giovedì 18 febbraio 2016

21 Febbraio 2016 – II Domenica di Quaresima

«In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-36)

Per capire pienamente il vangelo di oggi, la Trasfigurazione di Gesù sul Tabor, dobbiamo fare un passo indietro. Poco prima di questo episodio, Gesù rivela ai suoi che Egli “deve andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani e dei sacerdoti; che verrà ucciso, ma il terzo giorno sarebbe risorto”(Mt 16,21).
La reazione di Pietro è immediata e più che ovvia: lo prende in disparte e gli assicura: “Questo non ti accadrà mai!”; ma Gesù, interpretando queste parole come un’azione di Satana, gli risponde seccamente: “Via da me, satana!”: ripete cioè le stesse parole che aveva usato nel deserto per il diavolo.
Come mai Pietro non accetta questo annuncio di Gesù? Perché non è per niente in linea con quello che i discepoli e la gente si aspettava da Lui, dal Messia. Tutti infatti pensavano a Gesù come ad un Messia trionfalistico; ad uno cioè che calcasse le orme di Mosè e di Elia, i due antichi personaggi, che nella mentalità comune rappresentavano la Legge e i Profeti, ossia la promessa di Dio; in altre parole, il massimo che per quel tempo si potesse immaginare. Come mai? Mosè era stato il grande liberatore e il grande condottiero che aveva liberato il popolo dalla schiavitù; era stato così grande e così vicino a Dio da ricevere le Tavole della Legge, e da poter ammirare la gloria stessa di Dio. Elia, invece, era stato il più grande profeta, colui che aveva ripulito Israele da tutti i falsi sacerdoti di Baal: in un solo giorno aveva ucciso 450 falsi sacerdoti (1Re 18,20-46), scannandoli con le proprie mani. Anche Lui aveva parlato e incontrato Dio.
Due personaggio insomma che, secondo la tradizione popolare, non sarebbero morti, ma rapiti in cielo (Dt 34,6; 2Re 2,11). Per questo tutti si aspettavano il loro ritorno alla fine dei tempi.
Cresciuti con queste convinzioni, i discepoli che seguono Gesù, si aspettano quindi che Egli assomigli a loro, che sia cioè, come Mosè ed Elia, potente, trionfante, giusto, liberatore. Non possono accettare un Gesù che parla di passione e morte: per le loro menti la morte è la fine di tutto, è il fallimento della sua missione.
E allora cosa fa Gesù? Prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo, (e siamo al vangelo di oggi), sale su un monte alto e si apparta a pregare.
E qui Gesù chiarisce le cose: Mosè ed Elia discorrono con Gesù. Non è più Gesù che deve essere come Mosè e come Elia, ma sono Mosè ed Elia che discorrono, che sono visti in funzione di Gesù.
Pietro, nonostante sia completamente rapito, frastornato da questa visione (“Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia”) continua a mettere Mosè e non Gesù al posto d’onore, al centro dei tre (al centro ci sta la figura più carismatica, quella più importante). Continua cioè a rimanere fisso e ancorato ai suoi schemi, continua a vedere Gesù come il Messia che tutti si aspettano. Ma Gesù non è così. E la voce di Dio scioglie ogni dubbio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. È Gesù che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in riferimento a Gesù.
E questo per noi costituisce un fatto importante ed emblematico: tutto l’Antico Testamento (la Legge e i Profeti), ha cioè senso, solo se passano attraverso Gesù. Se non è in sintonia con il messaggio di Cristo non ha valore per la vita del credente.
Gesù quindi delude le aspettative della gente e dei discepoli: non è come volevano che Lui fosse. Invece del Messia forte e potente, è un Messia sofferente e debole: Gesù non sarà come Mosè e non sarà come Elia: non romperà la testa e non ucciderà tutti gli operatori di iniquità di Gerusalemme, ma saranno loro, al contrario, a ucciderlo. Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta! Egli non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene le conseguenze: l’impopolarità.
Anche per noi, essere noi stessi, comporta spesso grossi disagi: ma il beneficio enorme che ne ricaviamo, è l’autenticità, l’essere felici di ciò che siamo, avere la forza di vivere la nostra vita dovunque ci porti, perché questa noi siamo. Essere noi stessi, essere veri, viversi, infonde vitalità e forza impagabili.
Qual è allora l’unica via sicura e infallibile per realizzarci? Vivere la nostra originalità.
Noi siamo unici: è per questo che ci siamo. Siamo tutti figli unici di Dio! Se non fosse così non ci saremmo, perché il nostro esserci non avrebbe senso. Le fotocopie in natura non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve.
La maggior parte delle persone, per essere accettata, per non essere allontanata, accantonata, tende a conformarsi agli altri, cerca di fare come fanno tutti. Per questo i bambini hanno la necessità di rimanere nel loro ambiente, nella loro famiglia; per questo si adattano, volenti o nolenti, a quanto viene loro richiesto. Un bambino non può permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia: ne morirebbe. Non gli rimane che adattarsi. Ma noi non siamo più bambini. Siamo grandi, siamo adulti, e siamo qui a questo mondo per vivere autonomamente il nostro destino, per compiere la nostra personale missione, per far emergere la nostra unicità, la nostra originalità. È ovvio che, se noi siamo noi stessi, normali, vitali, non assomigliamo a nessuno. Come è altrettanto ovvio che se siamo esattamente come gli altri, non siamo più noi stessi. Essere come tutti vuol dire pertanto aver fallito in pieno la nostra unicità.
Noi dobbiamo sempre andare avanti per la nostra strada. Nostro unico modello da seguire è Gesù che fu davvero unico, diverso da tutti, “fuori” da tutti gli schemi: chi segue Dio non può seguire nessun altro. Quando apparteniamo a Dio, infatti, quando lui è la nostra famiglia, non abbiamo più bisogno di cercare l’appartenenza a “famiglie umane”: perché allora siamo liberi da ogni appartenenza, siamo liberi dal doverci conformare agli altri per paura di rimanere soli o rifiutati. Noi apparteniamo a Lui; e se Lui è con noi, non siamo mai soli. La nostra libertà viene dall’appartenere a Dio: quando siamo Suoi non abbiamo bisogno di essere di altri. Se siamo di altri, lo ripeto, non siamo più Suoi!
La felicità viene dall’amore. Quando siamo innamorati lo capiamo subito! La vera felicità viene infatti dal sentire che qualcuno è con noi, che sta con noi, che è dalla nostra parte, che condivide tutto di noi. È una sensazione esplosiva, una vigorosa sferzata alle nostre potenzialità, una iniezione di forza, di coraggio di voglia di combattere e di andare avanti.
È la nostra trasfigurazione: è la forza che ci proviene dalla consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che dobbiamo fare: allora il tempo può anche scorrere intorno a noi, ma noi abbiamo un obiettivo ben preciso; allora viviamo ma la nostra vita, le nostre fatiche, le nostre lotte, hanno un senso ben preciso; allora non ci lasciamo distrarre da cose inutili, ma ci concentriamo in quella che è la nostra meta; allora ci rendiamo conto che la nostra esistenza, il nostro esserci, è in se stesso una benedizione per noi e per il mondo; allora capiamo che per noi è un bene esserci, non per essere accettati da tutti, ma perché la Vita ha bisogno di noi.
Quando poi arriveremo a capire anche che tutto ciò che abbiamo vissuto nella nostra vita è nostro e ci riguarda, che tutto “doveva” essere proprio così, e che è bene che sia stato così, che non poteva essere altrimenti, allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato al suo posto: perché capiremo e accetteremo che tutto “viene da Dio”.
Di fronte ad una esperienza dolorosa, infatti, noi abbiamo due modi di porci: una negativa, di fastidio, di repulsione: “Perché proprio a me? Cos’ho fatto io di male da meritarmi questo? Non lo accetto!”. L’altra positiva: “Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, con questa prova? Cosa vuole insegnarmi? Che messaggio devo cogliere per il mio bene?”. Ebbene: quest’ultimo è il presupposto giusto per adeguarci umilmente al volere divino, perché nulla di ciò che ci accade è senza senso, nulla senza un significato recondito importante; tutto, invece, contiene un messaggio, un suggerimento per noi, e per questo dobbiamo imparare a decifrarlo; tutto ci riguarda, tutto serve per la nostra missione. La vita allora non è più questione di fortuna o di sfortuna, ma tutto ciò che succede è un modo con cui essa cerca di aiutarmi, con cui mi allena a tirar fuori le mie capacità, ciò che sono.
Dobbiamo solo smetterla di lamentarci, di fare le vittime, perché in questo modo rischiamo di sabotare sistematicamente la nostra vita, non sapendo cogliere i tanti inviti alla felicità.
Impariamo a “trasfigurarci”: sì, perché “trasfigurazione” significa “felicità”. È stato così per Gesù: con la sua trasfigurazione Egli ha guardato dentro di sé, ha avuto l’esatta immagine di se stesso, e si è sentito approvato e confortato dalla voce del Padre. È così anche per noi. La felicità sta tutta qui: guardarsi dentro, vedere la vera faccia delle cose; non quel che appare all’esterno, l’immagine esteriore, ma quello che c’è all’interno (la tras-figurazione, l’essenza). Trasfigurazione infatti è quando percepiamo al di là dei nostri limiti e della nostra debolezza, chi noi siamo e cos’è la nostra vita. È andare all’essenza, al centro delle cose; è la visione della realtà. La nube, la quotidianità, la forma, la materia, spesso la nasconde: ma la nostra trasfigurazione, il nostro sguardo carico di luce divina, la penetra, permettendoci di vedere distintamente l’essenza, la bellezza della vita.
La vita è lavoro e durezza ma in certi giorni, sentendoci pienamente soddisfatti e realizzati, ci viene anche da dire: “Ora potrei anche morire, tutto il bello che poteva capitarmi, l’ho provato, ne sono pieno!”; ebbene, questa è trasfigurazione, è felicità.
Un fiore, un tramonto, il volo degli uccelli, non è niente di particolare: ma se lo “guardiamo”, entriamo dentro e possiamo emozionarci per ciò che vediamo. Non siamo matti, infantili o femminucce: è trasfigurazione. Se ci capita di piangere, di commuoverci rimanendo estasiati e senza parole di fronte a parole come: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta, aspettiamo un figlio!”, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di prendere in braccio nostro figlio appena nato, di guardarlo e di chiederci: “Viene da me? L’ho fatto proprio io?”, e di rimanere attoniti, increduli di fronte a tale miracolo, tanto da non volerci più distaccare da lui, ebbene, questa è trasfigurazione.
Se ci è capitato di piangere solo perché eravamo felici, per nessun altro motivo, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per qualcuno, di provare un’emozione che fa battere all’impazzata il nostro cuore, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la poesia, per la verità e decidiamo di voler vivere solo per questi ideali, ebbene: anche se il mondo ci tratterà da matti, noi conosceremo la felicità. Se ci è capitato un fatto che ci ha stravolto la vita, che ci ha salvato, per cui non siamo e non vogliamo più essere quelli di prima, sentendoci intimamente “toccati”, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati, osteggiati, accantonati per ciò che crediamo, per le nostre idee ma, pur soffrendo, non siamo scesi a compromessi, non abbiamo patteggiato, ma siamo rimasti noi stessi, autentici, questa è trasfigurazione. Allora possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo e il coraggio di un guerriero.
Il monte della Trasfigurazione è la nostra anima, il nostro cuore: lì noi capiremo l’essenziale. Lì sentiremo la voce di Dio che ci dice: “Tu hai il diritto e il dovere di essere felice: di una felicità che non è possedere, ma di far vivere la luce, la missione, la vita, le doti, che sono in di te”.
Ecco: Dio è in ognuno di noi e chiede di essere manifestato. Noi siamo in Dio e non abbiamo nulla da temere perché siamo al sicuro: la nostra felicità sta quindi nel poter scorgere questa luce che è in noi, nel poter scorgere il Divino, la Bellezza assoluta che risiede in noi, e di testimoniarla a tutto il mondo. Noi abbiamo bisogno di questa bellezza. Impariamo allora ad esclamare più spesso: “che bello!”. Quando entriamo in chiesa per la Messa, gridiamolo nel nostro cuore: “che bello!”. Ripetiamolo quando ci alziamo, nel silenzio, nel canto, nell’omelia, nella comunione: “che bello!”. La Messa che noi celebriamo la Domenica deve sempre essere il nostro salire sul Tabor per riempirci occhi e cuore della bellezza di Dio. Facciamo delle nostre liturgie, dei momenti di bellezza! Bellezza della Parola, degli arredi, del canto, del silenzio, dello stare insieme come comunità... Non adagiamoci mai sulla bruttezza; il nostro sguardo non indugi continuamente su ciò che non va bene! Il nostro dovere di cristiani è di essere più contagiosi, più convincenti nel professare: “Signore, è bello per noi essere qui, alla tua presenza!”.
Un giorno un ciliegio chiese ad un mandorlo: “Parlami di Dio!”, e il mandorlo fiorì!... e fu per lui trasfigurazione, fu per lui bellezza!  Amen.




giovedì 11 febbraio 2016

14 Febbraio 2016 – I Domenica di Quaresima

«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).

Il vangelo di oggi parla delle tentazioni di Gesù: ha da poco ricevuto il battesimo, e sente ancora dentro di sé tutta la forza del riconoscimento di Dio: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.
Ed è proprio quando si sente forte, proprio quando è “pieno di Spirito Santo”, che arriva la tentazione: lo Spirito lo “conduce” nel deserto, ossia nella solitudine assoluta, nel profondo del proprio io, dove nessun altro può entrare.
Vedremo che anche satana lo “conduce”: ma nella tentazione, in quelle situazioni in cui egli può sferrare il suo attacco e indurre al male. Il termine ebraico “nahas”, con cui la Genesi indica il serpente tentatore, colui che ha sedotto Adamo, deriva infatti dal verbo “nahoh”, che vuol dire appunto “condurre, accompagnare”.
Per noi il serpente è sempre stato simbolo del peccato e del male: quando l’uomo è solo con se stesso, sovente in preda allo sconforto a causa delle sue miserie, è lui che entra in azione cercando con tutti i mezzi di indurlo, approfittando della momentanea debolezza, al totale e definitivo allontanamento da Dio.
“Nahas” infatti, oltre che “condurre”, vuol dire anche “barriera, ostacolo”: è quella “prova” cioè che dobbiamo affrontare con decisione, quella tentazione che dobbiamo superare con forza, anche se spesso richiede grande impegno e fatica, quel fiume che dobbiamo oltrepassare per poter continuare il cammino che ci assicura la presenza di Dio in noi e l’unione al suo Amore misericordioso.
In greco “tentare, mettere alla prova” si dice “peirasmos”, che vuol dire “verificare”. Scopo della tentazione, pertanto, è quello di “verificare”, di fare cioè chiarezza su chi realmente siamo, sulla sincerità delle nostre scelte, stabilire se la nostra vita spirituale è solo di facciata, oppure se poggia saldamente sulla solidità della nostra fede; ci rivela, insomma, chi siamo noi per davvero, per consentirci di correre ai ripari e poter eventualmente sistemare quelle falle, fortificare quelle debolezze, che piacciono tanto a Satana, sempre pronto a minare e distruggere il nostro habitat interiore.
La Bibbia conferma questo concetto, quando dice: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore” (Dt 8,2).
In questo senso i profeti, i santi, sono stati tutti tentati, tutti hanno dovuto fare i conti con le tentazioni. Tentazioni che non sono affatto un male, non sono un peccato, ma al contrario sono un bene, poiché ci mettono in condizione di dimostrare a Dio e a noi stessi la piena coerenza con i principi che professiamo. Diventano un male esclusivamente nella malaugurata sorte che noi stoltamente le assecondiamo.
In passato l’ordine tassativo era: “Evitate le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa già nel fare un qualche pensiero men che nobile, magari un po’ cattivo, perverso, di odio, di rabbia, di impudicizia. “Non si devono fare pensieri del genere”, ci dicevano, “guai a chi li fa!”. Ma in realtà le tentazioni non si possono evitare.
La tentazione si limita a dire: “Controlla quanto sono profonde le tue radici. Guarda su quali forze puoi contare. Verifica bene se la persona che credi di essere, è vera, autentica”. Le tentazioni sono insomma il nostro momento di verità, di libertà.
Nel deserto Gesù esercita infatti la sua libertà e dice “no” ai modi di vivere e di pensare prospettatigli da satana; e dice “sì” ad un altro stile di vita, quello per cui era venuto nel mondo. Un vangelo dunque, questo di oggi, che decisamente ci conforta, perché ci dice che anche Gesù subì il fascino del potere,anche Lui sentì l’attrazione di usare per sé e per la propria immagine tutto il suo carisma: ma ci conforta ancor più il fatto che la scelta finale fu soltanto sua, coerente con la sua missione, decisamente contraria alle seducenti prospettive dei suggerimenti di Satana.
Nel deserto inoltre Gesù digiuna. Purtroppo oggi noi non capiamo il grande valore del digiuno e per questo non lo pratichiamo più. Il digiuno non consiste solo nell’astenersi dal cibo, nel non mangiare carne (astinenza) o nel sacrificarsi per chissà cosa. Praticare il digiuno è questione soprattutto di mettere da parte, di liberarci dalla nostra fatua esteriorità, dalla nostra superficialità, dalle nostre stupide impuntature, dalla nostra ricerca di adulazioni, per “autenticarci”, per rendere cioè la nostra vita vera, autentica, coerente, sincera.
Noi mettiamo molto impegno nel curare il nostro benessere materiale, il nostro aspetto esteriore; ebbene: altrettanto, e ancora più, dobbiamo metterne per accrescere, per salvaguardare il nostro benessere spirituale: purtroppo però noi accantoniamo volutamente il problema, cerchiamo di neutralizzarlo, di soffocare, di ignorare le nostre voci interiori, le sollecitazioni della nostra coscienza che ci scuotono dentro.
Oggi, purtroppo, per calmare queste tensioni interne, molti ricorrono addirittura alla droga: la cocaina, per esempio, è molto diffusa ed in continuo aumento, perché offre ad una esistenza infelice e disperata, una parvenza di felicità; altri si buttano nel bere e nell’alcool per annegare tutto il disagio che sentono dentro; si riempiono di cibo per non sentire la fame di amore che bussa al loro cuore. I più, invece, per dare importanza e senso ad una vita senza senso, si immergono completamente nel lavoro, nelle occupazioni esteriori; tutti, insomma, hanno bisogno di ricorrere ad eccessi, a provocazioni, al chiasso, alla sazietà, per non sentire le urla di ribellione di una vita interiore ormai moribonda.
Fuggono dal deserto, fuggono dal silenzio, dalla solitudine interiore; hanno il terrore di scoprire la triste realtà che inesorabilmente emerge nel confronto interiore con noi stessi.
Ma è un fuggire invano: lo Spirito, come ha fatto con Gesù, ci spinge, anzi talvolta ci caccia a spintoni, nel nostro deserto. Non abbiamo alternative, è là che dobbiamo andare; è là che dobbiamo scendere per fare i conti con la nostra coscienza. È Dio che lo vuole. Perché se non ci decidiamo di affrontare con coraggio i nostri demoni interiori, non ne verremo mai fuori, saremo sempre in loro balia: perché satana gioca sull’illusione. Egli cerca con grande astuzia di staccarci dalla nostra realtà, di farci evadere. Cerca di insinuare sempre il dubbio sulla bontà delle nostre scelte. Ci riempie di falsi miraggi; di eventualità praticamente irrealizzabili, di possibilità inesistenti, che non ci sono.
Anche Gesù, come ci descrive il vangelo di oggi, ha subito questi attacchi di satana: la prospettiva cioè di ottenere tre soluzioni molto accattivanti, legate soltanto a tre “condizioni”: “Se tu sei figlio di Dio (4,3); se ti prostri dinanzi a me (4,7); se tu sei figlio di Dio (4,9)”.
Sono le tre tentazioni di Gesù che costituiscono in qualche modo, il modello, la sintesi operativa di tutte le tentazioni.
La prima tentazione è: “Trasforma questa pietra in pane” (4,3): riguarda il piacere; tutto deve contribuire a soddisfare i nostri desideri, i nostri scopi. Per raggiungere il benessere, per trarre il massimo godimento da questa esistenza, ogni mezzo va bene: aiutiamo gli altri solo per essere ammirati; utilizziamo la nostra posizione per soddisfare il nostro orgoglio, per sentirci “più” degli altri; sfruttiamo parenti, amici, conoscenti per sentirci “qualcuno, per la gioia di sentirci ammirati, invidiati, sempre al centro dell’attenzione di tutti.
La seconda tentazione, “se ti inginocchi, tutto sarà tuo” (4,6), riguarda il possesso; vogliamo possedere tutto e tutti, per raggiungere emozioni sempre nuove. Poiché conosciamo la nostra debolezza, la nostra fragilità, tentiamo di sottomettere gli altri, per dimenticare la nostra vulnerabilità, il nostro essere feriti, la nostra debolezza endemica. Quante volte sentiamo il bisogno di sottomettere chi ci è vicino, di dirigerlo, di tenerlo in pugno, per sentirci forti, invulnerabili, superiori a tutti! Ma pur ostentando sicurezza, padronanza delle situazioni, delle persone e delle cose, finiamo sempre per essere fagocitati dalla nostra fragilità, dal nostro essere in fondo tante nullità.
La terza tentazione: “Buttati giù dal pinnacolo perché gli angeli ti sosteranno” (4,9-11): riguarda la potenza, il credere di poter fare tutto. È soprattutto una tentazione religiosa: usiamo Dio per i nostri scopi, ci sentiamo onnipotenti, ci sentiamo altrettanti Dio. Quante persone giustificano, come “volere di Dio”, leggi e precetti che sono solo degli uomini. Quante guerre, quanti sensi di colpa, quante umiliazioni e condanne sono state inflitte all’umanità con la scusa di fare la volontà di Dio!
Nessuno può permettersi di discriminare un fratello accusandolo di essere un peccatore recidivo, di non vivere in unione, in “grazia” con Dio. Mai ergersi a giudici: tantomeno gli educatori, che nel loro ministero pastorale usano un potere che non è il loro! Non usiamo mai Dio per dimostrare la nostra forza, il nostro potere; non usiamo Dio per i nostri scopi, per le nostre finalità, neppure per quelle positive. Dio non si usa: si deve solo amare e seguire. Non facciamo dire a Dio quello che ci suggerisce il nostro orgoglio. Troppe persone sono convinte di essere onnipotenti: per il fatto che possono gestire milioni di euro, influenzare banche, creare e dirigere flussi finanziari, si sentono altrettante Dio, sono convinte che tutto dipende da loro e che possono permettersi qualunque cosa. Per questo cercano insistentemente il massimo consenso, l’approvazione generale, la notorietà: i fratelli non sono più persone, ma merce da sfruttare e da sottomettere al loro delirio di onnipotenza. Purtroppo, non si rendono conto che questo tipo di “potere”, questa superiorità assoluta, questo coro unanime di riconoscimenti, peraltro tributati spesso per interesse, portano inevitabilmente all’ubriacatura della ragione e del buon senso; e quel che è peggio, inducono a rimuovere qualunque necessità di “deserto”, annullando conseguentemente la possibilità di un esame, critico ma salutare, con la loro coscienza. Farsi come Dio, è stato il grande peccato di Satana, di Adamo ed Eva: volevano infatti diventare ciò che non avrebbero mai potuto diventare.
Il vangelo si conclude infine con l’annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato” (4,13). Che in altre parole vuol dire: attenzione, non illudetevi che, superata una prova importante della vita, tutto sia definitivamente risolto: a tempo “debito” altre prove torneranno, altre tentazioni puntualmente si presenteranno. Sarebbe bello dire: “Questa cosa l’ho affrontata, ora sono a posto”. Invece, a livelli sempre diversi, saremo continuamente sotto esame. Ed è bene che sia così perché ogni prova superata, ci fortifica, ci radica sempre di più nel mistero di Dio e della Vita.
Penso infatti che la più erronea tentazione sia quella di fuggire le tentazioni, di evitarci cioè un’esperienza, difficile e spesso dolorosa, ma fortificante e gratificante. Darsi alla fuga davanti ad una tentazione, pur sembrandolo, non è mai una soluzione: perché nessuno può evitare il proprio “deserto”; anzi, bisogna rimanerci dentro tutto il tempo che serve. Amen.




mercoledì 3 febbraio 2016

7 Febbraio 2016 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”». 
(Lc 5,1-11).

Gesù raduna attorno a sé un primo gruppetto di discepoli per un motivo molto semplice: lo devono seguire; perché? Perché devono osservare, devono guardare con attenzione quello che Lui fa e come lo fa, devono imparare il suo modo di agire, devono capire bene quello che Lui dice, per poi essere in grado di comportarsi esattamente come Lui.
Un giorno infatti manderà anche loro per le strade del mondo: “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc 10,1-20)
In qualunque scuola di vita, non è possibile rimanere eternamente discepoli. Ad un certo punto bisogna diventare maestri, diventare adulti, crescere, e muoversi in autonomia.
Non è possibile continuare per tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o agli altri; non possiamo essere soltanto passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo finta di non avere doti e capacità; non possiamo pretendere di rimanere sempre bambini. Dio ci chiama e manda anche noi a compiere la nostra missione.
Il vangelo non è un circolo chiuso: il vangelo è andare appunto nel mondo per cambiare il mondo. Il vangelo è missione, è portare la vita, la passione, il fuoco, la luce, la verità, dove non ci sono. 
Il vangelo è come la scuola: si studia per tanti anni e ci si specializza in una determinata disciplina, non per il piacere personale di studiare e basta, ma per diventare un domani degli esperti professionisti! Allo stesso modo dobbiamo andare a scuola di Gesù non per rimanere sempre dei bambini piccoli che hanno bisogno di ricevere tutto, ma per diventare degli altri Gesù, degli adulti che lo rappresentano e lo fanno conoscere al mondo intero.
Ed è normale: noi abbiamo ricevuto una grande gioia, come possiamo tenerla per noi? Abbiamo scoperto un tesoro meraviglioso: come facciamo a tenerlo nascosto? Abbiamo scoperto ciò che ci fa vivere: e noi vogliamo che tutti possano scoprire la vera Vita, perché tutti si appassionino e si riempiano di questa “meraviglia”!

Il vangelo di oggi ci descrive dunque la chiamata dei primi quattro di questo gruppetto: i due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni, anch’essi pescatori, ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, un’impresa di pesca).
Siamo sul lago di Genèsaret: il lago indica la condizione di vita di questi pescatori. La superficie del lago è liscia, immobile, tranquilla, esattamente come la loro vita, una vita di “superficie”. Non sono cattivi, non è gente di malaffare, tant’è che concedono a Gesù di usare la loro barca. Pensano che la vita sia tutta qui. Pensano che questo sia l’unico modo di vivere. Neppure sanno come si può vivere fuori dal loro ambiente!
Forse non si sono mai posti, come del resto neppure noi, la vera domanda, quella dura, quella a cui non si può scappare: “Ma io sono davvero felice della mia vita?”. C’è fuoco, c’è passione nel mio agire? C’è luce nei miei occhi? C’è sole nel mio viso? C’è profondità nelle mie parole?” Sono domande che anche noi forse non ci siamo mai poste, preferiamo ignorare il problema e la sua soluzione, e dobbiamo ammettere: “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo in lungo e in largo, tanto e sempre, ma dentro di noi non rimane nulla, non si pesca, le reti della nostra anima sono sempre vuote.
La realtà è che se continuiamo a vivere nella superficie, non potremo mai essere felici: lì, a quel livello, non prenderemo mai alcun pesce.
I quattro apostoli, dopo una nottata infruttuosa, stanno lavando le reti: stanno cioè esaminando la loro situazione; e ascoltano la voce di Gesù. Improvvisamente sentono una vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni “nuove”, emozioni che ridanno vita; sentono in cuor loro che la via che Gesù mostra loro è quella “vera”; sono parole che li spingono ad osare. E che fanno? Accettano e lo seguono. Fanno umilmente tutto ciò che Lui chiede loro.
Sì, perché nella vita, prima o poi, arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la barca è pronta, l’equipaggio c’è, l’occorrente per la pesca pure. Dobbiamo soltanto sciogliere la corda, staccarci dalla riva e inoltrarci nel mare. O andiamo o stiamo fermi. Non ci sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, oppure continuiamo a rimanere fermi lì, per sempre.
Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare. La nostra adesione si chiama semplicemente fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci fidiamo di Lui. “Cosa succederà? Che fine faranno quelli che noi amiamo? Perderemo qualcuno? Soffriremo? E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo i dubbi, la paura, non prenderemo mai il largo.
Gesù non fa mai tanti discorsi: seguirlo o non seguirlo non è questione di essere convinti o meno; ma di amore e di fiducia. Non lo seguiremo perché ci ha convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo essere e vivere.
Le proposte di Gesù sono sempre grandi, larghe, profonde, di ampie visioni: ci costringe cioè a metterci completamente in gioco. Gesù ci fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare e ci fa vivere ciò che neppure pensavamo esistesse. Quelli che lo incontravano per le strade della Palestina gli dicevano: “Tu sei la Vita”: perché Lui effettivamente faceva vivere!

A Simone dunque Gesù dà due ordini, semplici, decisi e chiari.
Il primo: “Prendi il largo” (5,4). Una richiesta che non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: parti verso l’ignoto, esci fuori dai tuoi soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare e di fare, e inoltrati nella vita. “Ma io ho paura, è rischioso!?”. Lo so. Ma quando è necessario farlo, si fa; quando si deve andare, si va. Il treno passa una volta nella vita: tocca a noi prenderlo: nessuno può farlo per noi. O noi o nessun’altro.
Quante persone si esimono dicendo: “Non è per me; sarebbe bello, ma bisogna essere realisti; non ne sono capace” e si convincono di questo. In realtà dovrebbero più onestamente ammettere: “Ho paura”.
Viviamo sempre negli stessi posti, frequentiamo sempre le stesse compagnie, il solito giro di conoscenze che ormai non ha più nulla da offrirci? “Prendiamo il largo!”. Frequentiamo i soliti amici e colleghi con cui parliamo soltanto di lavoro, di sport, di donne, di soldi? “Prendiamo il largo!”. Continuiamo a frequentare sempre quel certo ambiente molto “sofisticato”, anche se è opprimente e carico di pregiudizi, di occhiate taglienti, di sguardi velenosi, di invidie, di maldicenza? “Prendiamo il largo!”. Abbiamo sete di ricerca della verità, di scoprire i valori autentici della vita, di capirne a fondo i perché? “Prendiamo il largo!”. Non accontentiamoci delle risposte preconfezionate, classiche, di parte, ma immergiamoci con decisione nel cuore della Vita.
Non per nulla l’altro invito che Gesù rivolge a Simone è: “Cala le reti”. Cioè: “Vai dentro al problema; vai a fondo; immergiti nel mistero della Vita”. La Vita infatti non è una disciplina scolastica che va insegnata: si possono al massimo indicare dei percorsi, fornire delle indicazioni, piantare dei “paletti”; ma la Vita, per conoscerla, bisogna sperimentarla; bisogna viverla, bisogna necessariamente “immergersi” in essa: non per caso il battesimo (baptizein) vuol dire proprio “immergersi”.
Non basta sapere che Gesù era Figlio di Dio: Sì, certo, è già un bel passo in avanti! Ma con questa conoscenza saziamo soltanto il nostro cervello, la nostra intelligenza, ma non il nostro cuore. Per saziare la nostra sete di amore, dobbiamo scoprirlo noi personalmente cosa vuol dire “Figlio di Dio”! Entriamo dentro il suo cuore e scopriremo “come” era Figlio di Dio.
Sappiamo pure che anche noi siamo figli di Dio. Certo che sì! Ma saperlo non basta, non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita. “Prendiamo il largo”, entriamo dentro, immergiamoci in Lui, e capiremo finalmente tutta la forza, la potenza, la dignità di essere figli suoi.
Egli ci ha “chiamati” a compiere la nostra missione: ma come? Ognuno lo deve scoprire dentro di sé. Dobbiamo tutti entrare dentro di noi: non c’è altra strada.
Del resto tutto ciò che è grande e vero, avviene “dentro”. Il bimbo inizia la sua vita dentro la madre; la gioia, il dolore, la rabbia, sono sentimenti che nascono dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra mente; il sangue che è vita, scorre dentro il corpo, dentro le vene; la linfa, è dentro l’albero; l’amore, è il sentimento interno con cui accettiamo l’altro o veniamo accettati e accolti per quello che siamo; la fede, è una percezione interiore; Dio, è un mistero da penetrare, da conoscere, da entrarci dentro; lo Spirito, è Dio dentro di noi; il corpo di Cristo,l’Eucaristia, lo mangiamo e va e finire dentro di noi; così per ascoltarci, dobbiamo entrare dentro di noi; la vera intimità, è l’incontro interiore delle anime e dei cuori di due persone.
La Vita vera, insomma, scorre dentro! La vita che osserviamo all’esterno è solo il riflesso della vita che abbiamo dentro.
Luca, a differenza degli altri evangelisti, descrive in maniera singolare la “chiamata” dei quattro: a lui interessa in particolare la figura di Simone: è sulla sua barca infatti che Gesù si siede, invitandolo ad allontanarsi dalla riva e dalla ressa della folla. Ed è sempre su Simone che Luca focalizza l’attenzione.
Quando infatti Simone si rende conto di come può vivere seguendo le direttive di Gesù (la rete è piena, stracolma di pesci!), viene assalito immediatamente dalla paura: “Allontanati da me perché sono peccatore”. Cosa avrà voluto dire con questa espressione?
Prima di tutto che lui non si sente degno: è convinto di non poter vivere così, di non essere all’altezza. “Sarebbe bello, mi piacerebbe tanto, ma non ce la faccio! Non ne sono capace!”. La gente troppo spesso ha paura di essere felice.
Secondo poi, che si sente in colpa per aver sprecato tanto tempo (una notte intera) per non pescare nulla. Una delle sensazioni più amare della vita è quella di renderci conto di averla completamente sprecata: un bel mattino ci svegliamo felici e contenti scoprendo quanto sia inebriante e meraviglioso vivere; e constatiamo amaramente di non aver mai vissuto in tale stato di grazia! Pensavamo che la nostra fosse “vita” e invece era solo un “vegetare”. E questo ci fa veramente male.
In terzo luogo Pietro si rende conto del suo “peccato” di valutazione: gettandosi in ginocchio riconosce di aver chiamato “vita” ciò che era “morte”. Per poter trovare la strada giusta, dobbiamo accettare di aver sbagliato. Perché se ci ostiniamo a percorrere una strada sbagliata, non arriveremo mai al traguardo che ci eravamo proposti. Dobbiamo essere umili. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che dovrebbe, ammettiamo semplicemente di aver sbagliato, lasciamola da parte, e incominciamone una nuova”.
Qui Pietro ha toccato, ha sentito, ha sperimentato cosa vuol dire incontrare il Signore: la sua vita era vuota, come la rete tirata su nella notte: ma con Gesù, improvvisamente, si è riempita di pesci fino a traboccare. Prima era pieno di paura, ma Gesù gli ha insegnato quanto sia bello mollare gli ormeggi e prendere il largo. Prima si accontentava di sopravvivere, ma Lui gli ha insegnato a raggiungere la vera Vita. Una Vita per la quale valeva la pena di lasciare tutto, di rischiare, di osare.

Ora capiamo perché Pietro si è comportato così; capiamo perché Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto. Cos’altro avrebbero potuto fare? Erano morti; ma sono stati “pescati” da Lui e riportati in vita; cos’altro avrebbero potuto fare se non diventare loro stessi pescatori di vita?
Comunicare Dio agli altri è molto più semplice quando noi stessi abbiamo incontrato il Signore: perché è sufficiente raccontare ciò che abbiamo sperimentato e vissuto personalmente: ognuno infatti trasmette agli altri con profitto soltanto quello che conosce molto bene, quello che appartiene alla sua esperienza, quello che appartiene alla sua vita.
Infatti, nessuno può insegnarci a “pescare” nel mondo, se non Colui che conosce magistralmente questo mestiere; come pure nessuno può insegnarci il Vangelo, se non Colui che per primo lo ha annunciato e lo ha vissuto personalmente. Andiamo allora umilmente, come Simone, a scuola da Colui che è la Vita; impariamo da Lui, facciamo quello che Lui ci suggerisce: solo così potremo passare agli altri ciò che noi siamo, ciò che viviamo, e la nostra “pesca” sarà miracolosa. Amen.



giovedì 28 gennaio 2016

31 Gennaio 2016 – IV Domenica del Tempo Ordinario


«All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino» (Lc 4,21-30).

Il vangelo di oggi continua e conclude il brano di domenica scorsa: siamo ancora nella sinagoga di Nazareth e tutta l’assemblea insorge contro Gesù. E Lui cosa fa? Invece di difendersi, attacca senza paura: “Nessun profeta è bene accetto in patria” (Lc 4,24). E si spiega citando in proposito due episodi dell’Antico Testamento, molto imbarazzanti per gli ebrei, al punto che essi da sempre preferiscono ignorarli. Di che si tratta?
Durante una lunga e tremenda siccità su tutto il territorio, a causa della carestia che aveva duramente colpito gli abitanti, si erano diffuse ovunque malattie mortali come la peste e la lebbra: il grande profeta Elia, però, non si fermò ad aiutare il suo popolo, ma preferì portare soccorso proprio a quelle persone che erano odiate e disprezzate dai suoi connazionali. Si recò infatti da una vedova pagana di Sarepta di Sidone, e a lei guarì il figlio morto (1Re 17,17-24).
L’altro episodio riguarda il profeta Eliseo, già discepolo di Elia: al suo tempo il territorio di Israele era pieno di lebbrosi, ma egli non guarì nessuno di loro: guarì invece Naaman il Siro, un militare pagano (2Re 5,1-14).
Gesù incalza quindi i presenti, ponendoli di fronte ad una tragica responsabilità: “Vi siete mai chiesto perché questi vostri grandi profeti sono andati l’uno a soccorrere una vedova pagana, invece di tutti i bisognosi che c’erano in Israele? E come mai l’altro, con tutti gli ammalati che c’erano qui da noi, ha guarito un unico pagano straniero?”. La risposta è chiara: “Perché qui non c’era fede! I vostri grandi profeti, quelli che voi stimate e di cui parlate sempre, se ne sono andati altrove, come me, proprio perché qui non poterono operare nulla”.
A queste parole scoppia il finimondo, tutti sono pieni d’ira: “Gesù ha superato ogni limite, bisogna fermarlo, bisogna fare qualcosa; non possiamo più lasciarlo agire indisturbato; quello che dice è inaccettabile. Deve essere eliminato”. E cosa fanno? Lo prendono, lo cacciano fuori e lo conducono sulla sommità del monte su cui erge la città, per gettarlo giù dal precipizio (Lc 4,29). E il testo termina con un’ultima amara constatazione: “Gesù se ne andò”.
Gesù dunque è costretto ad andarsene da Nazareth e dal suo paese perché i suoi compaesani, i suoi famigliari, quelli di casa sua, non lo vogliono. È cacciato fuori, eliminato, escluso perché scomodo, perché importunava, perché era un problema. Tra di essi c’erano solo pregiudizi, barriere, resistenze, difficoltà. Frequentavano regolarmente la sinagoga, è vero, avevano la religione, ma non avevano Dio. Pregavano dentro la casa di Dio, ma senza Dio. Innalzavano preghiere ma non pregavano. Avevano Gesù e lo hanno buttato fuori dalla loro vita.
A Nazareth quel giorno è successo proprio questo. I suoi compaesani quando hanno visto che Egli non era come lo volevano, lo hanno rifiutato. E rifiutandolo, hanno rifiutato proprio chi li poteva salvare, chi li poteva guarire, chi poteva cambiare la loro vita.
Ma non occorre risalire a Nazareth: anche oggi, anche noi, possiamo andare a pregare in chiesa ed essere senza Dio. Possiamo andare in chiesa ed essere indifferenti a Dio o addirittura contro Dio. Anche noi vogliamo spesso le persone diverse da come sono: le vogliamo identiche a come le immaginiamo, vogliamo i nostri figli in un certo modo, i nostri genitori, i nostri superiori in un altro modo ancora; vogliamo che quanti ci sono vicini corrispondano in tutto e per tutto a quelle che sono le nostre esigenze, le nostre vedute, le nostre aspettative; vogliamo insomma che il mondo sia soltanto come noi lo immaginiamo. Ma le persone non sono così, il mondo non è così: la realtà è un’altra. La realtà o la si accetta o la si rifiuta. Volerla diversa, significa voler evadere dal presente, dalle nostre responsabilità. Quante volte anche noi rifiutiamo situazioni, occasioni, incontri, esperienze che riteniamo ostili, difficili, non comprensibili. Invece, se avessimo un po' più di pazienza, un po' più di apertura mentale, un po’ più di umiltà e di amore, capiremmo che ciò che rifiutiamo potrebbe costituire al contrario la nostra salvezza.
Gesù viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio, da chi vuole modellare Dio secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze.
Essi avevano già in testa come doveva essere; sapevano già cosa avrebbe dovuto fare, quali miracoli, quali comportamenti: sapevano già tutto; Gesù non poteva essere diverso da come l'avevano in testa e quindi non poteva essere come lui dimostrava di essere. È per questo che un giorno lo uccideranno e, secondo loro, a ragion veduta: “Non è Dio”, cioè, “non è secondo il modello di Dio che vogliamo noi”. Finché corrisponde alle loro idee lo accolgono, ma quando si fa vedere per quello che è, lo escludono. Quante volte anche noi quando le persone non corrispondono ai nostri schemi, le eliminiamo dalla nostra vita: “fuori!”.
Ma allora che amore è il nostro se lo diamo soltanto a quelli che ci vanno a genio? Che amore possiamo ricevere da Dio, se siamo noi a stabilire come Lui deve essere e cosa deve fare?
In questo modo Dio Amore non potrà mai più manifestarsi a noi, perché il “nostro” Dio non è altro che un idolo che ci siamo costruito a nostra immagine e somiglianza. Per questo Gesù è costretto ad andarsene: anzi, non è lui che se ne va, siamo noi che lo buttiamo fuori.
Gli abitanti di Nazareth si sono lasciati condizionare dalla barriera del pregiudizio. “Non è costui il figlio di Giuseppe?”. Cioè: “ Ma chi si crede di essere? Lo conosciamo bene, non si desse tante arie, in fin dei conti è un poveraccio come noi”. Lo hanno etichettato. E di etichette, durante il suo peregrinare per le strade della Palestina, gliene piazzeranno molte altre: “amico dei pubblicani e delle prostitute, mangione e beone, uno che sta con la gentaglia”. Gesù, il figlio di Dio, è stato coperto da una valanga di insulti, di pregiudizi, di insinuazioni: tutto falso!
Credevano di sapere molto bene chi era Gesù. Credevano di conoscerlo. E, invece, erano colmi dei loro pregiudizi. Credevano di saper tutto su Dio. Credevano di non aver più niente da imparare. Credevano di credere. Per questo Gesù ha dovuto andarsene. Perché credevano così tanto in loro stessi, e solo in loro stessi, che non potevano vedere nient'altro che loro stessi. Se fossimo più attenti, se fossimo meno giudicanti, se fossimo più aperti, se fossimo più sensibili, avremmo l'umiltà di ascoltare prima di parlare, di conoscere prima di sentenziare.
Gesù non fu ucciso dagli atei o dai miscredenti ma dai credenti più credenti: così credenti, così pii, così zelanti, così pieni di loro stessi, da non avere più spazio per nient’altro di nuovo. Gesù annunciava la Buona Novella (il vangelo): fu ucciso non perché era buona ma perché era nuova. Gesù mandava in frantumi gli schemi, i pregiudizi, le visuali delle persone: in una parola, l'idea della Bibbia tradizionale. Annunciava un Dio diverso e i “fedelissimi” di quella che era la “tradizione”, non gliela perdonarono. Annunciava un Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare. Annunciava un Dio della vita, dell’amore, dell’onestà, della coerenza: insegnava che non ci può essere separazione tra ciò che si dice di credere e ciò che si fa materialmente, e i farisei se la legarono al dito. Annunciava un Dio della giustizia, un Dio che denuncia le falsità e le ipocrisie nascoste: i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con la tradizione, se la tradizione era nemica dell'uomo: e i rispettosi della regola, i “bravi”, i conservatori, si sentirono spiazzati nel loro orgoglio di unici fedeli alla Legge.
In questo vangelo dunque, Gesù, vistosi rifiutato, se ne va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la gente aspettava; ciò che gli stava a cuore era essere se stesso e mantenersi fedele alla sua verità e al suo Dio: per questo era il Messia.
Gesù è rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome, la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Gesù è un uomo compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto è compiuto”, Gesù esprime che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che poteva fare, l'ha fatto. Gesù ha compiuto la sua vita, il motivo per cui Dio lo aveva mandato e per cui era venuto a questo mondo.
Gesù non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: quando poteva lo attaccava direttamente; quando non c'era niente da fare se ne andava altrove. Perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
A Gesù non importava molto cosa diceva la gente di lui (e dicevano un sacco di cattiverie!). Non gli importava di salvare la faccia, di essere gradito, ammirato, accettato. Per questo era un uomo libero. Per questo poteva dire le cose come stavano; per questo era libero di muoversi, di abbracciare, di incontrare chiunque: per questo stava con i poveri e con i ricchi. Non c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava sapere cosa la gente pensasse di lui, non gli interessava controllare sempre se era accettato o no. Non gli interessava sapere cosa pensasse l'opinione pubblica delle persone: lui le incontrava e le amava comunque.
Gesù fu un uomo autentico (autentico, da autos, se stesso). Solo chi è libero dal giudizio degli altri può vivere la propria vita, può essere autentico, può essere se stesso. Se uno non vive la propria vita, finisce col vivere quella degli altri. Ma c'è già chi vive quella vita: per cui diventa un doppione, una fotocopia. Vivere una vita non nostra ci rende irrealizzati, profondamente infelici e insoddisfatti.
Chi è fedele a se stesso non sarà mai tradito, perché il male peggiore, il male unico della vita, è rinunciare a se stessi. Il grande peccato dell'uomo è perdersi e perdere la propria vita, per correre dietro agli altri, a ciò che gli altri si aspettano da lui. E allora non facciamoci del male; perché quando ci saremo persi, di noi non rimarrà più nulla.

Amen.

giovedì 21 gennaio 2016

24 Gennaio 2016 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere…» (Lc 1,1-4; 4,14-21).

Gesù, dopo il battesimo nel Giordano per mano del Battista, dopo il suo ritiro di preghiera nel deserto, inizia la sua predicazione per le strade della Galilea, ottenendo un grande successo; da ogni paese la gente accorre a lui, suscitando voci entusiastiche, consensi e lodi.
Passa anche nella sua città di Nazaret e quel giorno essendo un sabato, entra nella sinagoga, “secondo il solito” (Lc 4,16); il che significa che Gesù non soltanto in quella occasione, ma ogni sabato frequenta la sinagoga, come ogni buon ebreo. Egli però, a differenza degli altri, ci va non per partecipare semplicemente al culto, ma per insegnare: proprio per questo, nella sua attività pastorale, Egli deve fare i conti con un fatto quantomeno singolare, incredibile: perché ogni volta che Egli predica alle persone pie e religiose, queste sistematicamente tentano di farlo fuori, di ucciderlo; quando invece si presenta ai lontani, ai delinquenti, alla feccia della società, questi lo ascoltano devotamente. I luoghi sacri, con chi li frequenta, sono dunque quelli più pericolosi per Gesù: Egli infatti per tre volte tenta di insegnare nelle sinagoghe: la prima lo interrompono malamente (Mc 1,21); la seconda e la terza decidono e tentano di assassinarlo (Mc 3,1; Lc 4,16-30). Ma la zona di massimo pericolo per Lui, rimane il Tempio. La “Casa di Dio” è il posto più pericoloso per Gesù: delle 12 volte che Giovanni usa il verbo “uccidere” (apokteino), per ben 6 volte lo fa quando Gesù insegna nel Tempio (Gv 7,19.20.25; 8,22.37.40); delle 8 volte, poi, che usa il verbo “arrestare” (piazo), la metà è anch’essa legata alla sua presenza nel Tempio (Gv 7,30.32.33; 8,20): è quindi incredibile, come i frequentatori del luogo più sacro e religioso, il luogo consacrato a Dio, siano proprio quelli che cercano di “uccidere” il figlio di Dio. E lo fanno in nome di Dio. Ciò succede, purtroppo, perché la gente che ostenta pubblicamente pietà e familiarità con Dio, in realtà spesso non lo conosce, vive seguendo una propria idea di Dio, alla quale peraltro rimane rigorosamente ancorata.
Sono persone che nel proprio cuore, in profondità, non hanno mai sperimentato veramente Dio, e si limitano a seguirne un proprio surrogato, costruito su idee e regole personali che esse, come giudici inflessibili, difendono ottusamente contro ogni evidenza.
Chi al contrario “ha conosciuto” Dio, chi ha avuto un personale incontro con Lui, sa molto bene che Lui è amore, vitalità, perdono, gioia, compassione, tenerezza, rispetto e apertura verso chiunque.
Gli uomini normali, quando peccano, si pentono e e si ravvedono: guardano alla vita con occhi rinnovati e propositivi. Gli uomini troppo religiosi, i duri e puri, continuano invece a vedere peccato e male in ogni cosa: non perché sia così, ma perché sono loro che non riescono a staccarsene; il peccato, che essi vedono ovunque, altro non è che la proiezione negativa nella vita, delle loro “ombre”, del loro malessere interiore.
Ma torniamo al testo: “gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20).
La sinagoga è piena di gente: e di questo il capo della sinagoga ne sarà stato sicuramente contento, perché in genere se non si raggiungeva il numero “legale” di almeno dieci maschi adulti, necessario allo svolgimento della liturgia, egli era costretto a convocarli a pagamento (minyan).
Oggi con Gesù ce ne sono in abbondanza: ma perché lo vogliono far fuori? Per un motivo semplice: Gesù, anziché leggere la lettura del Rotolo di Isaia, fissata per quel sabato, ne cerca, (eurisko) un’altra; è Lui che stabilisce il testo da leggere, e questo sconcerta i presenti, sia perché le regole liturgiche erano ferree e sacre, sia perché la pagina da lui scelta riguarda in particolare la sua persona e la sua missione: si tratta di un passaggio del capitolo 61 di Isaia che parla dell’investitura dell’unto dal Signore (il Messia): “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). E fin qui ancora tutto bene: ma Gesù, nel commentare queste parole, adatta la profezia di Isaia a se stesso e alla sua missione: “Io sono qui per questo; Dio mi ha mandato per questo”. E qual è allora la prima preoccupazione di Dio? È l’umanità sofferente: è annunciare ai “ poveri” il “lieto messaggio”, il suo vangelo (Lc 4,18): Gesù quindi non è venuto per radunare attorno a se un esercito di combattenti per liberare il territorio dal nemico oppressore; né tanto meno per fondare dei gruppi di preghiera, o dei movimenti carismatici; ma è venuto per togliere la povertà, ogni povertà, in particolare la povertà dei cuori, la dilagante povertà di amore fraterno.
Il “lieto messaggio”è dunque la fine di ogni “povertà”. Lui, il Messia, è venuto per questo: per darci ciò che ci manca. E fin qui, ripeto, nulla in contraddizione con le aspettative messianiche. Il testo di Isaia però, a questo punto, continua con l’annuncio di “Un giorno di vendetta del Signore” (Is 61,2): il Messia cioè avrebbe vendicato con la forza i soprusi e le violenze patite dal popolo. Ma Gesù questo versetto non lo legge; e ciò non fa che aumentare il malcontento dei presenti, già indispettiti per la sostituzione iniziale della lettura: essi si aspettavano quantomeno che la spiegazione di Gesù confermasse queste loro attese messianiche, soprattutto in quelle parole del profeta che promettevano “il tempo della rivincita, della vendetta sui nostri nemici”.
Noi che, a posteriori, non diamo alcuna importanza politica a queste parole, difficilmente riusciamo a capire perché a questo punto la gente si scateni e pensi di uccidere Gesù: “Cosa avrà mai fatto di tanto sconveniente?”. Non capiamo. Ma Nazaret è in Galilea. E la Galilea all’epoca era un ambiente di nazionalisti fanatici. In quella regione succedeva spesso, infatti, che la gente si sollevasse contro il potere romano, invocando appunto la venuta del Messia. Per cui quando veniva letto il primo versetto sulla sua investitura, tutti si aspettavano immediatamente la proclamazione del versetto successivo che confermava a loro, poveri, schiavi e prigionieri, la vittoria sui nemici e la liberazione dalla loro oppressione.
Ma, come dice il vangelo, Gesù chiude il suo intervento, riavvolge il rotolo di Isaia, lo consegna all’inserviente e si siede. Le persone rimangono sconcertate: una lettura della Bibbia, fatta in questo modo, per loro è mutilata, blasfema, sacrilega, irriverente. “Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20). Nell’aria si respira, oltre alla delusione, una tensione incredibile, un disappunto generale: il comportamento e le parole di Gesù, non sono in linea con le loro attese, con le attese della tradizione, con le attese dei capi religiosi: è un pazzo! E quando conclude: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc 4,21) si scatena il putiferio, il finimondo! Il messaggio che è passato, in sostanza è questo: “Quello che da secoli aspettavate, quello che da sempre avete pregato e invocato, il vostro desiderio più grande, è qui davanti a voi: io sono l’unto; io sono il Messia; io sono l’aspettato”. Ora, che Gesù si dichiari l’Unto, possono anche sopportarlo; ma che il loro Messia sia proprio Gesù, questo no; questo non lo possono assolutamente accettare! Il Messia, il Salvatore, l’Unto, che tutti si aspettano, è di tutt’altra levatura, di tutt’altro carisma: “solo un mentecatto come questo Gesù può definirsi tale; mettiamolo a tacere!”. E nel vangelo di domenica prossima sentiremo come andrà a finire.
Questo in sintesi è quanto accaduto quel sabato nella sinagoga di Nazaret.
Due cose però vanno evidenziate nel comportamento di Gesù: due particolari sui quali vale la pena fermare la nostra attenzione.
Prima di tutto la sua ferma e incrollabile convinzione di essere il Messia, l’Inviato: questa sua certezza ci deve insegnare molto: anche noi dobbiamo essere certi della nostra chiamata; dobbiamo avere sicurezza, autostima, conoscenza di noi stessi e delle nostre possibilità; dobbiamo essere pienamente consapevoli, di fronte a tutti e in ogni situazione, di essere dei “chiamati”, di essere scelti e “inviati” nella Vigna di Dio. Certo, la fiducia in Dio è essenziale: nondimeno la fiducia in noi stessi costituisce la base, le fondamenta su cui costruire l’opera che Dio si aspetta da noi; anzi la base di ogni nostra opera, l’esecuzione di ogni nostro progetto, l’attuazione di ogni nostro sogno. Una casa non sta in piedi senza le fondamenta: e senza una radicata fiducia in noi stessi, non possiamo iniziare nulla, né realizzare alcun sogno.
L’altro particolare che merita la nostra attenzione, è quell’oggi detto da Gesù: un “oggi”, un “adesso”, che chiude definitivamente il tempo dell’attesa. Una indicazione che vale soprattutto per noi: ogni nostro progetto deve compiersi oggi; basta posticipare, basta rimandare, basta sperare che domani accada chissà cosa. Dobbiamo farlo oggi: c’è un “ti chiedo scusa” che dovremmo dire a qualcuno? Facciamolo “oggi”; c’è una scelta difficile che dovremmo fare? Facciamola oggi: prendiamo il coraggio e scegliamo; c’è un’abitudine, una “prigione” da cui dobbiamo uscire? Qualunque sia il costo, facciamolo oggi; c’è un qualcosa, un fatto, che dovremmo esaminare o ammettere? Smettiamola di tergiversare, di trovare scuse, facciamolo oggi; c’è un “sì” che dovremmo dire a qualcuno? Anche se abbiamo paura, diciamolo oggi; c’è un “no” che dovremmo dire a qualcuno? Anche se ciò comporta conflitto e tensione, diciamolo oggi. Ci accorgiamo che la vita ci sta sfuggendo? Dobbiamo cambiare oggi. Domani, in genere, significa “mai”. “Domani” è solo un’illusione per dirci un “no” rivestito da “sì”. Il nostro “anno di grazia del Signore”, che siamo chiamati a proclamare e a testimoniare, è “oggi”, qui, ora, subito. Inutile rimandare “sine die, a quando non avremo più tempo: solo l’oggi, solo la nostra azione immediata, è in grado di cambiare la direzione della nostra vita. Amen.


mercoledì 13 gennaio 2016

17 Gennaio 2016 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché effettivamente Gesù era un uomo che viveva, che banchettava, che festeggiava: non era un’asceta, un eremita, una persona scostante: ma era uno che condivideva volentieri con la sua gente i momenti belli della vita. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, del piacere, dell’ebbrezza della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio. Dio vuole per ogni uomo gioia e felicità. Dio ci vuole felici. Perché allora farne un Dio serio, severo, che pretende da noi solo penitenza, sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nelle formalità, nel trattenerci, nel chiuderci, nel rinunciare a tutto per non peccare. Egli è il Dio della vita, delle persone appassionate, di coloro che osano e vivono intensamente.
A questo matrimonio di Cana c’era anche la madre: in Giovanni la madre di Gesù compare qui, all’inizio del suo ministero, e alla fine della sua vita pubblica, sotto la croce. La vita di Gesù fu, per Giovanni, lontano dalla madre: si staccò da lei, visse la sua vita e fece le sue esperienze. Maria però pur nell’assenza rimase sempre presente; la ritroviamo infatti ai piedi della croce. Sembra essere questo il ruolo di ogni genitore: non immischiarsi nella vita del figlio, lasciarlo andare, ma essere sempre presente nel momento del bisogno, della necessità. Il figlio sa che lui, il genitore, c’è e ci sarà. Per lui è un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un luogo dove sarà sempre accolto. In questo sta il vero amore genitoriale: un amore maturo, di chi ama senza pretendere un ritorno immediato d’amore da parte del figlio, di chi ama in maniera incondizionata, di chi ama cioè senza l’aspettativa di essere corrisposto.
Durante questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”: parole semplici che, lasciando trasparire la preoccupazione di evitare l’imbarazzo degli sposi, sottendono un intervento immediato di Gesù.
Sensibilità di madre, che si ripete anche in quella festa di nozze alla quale Dio invita singolarmente l’umanità intera: è sempre Maria che si pone come intermediaria tra Dio e la nostra situazione deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare queste nozze, ma non possiamo. Siamo “vuoti”, non abbiamo più il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Non c’è più gioia nella nostra vita, non c’è più sapore nelle nostre giornate. Così, quando incontriamo certi volti segnati dalla tensione e dalle rughe della chiusura interiore, dobbiamo purtroppo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando ascoltiamo certe prediche su Dio, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, passione, energia dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando la chiesa è impegnata solo a difendere, a porre limiti su cosa non bisogna fare, a limitare la creatività, quando soffoca le sue voci trasmettendo paura e ansia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando vediamo certe coppie che trascinano nella routine il loro matrimonio, senza alcuno slancio ma con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone non provano più nessuna commozione, non si stupiscono più, quando sono diventate ciniche su tutto, abituate a tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. In tal caso, dobbiamo ascoltare la voce della Madre, che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. E noi facciamolo veramente, fidiamoci di Lei e delle Parole di Gesù.
Anche i servi di Cana si sono fidati: hanno fatto una cosa stranissima, pazzesca per quel tempo, hanno riempito dei contenitori con circa 600 litri d’acqua! Un’enormità! Nella vita dobbiamo fidarci e af-fidarci a qualcuno: noi abbiamo i nostri avvocati celesti; facciamo bene tutto quello che ci dicono, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano.
A volte non capiamo ciò che la vita ci propone; anzi capiamo benissimo, ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta là dove non vogliamo andare, e poiché non ne capiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che è insensato scalare certe montagne, quando possiamo stare tranquillamente in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte la vita ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché la salvezza sta nel fidarsi, la Vita non sbaglia mai. Fidiamoci una buona volta, e lasciamoci portare: e finché andiamo, gustiamoci il viaggio, sicuri di essere al sicuro.
Del resto le giare “di pietra” significano una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata; una vita che si è sclerotizzata nei soliti rituali, che manca di un respiro più ampio, diverso, che va oltre; è come quando un uomo trascorre giornate prive di gioia, di gusto, di sapore: vive, ma senza senso. Le giare “di pietra” rappresentano l’irrigidimento delle nostre devozioni, delle nostre regole religiose; indicano le nostre abitudini ormai desuete, le nostre vecchie consuetudini, con il gusto dell’acqua stagnante, imbevibile; indicano certe pratiche religiose, stantie e ripetitive, che non trasmettono più nessuna vitalità, nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Le ripetiamo solo per abitudine, perché solo ciò che conosciamo non ci fa paura.
Purtroppo la routine, la quotidianità, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l’amore. Se non c’è uno slancio più grande, se non c’è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c’è la ricerca del nuovo per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. E noi moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e rimaniamo sempre gli stessi. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l’amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, non frequentiamo nessun incontro dal respiro più ampio, dagli orizzonti più grandi, che ci faccia toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere, di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo, perché ci costa un po’ di fatica o un po’ di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente davanti alla tv, al bar a fare i soliti quattro discorsi da osteria, tra gli amici, nella ripetitività dell’agire e delle chiacchiere. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci delle “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, che vorrebbe riempirci della vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo infame, a questa società depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto, perché crediamo come abbiamo sempre creduto.
È una morte che arriva lentamente e inesorabilmente, non all’improvviso. Alcune persone vive, sono già morte; altre sono in fin di vita; altre presentano serie malattie di morte; l’anima soffre e piange, ma pochi se ne accorgono. Per morire basta non far nulla, trascinarsi, rinunciare.
Ogni giorno, ogni mattina, quando ci alziamo, dobbiamo decidere se vivere o se, lentamente ma inesorabilmente, lasciarci morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, possa ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere deve essere una dimensione del nostro vivere. La vita non deve essere altro che un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione.
In noi, nella nostra anima, può esserci di tutto: ogni cosa ha un suo significato profondo, niente è male in sé, perché tutto può essere trasformato. Nulla deve essere eliminato o nascosto, anche se apparentemente è oscuro, cattivo, debole, infermo, perché tutto ha un senso e la possibilità di venire trasformato. Nulla deve essere eliminato: qualunque cosa di negativo ci sia successa, non dobbiamo tenerla nascosta, non dobbiamo vergognarcene, perché abbiamo la grande possibilità di trasformarla in bene. Non esiste nulla che sia male in assoluto, perché tutto può essere trasformato in qualcosa di unico, di prezioso, di vitale. Se guardiamo alle nostre ferite, alle nostre fragilità, ai nostri legami malsani, ai nostri limiti, scopriamo che, se trasformati, possono diventare la nostra ricchezza e la nostra forza. L’eucarestia stessa è una trasformazione: un po’ di pane e di vino vengono trasformati nel corpo e sangue di Cristo. Perché allora crediamo a questo, e dubitiamo invece del fatto di poter trasformare la nostra vita, o l’ambiente in cui viviamo?
“Cana” ci invita a cercare più in profondità dentro di noi, su altri livelli, a penetrare all’interno del nostro vivere quotidiano, spesso vuoto e insipido. La trasformazione dell’acqua in vino, ci invita a trovare un’ebbrezza nuova, una gioia, un’estasi profonda. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa che dia un nuovo sapore a tutte le cose.
Possiamo però vivere in questa prospettiva soltanto se siamo capaci di passare da un orizzonte ad un altro: dall’orizzonte del materiale a quello dello spirito; dall’orizzonte della carne a quello dell’anima; dalla superficie alla profondità, dal fuori al dentro.
La coppia nuziale di Cana ci rivela, in conclusione, il segreto di ogni rapporto e di ogni unione: l’essere cioè capaci di cambiare, di modificarci, di evolvere. Se un matrimonio avrà questa capacità e questa elasticità, se saprà non fossilizzarsi su posizioni statiche, se avrà la forza del nuovo e della crescita, diventerà un paradiso d’amore; altrimenti sarà l’inferno dell’amore. Amen.



giovedì 7 gennaio 2016

10 Gennaio 2016 – Battesimo del Signore

«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco»( Lc 3,15-16.21-22).

Il vangelo di oggi ci presenta il Battesimo di Gesù. Gesù certamente è stato battezzato dal Battista. Ma per Gesù non è stato tanto importante il battesimo, in quanto tale, ma ciò che questo gesto faceva capire: il perdono, la guarigione, la Buona Novella.
Quindi non è tanto importante il gesto ma il senso del gesto.
Il Battesimo rappresenta infatti il punto di svolta della vita di Gesù: dopo non sarà più come prima. Egli aveva aderito al progetto del Battista: “Dio viene, fatevi battezzare come segno del vostro cambio di vita”. Quindi anche lui va a farsi battezzare. Ma poi, attraverso la voce del Padre che lo conferma pubblicamente come suo Figlio, Gesù sperimenta qualcosa di unico: Dio non è come dice il Battista. Dio è amore. Dio non vuole “qualcosa” per darci amore (sia esso sacrifici, battesimo, penitenza, ricambio, purità, ecc.). Dio ci ama... e basta. Anzi, Dio ci rincorre per amarci. È questa esperienza che lo distacca dal Battista: di Dio non c’è motivo di aver paura.
Da questo momento, Gesù andrà per la sua strada: sarà un Dio totalmente diverso da quello del suo maestro: Egli seguirà il suo progetto, che è quello di portare a tutti quell’amore che Lui stesso ha toccato, vissuto, sentito, sperimentato. E non farà nient’altro che questo per tutta la sua vita.
Noi stessi, quando avremo fatto “esperienza” di Dio, quando avremo sperimentato il battesimo di fuoco, quando cioè saremo completamente innamorati di lui, quando saremo inebriati di lui, quando avremo perso la testa per Lui, capiremo qualcosa di chi lui sia veramente. È un’esperienza, un incontro che dobbiamo vivere: Dio è uno dal quale, una volta che ci è entrato dentro, che ci è penetrato nel cuore, nell’anima, non potremo più liberarci; un qualcuno senza il quale non potremo più vivere.
La descrizione del battesimo di Gesù, fatta da Luca, ci sottolinea alcuni particolari che acquistano un significato altamente simbolico: come per esempio i cieli che si aprono, lo Spirito con sembianze di colomba, la voce che viene dal cielo. Esaminiamo brevemente queste tre immagini:
“Il cielo si aprì” (Lc 3,21): il verbo greco non significa esattamente aprirsi, ma svelare qualcosa di nascosto, aprire, rompere, squarciare un qualcosa che è chiuso. La differenza tra “aprire” e “squarciare” è infatti notevole: nel primo caso, con “aprire”, ciò che si apre si può anche richiudere; con “squarciare”, invece, significa che una volta lacerata, squarciata, quella cosa non si può più richiudere, non si può più ricomporre.
Prima di Gesù i testi sacri dicevano che “Dio si è indignato per i peccati del popolo e ha sigillato la sua dimora (i cieli sono la dimora di Dio)”: il che, in pratica, equivaleva dire che Dio, di fronte alle colpe umane, staccava la spina e chiudeva ogni comunicazione con il suo popolo, lasciando tutti in balia di loro stessi. Con Gesù invece i cieli si sono aperti e non si chiuderanno mai più. Sono aperti per sempre. Dio ha smesso di offendersi, di isolarsi da noi a causa dei nostri tradimenti; e questo, pur dimostrandogli di non cambiare mai, di essere inaffidabili, commettendo sempre gli stessi peccati. Lui è fedele: Lui rimane sempre ad aspettarci, pazientemente; continua sempre a rimanerci vicino, in una incessante comunicazione d’amore.
Il Dio di Israele era un Dio nascosto, velato, con un nome impronunciabile; ora, con l’epifania battesimale, Dio ci fa vedere, attraverso suo Figlio, chi è veramente: un Dio che è amore, un Dio immensamente buono, misericordioso, che vuol continuare, nonostante tutto, a comunicare con gli uomini. Il Dio di Israele diceva: “Hai ucciso: meriti di morire! Hai peccato: sei indegno; hai tradito la mia fedeltà: sei fuori!”. Il Dio di Gesù dice: “Io sono l’Amore. Sono qui per amarti. Non sono qui per giudicarti ma per giustificarti. Questo è il mio unico compito”. Leggiamo infatti: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
La seconda immagine: “E scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba” (Lc 3,22). Qui lo Spirito (pneuma) scende su Gesù, e rimarrà in lui fino alla fine della sua vita terrena: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo emise lo Spirito (ek-pneuma)” (Lc 23,46). In altre parole, lo Spirito scende su Gesù nel suo battesimo per rimanere in lui durante tutta la sua vita: una volta in croce, Egli lo riconsegnerà al Padre, perché lo metta a nostra disposizione: il suo riconsegnarlo, il suo “e-metterlo”, è semplicemente un passarlo a noi, un passare cioè a noi la sua capacità di amare. L’uomo, che nel peccato aveva incontrato la morte corporale, ora in Gesù, nel suo Spirito, ritorna a Dio: la morte finisce per lasciare spazio alla Vita; in Gesù e con Gesù, noi siamo divini, siamo eterni, siamo senza fine: passiamo dalla vita terrena alla vita divina. Nulla si perde; il bene e l’amore rimangono. L’amore, se è vero amore, rimane per sempre. La gioia, il bene, la compassione, la tenerezza, l’aiuto, la gratuità, la condivisione vera, la fratellanza, l’amicizia, il sostegno, ecc.: niente di tutto ciò andrà perduto. Mai.
Lo Spirito si rivela in “forma di colomba”: è proverbiale infatti l’attaccamento, l’amore della colomba, per il proprio nido: in Gesù lo Spirito scende e, come la colomba, rimane attaccato a lui per sempre. Gesù è la dimora perpetua, perenne, dello spirito, della forza di Dio.
Poi il vangelo ci presenta la terza immagine, la voce: “Vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22).
Questo stesso termine (phoné) lo ritroveremo alla fine, nella scena della crocifissione, quando Gesù gridando a gran “voce” (phoné) disse: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Con la voce lo Spirito scende su Gesù; con la voce lo Spirito ritorna al Padre. La discesa dello Spirito significa che Gesù e stato consacrato e costituito da Dio come Re: Egli è il Messia, l’atteso, il Figlio di Dio: il Padre lo sostiene contro i suoi nemici, e con questa voce dal cielo, gli dichiara un amore senza limiti. “Figlio”, nel contesto ebraico, non significa soltanto chi è nato da qualcuno, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Se Gesù viene chiamato figlio è perché assomiglia al Padre, ci fa cioè capire chi è il Padre. Dio, di cui nessuno sa niente, che nessuno ha visto, che nessuno conosce, è come Gesù. Guardando Lui possiamo capire un po’ chi è Dio.
Se Gesù nei vangeli era un “portatore di vita”, Dio non può che esser così. Se Gesù era uno che comunicava vita a tutti, indipendentemente dalle risposte che riceveva, Dio è esattamente così. Dio pertanto è Vita, e vuole che noi viviamo al massimo delle nostre possibilità, vuole che viviamo sempre “alla grande”. Vuole che amiamo con tutta l’ampiezza del nostro cuore. Vuole che conosciamo tutta la verità che possiamo. Vuole che ci realizziamo e che diventiamo il meglio di ciò che possiamo essere. Perché “Io sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza” (Gv 10,10).
Amen.