venerdì 20 marzo 2015

22 Marzo 2015 – V Domenica di Quaresima

«È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». (Gv 12,20-33).
Questo vangelo ci introduce nel mistero della vita di Gesù e di ogni vita. Dapprima Gesù, con l'immagine del seme che cade in terra, ci spiega le grandi leggi della vita: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po' come morire. Per diventare “grandi”, adulti, dobbiamo morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Gesù stesso vive la fatica di andare fino in fondo alla sua missione; egli stesso vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra. Egli oggi ci dimostra di trovarsi al punto cruciale della sua vita: deve decidere se andare fino in fondo o fermarsi.
La vita ci pone davanti ogni giorno delle scelte: a volte sono semplici, a volte un po' più complesse. Ma prima o poi verrà un momento per tutti in cui la vita ci metterà di fronte alle nostre responsabilità: dovremo fare delle scelte senza ritorno. Verranno dei momenti in cui ci verrà chiesto di fare delle scelte definitive, e per questo ancor più coraggiose, difficili, ardue. Perché da certi incroci non potremo più tornare indietro.
Quel particolare treno non passerà più, quella particolare situazione ci capiterà solo una volta nella vita: sono occasioni che se le coglieremo, ci cambieranno radicalmente la vita. Certe direzioni vanno prese solo in quel preciso istante: non prima e non dopo. Certe scelte non si ripeteranno: vanno compiute in quel momento o mai più.
Gesù sa da sempre che deve andare a Gerusalemme: il momento è arrivato, ora deve decidere se andare o meno: Galilea è vivere, Gerusalemme è morire. Il bivio è davanti a Lui: e Lui va a Gerusalemme.
Quando arriva questo momento cruciale, lo sentiamo subito dentro di noi, lo avvertiamo distintamente: è arrivato il momento, quella decisione deve essere presa. Sono incroci, sono strade senza ritorno, cambiamenti radicali, e ci fanno paura.
Sono proprio un crocevia, una “via crucis”! Sono i momenti decisivi in cui noi plasmiamo la nostra vita, le diamo una forma: la “nostra” forma.
In questo testo Giovanni mette più volte in bocca a Gesù la parola “gloria” (doxa).
Noi, quando la leggiamo, le diamo un senso completamente diverso da quello di Giovanni; pensiamo infatti a tutto quello che ha a che fare con la fama, con l'essere famosi, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo ai divi della tv o ai campioni dello sport o della musica.
Ma per Giovanni noi siamo nella “gloria” quando nella nostra vita rendiamo Dio manifesto, visibile, trasparente. In questo senso quindi Gesù è la gloria di Dio: nessuno infatti ha reso più visibile Dio nella propria vita come Gesù; con il suo vivere, il suo agire e il suo morire, Gesù ci ha dimostrato chi è Dio. Pertanto è Gesù la “gloria di Dio” per eccellenza: egli lo fa vedere quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini. Ma il culmine di questa gloria, dove cioè noi possiamo vedere Dio in Gesù in maniera assoluta, è la croce. Nella croce noi vediamo, in Gesù, Dio che non si sottrae alla morte, a quella morte; e lo fa perché ci ama, lo fa per starci vicino, per vivere fino in fondo la sua missione redentrice.
Allora, guardando la croce, non dobbiamo più aver paura: dobbiamo invece riconoscere: “Quanto bene mi deve voler Dio, se è arrivato a fare tutto questo per me. Dio mi ama veramente da morire. Anche se tutti mi odiano, se nessuno si cura di me, Lui è sempre pronto ad accogliermi, ad accettarmi; Lui non mi rifiuta mai”.
Gloria è dunque quando qualcosa di divino, qualcosa al di sopra della dimensione terrena, appare nella nostra vita. Gloria è ogni volta che noi seguiamo la Voce che ci ri-suona dentro e la seguiamo dovunque ci chiami.
Poi Gesù fa un esempio che ci illustra molto bene lo scopo della sua vita, e che pone come legge universale per la vita di ciascuno.
«Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Ora in ebraico “bar” significa sì “chicco di grano”, ma significa anche “figlio”: quindi possiamo anche dire che soltanto “se il Figlio muore produce molto frutto”. Ora Gesù, giorno dopo giorno, è sempre più consapevole della sua fine inevitabile: perché Egli sa che la sua fine non è solo un semplice morire, ma un portare molto frutto. È per questo che egli accetta e vuole la sua morte. Per noi invece è diverso: voler morire è da stupidi: significa solo voler mettere fine ad una vita che per noi non ha alcun senso. Come se la morte potesse dare “senso” ad una vita dissipata! Morire non può mai essere un valore da acquisire, un riscatto da pagare, un fine, una meta da raggiungere. Il morire può essere accettato e voluto solo per un motivo più grande, più alto, più nobile da conseguire, dove la meta della nostra morte non è il morire in sé, ma il portare frutto. In mancanza di alternative, la morte individuale è praticabile solo se serve a procurare un bene assoluto per la collettività. Gesù non voleva morire: Gesù voleva essere per tutti pane e vino, frutto di vita eterna per l’umanità: ed è unicamente questo che l'ha portato a morire.
Sono parole, dicevo, che pongono anche una legge universale: Dio è in me come un seme. Un seme che contiene in sé il principio di morte e di vita, perché deve morire, deve venir meno, per poter vivere e svilupparsi; eccola la legge universale: è la legge dell'evoluzione spirituale e umana: perché Lui nasca bisogna che io (che l'io) muoia. Lui è in me come un seme: un seme che può rimanere tale per sempre se non trova le giuste condizioni per crescere. Io posso vivere e lasciare che quel seme dorma e sonnecchi per tutta la vita. In tal caso io uccido Dio.
Ma il Vangelo, la buona notizia (in ebraico “basorah”) ci dice che possiamo far nascere Dio in noi, possiamo sviluppare il divino che Dio ha posto in noi; noi cioè possiamo creare (“barà”) dalla nostra carne (“bar”), dalla nostra vita, la parola (“dabar”) di Dio Amore.
È chiaro che dobbiamo far morire il nostro “io”, il nostro narcisismo, il nostro egocentrismo perché, giorno dopo giorno, possa nascere e crescere il nostro vero io, il D-io che ci abita e che vuole portare vita, fecondità e frutto in noi, e attraverso noi, negli altri.
Ogni giorno noi moriamo non perché sia bello morire (è sempre un evento tragico) ma perché con questo morire noi nasciamo nuovi e più vitali. In questa nostra morte c'è la vita: in questo morire dell'io (trasformazione) c'è la vita vera.
Perché Dio si manifesti in noi, si renda evidente in noi, dobbiamo avere il coraggio di morire, cioè dobbiamo avere il coraggio di affrontare, senza scappare, ciò che dobbiamo affrontare; dobbiamo avere il coraggio di lasciarci trasformare dalla vita, cioè di cambiare. Per vivere davvero, in profondità, dobbiamo morire (soffrire).
Questa, ripeto, è la grande legge della vita. Assurdo è il contrario: voler vivere a tutti i costi, non voler assolutamente morire (trasformarsi, cambiare, crescere attraverso la sofferenza) e per questo morire sul serio. In altre parole: non possiamo pensare di vivere senza mai soffrire, di poter evitare il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti della vita. Morire significa allora scontrarsi con la dura realtà della vita, tornare con i piedi per terra, smettere di volare sulle nuvole: cadere a terra significa che dobbiamo fare i conti con gli altri, con quello che ci circonda; vuol dire confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita, aiutare le persone che non sempre vivono come noi pensiamo; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere; cadere a terra vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l'umiltà di riconoscerli.
Tutto questo ci fa male. È come morire. Distrugge l'immagine di “persone brave e buone” che ci siamo cucita addosso. Ma se non cadiamo a terra, non possiamo far nascere nulla di nuovo, di buono, di fruttuoso!
È il segreto della vita: solo se è spesa per qualcosa di grande ha un senso. Possiamo viverla in maniera narcisista, egoistica, ripiegata su di noi; oppure possiamo viverla come un dono, donandola e spendendola per gli altri e per la Vita. Una cosa è certa: in ogni caso noi moriremo. Arriverà il giorno dei bilanci, nessuno è in grado di evitarlo.
Allora, di fronte a questa ineluttabilità, come intendiamo impostare la nostra vita? Cosa vogliamo farne dei giorni che ancora ci rimangono? Molte persone vivono purtroppo solo per se stesse; non si preoccupano di nulla, il seme che è in loro muore senza portare frutto. La loro vita non serve a nessuno, non c’è nulla da imparare da loro, non hanno maturato nulla. Non hanno nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai “ragionato” sulle cose. Passano nel tempo senza lasciare traccia: vite inutili, senza senso. Persone che non possono darci nulla, perché non hanno nulla da darci; i loro passi non lasciano impronte: se qualcosa lasciano, è solo rabbia, negatività, lamentele, acidità invidia. Hanno ricevuto la vita, ma non hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della vita ricevuta, un dono. Impiegano i loro giorni per cose futili, insignificanti, si impegnano solo per accrescere la loro immagine, il loro prestigio. Si credono abili e impegnati, ma in realtà sono narcisisti e pieni di paura. Sono “tiepidi”: e non sanno che Dio vomita i “tiepidi” (Ap 3,16). Moriranno tristi perché potevano essere un albero rigoglioso, ricco di frutti e di linfa vitale: hanno preferito invece non maturare: si sono rinsecchiti nelle loro sterili radici; hanno rinunciato a vivere, sono dei falliti!
La vita è felice solo se ha un senso, se ha un ideale da concretizzare, se si dedica a qualcosa di valido, altrimenti vivere non ha senso. Noi abbiamo un compito nella vita: mettere in circolazione quello che siamo dentro, perché diventi utile (frutto) per gli altri. Solo così ci sentiremo “compiuti”, realizzati; ci sentiremo parte della Vita. I frutti devono essere condivisi. Sono doni che vanno donati, dobbiamo continuare questa catena d’Amore.
Solo così, quando arriverà, la morte avrà un senso e non ci farà paura. Inutile illuderci, inutile non voler pensare a quel momento. Nessuno potrà allontanarla, nessuno potrà accompagnarci nella traversata. Saremo soli e una paura folle ci sommergerà: ci sentiremo scivolare inesorabilmente verso il nulla, verso il buio, verso il niente. Nessuno potrà salvarci. La morte non risparmia nessuno. È un conto che ognuno deve saldare da solo.
Solo la fede verrà in nostro soccorso: le nostre opere buone saranno il nostro lasciapassare; se alle nostre spalle ci sarà una vita vissuta con fiducia, con forza, con passione, con intensità, con carità e amore, allora ci sentiremo più leggeri, ci sentiremo sorretti da Dio, dalle sue braccia misericordiose. Sentiremo dentro di noi la sua voce rassicurante: “Coraggio, ci sono io con te, non temere”. Certo sarà comunque doloroso, difficile, separarci definitivamente da questa esistenza terrena, dai nostri cari, da quanto abbiamo conquistato con anni di lavoro e di sacrifici; ma quelle braccia paterne e insieme materne, protese verso di noi, ci daranno fiducia, coraggio, sicurezza, tranquillità: e in esse ci lasceremo andare, serenamente: “Sento che ci sei Tu, o mio Dio: rimani con me, ed io non temerò alcun male”. Amen.

venerdì 13 marzo 2015

15 Marzo 2015 – IV Domenica di Quaresima (“Laetare”)

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,14-21).
Nel vangelo di Giovanni solo due personaggi sono chiamati “maestro”: Nicodemo (Gv 3,10) e Gesù (Gv 13,14). Entrambi sono maestri, ma il loro insegnamento è diametralmente opposto.
Ma chi è questo Nicodemo? È un fariseo, un dottore della legge; il suo nome stesso è tutto un programma: vuol dire infatti “vincitore del popolo”; indica cioè un uomo che quando parla ha sempre ragione, nessuno mai è in grado di contraddirlo; un dialettico di grande abilità oratoria: uno studioso che poggia la sua “infallibilità” su una grande conoscenza del testo sacro e della tradizione; doti e meriti dei quali il nostro ne è pienamente consapevole, e apertamente se ne compiace! Il sapere però, per quanto enciclopedico, non è tutto nella vita! Anzi a volte la sua vastità costituisce un grande intralcio per una Vita vera, semplice, serena e felice.
Un fariseo dunque: e sappiamo bene che tra i farisei e Gesù, c'è sempre stata una totale incompatibilità: è quindi ovvio che in occasione del loro incontro non riescano a capirsi, visto che le loro ragioni poggiano su presupposti diversi.
Prima di questo storico incontro, iniziato nei versetti che precedono e concluso con il vangelo di oggi, Gesù ha appena finito quella “purificazione del tempio”, scacciando da esso commercianti, venditori, ladri e quant’altro, (il vangelo di domenica scorsa); anzi, più che “purificato”, come abbiamo detto, lo aveva in qualche modo “abolito”, in quanto quel tempio rappresentava un culto basato sulla “paura” di Dio: in esso, cioè, si presentavano offerte e sacrifici con l’unico scopo di “tenerselo buono”, di evitare la sua “ira”. Una visione di Dio improponibile rispetto a quella nuova e rivoluzionaria, fondata sull’amore e sulla misericordia, proposta da Gesù.
Naturalmente i farisei, dopo quell’affronto violento subito pubblicamente in “casa loro”, erano diventati ancor più furenti nei suoi confronti, al punto che Gesù diventa ancor più diffidente nei loro confronti, “non si fida” per nulla di loro; egli conosce bene come la pensano, e prende le sue precauzioni: è vigile, attento, non si espone troppo, consapevole che essi sono ancor più decisi a strumentalizzare tutto ciò che lo riguarda per combatterlo, ferirlo, condannarlo.
L'incontro col fariseo avviene dunque di notte: forse perché Nicodemo stesso non voleva farsi vedere da nessuno. Del resto come biasimarlo? Egli è un personaggio molto in vista, un personaggio pubblico, stimato dal popolo e dal sinedrio, apprezzato da tutti per la sua competenza e per la sua onestà.
Egli, a differenza dei suoi colleghi, è un testimone oculare attento del “fenomeno” Gesù; e proprio grazie alla sua onestà intellettuale, gli insegnamenti di costui, la sua azione benefica e misericordiosa verso tutti, hanno già in qualche modo minato le sue certezze, procurandogli dubbi e interrogativi sia sulla natura della sua persona, sia sul suo ruolo di divino messia: e da uomo serio e meticoloso qual’era, vuole vederci chiaro.
È comunque emblematico che Giovanni abbia specificato l’ora di questo incontro: “di notte”.
In genere infatti egli usa il termine “notte”, quando vuole riferirsi a quelle “tenebre” che cercano di soffocare la luce di Gesù (anche Giuda esce dal cenacolo in piena “notte” per tradire Gesù); ma in questo caso è molto probabile che egli voglia descrivere proprio lo stato d’animo di quest’uomo che, assalito dai dubbi, si scopre privo di riferimenti certi: la sua anima brancola nel buio della notte, è confusa, si sente frastornata, persa. È quella stessa “notte” in cui anche noi procediamo a tentoni nel buio, spaesati, smarriti; esattamente quando non sappiamo dove andare, immersi nell’oscurità più totale, quando non riusciamo a scorgere, dentro di noi, neppure un barlume di luce e di speranza.
E Nicodemo dice a Gesù: “Sappiamo (parla a nome dei farisei) che sei un maestro venuto da Dio; nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2). Egli inizia riconoscendo onestamente l’origine divina di Gesù. Tergiversa. Prende tempo, non parla del suo problema personale, dei suoi dubbi, si tiene sulle generali, parla d’altro. La questione è complicata e non sa come affrontarla. Sente chiaramente che gli manca qualcosa, ma non sa cosa. Non conosce la vera natura di questo suo profondo malessere, e soprattutto non capisce perché questo suo “bisogno di verità” sia improvvisamente diventato così tanto urgente. Al suo esterno non traspare assolutamente nulla, nessuno può immaginare tanto disagio in profondità; egli sa simulare molto bene, all’esterno, quella calma e sicurezza che non prova nel suo interno: una situazione ancor più dolorosa da affrontare.
Ma Gesù ha capito tutto, non gli servono tanti discorsi, egli sa perfettamente cosa assilla quel poveretto: “caro amico, è vero: la tua vita così com’è non ti soddisfa, non ti offre soluzioni valide; nessuno, infatti, può vedere il regno di Dio, “se non colui che nasce dall’alto”: in greco ànothen”. Ma ànothen in greco ha due significati: vuol dire sia “dall’alto” che “di nuovo”. E qui Nicodemo si perde, non capisce più nulla, e replica: “Come può un uomo nascere se è già vecchio? Non può mica rientrare nel grembo di sua madre e nascere un’altra volta! (Gv 3,4). Egli prende per buono il significato temporale del termine. Ma anche in questo caso, le parole di Gesù sono chiare: “È vero, tu sei già nato, ma è stata tua madre che ti ha fatto nascere: non sei stato tu a voler nascere, non l’hai scelto tu. È opera sua, non tua. Tu invece devi fare una seconda nascita: questa volta devi essere tu a decidere di “partorirti”, di nascere ad una vita nuova: come? modificando radicalmente quello che sei ora, realizzando tutto il potenziale che c’è in te, espandendo e alzando le tue vedute, affrancandoti dalla tua mentalità legalistica, ormai superata. In altre parole devi cambiare, devi rinascere per vivere una vita completamente nuova. E questo dipende solo da te, da nessun altro. Sarà una nascita dolorosa: ma questa volta sarai tu a soffrire, non tua madre; sei tu che devi porre fine a questa tua vita materiale, per ri-nascere ad un altro mondo, un mondo completamente diverso, un mondo in cui regna lo Spirito, la Libertà, l’Amore. Nel tuo mondo attuale tutti dicono di vivere: ma il loro è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito vivono realmente.
“Rinascere dall'alto”, infatti, vuol dire: “Vivere in una prospettiva spirituale, una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito. “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,3). Se non si vive in questa prospettiva, si rimane radicati nella materialità della vita; rischiamo cioè di vivere unicamente per i soldi, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento, la famiglia, i figli, il coniuge: rischiamo di trasformare tutte queste cose nella nostra unica missione, nel nostro unico scopo di vita.
Non dobbiamo dimenticarci mai chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall'Alto) e dove andiamo (nell'Amore di Dio). Non siamo qui per caso o per sbaglio: siamo qui per un motivo ben preciso, specifico.
E concludo come al solito con una domanda: cosa ci dice in particolare questo vangelo?
Prima di tutto che dobbiamo “fare luce” nella nostra vita. Dice Giovanni: “Chi crede in lui non è condannato” (Gv 3,18). Ora “credere”, per lui, significa “fare luce”, portare la luce là dove regnano le tenebre, lo stato di peccato, in tutte quelle situazioni che odiano la “Luce”. Chiunque fugge dalla verità, chiunque non accetta di conoscere se stesso, chiunque non vuole vivere pienamente la Vita che ha dentro di sé, praticamente rifiuta la Luce, e si condanna da solo. Se facesse luce, il buio, le tenebre che imprigionano la sua anima, scomparirebbero; vedrebbe chiaramente in faccia la sua reale situazione, e prenderebbe quei provvedimenti, adotterebbe quei rimedi, appropriati al caso.
Seconda cosa, dobbiamo assolutamente distogliere lo sguardo da terra; dobbiamo alzare gli occhi al cielo; se ci sentiamo persi, finiti, sul baratro della vita, rivolgiamo il nostro sguardo in alto: è lì che stanno la Forza, la Luce, la Sicurezza. Come gli ebrei con il serpente di bronzo, anche noi dobbiamo guardare con fiducia Gesù, innalzato in croce: perché questo è l’unico modo per salvarci dai morsi velenosi e mortali della vita, l’unico modo che ci fa sentire al sicuro, protetti dalle braccia spalancate e accoglienti della Vita e dell’Amore. Amen.

giovedì 5 marzo 2015

8 Marzo 2015 – III Domenica di Quaresima

«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (Gv 2,13-25).
Il Tempio di Gerusalemme non era l’equivalente delle nostre chiese. Era il luogo più santo della terra: era quello vero, l’autentico, l’unico in cui Dio si manifestava. La sua maestosità architettonica superava di gran lunga qualunque altra costruzione (fu distrutto dai soldati romani nel 70 d.C.): in esso si svolgevano le sacre liturgie, si bruciava l'incenso sacro a Jahweh, si offrivano i sacrifici cruenti: ogni ebreo vi doveva offrire il suo sacrificio pasquale.
Anche Gesù, in occasione della Pasqua, sale a Gerusalemme e va al tempio: si aspetta di trovare persone pie che adorano Dio, famiglie che si organizzano per un’offerta comune in vista della Pasqua ormai prossima (tutta la carne dell’animale offerto doveva essere consumata, per cui le famiglie poco numerose si aggregavano tra loro per fare un’unica offerta). E invece cosa vi trova? Affaristi, commercianti, cambiavalute, sensali, venditori di buoi, di pecore, di colombe. Da luogo sacro di preghiera era diventato un mercato, centro di guadagni sporchi e di indegni interessi. Per agevolare un costante introito di denaro, infatti, i sommi sacerdoti, d'accordo con gli scribi (i teologi del tempo), avevano introdotto l’obbligo per gli ebrei di recarsi al tempio, oltre che per le feste tradizionali, anche per riscattare qualunque loro colpa personale, mediante l’offerta di alimentari o di animali, debitamente descritta e quantificata caso per caso: in altre parole, avevi fatto peccato? Facevi la tua offerta ed estinguevi il tuo peccato. L'avidità di tali personaggi era inoltre agevolata da una Legge meticolosissima che prevedeva innumerevoli divieti e prescrizioni, oltre alle 613 della sola Torah; per cui, essendo impossibile la loro completa e costante osservanza, il povero peccatore era costretto a recarsi di continuo al tempio, per offrire a Dio (meglio: ai tenutari del tempio) il suo sacrificio di espiazione. Uno stratagemma che assicurava ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro. Di conseguenza il tempio era diventato anche il posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, incassi che consistevano in denaro, oro, pietre preziose: era diventato insomma la più grande banca del Medio Oriente, la cui sicurezza era oltretutto assicurata da oltre 200 guardiani sempre in servizio: chi mai avrebbe osato rubare “a Dio”? In tutto questo, la cosa più grave era che essi davano di Dio un’immagine completamente falsa: com’era possibile, infatti, che il popolo considerasse “amico” un Dio che si “offendeva” per qualunque stupidaggine? Come poteva il pio israelita contare sull'amore di un Dio implacabile che non perdeva occasione per farlo sentire in colpa per tutto? Un fatto era ormai consolidato: a quell’epoca il Dio adorato nel tempio, non era più Jahweh, il Dio di Israele, ma era Mammona, il Dio denaro, il Dio ricchezza.
A questo punto cosa fa Gesù? Si prepara una “sferza di cordicelle(Gv 2,15),e con quella incalza e percuote tutta la gentaglia che staziona alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, rovescia i loro banchi e li caccia tutti fuori! Un vangelo forte quello di oggi: conosciuto anche come “La purificazione del tempio” o “La cacciata dei venditori dal tempio”. Ma qui, a leggere attentamente tra le righe, il testo ci fa capire che Gesù non solo “purifica”, non solo “caccia” la gente indegna dal tempio, ma arriva addirittura ad eliminarlo: Gesù cioè “distrugge” il tempio del “Dio” di allora, e introduce un nuovo “tempio”, una nuova immagine di Dio, un Dio nuovo, un Dio che fino ad allora era sconosciuto a tutte le religioni: un Dio che non ha bisogno né di “offerte” né di sacrifici; un Dio che diventa lui stesso offerta e sacrificio a favore dell’uomo: pertanto non è più l'uomo che si toglie il pane per offrirlo a Dio, ma è Dio che si fa pane per nutrire l'uomo. Con il Dio di Gesù è finito il tempo della schiavitù, dei servi, del “servire”: Dio non vuole più essere servito; anzi sarà Lui stesso a servire l'uomo.
Quand'ero piccolo mia madre mi costringeva a compiere continui “fioretti” per fare contento Gesù, poiché, mi diceva, lui gradiva molto i miei sacrifici, li apprezzava, lo “consolavano”: ma io non ne ero convinto; non mi andava di amare un Gesù che mi impediva di giocare a pallone con gli amici, che mi privava della gioia di un gelato, del piacere di gustarmi una bella fetta di torta ecc., cioè di quelle innocenti soddisfazioni, piccole in sé, ma per me e per la mia infanzia molto importanti. Saranno stati anche “fioretti” meritori, ma a me un Dio così non era molto simpatico. Mi sembrava che ce l'avesse con me: tutto ciò che mi piaceva, che per me era bello, lo voleva lui e io dovevo darglielo!
Una mentalità che è rimasta ancora oggi in certe forme di “voti”: per avere una grazia, o per ottenere il successo di qualche evento, si rinuncia cioè a qualcosa di importante. In questo caso però è ancora peggio, perché trasformiamo Dio in una specie di “banchiere” esoso, un Dio che per accordarci qualcosa ci chiede in cambio sacrifici, privazioni e quant’altro. Ma Dio non è così; smettiamola quindi di “insultare” Dio con questo genere di voti: non ha bisogno di mercanteggiare con noi, non gli servono i nostri voti, le nostre promesse interessate: egli ha bisogno soltanto del nostro amore, di un amore vero, filiale, riconoscente, gioioso.
Tutto il libro del profeta Osea è una denuncia di Dio contro siffatte offerte e sacrifici: “Che mi importa dei vostri numerosi sacrifici; io sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di bestie ingrassate; il sangue dei tori, degli agnelli, dei capri, io non lo gradisco; quando venite a presentarvi davanti a me, chi vi ha chiesto di contaminare i miei cortili? Smettete di portare offerte inutili”. E poi Dio se la prende con tutto l'incenso, i sabati, le riunioni false fatte in suo nome, le liturgie vuote e vanesie, ecc.: Dio non le sopporta (se non le sopporta Dio, figuriamoci il popolo!); Dio non vuole e non ha chiesto tutto questo. “Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6). E molte volte nel suo vangelo Gesù citerà proprio questa frase: “Misericordia io voglio e non sacrificio(Mt 9,13; 12,7). E la misericordia che egli vuole, non è verso Dio ma verso il prossimo.
Gesù dunque “elimina” il tempio: del resto che senso avrebbe un manufatto in pietra, quando è Lui stesso il vero santuario, il nuovo tempio di Dio? A conferma di ciò Gesù, nel famoso dialogo con la Samaritana, alla sua domanda se “Dio va adorato sul Garizim o al tempio di Gerusalemme”, risponde: “Né qui né lì: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Gesù in pratica supera del tutto, con queste parole, la questione di dove Dio vada adorato. Dio è Spirito e per questo è dappertutto. Pregare e lodare Dio, raggiungendo la comunione con Lui, è prima di tutto un fatto che riguarda l’anima non un luogo materiale, ancorché sacro. Preferire una chiesa piuttosto che un'altra, che magari consideriamo più “miracolosa”, senza però unire mente e cuore a Dio, significa ridurre la nostra preghiera ad un culto puramente esteriore. Il vero fedele è colui che, cosciente di aver ricevuto attraverso il battesimo e i sacramenti quello Spirito vitale di Dio che lo rende figlio, alimenta questa sua condizione con la “verità”, con la Parola di Dio, che diventa per lui via di fede, lampada di carità. La nuova lode a Dio sale, pertanto, da questa “nuova creatura”, trasformatasi essa stessa in “tempio” dello Spirito santo.Nella sua azione purificatrice, Gesù poi se la prende in particolare con i venditori di colombe: “Portate via queste cose e non fate della casa del padre mio un luogo di mercato” (Gv 2,16). Come mai il suo unico rimprovero è per i venditori di colombe? Per due motivi: la colomba, da sempre, era immagine dell'azione creatrice di Dio, del suo Spirito e del suo amore. L'amore di Dio è assolutamente gratuito. Se invece l'amore viene comprato, perde la sua essenza, è un’altra cosa, è prostituzione. La casta sacerdotale ha prostituito infatti l'amore di Dio, perché pretestuosamente, con l’inganno, ha promosso i propri guadagni. Le colombe costituivano infatti l'offerta dei più poveri per ottenere il perdono delle loro colpe: e Gesù non accetta che, proprio i più poveri e i più bisognosi, siano costretti a svenarsi per conquistare quell'amore di Dio, che già è loro di diritto.
E concludo: cosa dice, cosa insegna in particolare questo vangelo ai cristiani del nostro tempo?
Ci fa capire soprattutto due cose. La prima, la più importante, è che il vero “culto” nei nostri templi, nelle nostre chiese, deve essere l'amore. Osservando la scarsa affluenza domenicale, viene spontaneo chiederci quanti cristiani sentano ancora il bisogno di venire in chiesa: ma più che preoccuparci del numero di presenze, dovremmo invece chiederci: “Tutti quelli che sono presenti, che frequentano le nostre liturgie, le nostre messe, fanno una personale esperienza dell’amore di Dio? Escono dalla chiesa “confortati”, con nuovi propositi, con nuova energia, con nuova voglia di vivere? In chiesa la gente si sente toccata nel profondo dall'amore di Dio? Quelli che vi capitano per caso, i lontani, sentono sbocciare nel loro cuore un bisogno nuovo di amare Dio e il prossimo? I frequentatori assidui, escono convinti di dover essere più misericordiosi, più compassionevoli, testimoni più credibili della loro fede e dell’amore di Dio?”.
A Gesù non interessano quelli che vanno in chiesa per apparire, e fanno l'elemosina guardandosi in giro, e quasi suonando la tromba sembrano dire: “Guardate che cos'ho fatto!(Mt 6,1-4). L'elemosina, di qualunque genere e di qualunque entità, si fa esclusivamente per amore del povero, per amore di chi che soffre, di chi non è fortunato come noi.
Gesù non sopporta la gente che prega per ostentare la propria devozione, per farsi ammirare, per sbandierare ai quattro venti il proprio fervore cristiano: “Quando pregate non fatelo per essere visti... non sprecate parole come i pagani...” (Mt 6,5-8). Gesù non tollera quella gente che digiuna, che prega, che frequenta gruppi elitari di spiritualità per soddisfare il proprio amor proprio. La loro è una vita cristiana che non serve a nulla; Dio non vuole questo. Persone simili Gesù le chiama “ipocriti”, cioè commedianti, attori. Lui non si lascia ingannare dall’apparenza come gli uomini: lui capisce al volo quando una persona è veramente sincera e convinta nel profondo del suo cuore. Anzi in proposito è molto chiaro: “Se presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Cioè: tutte le tue offerte, le tue preghiere, le tue liturgie, non servono a nulla, vengono completamente annullate se, invece di provare vero amore nei confronti dei tuoi fratelli, nutri addirittura anche solo verso uno di loro, odio, risentimento, rancore. Non è quindi la preghiera in se stessa che ci rende “divini”, ma è l'amore. Solo se la preghiera è amore, è una preghiera “divina”, gradita a Dio.
La seconda cosa che ci suggerisce questo vangelo sulla purificazione del tempio, è che il tempio siamo noi, è la nostra anima: dentro di noi, insieme a Gesù costretto ormai in un angolo, ci sono i mercanti, i cambiavalute, le pecore, i buoi, le colombe.
Siamo noi i “mercanti”, quando cerchiamo soltanto soluzioni di compromesso, a basso prezzo, quando preferiamo le vie facili e larghe del “così fan tutti”. Siamo i “cambiavalute”, quando facciamo sì la carità, ma in cambio di un tornaconto, di un utile, di un riconoscimento: anche se sappiamo che l’amore non si può mercanteggiare.
Siamo le “pecore”, quando ci comportiamo senza criterio, quando rinunciamo alla nostra identità, quando facciamo solo quello che ci viene detto. Obbediamo passivamente: “Cosa dice Tizio? Cosa dice Caio? Cosa è giusto?”. Siamo rimasti bambini: non c'è nessuna presa di responsabilità nella nostra vita. Rinunciamo a vivere: seguiamo la mandria. Sulla nostra epigrafe verrà scritto: “Ha vissuto tanto... ma per niente”. Oppure: “Non ha mai fatto male a nessuno... perché non ha mai fatto niente”.
Siamo i “buoi”, quando siamo testardi, ottusi, cocciuti; quando procediamo imperterriti senza guardarci intorno. “Perché fai quella cosa?” ci chiedono. “Non lo so!”. E continuiamo a farla. “Ma perché fai quella cosa?”. “Perché l'ho sempre fatta! Che vuoi da me?”.
Siamo infine le “colombe”: siamo cioè quelli che saltellano di ramo in ramo, che non si fermano mai, che sono perennemente scontenti e cercano sempre nuove esperienze, senza mai approfondire i segnali che la vita ci invia; facciamo la “ruota” e “tubiamo” per le nostre innumerevoli iniziative, ma tutto finisce per scivolarci addosso. Ci gonfiamo di superbia: “Io ho fatto il Corso di Liturgia, il Corso di Spiritualità biblica, ho frequentato impegnative catechesi sui Comandamenti, sul Padre Nostro, sul Credo; io Paolo lo conosco come le mie tasche”. Ci vantiamo di conoscere qualunque problematica di teologia e di ascetica, ma non ci accorgiamo che spiritualmente siamo sempre gli stessi: non solo non progrediamo, ma addirittura lentamente regrediamo. Come mai? Perché tutto quello che facciamo, lo affrontiamo superficialmente, senza renderci conto che forse tutta questa sete di “santità” individuale, è solo un pretesto, un alibi, per giustificare la nostra poca disponibilità, il nostro rifiuto ad inserirci concretamente nella comunità parrocchiale, e lavorare nel silenzio, nel nascondimento, nell’umiltà. Allora in questa quaresima di conversione, proponiamoci seriamente di cacciare tutte queste icone che deturpano la sacralità, la grandezza, la bellezza della nostra anima, del nostro tempio di Dio; affranchiamoci decisamente da tutto ciò che ci schiavizza interiormente, per tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore di Dio. Amen.

venerdì 27 febbraio 2015

1 Marzo 2015 – II Domenica di Quaresima


“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse in disparte, essi soli, su un alto monte” (Mc 9,2-10).
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: sono quelli stessi che lui ha personalmente chiamato al suo seguito, ai quali ha messo anche un soprannome: Simone diventa Pietro, cioè “testa dura”, Giacomo e Giovanni sono invece i “Boanèrghes”, ossia “i figli del tuono”, dei fanatici, dei collerici, dei violenti, a cui non sta mai bene nulla.
Sappiamo però dal vangelo che tutti gli apostoli, Pietro in particolare, cambiano radicalmente modo di pensare e di agire: Pietro si diventa il “capo”, la guida, il punto di riferimento del gruppo; Giovanni diventa addirittura il “discepolo amato, quello che posava il capo sul petto di Gesù” (per dire la trasformazione in amore, in dolcezza, in tenerezza): il loro è stato quindi un cambiamento radicale, definitivo: una revisione totale e profonda della loro vita.
Un cambiamento che ci mette di fronte ad una realtà: per poter seguire Gesù, è necessario trasformare non solo il nome, ma anche e soprattutto il carattere. In altre parole è necessario “convertirsi”; la conversione infatti comporta proprio questo: smettere di essere “noi stessi”. Certo noi rimaniamo sempre “noi stessi”, ma siamo “diversi”, non sentiamo, non pensiamo, non viviamo più come prima, perché abbiamo fatto una nuova esperienza che ci ha cambiati completamente. Gli orientali la chiamano “illuminazione”: prima eravamo ciechi, ora ci vediamo perfettamente; i cristiani “conversione”: vivere cioè una nuova vita con Lui, in Lui; in maniera diametralmente opposta allo stato di “peccato” che implica un comportamento lontano da Lui.
Gesù quindi “li condusse sopra un monte, in un luogo appartato, in disparte”.
Il monte non è tanto un'indicazione topografica, ma teologica. Cos'era il monte nell'antichità? Era il luogo della terra più elevato verso il cielo, quindi il luogo più vicino a Dio (che stava nei cieli). “In disparte” poi, nei vangeli, ha sempre una valenza negativa: significa, cioè, che questi discepoli sono in qualche modo in contrasto con Gesù, hanno cioè combinato qualcosa che non andava bene. È di poco prima, infatti, la ribellione testarda di Pietro, allorquando Gesù annuncia la possibilità di essere rifiutato e addirittura ucciso (anche qui Marco sottolinea che Pietro “lo prese in disparte”); uno scontro piuttosto violento, tanto che Gesù gli grida: “Lungi da me satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro vede ancora Gesù come un Messia potente, forte, uno che deve in ogni caso imporsi; non vuole saperne di un Gesù mite, remissivo, che predica parole di amore, di perdono e di misericordia.
Anche Gesù, quindi, li prende “in disparte”: deve cioè dimostrare, in maniera forte e inequivocabile, che Lui non è il messia che loro si aspettano; Lui non è un nuovo Elia, non è un nuovo Mosè, come essi avrebbero voluto. Dicevano sì di amarlo: ma amare significa vedere le persone per quello che sono, e non per quello che noi vorremmo che fossero.
A questo punto Gesù si trasfigura: Marco usa il verbo meta-morfeo, cioè “mi metamorfizzo”, entro in una completa metamorfosi. Inoltre il verbo è usato al passivo e, come sempre in questi casi, sta ad indicare un diretto intervento di Dio: quindi non è Gesù che “si” trasforma, ma è Dio stesso che “lo” trasforma. Dunque Dio lo trasfigura: un particolare colpisce l’attenzione dei tre discepoli: le sue vesti erano così bianche che “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Cosa vuol dire? Che per quanto noi facciamo (anche il miglior lavandaio) non potremo mai raggiungere da soli lo splendore di questa condizione: uno splendore che soltanto chi si lascia invadere da Dio può raggiungere; solo chi si lascia trasfigurare da Dio.
Vi ricordate Madre Teresa? Il suo volto era pieno di rughe, scavato, ma aveva uno sguardo splendido. Perché? Perché in lei Dio si rendeva visibilmente splendente; Dio la trasfigurava. Guardandola si vedeva in lei qualcosa di oltre, di più in là del suo volto: in lei risplendeva Lui.
La radice greca di “splendore” deriva da spodèo, che vuol dire “ridurre in cenere, eliminare, distruggere”. Lo splendore ha sempre a che fare con una trasformazione radicale, con un bruciare il vecchio, ridurlo in cenere, eliminarlo, per diventare qualcosa di completamente nuovo, di rinato.
Poi il testo continua: “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù(Mc 9,4). È il massimo del massimo. Sono i due più grandi personaggi della tradizione d'Israele. Mosè il grande legislatore, il grande condottiero, il liberatore del popolo dalla schiavitù d'Egitto; Elia, il riformatore religioso, colui che con ferma determinazione, attraverso anche la violenza, aveva imposto al popolo “disperso” la legge di Mosè. Quelli che, secondo la tradizione, non erano neppure morti; quelli che, soli, avevano incontrato Dio a tu per tu, e avevano parlato con Lui. Qui però non parlano più con Dio, ma parlano con Gesù: si vuole cioè dimostrare che Dio e Gesù sono un tutt’uno. È chiaro. E fin qui tutto bene. Ma ora scatta la reazione di Pietro. Marco gli mette addirittura l'articolo: “Il Pietro”, come a dire il testardo, il duro. E cosa dice Pietro? “Rabbì”; Pietro chiama Gesù “Rabbì”; ma chi era il Rabbì? Era colui che si atteneva strettamente alla tradizione degli antichi. Solo due persone, in Marco, chiamano Gesù con questo nome: Pietro e Giuda. Sono coloro che, identificandolo con il messia annunciato dalla tradizione, non accettano le sue novità “rivoluzionarie”, destinate solo a stravolgerne la missione. In pratica Pietro gli dice: “No! Tu non puoi essere così. Devi essere diverso; devi essere colui che incarna la tradizione, quel liberatore che i nostri padri ci hanno predetto”. In altre parole rifiuta Gesù e gli dice: “Così come sei, noi non ti vogliamo!”. Egli nella sua testa ha un’idea chiara di come deve essere il “maestro”, il “Rabbì” e invece di essere lui a conformarsi alle idee di Gesù, pretende che sia Gesù a conformarsi alla sua idea.
In genere ci sono due modi di rapportarsi alle cose, alle persone, agli eventi.
Il primo dice: “Questo non è come io penso: quindi non vale”. In pratica riduciamo la realtà a ciò che pensiamo nel nostro cervello. Per cui se una cosa non è come noi la pensiamo, la eliminiamo, la scartiamo.
Il secondo invece dice: “Questo non è come io penso, ma può essere vero. Cercherò, studierò e, se sarà vero, lo accetterò anche se non è come io penso”. In questo caso la mente è disponibile ad adattarsi alla realtà.
Nel primo, identifichiamo tutto con noi stessi: rifiutiamo cioè la realtà in quanto tutto è e deve essere come pensiamo noi. Nel secondo ci apriamo invece alla realtà: riconosciamo cioè che la realtà è più grande di noi, esula da noi, non è come la pensiamo. Vivere, imparare, vuol dire aprire la nostra mente alla realtà, non ridurre la realtà alla nostra mente. Infatti, anche se una cosa ci sembra impossibile, non è detto che lo sia; anche se una cosa ci sembra evidente, non è detto che sia vera, reale.
Dunque: cosa dice Pietro? “Rabbi è bene per noi stare qui; facciamo tre capanne”. Perché tre capanne? Nella tradizione ebraica si sapeva tutto del Messia. E alla domanda: “Quando verrà il Messia?”, la risposta era chiara: “Durante la festa delle capanne”: la festa religiosa in cui si commemoravano i quarant'anni di deserto, dopo la liberazione dagli Egiziani e dalla schiavitù, ottenuta grazie a Mosè. Fare tre capanne significa allora cercare di tenersi buono Gesù: essi sapevano infatti che contrastando rudemente il suo operato, così diverso da come essi se lo aspettavano, prima o poi sarebbero incorsi nelle sue punizioni, nei suoi castighi. Lo vedono ancora con i loro “vecchi” occhi, e questo incute loro paura: “erano stati presi dallo spavento”.
Del resto, come se non bastasse la visione della “trasfigurazione”, sentono improvvisamente la voce di Dio che dalla nube che li sovrastava, esclama in maniera perentoria: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. È Lui che dovete ascoltare: non Mosè, non Elia, come avete sempre fatto, attaccati come siete al vecchio, alla tradizione, a ciò che è stato. Inutile insistere nel voler fare di testa vostra, come volete continuare a fare.
E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”.
Per accettare Gesù, il Gesù che è davanti a loro, essi devono abbandonare, devono lasciare, rigettare, tutto ciò in cui prima credevano ciecamente. Un decisivo salto di qualità, che richiede la loro completa fiducia: devono credere anche se non capiscono e non condividono. Inoltre, una volta tornati giù, Egli si fa promettere di non parlare con nessuno di ciò che avevano visto, “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti”. Altro particolare che li mette ancor più in confusione. Per loro è veramente troppo: obbediscono all’ordine di Gesù, anche se non riescono ancora a capirci nulla, soprattutto “cosa significasse quel risorgere dai morti”. Ma capiranno anche questo: lo capiranno più tardi, dopo la resurrezione.
E concludo: a noi cristiani del XXI secolo, cosa dice questo vangelo? Prima di tutto dobbiamo evitare il comportamento di Pietro che non accettava Gesù: lo voleva “diverso”. Oggi purtroppo quasi tutti amano un Gesù diverso: un Gesù che ognuno costruisce per sé, secondo le proprie idee, le proprie voglie. Ma così facendo amiamo un falso Gesù, un Gesù che ci siamo creati noi nella nostra testa, non il Gesù del Vangelo. Amiamo la nostra idea di Gesù, non Gesù.
Inoltre dobbiamo imparare ad accettare le persone per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero: dobbiamo amare la realtà, perché è l'unica cosa che esiste veramente. Se noi amiamo gli altri perché sono come noi, pensano come noi, fanno quello che vogliamo noi, non amiamo gli altri, ma soltanto noi stessi. Dobbiamo invece accettare che gli altri siano diversi da noi. Perché in questo consiste l'amore: accettare che ciascuno faccia una strada diversa da quella che noi vorremmo per lui. Amare è dire: “Io mi comporterei diversamente, ma accetto la tua scelta”. Accettiamo infine ciò che ci accade. Accettiamo questo mondo. “Questo mondo mi fa schifo; è pieno di ladri, di imbroglioni; ciascuno pensa solo a se stesso, non c'è solidarietà, non c’è carità, non c’è amore; è impossibile amarlo, non lo posso accettare!”. Avremo anche ragione: ma se eliminiamo questo mondo “di schifo”, quale altro mondo ci rimane? E se invece provassimo ad amarlo sul serio? Se provassimo noi, nel nostro piccolo, a migliorarlo, a farlo diverso? L'amore è anche accettazione: possiamo non condividere, possiamo essere contrari, possiamo dissentire, ma alla fine accettiamo le scelte degli altri; anche se non corrispondono ai nostri parametri. Dice Gesù, “se amate quelli che vi amano (cioè quelli che la pensano come voi), che merito ne avrete?” (Lc 6,32). È solo amando, sempre e comunque, che verremo riconosciuti come figli di Dio e riamati da Lui. Amen.  


giovedì 19 febbraio 2015

22 Febbraio 2015 – I Domenica di Quaresima

«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).
Con il vangelo che fa riferimento alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce ogni anno nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. In questo istante Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Come è possibile?” ci chiediamo: qui lo Spirito si dimostra chiaramente contrastante, incoerente! Ma se pensiamo così, siamo noi che non abbiamo capito Dio, siamo noi che ci siamo fatti di Dio un’idea completamente falsa. Noi, infatti, ci siamo abituati a ragionare di testa nostra: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è di Dio, è un castigo che viene dal diavolo, dal male. Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: l’origine è unica; preoccupiamoci invece di capire, di volta in volta, il vero motivo di quell’evento, di quella “prova” che Dio ci manda: qual è la strada, quale il passaggio da percorrere, quale la strettoia da superare.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori.
Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: egli è invece un passaggio necessario, una strada che dobbiamo obbligatoriamente percorrere per maturare, per evolvere, per liberare tutta l'energia e le potenzialità che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, Satana, l’avversario, svolge una funzione necessaria, una funzione positiva, utile nella nostra vita, in quanto ci educa, ci matura, ci rende possibile l’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi: ed è ovvio, perché se è il demonio che ci punisce, cosa possiamo farci noi? Niente!
Se però consideriamo le contrarietà che ci capitano, se consideriamo le prove della vita, come prove, come un ostacolo-barriera da superare, allora capiamo che siamo chiamati a compiere un passaggio, un percorso; e non è il diavolo che ci chiama a compiere questo passaggio. ma è Dio stesso. Dio, cioè, non vuole il nostro male; non vuole che ci abbandoniamo fatalmente al male, senza combattere, senza capire che Lui vuole da noi una reazione, che affrontiamo coraggiosamente i nostri demoni, e non che fuggiamo impauriti da loro. Lo Spirito infatti costringe nel deserto (nelle prove) Gesù (e anche noi), proprio perché si confronti faccia a faccia con i suoi demoni.
La parola tentazione (Mc 1,13: peirasmos) vuol dire “mettere alla prova, verificare, fare un test”. Un po’ come succede nelle nostre scuole: gli alunni studiano durante l’anno, e poi sono chiamati a sostenere una verifica, per vedere se hanno capito, se hanno studiato. È la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci sbagliare”. Assolutamente no. Egli ci mostra, ci documenta, ci rivela ciò che siamo in realtà, quali sono le nostre forze, la nostra volontà, la nostra fede, il nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità.
La tentazione non è il male, ma è l’occasione che ci rivela il male, che ce lo rende visibile, è la manifestazione del nostro “alter ego”, quello che noi non vogliamo vedere né far vedere, quelle sembianze che preferiamo tenere nascoste, che preferiamo tenere lontane da noi; in altre parole la tentazione non fa altro che rendere pubblica l’altra nostra faccia, non quella “perbenista”, ma quella contraria, quella che si coniuga felicemente con quello che noi definiamo “il male”. Ogni uomo ha un lato oscuro di se stesso che non vuol vedere, che nasconde nel segreto, che non vuole soprattutto rivelare a nessuno. La tentazione, nostro malgrado, ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla nostra zona d’ombra: perché è attraverso questa lotta interiore, che possiamo far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha nascosto dentro di noi. E allora, nella nostra vita, tutto sarà più bello, tutto sarà più chiaro, tutto sarà più facile ed entusiasmante.
Se infatti osserviamo bene, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Sì, perché il “dono” delle tentazioni è una forza irresistibile: tant’è che da quel momento Gesù non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione. Per questo dobbiamo entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, consegue sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nella nostra zona d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi; e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere e valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente. Non a caso il vangelo parla proprio di deserto. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo e costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una cosa, vuol dire che quella cosa non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.

giovedì 12 febbraio 2015

15 Febbraio 2015 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1, 40-45).
Il vangelo di oggi ci riporta lo stupendo incontro tra Gesù e un lebbroso. Noi difficilmente riusciamo a capire oggi cosa volesse dire essere lebbrosi a quel tempo. In pratica erano dei morti viventi. E se per noi oggi è molto difficile contrarre questa malattia, tuttavia abbiamo molte probabilità di ritrovarci pienamente in quel lebbroso.
La lebbra è una malattia della pelle, e la pelle per noi è l’organo di relazione per eccellenza: ci mette cioè in contatto con l’esterno. Tutti noi sentiamo il bisogno naturale del contatto, dell’essere accarezzati, abbracciati, toccati. A volte ne abbiamo paura; a volte, per i fatti della vita, fuggiamo da qualunque vicinanza, ci dà fastidio; magari la evitiamo proprio perché ci ricorda esperienze amare, violente o sporche. Ma, nonostante ciò, noi tutti abbiamo il bisogno innato di essere avvicinati, toccati, accarezzati.
Il contatto ci rassicura. Quando qualcuno ci abbraccia ci sentiamo protetti: “Ci sono io, qui sei al sicuro, non aver paura”. I neonati, al loro affacciarsi alla vita, quando sono abbracciati, si sentono esattamente così: al sicuro, protetti; non hanno paure e non conoscono l’angoscia dell’ignoto. Ma quando ciò non avviene, un’ansia tremenda li invade e si sentono perduti: e piangono finché qualcuno non li riprende in braccio. Ebbene: noi siamo esattamente come i bambini. Quando stiamo male, un abbraccio silenzioso ci solleva più di tante parole, ci aiuta più di qualunque altra cosa. Anche il solo guardarsi negli occhi, può esprimere l’amore più di mille parole affettuose. Il darsi la mano, il tenersi per mano, ci esprime sicuramente l’interesse dell’altro nei nostri confronti, più qualunque sua rassicurazione vocale; un contatto, una vicinanza, ci rilassano, ci distendono, ci fanno sentire amati e accettati per quello che siamo, ci scaricano le tensioni: ci fanno ritrovare insomma il benessere, la piena armonia del corpo e dello spirito.
Eppure un tempo si diceva: “Il corpo è male; il corpo è peccato; state attenti, evitate di toccarvi!”. E ogni contatto sembrava essere una proposta sessuale. Ma allora perché Dio ci avrebbe dato un corpo, e lui stesso si sarebbe fatto corpo umano? Basta leggere il vangelo: quando la cultura di allora, molto più chiusa e moralista della nostra, proibiva addirittura di sfiorarsi in pubblico, Gesù non solo abbraccia le donne, accarezza i bambini, ma tocca anche i lebbrosi, le persone infette; tocca gli occhi dei ciechi, le orecchie dei sordi, prende per mano i paralizzati e impone le mani sulla loro testa. Egli stesso si lascia toccare dai lebbrosi, dai malati, dalle donne; anche dalle donne di assai dubbia moralità come quella che gli lava i piedi con le lacrime o quella che lo unge.
Ma il contatto è decisivo per un altro motivo. Quando uno ci tocca noi ci percepiamo, ci “sentiamo”. Abbiamo detto che quando una madre accarezza il figlio, senza fretta e con partecipazione, questi sente di esistere, di esserci, percepisce i propri limiti, i propri confini. L’esperienza ci dice infatti che se un bambino non è toccato, avrà grossi problemi di identità: non sa esattamente chi sia, non conosce i suoi confini, non sa distinguere tra sé e gli altri.
Quando in un clima di silenzio, di presenza, di consapevolezza, le persone si incontrano e si toccano, si sfiorano, o semplicemente si danno la mano, il contatto fa uscire tutto quello che c’è dentro: paura, traumi, dolori, sofferenze, ricordi, ecc. La mente talvolta può ingannare, ma il contatto no, non inganna mai, perché ripeto, il contatto ci “contatta”, ci mette in relazione con ciò che abbiamo dentro, con ciò che c’è dentro di noi. E questo può far paura, può far scappare, può procurarci un tremendo fastidio. In qualche modo noi stessi ci sentiamo sporchi, ci sentiamo da evitare, ci sentiamo “lebbrosi” come quello del vangelo.
Sì, perché la lebbra, oltre che una malattia personale, al tempo di Gesù, era una malattia sociale. Il lebbroso veniva escluso dalla comunità, doveva vivere fuori dal paese, lontano da tutti. Il lebbroso quando qualcuno gli si avvicinava doveva gridare: “Lebbroso, lebbroso” e suonare una campana per segnalare la sua presenza. Si credeva infatti che fosse una malattia contagiosa, trasmissibile. Non solo erano malati ma erano anche una vergogna sociale e non potevano essere toccati da nessuno.
Oggi, più comunemente, ci sono tante altre tipologie di lebbra: c’è la lebbra di quel giudizio tagliente e ingiusto da parte della gente, quell’etichetta che gli altri ci appiccicano addosso e noi non riusciamo più a togliere; c’è la lebbra di chi non si sopporta così com’è, non sopporta il proprio fisico, il proprio corpo, il proprio carattere, la propria vita; c’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra di chi non è sopportato dagli altri, di chi è escluso dal suo ambiente, di chi è messo in disparte nelle scelte lavorative, di chi è disprezzato, di chi è preso in giro, di chi è oggetto di scherno e viene umiliato per qualunque cosa; c’è la lebbra della vergogna, di quando si viene continuamente additati per degli errori commessi tanto tempo addietro; la lebbra di chi non perdona mai gli altri, di chi confessa da anni sempre lo stesso peccato senza mai pentirsi; di chi al contrario si trova colpevole sempre e di tutto; c’è la lebbra di chi si sente inferiore perché non ha avuto la possibilità di studiare, di fare carriera, di chi è convinto di non essere fisicamente bello, affascinante, attraente. Chi di noi non è affetto da qualcuna di queste forme di lebbra? Chi di noi può affermare in cuor suo di non assomigliare in qualche modo al lebbroso del vangelo di oggi?
Ma vediamo come si sono svolte le cose fra lui e Gesù. Prima di tutto sulla scena appare lui, il lebbroso, che si butta in ginocchio e lo supplica: “Se vuoi puoi guarirmi!”: egli sente che non può più continuare a vivere in questo modo, sente che da solo non potrà mai venirne fuori. Si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”.
Buttarsi in ginocchio equivale a smettere di resistere; piegare le ginocchia significa riconoscere di aver bisogno di qualcuno. Perché chi non si crede malato, non può guarire; chi si crede sano, non va dal medico. Il primo passo è pertanto: “Ho un problema, ho bisogno di una mano”.
Poi appare Gesù, il quale dimostra subito di provare nei suoi confronti qualcosa di forte ed intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco indica l’amore tipicamente al femminile, quello che ti tocca dentro, che ti “contorce le viscere”; le viscere, per gli antichi, sono il luogo dei sentimenti vulnerabili, come l’amore, la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Ora, quando un uomo arriva ad essere rifiutato da tutti, come prima cosa ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi accettato, accolto, di sapere che c’è qualcuno che non lo disprezza, qualcuno che non lo rifiuta, qualcuno che gli riserva quell’amore che salva: nient’altro. Perché solo quando ci sentiamo davvero amati, soltanto quando ci sentiamo stimati, ci rendiamo conto di avere un valore, di non essere dei miserabili, che la nostra vita vale veramente la pena di essere vissuta in pieno.
Gesù guarda quest’uomo, che tutti evitano e rifiutano, ma lo fa con occhi diversi: “Io credo in te; io so che in mezzo al tuo schifo c’è una perla, c’è una rosa, c’è qualcosa di grande. Sei così, in quanto deformato dal dolore della vita, ma io so e vedo la tua bellezza. Voglio che tu possa tornare a risplendere”.
Lo sanno bene i preti, gli educatori, gli psicologi, i maestri, gli insegnanti: se essi non credono sinceramente che l’alunno possa diventare migliore, questi non lo diventerà mai. Devono essere sicuri che lui riuscirà, che potrà migliorare, che potrà essere diverso da com’è. E se lui percepisce in loro questa sicurezza, è fatta. Se al contrario non rileva in loro alcuna certezza, nessuna fiducia, per lui non c’è alcuna possibilità.
Il sentimento di Gesù si trasforma quindi in azione: “Stese la mano”. Gesù lo ama, e il suo amore si fa azione, “lo tocca”. È il miracolo dell’amore.
Caliamoci per un istante nella realtà di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole tra i piedi, tutti gli stanno alla larga. Tutti dicono: “Sei ammalato perché sei un peccatore, non hai speranze, devi scontare!”; Gesù invece, il maestro, sfidando una religione per la quale anche solo toccare un lebbroso significava contrarre l’impurità, gli va incontro, lo tocca; stende le mani e lo abbraccia. È sufficiente questo gesto perché dentro di sé quest’uomo riconosca: “Ma allora non sono sbagliato completamente; allora anch’io posso essere amato; allora non faccio proprio schifo; allora posso vivere!”. Riconoscendo però la propria impurità, quasi si ritrae: “No, no, non farlo; sono un peccatore, faccio schifo, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non ho paura della tua malattia”. L’uomo tenta ancora di ritrarsi, ma Gesù lo trattiene tra le braccia e gli dice: “Lo voglio, guarisci”. Il testo greco per dire “guarire”, usa il verbo katarizo, che significa tornare puro, limpido, diventare puro come una sorgente. In altre parole: “Sii te stesso: sii puro, chiaro, schietto. Torna ad essere la sorgente limpida che eri quando Dio ti ha creato. Se getti via da te tutto il rancore, l’amarezza, la vergogna, il rifiuto che hai subito, torni ad essere te stesso”.
Ecco, questo è per Gesù il vero significato di guarire: è essere se stessi, tornare ad essere quella forma autentica, quell’idea originale che Dio, Vita, ha attuato creandoci, e che i fatti e le circostanze della nostra vita hanno deformato, alienato, distrutto. “Fare la volontà di Dio”, pertanto, altro non è che essere pienamente noi stessi. Le persone sono infelici perché non vivono la propria conformazione: vogliono essere qualcos’altro che non sono. Neppure sanno chi sono e cercano di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare ciò per cui siamo stati “pensati” da Dio. Se uno non vive la propria forma si sforma, si deforma.
Molti a questo punto si chiedono: “Cosa devo fare?”. Hanno purtroppo perso il senso della propria origine, del proprio essere. “Sono finito!”. Si sentono perduti, alla deriva. Ma se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di scendere dentro di noi, potremo vedere che c’è uno spiraglio, una piccola parte che non è deformata, che non è corrotta, distrutta.
È proprio così: la sorgente di luce che Dio ha posto in noi, può anche essersi spenta, offuscata, coperta, ma non si è distrutta. È come essere in una stanza al buio: non si vede nulla. Ma la luce c’è, basta accenderla. Basta fare contatto con la Sorgente e la luce tornerà a brillare.
Gesù dice: “Io lo voglio!” Ma noi? Lo vogliamo noi? È per questo che Gesù non poteva guarire tutti. A casa sua, nel suo paese, non guarì praticamente nessuno: erano diffidenti nei suoi confronti, non volevano. Dio non può niente se noi non lo vogliamo; mentre può tutto, se lo vogliamo anche noi. Potremmo dire: “Ma chi è quell’ammalato terminale che non vorrebbe guarire? Di sicuro tutti lo vorrebbero!”. Ma non è proprio così. Infatti guarire, come abbiamo visto, significa “diventare puri, immacolati, tornare ad essere limpidi, cristallini”; significa cioè portare luce nel nostro buio, eliminare l’impurità, le incrostazioni che tolgono la lucentezza. Ora, tutti dicono di voler guarire; ma non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze della guarigione. Abbiamo acquisito una forma che non è la nostra, non siamo più noi; guarire vuol dire appunto eliminare questa forma fasulla di noi stessi, per tornare nella nostra autenticità, nella nostra originalità. Le persone vorrebbero certo guarire, ma senza cambiare le loro idee, i loro pensieri, le loro certezze, il loro modo di vivere: non essere pronti ad operare una radicale trasformazione, significa in pratica non voler guarire! Significa rinunciare a vivere, a guarire, a riemergere alla luce. Gesù è pronto: “Io lo voglio”, ci dice. E noi? Che aspettiamo? Amen.

giovedì 5 febbraio 2015

8 Febbraio 2015 – V Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).
Il vangelo di oggi ci presenta Gesù nel pieno della sua attività: Egli predica e guarisce tutti gli ammalati che incontra. Succede che anche la suocera di Pietro sia ammalata: ha la febbre; è chiaro che Gesù, appena la vede, guarisce anche lei. E potremmo fermarci qui: niente di strano, lo fa con tutti, perché non farlo proprio con la suocera di Simone?
Ma, volendo scendere più in profondità, viene spontaneo chiederci: qual è il motivo, qual è la causa che ha scatenato nella suocera un febbrone così grave e preoccupante, da richiedere addirittura l’intervento di Gesù? Intanto, parlando di suocera, veniamo a sapere che Pietro è sposato, ha una famiglia. Sappiamo anche che poco prima egli è stato chiamato da Gesù, insieme ad Andrea, Giacomo e Giovanni, e che tutti lo hanno seguito lasciando perdere ogni cosa. E allora pensiamo: non sarà forse questo il vero motivo della febbre che coglie improvvisamente la madre della moglie di Pietro? Le due donne non lavorano, si occupano della casa e Pietro è l’unico loro sostentamento: “Ma cosa stai combinando Simone? Ti rendi conto di quello che stai facendo? Noi non siamo ricche, non possiamo permettere che tu te ne vada piantandoci in asso! Come pensi che camperemo? Chi ci permetterà di sopravvivere? E poi, cosa dirà la gente? Ci giudicheranno, ci disprezzeranno; alcuni già dicono: “bell’affare: tuo genero vi ha lasciate per seguire un esaltato che guarisce la gente in nome del demonio e che con il suo comportamento si è messo contro tutta la sinagoga e le autorità religiose. Ma chi è questo Gesù? Certo, tuo genero dimostra di essere un irresponsabile!”. Un buon motivo per far venire la febbre a questa povera donna!
Ora, per indicare questa febbre, Marco usa il termine greco "puršesso", che significa appunto “avere febbre, calore, fuoco” ma anche “essere alterato dentro, bruciare dentro, essere fortemente indignato, irritato”: significato che ci fa pensare ad una suocera “alterata, infuocata” più che all’esterno, proprio dentro di sé, nell’intimo; in altre parole era arrabbiata, furiosa contro Pietro, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità famigliare, e contro questo Gesù, un tipo strano e per nulla affidabile. È chiaro che la scelta di Simon Pietro ha delle gravi ripercussioni economiche e sociali per questa donna e per sua figlia, sulla cui sicurezza economica Simone, sposandola, aveva assunto dei precisi obblighi. Invece tutto viene dimenticato, tutto passa in secondo ordine: una prospettiva questa che la infiamma d’ira, che scatena in lei tutte le paure; una situazione che la sconvolge, che le procura collera, addirittura odio; è un fuoco rabbioso che le brucia l’anima. E più ci pensa, più cresce in lei il rancore, una febbre che cresce a dismisura.
A questo punto cosa fa Gesù? Egli intuisce il vero dramma di questa donna, egli sa in cosa consiste la sua malattia, la sua febbre: “questa donna ce l’ha con me”. Poteva benissimo far finta di nulla; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, se sta male per causa mia, me lo venga a dire! Sono problemi suoi, non miei!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa si avvicina, la fa alzare e la prende per mano.
Fra i due prima c’era distanza, incomprensione, non si conoscevano: Gesù quindi “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la incontra, si fa conoscere.
La sollevò”: la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si solleva cioè dalla sua paura, dal suo disappunto, dalla rabbia che la domina, dalle sue preoccupazioni per ciò che sta accadendo. “La prese per mano”: Gesù vuole proprio incontrarla, toccarla, entrare in simbiosi con lei; vuole che senta chi è lui, che se ne faccia un’esperienza personale, diretta, che lo possa conoscere a fondo. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”. Non sappiamo cosa si siano detti o cosa di preciso sia successo. Ma da queste poche parole capiamo che Gesù, venuto a conoscenza del risentimento della donna (“gli parlarono di lei”), prende lui l’iniziativa e va da lei: e la donna capisce che quell’uomo non è né un pazzo, né uno fuori di testa.
Il vangelo dice che addirittura passa a “servirli”. Dov’è finita tutta la sua rabbia? Il suo passaggio da uno stato d’animo all’altro è istantaneo, decisivo: dall’odio, all’umile servizio, dal rancore all’amore per quest’uomo straordinario; dal volergli stare il più lontano possibile, allo stargli vicino, al mettersi a sua completa disposizione; dal sentirlo come un nemico, al considerarlo un amico, uno che è con lei e per lei.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, in una parola la sua febbre, improvvisamente scompaiono.
Allora impariamo: Capita anche a noi di avere del rancore, del risentimento, della rabbia nei confronti di qualcuno? Chiariamoci subito, confrontiamoci subito con lui. Perché l’odio genera odio, il fuoco della rabbia montante brucerà sempre più l’anima, fino ad oscurare del tutto il lume della nostra mente.
C’è un problema? Risolviamolo! Non illudiamoci che, di fronte ad un problema, a un’incomprensione, a un dissapore, il metodo migliore sia quello di chiudere gli occhi, di ignorarne l’esistenza: in questo modo, non facciamo altro che alimentare lo stato di tensione derivante da quel problema.
Molte persone odiano perché sono concentrate solo su se stesse: non si mettono nei panni degli altri, non vogliono ascoltarli, non vogliono sentire le loro ragioni. Vedono solo se stesse, e sentono solo il proprio dolore. Ma se noi riusciamo a far sentire loro il nostro dolore, le nostre ragioni, le nostre spiegazioni, sicuramente riusciamo a stabilire un contatto, possiamo incontrarci; e in questo modo riusciamo anche a cancellare le ragioni dell’odio.
Comportiamoci seguendo l’esempio di Gesù. Egli fondamentalmente compie due azioni: per prima cosa è Lui che prende l’iniziativa, è Lui che si muove e va di persona. Noi invece il più delle volte ci chiudiamo in noi stessi, nella nostra rabbia, facciamo gli offesi, ci isoliamo. Certo, è piuttosto normale che quando uno è ferito, si chiuda in se stesso: ma se continuiamo a rimanere così, avvolti nel risentimento, non c’è alcuna possibilità di incontro, di apertura. E in questo modo non risolviamo assolutamente nulla.
La seconda cosa che fa Gesù è quella di usare una grande tenerezza, un amore autentico. Gesù infatti ha capito bene le ragioni di questa donna: è arrabbiata perché non lo conosce, perché lui ha un modo di vivere diverso da “quello di tutti”; tant’è che Simon Pietro, decidendo di seguirlo, ha fatto una scelta radicale, difficile, che lo ha messo contro i suoi famigliari.
L’ignoranza è causa sempre di tanta rabbia, di tanto dolore: ed è naturale. Ma proprio per questo, se vogliamo interagire con una persona arrabbiata con noi, ferita, dobbiamo usarle tanta comprensione, tanta delicatezza; altrimenti non si aprirà mai. Dobbiamo ascoltarla, dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto capire il perché del suo dolore, della sua rabbia. Se rimaniamo entrambi sul piano del rancore, continueremo a farci solo guerra; ma se la incontriamo nel dolore, se gli apriamo il nostro cuore, allora sicuramente apprezzerà la nostra vicinanza, la nostra amicizia.
Poi il vangelo continua: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Sono parole che ci fanno immaginare la presenza di una grande quantità di demoni; sembra quasi che all’epoca ci fossero demoni dappertutto. Ora noi, nella nostra mentalità, pensiamo che il demonio sia “una creatura reale” indipendente e autonoma, che stia ed operi al di fuori di noi: e siccome noi non lo vediamo, stiamo tranquilli. Non ci riguarda. Invece, sappiamo che non è così. Il demonio, come ci spiega il Vangelo, è un essere puramente spirituale, uno spirito ribelle, un “qualcosa” che accompagna e segue l’uomo in ogni suo passo; un “qualcosa” che ci riguarda molto da vicino, che riguarda la nostra libertà, la nostra natura umana, che suggerisce, persuade la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che esulano dall’Amore. “Demoni” sono le allettanti lusinghe del male, i luccichii invitanti del peccato, che ci oscurano la ragione. “Demoni” siamo noi quando, posseduti da questo spirito cattivo cui abbiamo permesso di annidarsi nel nostro cuore, adottiamo uno stile di vita completamente opposto da quello suggerito alla nostra coscienza dallo Spirito di Dio; siamo “demoni” quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente inerte, insensibile, svuotata, morta. Molto spesso purtroppo noi non ci rendiamo conto della presenza e della potenza di azione di questo “malefico tentatore”: tant’è che il demonio peggiore ce l’hanno proprio quelli che sono convinti di non averne! Il “Demonio”, insomma, è una grave malattia dell’anima, che riesce a indebolire e a incancrenire la nostra vita spirituale.
Come combatterlo? Matteo ci dice che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione: ma in luogo deserto. È infatti nel “deserto” della penitenza, nella solitudine, nel mettere a nudo la nostra anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che possiamo individuare e combattere i nostri demoni: e li possiamo vincere, come Gesù, soprattutto con la preghiera: una preghiera a Dio intensa, umile, sincera, riconoscente; è questa, infatti, come ci hanno insegnato anche i santi, l’unica arma valida con cui possiamo smascherare, cacciare e sconfiggere i nostri demoni interiori. Di qualunque genere essi siano. Amen.