
È la legge definitiva del nuovo corso di vita instaurato da Gesù: una legge però che, nello stile di Dio, non impone “cosa” dobbiamo fare o non fare, ma ci spiega semplicemente “come” dobbiamo essere: quindi non una legge “negativa”, nel senso che “vieta”, ma “propositiva”, nel senso che esorta a fare nostro il nuovo stile di vita improntato sulla carità.
Le beatitudini in pratica ci indicano il percorso che dobbiamo fare se vogliamo raggiungere il massimo delle nostre aspirazioni: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole per te e questa è la tua unica felicità. Tu non immagini neppure le possibilità che hai, come puoi vivere, come puoi sentirti soddisfatto e felice! Non immagini neppure la grandezza del tuo cuore, la potenza del tuo amore, la profondità dei tuoi rapporti, dei tuoi sentimenti, delle tue percezioni. Non immagini quanto tu possa sentirti ricco, ricolmo di vita, forte, pur non possedendo nulla”.
Le beatitudini, certo, non ci insegnano a vivere senza contrasti, senza conflitti, perché purtroppo vivere senza tale zavorra è impossibile. Non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (sarebbe comodo), ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io”; e di noi: “Tu puoi vivere meglio di come pensi”.
Le beatitudini infatti non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza. Non dicono che la povertà è un bene: la povertà è miseria, ma appartiene realisticamente alla nostra condizione umana. Non dicono che è un bene essere perseguitati: no, è terribile e crudele; chi lo cerca è un masochista, un ammalato! Ma non possiamo neppure vivere pensando di essere sempre bene accetti da tutti. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. Solo che piangere ci trasforma, ci purifica; è il modo naturale di esprimere le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti, le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà: non è bello, ma è necessario. Non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi e subire le malefatte degli uomini: dicono invece che dobbiamo essere misericordiosi, che dobbiamo avere un cuore grande che giudica solo le azioni, i comportamenti umani, non gli uomini. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura; per questo diventano aggressivi, violenti, indisponenti. Ciò non significa tuttavia che dobbiamo subire tutto. Quando c’è da dire un “no”, da puntare i piedi contro qualcuno, facciamolo con tutta la nostra forza, tenendo però in considerazione la persona che sta dall’altra parte, commiserandola per la sua situazione.
Le beatitudini dunque non sono dei comandi: “Devi vivere così”. Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offre una possibilità: possiamo sceglierla o meno. Tocca a noi scegliere. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa dobbiamo fare per essere dei bravi cristiani!”, sono un cammino.
Dio dice: “Sii te stesso”. Dobbiamo cioè vivere la nostra vita. La società invece impone la competizione: “vivi imitando i più forti, i più potenti, superali!”. Molte persone si sono adattate talmente agli altri per compiacerli, da perdere se stesse; non ricordano più neppure chi siano. Dobbiamo rimanere noi stessi, perché essere qualcun altro è il fallimento della nostra esistenza. Viviamo la nostra vita: viverne un’altra non potrà mai farci felici.
Dio dice: “A me non devi dimostrare nulla, puoi vivere serenamente la tua vita anche se non hai successo!”. La società invece dice: “Puoi vivere solo se sei ricco, se hai profitti, se sei famoso, se sei bravo”. Per questo molte persone lavorano sempre di più. Non riescono a star ferme, sono sempre in movimento. E giustificano tutta questa loro iperattività come “agire”, che a seconda  dei casi definiscono come attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per i figli.
Altre persone invece sono convinte di non valere, di non essere poi così importanti, e allora cercano in tutti i modi la visibilità, l’esserci. È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per il prossimo sarò sicuramente un ottimo cristiano, un ottimo padre, un’ottima madre!”. Ma non è quello che facciamo che ci rende bravi cristiani, bravi genitori. È ciò che abbiamo dentro che ci rende tali. Dio non ci ama perché facciamo tanto. Dio ci ama perché siamo noi, perché siamo tornati ad essere sua somiglianza. Tutto quello che facciamo esteriormente, non ci rende più belli o più graditi ai suoi occhi.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore assolutamente sicuro che ci aspetta alla fine del nostro percorso!
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”. La nostra cultura dice invece: “No, non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli più personali e profondi”.
Molte persone hanno imparato che non è bello farsi vedere deboli: chi è forte non piange mai. E per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma ciò non li rende affatto uomini forti, ma solo persone insensibili, rigide e gelide come il marmo. Il pianto è una reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha addolorati. Smettere di piangere non ci rende meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo. Tensione e dolore rimangono forzatamente dentro di noi, nascondendo la verità: facciamo credere che tutto vada bene, quando invece dentro di noi siamo profondamente scossi.
Al contrario molte persone credono che arrabbiarsi sia male. Nossignori: è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni di odio. Ogni volta che veniamo feriti nella nostra dignità, è normale per noi arrabbiarci. E una volta che siamo arrabbiati, dobbiamo accettare di esserlo, perché vuol dire che una ragione c’è: solo così possiamo iniziare a gestire la nostra rabbia e a buttarla fuori.
Molte persone, poi, hanno imparato a non aver mai paura. Così sono convinti di non aver paura di nulla; ma aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura. Non dobbiamo nascondere la paura dietro una maschera allegra o sorridente. Non dobbiamo resistere alla paura con tutte le nostre forze, la paura ci appartiene. Ci dice che ciò che stiamo facendo ci costa, ci mette in gioco, è qualcosa d’importante; sappiamo però di essere noi i più forti.
Altre persone infine si vergognano di come vivono, di ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore talmente grande da contenere ogni cosa; Lui non ha paura di ciò che a noi fa paura o di ciò che ci fa sentire in colpa; la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta qualunque cosa facciamo. Dobbiamo solo comunicare con Lui, condividendo ciò che proviamo. Non dobbiamo nascondergli nulla perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle nostre “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che noi non riusciamo ad amare. E quando non avremo più nulla da nascondere, allora ai suoi occhi saremo finalmente liberi e liberati.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Già questa prima beatitudine le racchiude tutte.
Il “povero” è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso. Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa uno che vive distaccato dalle cose, totalmente immerso in esse, ma senza aggrapparsi ad esse.
Pensiamo ad una cosa e diciamole: “Tu sei mia”. A che cosa possiamo dire: “Tu sei mia!”? Il marito, la moglie, sono nostri? I figli sono nostri? La vita è nostra? No, neppure la vita è nostra. Non ci sembra allora di essere i poveri più poveri? Non possediamo nulla, nemmeno la vita!
La povertà, l’essere nulla (diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente, ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
Quando si ama, ad esempio, la paura di perdere l’altro ci può distruggere. Iniziamo a temere che qualcuno ce lo sottragga, diventiamo gelosi e iniziamo a controllarlo. Iniziamo a temere che l’amore finisca o cambi, e leggiamo ogni situazione alla luce di questa paura, vedendo non la realtà, ma ciò che i nostri occhi vogliono vedere. Iniziamo a volerlo trattenere, ad aver paura quando esce di casa, a proteggerlo troppo, a sentirci soli quando non c’è. Iniziamo a pensare a quando non ci sarà più, a come sarà la nostra vita senza di lui, e se potremmo vivere ancora. Se poi si insinua il dubbio che l’altro non ci ami più, allora è la fine. La verità, in ogni caso, è che prima o poi, nella nostra vita, quest’amore lo perderemo in ogni caso. È la realtà! Ma se riusciamo a vincere questa paura, se ce ne liberiamo, possiamo amare con tutta la forza della nostra anima e con tutto il sentimento del nostro cuore, senza calcoli, senza riserve, senza paure, senza eccessivi attaccamenti, senza possederlo.
Ringraziamo Dio di ciò che viviamo e se le cose un giorno cambieranno, le affronteremo con la pienezza dell’oggi, che diventerà la nostra forza per il domani.
La prima beatitudine, dunque, dice la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ci appoggiamo? Su cosa possiamo davvero fidaci? Sulle cose? Passano tutte, tutte si usurano. Sulla gloria? Forse rimarrà un nome, ma noi non ci saremo più. Sulle persone? Non ci salvano.
Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa a cui ci possiamo appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a “zero, niente”, significa anche “seme”. Ebbene, noi siamo “zero, nulla”, siamo vuoti, poveri di tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere “niente”, è nascosto, come in un “seme”, il nostro essere tutto.
Nel nostro niente c’è il Tutto. Nella nostra povertà c’è la Ricchezza. E più noi ci spogliamo, smettendo di confidare in noi stessi, più possiamo metterci nelle mani di Dio ed essere al sicuro.

Perché quando non avremo più nulla, è allora che avremo il Tutto. E quando saremo spogli di ogni cosa, è allora che saremo rivestiti di eternità. E quando tutto morirà, allora ci sarà la Vita. E quando tutto alla fine cadrà, allora per noi sarà l’Inizio. Amen.



giovedì 19 gennaio 2017

22 Gennaio 2017 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». (Mt 4,12-23).

Il vangelo di oggi ci presenta l’inizio dell’attività pastorale di Gesù.
Il Battista è stato arrestato e la situazione si fa pericolosa anche per Lui. Pertanto Egli “scappa” verso il Nord, in Galilea; lascia Nazaret, la sua città, e si porta in Cafarnao, “sulla riva del mare”. È strano che città come Nazaret e Cafarnao nell’Antico Testamento siano completamente sconosciute, anche se Cafarnao, in particolare, fosse una città molto importante, una città di frontiera. Matteo la colloca “sulla riva del mare”: in realtà non si tratta del mare ma del lago di Genezareth o di Tiberiade. Ma perché l’evangelista parla di mare quando sa benissimo che è un lago? Perché Matteo vuol dare qui una spiegazione teologica: il mare era quello che separava Israele dalle terre pagane ma soprattutto era quello che il popolo d’Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Era sinonimo quindi di piena liberazione: per Matteo, quindi, Gesù rappresenta il nuovo Mosè, venuto a liberare il suo popolo.
Inoltre: perché Gesù dalle rive del Giordano, invece di scendere in Giudea, terra eletta, abitata dalla nobiltà sacerdotale, sede del Tempio, sale in Galilea, regione “delle genti”, popolato da poveracci, bifolchi, gente violenta, gente cordialmente disprezzata dai ricchi Giudei? Semplice: perché si compisse quanto anticipato da Isaia: gli abitanti che abitavano nelle tenebre, nella “terra di Zabulon e di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano”, regione di morte, sarebbero stati i primi testimoni del sorgere di una “grande luce”: e Matteo vede in ciò il compimento della promessa messianica di Israele (Is 8,23): Gesù, in quella terra “maledetta”, è dunque questa “nuova luce” sorta per illuminare il mondo.
È pertanto da qui che Gesù inizia la sua attività: “cominciò a predicare e a dire: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”.
Il verbo usato qui da Matteo è categorico: “metanoèo”; per seguire Gesù, per accoglierlo, è necessario “convertirsi”, nel senso di “cambiare radicalmente mentalità” (“shub” in ebraico vuol dire “cambiare direzione”, fare una inversione ad “U”); in pratica, bisogna che tutti cambino il loro modo di “pensare” (noèo): la mente, nell’antichità, era considerata la sede non solo del pensare ma anche dell’agire. Quindi Gesù non si limita qui a chiedere un semplice “ritorno religioso a Dio” (= avrebbe usato “epi-strepho”), ma pretende un coinvolgimento concreto, operativo, dell’intera persona: un cambio di mentalità totale che incide, che trasforma, che impone al nostro comportamento un radicale “dietro-front”.
Questo perché con Gesù non è più sufficiente “tornare verso Dio”, ma è necessario “accogliere” questo Dio, e andare con Lui e come Lui, andare verso gli altri: in una parola dobbiamo impostare diversamente la nostra esistenza, quell’esistenza che noi incentriamo normalmente su noi stessi.
Poiché è la nostra mente, sono i nostri pensieri, la nostra volontà, che determinano le nostre azioni, le nostre emozioni, dobbiamo essere radicali: dobbiamo cioè iniziare la nostra “conversione” proprio dalla base: analizzando questi nostri pensieri, e sostituendo, cambiando, estirpando quelli che producono male, che generano sofferenza. Molti dei nostri pensieri sono dei veri e propri “virus” per la nostra vita; oltre che indurci al male, creano poi dolore, paure, sensi di colpa, angoscia: “Come sono arrivato a questo? Piacerò ancora? E se continuassi a sbagliare? Se deludessi ancora tutti? Sono un disastro! Non ho più futuro! Non sono capace a rialzarmi! Non cambierò mai! La mia vita è inutile!”.
Come potremmo vivere una nuova vita continuando a lasciarci dominare da questi tarli che ci rodono l’anima? È intraprendere una nuova vita che è difficile, oppure sono i nostri pensieri che la rendono tale? Perché se sono i nostri pensieri noi non saremo mai in pace con noi stessi, di qualunque genere siano le nostre decisioni, qualunque sia la nostra scelta di vita!
Allora perché dobbiamo proprio convertirci? Se questo ci procura tanto lavoro e sofferenza, perché dobbiamo proprio farlo? Il motivo è chiaro: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Ma cosa intende Matteo con il “regno dei cieli”? È un’espressione che troviamo soltanto nel suo Vangelo e indica semplicemente il “regno di Dio”. Un regno che non è fatto per dominare, sottomettere, conquistare, ma un regno in cui Gesù si prende cura dei più poveri, degli afflitti, dei miserabili, di coloro che hanno bisogno di tutto. Non è più un regno di questo mondo, dove il re di turno chiede, domanda, pretende, obbliga, impone leggi, sanzioni e tasse; ma è un regno specialissimo in cui Cristo, il Re, si offre, si dona, si prende cura.
E per servire, per attuare, per realizzare, per operare in questo regno, Gesù ha bisogno di collaboratori: ecco perché questo regno è “vicino” a noi: perché aspetta la nostra adesione, perche aspetta che anche noi ci mettiamo al suo servizio; e per farlo dobbiamo come condizione prioritaria ed essenziale abbandonare la nostra vecchia mentalità, e accogliere, rivestirci, della nuova mentalità di Cristo, descritta da Lui nelle beatitudini e nel suo Vangelo.
Per questo, mentre cammina “lungo il mare di Galilea”, visti due fratelli, due poveri pescatori, li chiama dicendo loro: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”.
È interessante come Gesù per iniziare la sua comunità non vada in cerca di monaci come gli esseni, di persone pie come i farisei, di appartenenti al clero come i sacerdoti, di benestanti e potenti come i sadducei, e tanto meno di teologi come gli scribi, ma preferisca gente povera, normale. Sono gli umili che capiscono subito l’importanza della chiamata. Sono essi che accettano di slancio la difficile missione di offrirsi, di annunciare, di portare un messaggio di gioia, di vita e di speranza. “Venite dietro a me”, dice Gesù: Egli è il nostro riferimento, Lui va avanti e noi dietro: Lui ha bisogno di noi, noi dobbiamo seguirlo. Senza velleità di primeggiare, di ottenere riconoscimenti, ma solo dimostrandogli tutta la nostra disponibilità, la nostra buona volontà, la nostra “nuova” mentalità: perché solo così la nostra risposta al suo invito sarà sincera, leale, efficiente.
Dio ha stima di noi. Dio ha più fiducia in noi di noi stessi, perché ci conosce meglio di noi. Noi abbiamo paura, ma lui, al contrario, ha fiducia, ha stima di noi. Sa cosa possiamo fare. Conosce la grandezza a cui possiamo giungere, se ci manteniamo umili. Gesù infatti non dice: “Venite dietro di me e vi farò maestri di spiritualità, vi farò diventare santi, vi farò diventare asceti”. Ma semplicemente: “Venite dietro a me, vi farò capaci di togliere le persone dalla morte per ridare loro la vita”.
“Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”: la fede non è una produzione di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è andare. Dio ci chiama (chiamata) e noi siamo chiamati a rispondere (respondeo: da cui responsabilità!).
Il rapporto chi si instaura tra noi è immediato, sequenziale: c’è la Sua chiamata (vocatio, vocazione), un qualcosa che ci tocca, che ci interpella, che dice al nostro cuore: “Io voglio te, proprio te!” e c’è una nostra risposta vincolante; una risposta che, a vederla con la mentalità del mondo, è sicuramente una “pazzia”. Sì, perché la chiamata significa “andare”: significa avere fede incrollabile in Lui, lasciarsi coinvolgere, mettersi completamente in gioco, uscire dal proprio “ego”, dal proprio modo di pensare, dal nostro “egotismo”: è questa la “pazzia” dei santi.
Molte persone si chiedono: “Ma qual è in concreto la mia chiamata? Cosa devo fare nella vita per rispondere alla mia vocazione?”. Certo, è una domanda che dobbiamo sicuramente porci, è una fase di discernimento che dobbiamo affrontare: a condizione però che non sia un modo per sfuggire al nostro coinvolgimento, al procrastinare “sine die” un nostro impegno: aspettiamo la “grande” chiamata e intanto trascuriamo le “piccole” chiamate di ogni giorno.
Del resto per deciderci subito basta guardarsi attorno: quanto bisogno c’è di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto, più vero; quanto bisogno c’è di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro e l’approvazione umana; quanto bisogno c’è di persone che credano nell’uomo per costruire un mondo nuovo e diverso; quanto bisogno c’è di persone profonde che sappiano dialogare, senza indietreggiare di fronte alle contrarietà, senza scendere a compromessi con le nuove “culture”, con il pensiero laico dominante. C’è bisogno insomma di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di tanti fratelli che vivono vittime di dinamiche malsane e opprimenti.
Chi deve andare? Sono gli altri che devono muoversi? E noi? Purtroppo gran parte della gente, molto brava nell’arte dello “scaricabarile”, pensa sempre che tocchi a qualcun altro.
Ma è fin troppo comodo pensare che la chiamata di Dio, la vocazione, sia un fatto elitario, riservato soltanto ai preti e alle suore. Certamente quella è la “loro” chiamata: ma Dio non chiama solo alcuni, Dio chiama tutti.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato: è singolare, unica, personale, è vero; ma nel senso che ogni singola persona riceve la sua chiamata specifica, diversa dalle altre per modalità, per competenze e per ruoli. Ma ogni chiamata di Dio ha sempre una dimensione comunitaria, sociale.
Dio non è un qualcosa di privato, di esclusivo, da godere e vivere da soli nella nostra stanza, nel nostro cuore, isolandoci da tutti. Se ci riduciamo a vivere in questo modo, allora la nostra fede implode, diventa squilibrio, alienazione. Fede al contrario è agire, muoversi, andare; è azione verso i fratelli. Agire significa far emergere, portar fuori l’energia, il fuoco, la passione che abbiamo dentro, per vivere e far vivere in pieno la Vita; significa voler trasformare il mondo e la società, significa desiderio e impegno di lotta contro il male che ingabbia l’Amore: se la nostra fede non è così, abbiamo fallito il nostro mandato, la nostra vita rimane vuota, solo frivolezze e vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi noi cristiani) a portare il vangelo per il mondo: un vangelo che è all’opposto di ciò che pensa e vive il mondo. Perciò dobbiamo cambiarlo questo mondo, dobbiamo “convertirlo”, rinnovarlo, renderlo diverso, riportarlo a nuovo. Per questo siamo stati chiamati, per questo siamo stati scelti. Per questo, seguendo il nostro cuore, dobbiamo vivere la nostra “chiamata” con carità, compassione, tenerezza, elasticità, adattamento, sorriso, umanità. E soprattutto con fede: perché solo dimostrando con i fatti di vivere la nostra fede, di credere convintamente in Dio, potremo “convertire” anche gli altri. Amen.



venerdì 13 gennaio 2017

15 Gennaio 2017 – II Domenica del Tempo Ordinario

“Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29-34).

Il vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista: soltanto che mentre nel racconto degli altri evangelisti ci viene descritto come colui che battezza Gesù, nel vangelo di Giovanni egli appare come un osservatore estraneo, uno che, convinto da certi “segni”, offre una importante “testimonianza” a favore di Gesù e della sua missione divina. Qui la “discussione” tra il Battista e Gesù sull’opportunità del battesimo di quest’ultimo, scompare del tutto. Le distanze tra i due vengono azzerate; il Battista, di fronte alla rivelazione dello Spirito di Dio che scende sul Figlio in forma di colomba, capisce e rende pubblica testimonianza su Gesù, rivelando chi egli sia realmente. E dice: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Egli ha visto personalmente, è un testimone oculare diretto, egli ha tutti i titoli per poter testimoniare la verità.
Noi invece parliamo troppo spesso per sentito dire. Parliamo senza avere elementi per poterlo fare con cognizione di causa. Soprattutto quando discutiamo di Dio. Cosa ne sappiamo noi di Dio? Cosa abbiamo concretamente “visto” di Lui? Lo abbiamo forse sperimentato nella nostra vita, nel nostro intimo? No? E allora come possiamo parlare con tanta presunzione se non lo abbiamo visto, non lo abbiamo sentito, non abbiamo capito nulla di lui? Se Dio non ci ha resi diversi, nuovi, più profondi, più liberi, più veri, se non ci ha “guariti” dentro, se non ha toccato il nostro cuore, come possiamo affermare di conoscerlo?
Oggi tutti parlano di Dio, scrivono di Dio, discutono di Dio; ma lo fanno tutti in maniera superficiale, parlano a vanvera, ripetono meccanicamente il sentito dire da sedicenti esperti, da studiosi dai nomi altisonanti, sempre pronti ad esibirsi in nuove stravaganti teorie, ma che di incontrarlo personalmente non vogliono neppure sentirne parlare!
Finiamo così troppo spesso col ridurre Dio ad una semplice dottrina, a dei catechismi da imparare, a dei dogmi da credere, a delle regole da osservare. Ma Dio non è questo: Dio è Amore; è un “incontro” privato, intimo; un incontro con l’anima, col cuore; è vita condivisa, è amore donato, è gioia trasmessa.
Solo se lo abbiamo “incontrato” così, solo se cerchiamo in tutti i modi di incontrarlo per questa via, possiamo affermare seriamente che Egli esiste: altrimenti no!
Allora la domanda: “Tu conosci Dio? Credi in Dio?” è una domanda mal posta; la domanda corretta è: “Hai incontrato Dio? Cos’ha fatto lui per te? Come ti ha dimostrato il suo Amore? Cos’hai fatto tu per Lui? Come hai percepito la sua presenza in te? Come è nato in te il bisogno di parlargli, di conoscerlo, di affidarti a lui?”. Perché solo se abbiamo esperienze dirette, un rapporto personale con Lui, possiamo anche noi come il Battista rendergli testimonianza: dobbiamo prima “vederlo”, “provarlo”, “toccarlo”. Solo allora potremo anche averne una pallida idea: ma solo allora ci renderemo anche conto di non saperne mai abbastanza.
“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”, grida dunque il Battista alle folle presenti. È la sua testimonianza nei confronti di Gesù; una testimonianza che costituisce il centro del vangelo di oggi, sulla quale vale la pena soffermarci, anche perché sono parole che noi conosciamo bene, poiché le ripetiamo durante la santa Messa, probabilmente senza comprenderne il più ampio e profondo significato.
Ebbene: cosa voleva dire Giovanni in concreto, paragonando Gesù ad un “agnello”?
C’è da dire prima di tutto che gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame, e quindi esperti conoscitori di agnelli, pecore e capre. Conoscevano bene la Scrittura, in particolare quei passi che parlavano di agnelli offerti in sacrificio. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua essi immolavano per ricordare l’uscita del loro popolo dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio: quel capro che nel giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) veniva caricato simbolicamente di tutte le colpe del popolo e mandato a morire nel deserto.
Ma soprattutto conoscevano il famoso, emblematico episodio di Abramo.
A cento anni Dio gli aveva finalmente concesso il figlio da sua moglie Sara, un figlio atteso per tutta la vita, un figlio che per lui costituiva la cosa in assoluto più cara, più preziosa al mondo. Non dimentichiamo che per un ebreo la discendenza, l’avere un figlio, era la cosa più importante; voleva dire: “anche se un giorno morirò, io continuerò a vivere per sempre in te, nei tuoi figli, nei figli dei tuoi figli…”.
Ebbene, cosa è successo ad Abramo? Un giorno, improvvisamente, Dio gli chiede di offrire questo suo figlio in olocausto. Possiamo capire la disperazione, l’angoscia, il dolore mortale che egli dovette affrontare. Solo dopo aver “provato” la sua fede, la sua sottomissione, la sua totale obbedienza, Dio lo risparmia, chiedendogli di immolare, al posto del figlio, un agnello.
Gli ebrei sapevano quindi molto bene a cosa volesse alludere Giovanni parlando dell’agnello: una vita dolce e mansueta che costituiva la vittima sacrificale più gradita a Dio. Gesù, dice dunque Giovanni, è l’agnello sacrificale, è la vittima che sarà offerta a Dio a riscatto dei peccati del mondo.
Inoltre: il monte in cui avvenne il sacrificio di Abramo si chiamava “Moria”: quasi ad indicare che in Abramo c’era qualcosa che doveva morire. In che senso?
Nel senso che in ogni passaggio di vita siamo costretti a far morire qualcosa. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire sempre qualcosa di noi stessi.
Abramo amava troppo quel suo figlio: proprio per questo deve sacrificarlo, perché quel “suo” figlio non è suo, ma del Signore; deve cioè smettere di possederlo, di considerarlo sua proprietà esclusiva, perché quel figlio appartiene solo a Dio. Dura da accettare, ma è la volontà di Dio!
Quante volte, di fronte alle contrarietà della vita, anche noi come Abramo esclamiamo: “Questo non è giusto! Tu Dio mi chiedi troppo! Mi perseguiti, mi stai facendo troppo male!”.
E se questa fosse l’ultima “chiamata” di Dio? Se dovessimo passare proprio di là? Non diciamo allora: “Ma che vita è questa? È uno schifo! Insopportabile, bastarda!”. Diciamo piuttosto: “Signore cosa vuoi dirmi con questa tua lezione di vita? Cosa devo imparare da essa? In cosa devo cambiare, in cosa devo migliorare? È molto faticoso per me, ma eccomi, sia fatta la tua volontà!”.
L’agnello, allora, anche per noi rappresenta il sacrificio; è cioè il dolore che dobbiamo pagare; sono le sofferenze che dobbiamo sopportare per crescere, per evolvere, per diventare spirituali, puri: non a caso la radice ebraica della parola “Abramo” significa proprio “purezza, innocenza.
Nella nostra vita abbiamo sempre paura di fare delle scelte controcorrente? L’agnello è il prezzo della nostra libertà. Abbiamo timore di dire di no agli altri per non offenderli? L’agnello è il prezzo della nostra autonomia. Vogliamo sempre pianificare e decidere tutto? L’agnello è il prezzo della nostra fede.
Nel mondo dello Spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede sempre il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande dona anche la felicità e la pace più grandi.
Ma forse Giovanni, chiamando Gesù l’Agnello di Dio, voleva dire anche un’altra cosa.
Infatti, la parola “taljah”, in ebraico, oltre che agnello vuol dire anche “servo”.
Molto probabilmente allora il Battista, quando parlava di Gesù, intendeva non tanto l’agnello, ma il “servo” di Dio. E qui si sarebbe ampiamente riferito ai “Canti del Servo di Jahweh”, quei quattro meravigliosi canti contenuti nel Deutero Isaia.
Col tempo però i cristiani preferirono leggere nella parola “taljah” il solo significato di “agnello”: d’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Esattamente come è successo con Gesù, che è quindi il nuovo, ultimo e definitivo Agnello, Colui che toglie il peccato dal mondo.
Quando durante l’Eucaristia ripetiamo “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”, noi vogliamo sicuramente dire: “Dio è morto a causa dei nostri peccati; Dio si è sacrificato per noi”. E ci sentiamo profondamente colpevoli. Ma l’espressione “Agnello di Dio” vuol dire anche e soprattutto un’altra cosa: “Dio è buono come un agnello; Dio non ci farebbe mai del male; Dio è bontà, tenerezza, misericordia”. Dio non è vendicativo, non è geloso, non è violento: Dio non potrà mai volere il nostro male.
In questo senso, noi uomini moderni, per definire la grande bontà, la mansuetudine, la pazienza di Dio, più che ricorrere all’immagine dell’agnello, molto comune nella cultura ebraica, potremmo più plasticamente servirci del termine “abbraccio”. Sì, Dio è un “abbraccio”!
Un abbraccio in cui ci sentiamo assolutamente accolti, accettati, avvolti di bontà, riconosciuti, stimati, amati. Un abbraccio non può far mai paura, a nessuno. Dio è così. Per nessun motivo al mondo lo dobbiamo temere. Lui non ci tradisce, non ci volta le spalle, sta sempre dalla nostra parte, non ci abbandona mai. Il suo è il gesto di uno che ci corre incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha; il suo è un abbraccio che offre felicità, che vuole per noi una vita entusiasmante.
Allora andare a fare la Comunione è come andare dalla persona amata: è una gioia, un’attesa ansiosa, un’aspettativa carica di desiderio. Andare a fare la Comunione è come correre tra le braccia della mamma: è lì che sentiamo quanto siamo importanti, quanto valiamo, quanto siamo belli. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: è lì che ci sentiamo al sicuro.
Dio si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, gigantesco. Ma che può farci un bambino? Che può farci un agnellino? Che può farci una madre perdutamente innamorata del proprio figlio? Se qualche volta ci mette alle strette, ci da una tirata d’orecchie, è solo perché ci vuole bene, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici. Nel silenzio dell’anima possiamo ascoltare tante sue parole che non hanno voce.
Una storiella racconta che dei feroci banditi, scesi da una montagna altissima, entrarono in un villaggio, lo misero a ferro e fuoco, saccheggiarono tutti i beni, e per assicurarsi la fuga, rapirono un bambino, portandolo con sé nel loro impervio rifugio. Gli uomini migliori del villaggio, per ben due volte provarono in tutti i modi a scalare le alte vette della montagna, ma tornarono vinti dalle difficoltà, dal freddo, dal ghiaccio, dalle tormente di neve. Visti i loro tentativi infruttuosi, la madre del bimbo, disperata, contro il parere di tutti, partì da sola; dopo alcuni giorni, lacera, ferita e stremata, tornò portando in braccio il suo bambino. Increduli, quanti avevano partecipato alle precedenti spedizioni le chiesero: “Ma come hai fatto? Noi in gruppo e ben equipaggiati non ci siamo riusciti, e tu da sola, sì? E lei: “Non era vostro figlio!”.
La potenza di una madre! Ebbene, Dio è come quella madre. Amen.


giovedì 5 gennaio 2017

8 Gennaio 2017 – Battesimo del Signore

«Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3,13-17).

Con la festività di oggi, il Battesimo di Gesù, si conclude il tempo liturgico del Natale. Domenica prossima entreremo nel Tempo Ordinario che ci porterà fino alla Quaresima.
Oggi il vangelo di Matteo annuncia che Gesù, partito dalla Galilea, raggiunge Giovanni Battista sul fiume Giordano, nel deserto e, come tutti gli altri, si fa battezzare da lui.
Ma per quale motivo Gesù va a farsi battezzare? Non certo in quanto peccatore, bisognoso di conversione. Lo fa invece per essere fedele in tutto alla volontà del Padre. Inoltre, tra il suo battesimo e quello della gente c’è una differenza sostanziale: infatti se entrambi richiamano in qualche modo l’idea di “morte”, quello dei comuni mortali implica il morire sia alla loro vita passata che a quella presente; il loro morire è propedeutico ad una nuova vita; per Gesù invece il battesimo annuncia e simboleggia la sua morte futura, una morte non simbolica ma reale: scendendo nelle acque del Giordano, egli abbraccia e accetta il suo destino di morte, il suo atto sacrificale estremo offerto al Padre per la nostra salvezza, per dimostrare pienamente al mondo il Suo volto d’Amore.
Il Battista però, che non percepisce questo motivo pilota del comportamento di Gesù, cerca di impedirglielo, e protesta: “Ma come, sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e invece sei tu che vieni da me?”. E Gesù: “Lascia fare per ora, poiché conviene che adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15).
Una risposta ermetica. Cosa intende qui Gesù? Dobbiamo prima di tutto risalire al significato di “giustizia”: questo termine, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è strettamente collegato al termine “fedeltà”, fedeltà all’Alleanza: era “giusto”, praticava la “giustizia”, l’uomo che era fedele a Dio, al patto di Alleanza che Egli aveva sancito con il suo popolo e, attraverso di esso, con l’intera umanità. Se Dio dal canto suo è sempre “giusto”, perché la sua “fedeltà” alle promesse fatte è eterna, non così è per l’uomo: a lui capita molto spesso e con estrema disinvoltura, di venir meno alla “giustizia”, di tradire cioè qualunque impegno preso con Dio. La qualifica di “giusto” di “operatore di giustizia”, allora, gli spetterà soltanto se risulterà fedele ai suoi impegni con Dio. E solo allora.
Questo, in estrema sintesi, è quanto Gesù vuol dire al Battista con le parole “adempiere ogni giustizia”: Gesù, da “giusto” qual è, si sottomette docilmente alla volontà del Padre: Battista, dal canto suo, si deve adeguare, anche se ciò gli scombina il suo “credo”.
A questo punto Matteo, nel descrivere l’adattamento di Giovanni alla volontà di Gesù, dice letteralmente che “egli lo lasciò” (in greco “tote afiesin auton”): sono le identiche parole che egli userà più tardi (Mt 4,11), nel descrivere le tentazioni di Gesù nel deserto: il demonio, visti inutili i suoi tentativi di seduzione, “lo lasciò”: appunto “tote afiesin auton”. Allora qui Matteo non vuol dire tanto che il Battista “acconsentì” alla richiesta di battezzarlo rivoltagli da Gesù; e neppure che egli “lasciò fare”, come talvolta vengono tradotte in italiano queste parole: che cioè il Battista, pur non essendo d’accordo, avrebbe “lasciato correre”, avrebbe “accondisceso” a battezzare Gesù. Matteo qui invece vuol sottolineare che il Battista, deluso dal comportamento di Gesù completamente fuori schema, assolutamente contrario alla sua visione messianica, in pratica lo lasciò, lo abbandonò al suo destino, né più né meno di come farà più tardi il diavolo stesso.
In altre parole, avremmo già qui la prima tentazione di Gesù, ossia un invito pressante rivolto a Gesù (il diavolo in questo caso sarebbe Giovanni), di accantonare la missione salvifica affidatagli dal Padre, per trasformarla in quel ruolo messianico che la gente si aspettava da lui: un Messia storico, cioè, immediatamente riconoscibile da tutti, accolto e acclamato come un coraggioso e vittorioso re davidico, finalmente giunto per condurre il popolo alla riscossa contro gli invasori, seminando tragiche rappresaglie e vendette contro i malvagi, contro i “fuori legge”.
Ma Gesù non si lascia fuorviare dal “maligno”: Egli è esattamente l’opposto; è venuto a portare all’umanità diseredata, la salvezza, l’amore, la misericordia del Padre; Egli combatterà durante la sua missione terrena; combatterà continuamente e coraggiosamente per estirpare dal popolo questa distorta immagine del Messia: perché Lui sarà solo ed esclusivamente un Messia d’amore, un Messia votato al servizio dei più deboli, dei peccatori, .
“Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui”; si aprì cioè la “dimora” divina e Dio stesso scese per appoggiare suo Figlio.
Interessante è il verbo “aprirsi” (in greco eneòkthesan) riferito ai cieli, che fa un chiaro riferimento al testo di Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi” (Is 63,19). Perché è interessante? Perché indica un evento di assoluta novità: a quei tempi infatti si credeva che Dio, indignato per i peccati dell’umanità, avesse sigillato la sua dimora (i cieli sono la dimora di Dio), interrompendo ogni comunicazione con il popolo degenere.
Con la venuta di Gesù, questa antica convinzione viene decisamente annullata: i cieli si aprono, si “squarciano” addirittura: una autentica garanzia di salvezza per il futuro, perché d’ora in poi i Cieli rimarranno sempre aperti, al pari di un contenitore la cui chiusura è stata distrutta, “squarciata”. Dio ha smesso di offendersi, di isolarsi da noi: anche se noi continueremo testardamente ad ignorarlo, a tradirlo, Lui non potrà fare altrettanto con noi, la sua misericordia non lo permette; ci rimarrà invece sempre vicino, pronto ad offrirci a piene mani il dono supremo del suo Amore. Sempre.
Oggi Dio, in occasione del battesimo di Gesù, lo rende noto, comprensibile all’umanità intera; fa cioè vedere a tutti, in concreto, chi Egli sia veramente: un Dio Amore, un Dio esclusivamente buono; un Dio ansioso di comunicare, di colloquiare con gli uomini. Un Dio completamente diverso da prima.
Il Dio della religione mosaica diceva infatti: “Hai ucciso: meriti di morire! Hai peccato: non Mi meriti! Hai fatto un tragico errore: considerati indegno di Me, un peccatore imperdonabile: hai tradito la Mia fedeltà; sei fuori dalla mia dimora!”.
Il Dio di Gesù dice invece: “Io sono l’Amore. Sono qui per amarti, anche se tu non vuoi saperne. Non sono qui per terrorizzarti, ma per farti capire che ti amo. Il mio compito è questo. Vuoi permettermelo? Vuoi accettarlo?”. Una verità, questa annunciata oggi da Matteo, confermata anche dal quarto vangelo, quello di Giovanni: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
Allora, come dobbiamo rispondere noi a questa opportunità, a questa offerta di Dio? Semplicemente trasformando il nostro battesimo d’acqua, in battesimo dello Spirito.
Tutti abbiamo ricevuto il battesimo d’acqua: siamo stati cioè “generati”, ci è stata offerta una nuova vita: un dono gratuito ricevuto per i meriti di Cristo. Ma ciò non basta. Non enfatizziamo troppo questo “inizio”: perché il vero battesimo, quello che ci rende veri seguaci di Cristo, è quello successivo, quello di “fuoco”, quello con cui noi rispondiamo con la vita, con i fatti, alla chiamata di Dio: quello cioè, con cui ci rigeneriamo, ci “ricostruiamo”, per ridiventare a sua “immagine e somiglianza”, come Egli ci aveva chiamati ad essere fin dall’inizio. È il battesimo dello Spirito che ci renderà infatti testimoni di una nuova vita, risposta d’amore all’Amore, fedeli fino in fondo a Colui in cui crediamo e che ci “brucia” dentro, che ci appassiona il cuore oltre ogni umana esperienza.
I grandi personaggi della Bibbia hanno sempre confermato la loro chiamata iniziale (battesimo d’acqua) superando cammini tortuosi, prove difficili, viaggi duri, faticosi, durante i quali Dio li ha forgiati e purificati. Noè, per esempio, ha dovuto costruire l’arca tra la derisione e lo scherno generale; Abramo ha dovuto affrontare un lunghissimo viaggio per raggiungere nuove terre, completamente a lui sconosciute e ostili; Mosè ha dovuto guidare il popolo attraverso il Mar Rosso e il deserto, per poter raggiungere la terra promessa; Giobbe e Tobia compirono entrambi dei viaggi molto impegnativi e pericolosi. Gesù stesso si immerge oggi nel Giordano (Giordano, yared, vuol dire appunto “immergersi”) ma soprattutto si immerge in questa umanità inquieta ed irrequieta che, in cambio dei tanti benefici e favori, lo condanna al patibolo: un’umanità che ancora oggi non cessa di rinnegarlo, di rifiutarlo, di ucciderlo.
Gesù dice nel vangelo: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso… Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione... Non sono venuto a portare la pace ma una spada...”.
Allora smettiamola di pensare o di credere che per essere veri cristiani basti semplicemente l’essere battezzati. Quando i media dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, dicono una corbelleria. Sarà la percentuale dei battezzati con l’acqua, ma non dei cristiani battezzati col fuoco dello Spirito.
La gente crede ancora che seguire Gesù sia qualcosa di comodo, di tranquillo e di indolore. Basta qualche pratica, andare alla messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Ma seguire Gesù significa “fuoco”. È quella passione che ci brucia dentro, che non può lasciarci indifferenti di fronte alle ingiustizie, di fronte ad una società edonista che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori inconsapevoli che portano al battesimo i loro figli come fossero delle graziose marionette o dei burattini con cui divertire la gente.
“Fuoco” è la passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo starcene in disparte e farci gli affari nostri; e, invece no, ci buttiamo nella mischia, rischiando in prima persona.
L’essere cristiani di “fuoco” significa purificarsi interiormente, bruciare tutto ciò che c’è di impuro dentro di noi. Solo così ci accorgeremo che noi, e non gli altri, siamo invidiosi, siamo in rivalità, siamo gelosi. Che noi, e non gli altri, non amiamo; che noi e non gli altri vogliamo possedere, gestire, manipolare. Che noi, e non gli altri, abbiamo assoluta necessità di cambiare, di crescere, di modificare con umiltà la nostra vita.
Non è facile cambiare. Non è per nulla piacevole vedere certe reazioni dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Ma sarà entusiasmante, passionale, ardente; ci darà la sensazione di vivere in profondità, ci farà capire che la nostra vita finalmente ha un senso. Amen.



venerdì 30 dicembre 2016

1 Gennaio 2017 – Maria SS.ma Madre di Dio

«In quel tempo, i pastori andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro» (Lc 2,16-21).

“Andiamo fino a Betlemme a vedere questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”: i Pastori, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’angelo, decidono di andare a vedere cosa è successo realmente e, ci dice il vangelo di oggi, trovano effettivamente “Maria, Giuseppe ed il bambino che giaceva in una mangiatoia”
Ovviamente rimangono molto colpiti e, rivolgendosi ai due, fanno a gara nel riferire quanto era loro capitato nel venire a conoscenza della nascita “prodigiosa” di quel bimbo. “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”
Maria e Giuseppe, stando ai vangeli, sanno già che quel loro neonato è il Messia, l'unto della discendenza di David tanto atteso. Allora, perché si stupiscono di fronte ai racconti straordinari dei pastori?
Proprio perché conoscono molto bene la loro religione: essi sanno che il Messia doveva venire: ma, come tutti, il Messia che si aspettavano sarebbe stato un Messia giustiziere, uno che avrebbe sistemato tutte le irregolarità, che avrebbe sterminato gli operatori del male; perché allora avrebbe scelto proprio dei personaggi notoriamente corrotti, gente rozza, violenta e peccatrice, per metterli al corrente della sua venuta, invitandoli a rendere omaggio alla sua divinità, scegliendoli addirittura come primi annunciatori del Figlio di Dio? Qualcosa non quadra.
Ecco perché Maria e Giuseppe sono stupiti, sorpresi, perplessi: ciò che sta accadendo davanti ai loro occhi, non è ciò che loro si aspettavano. Il Dio che quel loro figlio annuncia è un Dio diverso da quello che loro pensavano, da quello che avevano imparato a conoscere fin da piccoli. Non è stato assolutamente facile per loro accettare questa novità: ma proprio per questo essi sono stati dei grandi!
A ragion veduta, quindi, nel primo giorno dell’anno solare, la Chiesa celebra ed esalta Maria, Madre di Dio: la Theotòkos, la “generatrice di Dio”. È allora solo di lei che oggi voglio parlare, cercando prima di tutto di approfondire il significato di questo titolo.
Madre di Dio: significa che tra lei, la Madre, e Dio, nella persona divina del Verbo, si è venuta a creare una relazione specialissima: il fatto di essere diventata Madre del Verbo, aggiunge in lei qualcosa in più, le dona cioè una perfezione che prima non aveva. Possiamo dire con san Tommaso, che Maria generando il Verbo, il Figlio di Dio, ha toccato i confini stessi della divinità: la sua maternità è “soprannaturale”, poiché raggiunge Dio stesso.
Ovviamente la maternità di Maria non si ferma solo al fatto di aver generato il Verbo fisicamente e biologicamente. Una maternità non si ferma a questo aspetto. Una vera madre, è mossa prima e soprattutto dall’amore, accoglie suo figlio con amore, mette tutto il suo amore, tutta se stessa, in questa sua maternità. La maternità umana, infatti, non consiste solo nel concepimento, nella gestazione e nel parto: essa comporta anche tutte le cure che il bambino richiede, da quando viene alla luce, fino all’età adulta. Le mamme lo sanno bene!
Inoltre, nel caso di Maria, tutto ciò risulta amplificato dal suo essere una madre “vergine”, dal fatto cioè che Gesù, umanamente, proviene soltanto da lei, senza il concorso di alcun uomo; è un dono esclusivo che lei fa al proprio figlio: un dono che fa nella più totale e perfetta libertà, nella più cosciente accettazione dello Spirito, nel più ardente amore. Da quando ha pronunciato il suo “Fiat”, Maria è tutta e soltanto di Gesù, e Gesù, come uomo, è tutto e soltanto di Maria. Una relazione unica, meravigliosa!
Viene allora da chiederci: “la piccola vergine di Nazareth, aveva consapevolezza di ciò?”. In altre parole la Vergine Maria era cosciente sin dall’inizio della divinità del bambino da lei concepito e da lei nato?
Come ho già detto, sì: Lei era ampiamente consapevole. Maria è stata infatti l’unica donna in cui due sentimenti, in qualche modo collegati, hanno trovato la loro esatta coincidenza: l’amore di una madre nei riguardi di suo figlio, e l’amore di una creatura nei riguardi del suo Dio.
L’amore materno si è trasformato questa volta in adorazione.
Penso che tutti avremo avuto modo di ammirare delle celebri “Natività” in cui i pittori hanno cercato di rappresentare nel volto di Maria questo suo profondo sentimento di adorazione. Lo hanno fatto anche alcuni scrittori, fin dai primi secoli del cristianesimo.
Scrive per esempio, molto plasticamente, Basilio Vescovo di Seleucia († 459): “Quando ella contemplò quel divino infante, io immagino che, vinta dall’amore e dal timore, parlasse così tra sé: Che nome posso trovare che si convenga a te, figlio mio? Uomo? Ma la tua concezione è divina. Dio? Ma tu hai assunto l’umana incarnazione. Che farò dunque per te? Ti nutrirò di latte o ti celebrerò come un Dio? Avrò cura di te come una madre, o ti servirò come una serva? Ti abbraccerò come un figlio o ti supplicherò come un Dio? Ti offrirò del latte o ti porterò degli aromi?».
C’è anche un altro testo molto bello e poetico, che mi piace qui riportare, nonostante l’autore: è di uno scrittore moderno, Jean Paul Sartre, campione dell’ateismo del XX secolo, l’uomo che con i suoi libri, ha messo in discussione la fede in intere generazioni di giovani. Eppure anch’egli ha subito il fascino di Maria, madre di Dio: nel suo racconto intitolato “Bariona o il figlio del Tuono”, immaginandola nella grotta di Betlemme mentre stringe a sé il neonato Gesù, così la descrive: «La Vergine è pallida e guarda il bambino. Quel che bisognerebbe dipingere sul suo volto è una meraviglia ansiosa che è comparsa solo una volta su di una fisionomia umana.
Perché il Cristo è suo figlio, la carne della sua carne, il frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato nove mesi e gli darà il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio.
Sul momento la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe nelle sue braccia e gli dice: “Piccolo mio”. Ma in altri momenti, resta interdetta e pensa: “Dio è qui”, ed è presa da un timore religioso, per questo Dio muto, per questo bambino terrificante... Lo guarda e pensa: “Questo Dio è il mio bambino. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi, e questa forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. Egli è Dio e mi assomiglia”. E nessuna donna ha avuto in tal modo il suo Dio per sé sola, un Dio piccolino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e che respira, un Dio che si può toccare e che ride. Ebbene: è in uno di questi momenti, che io dipingerei Maria, se fossi un pittore».
Bene. Prima di concludere, una domanda: oggi, nella nostra epoca di contraddizioni, di superficialità, di contestazioni globali, cosa rappresenta per noi la figura di Maria, madre di Dio? Come la consideriamo? Continuiamo a onorarla, a pregarla? Purtroppo le “nuove mariologie” formulate da teologi contemporanei, più che tradurre in termini moderni le verità dogmatiche sulla maternità divino-umana di Maria, così come sono state proclamate e sancite dai concili di Efeso e Calcedonia, stanno invece cercando di sminuirne l’importanza, riproponendo un rigurgito di quelle stesse eresie già condannate all’epoca.
Al contrario proprio oggi, ancor più di allora, la Theotòkos, la Madre di Dio, deve costituire per ogni singolo cristiano, oltre che per la Chiesa tutta, un punto di riferimento, una difesa contro le tante deviazioni della fede, contro il disfacimento morale e culturale della nostra società contemporanea; deve essere l’elemento di unione contro ogni moderna divisione, base di partenza e punto di incontro e di arrivo per il cammino cristiano di sequela.
Siamo tutti figli di Dio: e grazie a Maria, nostra madre, siamo anche tutti fratelli: per questo Maria è considerata a pieno titolo Madre di Dio, Madre della Chiesa, Madre di ogni cristiano.
Affidiamo a lei allora questo nuovo anno che oggi si apre davanti a noi: non sappiamo cosa ci riservi, ma mettiamo tutto fiduciosamente nelle sue mani di Madre premurosa.
E termino con una storiellina, da cui ciascuno può cogliere una sua morale.
In una corriera traballante e poco sicura, in terra lontana, un prete, stanco e affaticato, è immerso nella recita del suo breviario. Davanti a lui siede un bambino che lo osserva attentamente. Ad un certo punto, grazie ad uno scossone improvviso e molto forte, il libro del missionario cade per terra, spargendo sul pavimento le immagini sacre che conteneva. Egli pazientemente si china, prende il libro, raccoglie le immaginette, le rimette dentro il breviario e ricomincia a pregare.
Il bambino però gli fa notare: “Guarda che per terra c’è ancora una foto”: la raccoglie velocemente, la guarda, e la consegna al missionario, che la ripone distrattamente con le altre, senza notare che rappresentava il volto dolcissimo della Madonna.
Il bimbo incuriosito chiede: “Chi è quella bella donna?” Il prete prende in mano l’immagine , la guarda e risponde: “È Maria, mia Madre”. Il bambino lo fissa per un istante e: “Ma non gli assomigli per niente!”. Al che il Missionario imbarazzato: “È vero, figlio mio. Non le assomiglio proprio. Eppure ogni giorno mi sforzo di assomigliarle un pochino di più!”.
Ebbene: quanto assomigliamo noi a Maria? Quanto siamo disponibili, oltre che a pregarla, a cercare anche di assomigliarle ogni giorno un po’ di più? Siamo disponibili qualche volta, oltre che a chiedere, chiedere, sempre chiedere, anche e soprattutto a donare, a donarle il nostro amore, il nostro cuore?
Nulla dies sine linea” (nessun giorno senza una linea) scriveva Plinio il Vecchio parlando del celebre pittore greco Apelle, che non lasciava passare giorno senza esercitarsi nel disegno.
E allora anche noi, “nulla dies sine Maria”: non facciamo passare giorno senza dimostrare il nostro amore a Maria; e non solo a parole, ma con i fatti! Amen.


AUGURO A TUTTI UN 
2017 
RICCO DI SERENITA' E AMORE!




giovedì 22 dicembre 2016

25 Dicembre 2016 – Natale del Signore Gesù Cristo

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,1-14).

Tutti noi, almeno per un istante, ogni anno, sentiamo dentro di noi la nostalgia del Natale, quasi un richiamo lontano. Come mai? Perché il Natale è la festa della gioia. Lo dice il vangelo: “Ecco vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). Un Bambino, la nascita di un bebè, ci ricollega naturalmente alla gioia: e quando nasce un bimbo la felicità esplode, si diffonde, è contagiosa. Una nuova nascita è sempre speranza, nuova possibilità, significa ripartire. È un po’ come dire: “Dove io non sono riuscito... tu ce la farai!”.
Il Natale richiama soprattutto la gioia di quando eravamo bambini. Perché la gioia non è un’emozione, è uno stato naturale, è qualcosa che avevamo ancor prima di ogni emozione.
Forse noi ce ne siamo dimenticati, forse non ci crediamo, ma ci fu un tempo in cui eravamo felici, un tempo in cui l’Eden lo vivevamo per davvero. Poi è arrivata la tristezza, il dolore, la paura, ma prima di tutto questo c’era la gioia. Le emozioni si imparano ma la gioia è qualcosa di innato, che tutti abbiamo dentro. Allora dirci Buon Natale è ricordarci che la gioia è già in noi.
In questo giorno così particolare, leggiamo sempre il vangelo di Luca: la storia di Maria e di Giuseppe che non trovano posto nelle locande e che nessuno vuole; gli angeli che cantano nella volta celeste: “Gloria a Dio e pace in terra”; i pastori, la mangiatoia.
Un racconto accattivante, intimo, commovente; ma, sarà capitato anche a voi di chiedervi: è storia vera o una pia ricostruzione fatta dalla devozione dei primi cristiani?
Alcuni studiosi, tra cui molto clero “istruito”, ritengono il 25 dicembre una data farlocca, contestando la veridicità del racconto lucano sia sul periodo invernale della nascita che sulla conseguente presenza dei pastori nelle vicinanze; la verità, secondo loro, è che la festa del Natale il giorno 25 dicembre si sarebbe diffusa solo in data molto tarda, imitando e assorbendo la festa pagana in onore del Dio Sole (il Cristo che nasce paragonato al Sole che sorge nel mondo).
Personalmente non condivido entrambe le argomentazioni. Non voglio qui tediarvi con ragionamenti complessi, ma è bene sapere come, secondo eminenti studiosi, le cose siano invece concordabili in tutto con i racconti di Luca e Matteo, gli unici che trattano l’infanzia di Gesù.
Prima di tutto il periodo invernale e la data del 25 dicembre. Per dimostrare la loro attendibilità dobbiamo attenerci ai fatti: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici. Tra questi documenti figura un “Libro dei Giubilei” (Masafa Kufālē), redatto nel II sec. a. C., in cui (come leggiamo anche nella Bibbia 1Cr 24,10) è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che dovevano prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Ebbene: questo rotolo ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era ottava nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi, corrispondenti ai nostri 24-30 marzo e 24-30 settembre. Ora, i primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre: si tratta di attestazioni piuttosto autorevoli, di accertata autenticità, se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Ora, il “Libro dei Giubilei” suddetto, conferma in maniera netta e indiscutibile questa tradizione della Chiesa paleocristiana. Come? Facciamo due conti: Zaccaria (Lc 1,1-25) entra nel Tempio per il turno a lui spettante il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia della incensazione, riceve dall’arcangelo Gabriele l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, il 24 giugno, nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Un elemento che ci consente di giungere ad altre conclusioni. E cioè: Maria di Nazareth (Lc. 1,26-38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza: possiamo pertanto risalire al 24/25 marzo come data del divino concepimento di Gesù. Maria, appena incinta (25 marzo), corre in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni (24 giugno). Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth, danno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, quindi, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che vengono opposte a questo ragionamento: in particolare quelle riferite ai pastori e al periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che impossibile che, nel mese di dicembre, a Betlemme, paese posto ad 800 mt. d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani: quindi tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi.
La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole in dicembre. Il Talmud, uno dei più importanti testi del giudaismo rabbinico, redatto tra il II e il VII sec., nel trattato Makkoth 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) tra i quali riporta anche antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi sono quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. In particolare, per quanto concerne le pecore, le classifica in tre categorie di purezza: stabilisce pertanto che le pecore bianche, totalmente pure, al ritorno dai pascoli estivi, possono stazionare all’interno della città o accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi, cosa invece proibita per le pecore pezzate (seconda categoria), e per quelle interamente maculate (terza categoria), ritenute impure.
Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8-12) che accorsero all’invito degli angeli fossero all’interno della località, al riparo in capanne insieme col gregge riunito negli stazzi protetti da tettoie di frasche e paglia. A smontare l’obiezione che non si trattasse di una notte invernale sta anche l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero facendo dei turni a guardia delle greggi. Poiché nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Betlemme, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si dessero il cambio, cosa invece credibile se si pensa alla lunghezza e al freddo delle notti nel solstizio invernale, per quanto stessero al riparo.
Tutto ciò conferma inoltre che il servizio di Zaccaria non poteva essere espletato nel periodo 24-30 marzo, che avrebbe datato il Natale al 25 giugno, bensì, come abbiamo detto, il 24-30 settembre, con il Natale al 25 dicembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Noi sappiamo però che la Tradizione ha basi storiche molto solide, basi che spesso superano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
L’altra questione avallata dai soliti critici è quella della fusione della festa del Natale cristiano con la famosa festa del “Sol invictus”, il Sole vittorioso, festeggiata dai pagani nel solstizio d’inverno, il 25 dicembre appunto.
Le cose non stanno così, per i seguenti motivi: prima di tutto perché la Chiesa non ha mai compiuto operazioni sincretistiche con ricorrenze pagane, semmai ha fatto sempre opera di netta distinzione con le stesse; secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma, con i suoi imperatori, che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto antecedente. È sufficiente analizzare la storia: il culto del Dio Sole è stato introdotto a Roma dall’imperatore Eliogabalo (dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente. Fu ufficializzato però solo più tardi, dall’imperatore Aureliano (dal 270 al 275), che consacrò solennemente un tempio dedicato al culto del “Sole che nasce” il 25 dicembre del 274, l’anno che precede la sua morte. Fu così che la festa pagana prese il titolo, poi passato alla storia, di “Sol invictus” dal giorno della “nascita”, o della risalita, del Sole; sappiamo però che le cerimonie cultuali presero piede a Roma soltanto sul finire del III secolo, tant’è che durante il regno dell’imperatore Licinio (dal 308 al 324), la festa alla divinità solare, a Roma come altrove, veniva celebrata ancora il 19 e non il 25 dicembre: era insomma una festa con data variabile nell’arco dell’anno, spesso comunque compresa nel periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù, la cui data era già fissata al 25 dicembre - come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra la “Depositio Martyrum” (l’antico calendario dei martiri), composta intorno al 336 - ad occupare il giorno 25 dicembre, incorporando la festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto del Sole, la nuova divinità romana, provarono a soffocare la religione cristiana con la sua più importante manifestazione.
Tutto questo, e mi perdonerete, per dire che tutte le fonti concordano nell’indicare la nascita di Gesù il 25 di dicembre: oggi!
E allora: Buon Natale a tutti voi. Buon Natale a voi, ai vostri cuori e a tutte le persone della vostra famiglia. Per il mondo intero oggi è Natale: auguri, baci, abbracci, saluti, pranzi, panettoni, regali, sorrisi. Bene! Se il Natale ci aiuta a far festa, bene.
Ma attenzione: non perdiamo di vista il centro di questa festa. Che non ci succeda di scambiare il Natale di Gesù con tutto questo. Tutto questo è contorno: ma il regalo vero, il Natale, è un’altra cosa.
Cosa ci dice allora il Natale? Cosa ci dice questo vangelo per noi oggi?
Una cosa semplicissima ma che se la vivessimo sul serio, la nostra vita cambierebbe: qualunque cosa abbiamo fatto (o non fatto), e sottolineo qualunque, Dio è venuto e nato per amarci. Sì, Dio ci ama!”.
“Mamma, chi è Dio?”, chiede un bimbo alla mamma. Come si fa a spiegare ad un bambino chi è Dio? La mamma, in difficoltà, lo prende fra le braccia, lo stringe forte al suo cuore, e gli chiede: “Ora cosa senti?”. “Sento che mi ami, mamma”. “Bene: questo è Dio, figlio mio!”.
Per Dio noi siamo tutti figli unici, amati, cercati, desiderati, voluti. Se c’è una cosa di cui mai, mai, mai, dobbiamo dubitare è dell’amore di Dio. Perché Dio è venuto per questo.
Noi siamo come i bambini: abbiamo bisogno di aiuto, perché non possiamo farcela da soli; abbiamo bisogno di coccole, di amore, di tenerezza, di carezze; abbiamo bisogno di piangere quando siamo tristi. Come i bambini, abbiamo bisogno di crescere, di non pensare di essere già grandi o arrivati, abbiamo bisogno di lasciarci andare, di ridere a crepapelle, di gioire e di star bene; abbiamo bisogno di dire a chi amiamo quanto lo amiamo, e di dirglielo con tutta l’intensità che sentiamo nel nostro cuore. Come i bambini, abbiamo bisogno di sognare, di vederci in grande, di puntare a cose importanti; abbiamo bisogno di presenza, di attenzioni, di essere rassicurati, protetti, abbracciati, consolati.
Dio stesso si è fatto bambino, debole, bisognoso, per farci accettare di essere anche noi deboli, vulnerabili, bisognosi di Lui.
Allora il nostro Natale quest’anno sia così: fermiamoci un istante fuori dal chiasso festaiolo di questo mondo, chiudiamo gli occhi per sentire la sua presenza, per ascoltare la sua voce: perché Lui c’è. Qualunque cosa succeda fuori di noi, qualunque tempesta o uragano ci investa, qualunque cattiveria ci ferisca, qualunque evento contrario si abbatta su di coi, noi sappiamo che Lui dentro di noi c’è sempre. Lui è di casa: e per noi questo vuol dire sicurezza, vuol dire un buon Natale oggi, domani, dopodomani, sempre. Perché ogni giorno, insieme a Lui, sarà per noi un magnifico Natale. Amen.



giovedì 15 dicembre 2016

18 Dicembre 2016 – IV Domenica di Avvento

«Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,18-24).

Il vangelo di oggi introduce una nuova figura, quella di Giuseppe, lo sposo di Maria. Contrariamente a Luca che ci racconta il Natale dal punto di vista della Madre Maria (annunciazione, visita ad Elisabetta, Magnificat, nascita e arrivo dei pastori, ecc.), Matteo lo racconta dal punto di vista del padre.
“Così fu generato Gesù Cristo…”.
Ebbene, anche questa volta, per capire meglio il significato più profondo del testo, dobbiamo leggerlo nel suo insieme, ricollegandolo a ciò che lo precede.
In questo caso dobbiamo andare proprio all’inizio del vangelo di Matteo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda, ecc” (Mt 1,1) e via di seguito, con una sfilza di nomi, qualcuno noto, moltissimi sconosciuti, dei quali ogni volta si dice che “generò” un altro, fino a Gesù. Una pagina narcotizzante, pesante e monotona, la cui proclamazione liturgica è fatalmente destinata ad una micidiale storpiatura dei nomi da parte di ministri in evidente difficoltà biblico-linguistica.
Succede perché noi non ricordiamo o non conosciamo affatto chi c’è dietro questi nomi: se infatti andiamo a vedere meglio, notiamo delle cose per noi incredibili, come per esempio l’aver inserito nella genealogia quattro donne, una scelta strana, inusuale, poiché le donne non apparivano mai nelle genealogie; e cosa ancor più strana è che Matteo, invece di scegliere quattro eroine nazionali, le sante di Israele, come per esempio Ester, Giuditta, Debora, Susanna, ricorda qui quattro donne moralmente discutibili, quattro donne che hanno in comune una situazione irregolare sul modo in cui sono diventate madri e un’astuzia potente su come sono uscite da situazioni difficili: così Tamar (Gn 38) una straniera, rimasta vedova, che pur di non rimanere senza figli si unisce con Giuda, il suocero, il quale sconsolato per la morte della moglie cercava conforto con le prostitute. Racab (Gs 2), la tenutaria del bordello di Gerico, che accoglie in casa sua le spie israelite inviate da Giosuè. Rut (Rut 3-4) la moabita, che rimasta vedova individuò nell’anziano ma ricco Booz la soluzione dei suoi guai. E mentre Booz dormiva, Rut si infilò nel suo letto e da quell’unione nacque Obed, nonno del re Davide. Infine Betsabea (2 Sam 11): Matteo neppure la nomina, tanto la disprezza; dice “la donna di Uria”, la quale finché il marito era in guerra, sedusse con la sua bellezza il re Davide, da cui ebbe Salomone, che lei riuscì a mettere sul trono al posto del legittimo erede Adonia.
Donne antenate di Gesù, quindi, che non furono per niente modelle di santità. Furono donne scaltre, furbe, che utilizzarono le armi della seduzione e della sessualità per arrivare là dove volevano arrivare.
È chiaro che la preoccupazione di Matteo non è quella di redigere un documento storico: quello che gli preme è l’aspetto “teologico”. Egli vuol dare qui un messaggio ben preciso, che tradotto suona così: “Non vi scandalizzate per la situazione di Maria, rimasta incinta all’insaputa del marito Giuseppe. Come potete vedere, anche le sue antenate hanno vissuto situazioni irregolari ma, nonostante ciò, si sono messe al servizio di Dio, assicurando la continuità del Suo disegno salvifico e della storia del Suo popolo. 
Esse, con la loro maternità ottenuta con mezzi irregolari, hanno dimostrato come il piano di Dio possa seguire anche delle vie imprevedibili, inattese, spesso incomprensibili”. Si sono messe a disposizione, con la loro femminilità, al progetto divino della vita, diventando testimoni dell’azione imperscrutabile dello Spirito; la loro maternità, ingiustificabile secondo la legge umana, è diventata prefigurazione profetica di un’altra maternità, altrettanto ingiustificabile secondo la legge umana: quella di Maria, una giovane donna galilea, promessa sposa di quel Giuseppe che con la sua discendenza lega Gesù al ramo davidico.
Ma la catena di ben 39 “generazioni” è stata improvvisamente interrotta una volta giunta al nome di Giuseppe: il testo cioè non prosegue dicendo, come ci saremmo aspettati, che “Giuseppe generò Gesù”; dice invece “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù che è chiamato Cristo” (Mt 1,16).
Tutta la generazione maschile di Gesù, quella che dava non solo la vita, ma anche la tradizione culturale e religiosa del popolo di Israele, si interrompe dunque con Giuseppe.
Come mai? Perché quello che Matteo vuol dire, è che con la nascita di Gesù si compie una nuova creazione. La creazione descritta nel primo libro della Genesi, con tutto quello che segue, appartiene alla storia passata: Gesù rompe con il passato, tant’è che non viene generato da Giuseppe, la genealogia passata si ferma con lui, egli rompe con la tradizione precedente, ne instaura una nuova, fonda una nuova economia. In questo senso è un sovversivo, un rivoluzionario, uno che ha messo dei paletti, uno che quando si riferirà ai suoi antenati, non li chiamerà mai “i nostri padri” ma sempre “i vostri padri” (Gv 6,49; Mt 23,32). Il creatore della nuova Genesi non poteva essere generato da un uomo: è Dio stesso che entra in Maria per abilitarla a questo nuovo corso.
Ma torniamo al vangelo odierno. “Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”.
Come abbiamo dunque visto, il testo che precede immediatamente queste parole, ci conduce passo passo fino ad incontrare questo sconosciuto Giuseppe, che Matteo qualifica come “lo sposo di Maria”.
È praticamente tutto quello che sappiamo di lui. Egli non pronuncia neppure una parola, degna di essere ricordata nei vangeli: è un uomo che vive nel silenzio, nella penombra, nell’oscurità, in punta di piedi. Improvvisamente, si trova a dover affrontare un problema estremamente delicato: Maria,la sua fidanzata, prima che essi iniziassero a vivere insieme, rimane incinta.
È questo il punto focale attorno cui ruota il racconto di Matteo: la gravidanza di Maria e la reazione incerta, dubbiosa, indecisa di Giuseppe.
Mettiamoci nei suoi panni: Egli trova incinta la sua fidanzata e ovviamente non capisce più nulla: è un uomo che precipita in una crisi profonda di fronte ad un evento che non comprende e ad una donna che non dice una parola. Si trova nel buio, nella notte, nel dubbio atroce.
Matteo sottolinea a questo punto che Giuseppe era “giusto”; per lui, preoccupato di sottolineare l’aspetto teologico delle cose, dare del “giusto” a Giuseppe significava riconoscere in quest’uomo la sintesi degli atteggiamenti dei giusti vetero testamentari: come per esempio Noè “che cammina con Dio” (Gn 6,9), o come Abramo che “credette in Jahweh, che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,4-6). I “giusti”, per la Bibbia, sono quindi tutti quelli che sono fedeli alla legge, quelli che osservano scrupolosamente ogni sua prescrizione.
Ora, in casi del genere, la Legge è chiara: “Ripudiala; anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere, che tu la denunci alle autorità perché la condannino a morte per lapidazione”.
Ma Giuseppe ama Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, è vero, perché lei lo ha tradito ed è rimasta incinta. Giustamente può condannarla. Se fosse stato “giusto” come intendiamo noi, Maria sarebbe stata lapidata, perché questo prescriveva la legge. Ma Giuseppe è “giusto” su un altro piano, la sua giustizia è un’altra. Egli non obbedisce alla legge antica; obbedisce al cuore, alla nuova legge dell’amore. Non è “giusto” secondo la legge, ma secondo l’amore. È “giusto” perché si rende aperto, operativo, disponibile ad accettare il progetto di Dio che attraverso la nascita terrena di suo Figlio, introduce nel mondo la nuova legge del cuore, dell’amore.
Egli pur sentendosi già inserito in questa nuova mentalità, in questa nuova visione delle cose, si trova comunque in conflitto con se stesso: rimanere fedele alla Legge o essere fedele all’amore? 
Giuseppe, pur ferito nel suo orgoglio di maschio, non se la sente di vendicarsi legalmente.
È per questo che decide di ripudiarla di nascosto. Il ripudio era molto semplice a quell’epoca: si poteva ripudiare la moglie anche per una pietanza bruciata o perché aveva parlato con qualcun altro. Bastava scrivere su di un foglio di carta: “Tu non sei più mia moglie” e la donna veniva cacciata via.
Ma Giuseppe non vuole denunciarla, non vuole far uccidere la propria sposa; però neanche la può tenere con sé, e così decide di ripudiarla in segreto.
“Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore”.
Nel mondo ebraico (dobbiamo ricordare che Matteo scrive per una comunità di Giudei) si evita il contatto tra Dio e gli uomini, si evita un contatto diretto con Dio. Allora Dio interviene in sogno. Il sogno, è pertanto il modo che Dio ha per comunicare con gli uomini. “Un angelo del Signore”: attenzione, non dice “un angelo inviato dal Signore”. Quando Dio interviene presso gli uomini viene raffigurato come “un angelo del Signore”; quindi “angelo del Signore” vuol dire Dio stesso. 
“Gli apparve in sogno”: Matteo in due capitoli racconta ben cinque sogni determinanti. Il sogno è un messaggio di Dio. Se accettiamo ciò che Dio tenta di dirci, allora non possiamo più far finta di nulla; la sua Parola non è mai uno sfizio della mente ma una spinta ad agire, a diventare consapevoli. È un cammino, una strada: ci possiamo credere o no, dipende da noi. La Parola di Dio però ci coinvolge sempre: altrimenti è solo una parola, solo una chiacchierata da salotto che non serve a niente.
La Bibbia è dunque ricchissima di sogni, perché Dio parla all’uomo sempre nel sogno, nel silenzio interiore: Giuseppe sposa Maria grazie a un sogno. I Magi non tornano da Erode grazie ad un sogno. Grazie ad un altro sogno Gesù non viene ucciso, perché Giuseppe crede al sogno e scappa in Egitto. Ancora un sogno dice a Giuseppe di tornare in patria e un altro ancora gli dice di non andare in Giudea, ma di portare Gesù in Galilea a Nazareth. Pilato, invece, non ascolta il sogno di sua moglie che gli dice che Gesù è innocente. E compie un crimine.
Ecco allora che anche noi, come Giuseppe, dobbiamo seguire i nostri sogni: anche se sono difficili, anche se richiedono cose che non avremmo mai pensato, soprattutto quando ci portano là dove non avremmo mai immaginato. In questi casi sicuramente la nostra prima risposta sarà negativa: ma l’angelo, la voce di Dio, ci dirà: “Non aver paura, non temere; io sono con te, ci sono io, buttati!”.
Dio, pone sempre l’uomo di fronte ad un dilemma: seguire la sua Voce che lo chiama, o seguire la paura che lo blocca e frena: “Lascia stare, è difficile, non è per te...”.
Giuseppe ebbe paura, ma si fidò dell’incredibile. Maria ebbe paura ma si fidò dell’impossibile. Abramo ebbe paura, ma si fidò ciecamente.
Tutti questi ebbero paura, tutti questi però seguirono i loro sogni, incredibili ma veri.
E ne valse sempre la pena. “Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”. Amen.