venerdì 28 febbraio 2014

2 Marzo 2014 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24-34).
Anche il vangelo di oggi come quelli di queste domeniche, è tratto dal “Discorso della Montagna”, il “manifesto” di Gesù per eccellenza.
Il testo si apre con una dichiarazione che, a rigor di logica, non rispecchia la realtà: avendo infatti la possibilità di scegliere tra due persone diverse, non è detto che scegliendo l’una, si debba necessariamente disprezzare l’altra: possiamo benissimo stimarle entrambe. Per questo dobbiamo capire bene cosa vuol dire Gesù con le parole “amare” e “odiare”. Egli non intende riferirsi tanto ad uno stato d'animo, a un’emozione del cuore, quanto alludere semplicemente alla decisione di seguire l’una o l’altra. O di qua o di là, o al mare o in montagna. Non è possibile andare contemporaneamente in due direzioni opposte. Ci sono cioè delle scelte che ne escludono tassativamente altre. Così, dice Gesù, non potete “servire Dio e mammona” insieme.
Ma cos’è, poi, cosa vuol dire con “mammona”? “Mammona”, dalla radice aramaico-ebraica aman, indica un qualcosa di cui ci si può fidare, su cui si può fare affidamento. Ora le ricchezze, i beni, le sostanze materiali, costituiscono sicuramente un bene su cui possiamo contare per vivere; senza alcuna connotazione negativa. Soltanto più tardi, nel corso dei secoli, il termine “mammona” ha acquisito l’attuale significato negativo di “il male”, “la ricchezza disonesta”, i patrimoni accumulati ingiustamente. Ed è in questo senso che viene posta come alternativa a Dio.
Le possibilità da seguire sono dunque due, e noi dobbiamo scegliere: o stiamo di qua (Dio, la sicurezza spirituale) o di là (mammona, la sicurezza materiale). La scelta di una, esclude l’altra. Con la nostra scelta, noi ci schieriamo con “questo” e non con “quello”; indirizziamo cioè le nostre risorse, il nostro amore, il nostro potenziale, in un’unica direzione, avendo comunque la possibilità di fare il contrario.
“Scegliere”, in concreto, vuol dire costruire la nostra esistenza in un determinato modo, perché sono le nostre scelte che le danno valore o demerito. La nostra vita non è nient'altro infatti che il frutto delle nostre scelte, delle nostre non scelte: delle nostre scelte di coraggio o di paura. Chiaramente poi ciascuno avrà ciò che lui stesso ha scelto di avere.
Scegliere tra “Dio e mammona” significa pertanto stabilire che tipo di vita vogliamo vivere; Dio e Mammona corrispondono infatti a due modi opposti di vivere, a due differenti livelli di vita. I tesori della terra, (mammona, le ricchezze) sono provvisori, posticci; costituiscono un alimento materiale legato al tempo, sono cibo soltanto per il corpo: anche se in sé non sono completamente negativi, danno ben poco, offrono più preoccupazioni che felicità. I tesori del cielo (Dio, l’amore eterno) sono invece immutabili, sono cibo per l'anima eterna: riempiono per davvero in profondità e ci fanno sentire vivi, vitali e felici anche nel corpo. Dovendo scegliere, siamo stati preventivamente avvisati sulle conseguenze della nostra scelta: inutile lamentarci dopo. Se non abbiamo voluto ascoltare, se abbiamo scelto volutamente di ignorare qualunque “scuola di vita” (il Vangelo), attraverso cui imparare a crescere, a conoscerci, a metterci sempre in gioco, a rinnovarci continuamente, e poi un giorno, improvvisamente, ci ritroviamo a mani vuote, ci accorgiamo cioè che la nostra vita è stata un fallimento, non imprechiamo contro Dio, non bestemmiamolo: perché abbiamo raccolto esattamente ciò che abbiamo liberamente seminato.
Se noi pensiamo unicamente ai soldi, alla paura di essere giudicati dagli altri, se la nostra unica preoccupazione è che gli altri sono più ricchi di noi, se il nostro interesse si limita a organizzare soltanto feste, divertimenti e vacanze, vuol dire che abbiamo già scelto a che livello vogliamo vivere. Se vogliamo vivere sulle vette, in alta quota, lontani da ogni inquinamento, dobbiamo scegliere la montagna; se non amiamo la fatica del salire, se non vogliamo arrampicarci sui sentieri rocciosi della perfezione, scegliamo pure di vivere in pianura; non è un problema, ma non lamentiamoci poi dello smog, dell’aria irrespirabile, dell’afa, dei rumori assordanti, del chiasso alienante!
Perché dalla nostra vita noi avremo un risultato finale esattamente congruo a ciò che abbiamo fatto, coerente con la passione che abbiamo impiegato, con l’amore che abbiamo investito, con la nostra volontà di servire, di faticare, di lottare.
Ma Gesù con queste parole vuol dirci anche un'altra cosa: in pratica vuol farci fare un esame di coscienza: “Cos'è prioritario nella tua vita? Cosa c'è al primo posto nel tuo cuore, nei tuoi pensieri?”. Non è difficile individuarlo: se pensiamo continuamente che sono soltanto i soldi che ci fanno star bene, allora vuol dire che al primo posto ci sono i soldi. Se siamo convinti che la gente che ci circonda è disonesta, pronta ad imbrogliarci, avara ed egoista, allora al primo posto c'è la diffidenza, il sospetto. Se pensiamo che tutti sparlano di noi, che siamo al centro di continue insinuazioni, maldicenze e cattiverie da parte degli altri, al primo posto c'è la rabbia. Se pensiamo solo ai vestiti da indossare, ad essere sempre eleganti e in perfetta forma, al primo posto c'è l'apparire, il far bella figura. Se siamo sempre in ansia per quello che facciamo, se è giusto o sbagliato come lo facciamo, allora al primo posto c'è l’insicurezza, la paura di sbagliare. Ma se al contrario vediamo sempre il lato buono e positivo della vita, se siamo felici della felicità altrui, disponibili a condividere se necessario le loro sofferenze, allora al primo posto c'è l'amore. Se cerchiamo di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, anziché mezzo vuoto, allora al primo posto c'è l’ottimismo. Se vediamo che nel profondo di ogni uomo c'è del bene, pur nelle sue debolezze e cadute, e siamo sempre disponibili a correre in suo aiuto, allora è Dio che vediamo in ogni creatura.
Fermiamoci allora un istante e chiediamoci: “Cos'è prioritario nella mia vita? A cosa penso continuamente?” Perché tutti abbiamo dei pensieri “fissi”; tutti siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa; tutti “dipendiamo” da ciò che occupa il primo posto nella gerarchia delle nostre priorità. Perché quello diventerà il nostro Dio; a quello noi saremo sottomessi, a quello noi saremo servitori fedeli.
La seconda parte del vangelo, ci offre poi un'autentica poesia, un'ode, un inno, un canto di Gesù. Sono parole che nascono dal cuore, da una profondità, da un'anima che è già in Dio.
Ma per capirle, queste parole, dobbiamo approfondire alcuni concetti.
Prima di tutto dobbiamo capire cosa vuol dire qui Gesù con “preoccuparsi”. Il termine greco merimnao (preoccuparsi, affannarsi, angustiarsi) viene ripetuto in queste poche righe, per ben quattro volte. Ma con un significato diverso da quello nostro: noi ci “preoccupiamo” perché nostro figlio è in ritardo di mezz'ora: poi arriva e la preoccupazione scompare. Ci preoccupiamo per un esame che vogliamo superare brillantemente; perché abbiamo degli ospiti a cena e vogliamo fare bella figura; perché vogliamo arrivare puntuali ad un appuntamento importante, ecc. La preoccupazione riguarda quindi un aspetto frequente della nostra vita.
Ma nel vangelo, quando Gesù parla come qui di “preoccupazione”, non la collega ad un fatto importante ma passeggero, ad un qualcosa di temporale e transitorio; ma allude alla “costante” di una vita, ad un qualcosa che assorbe continuamente la totalità dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni, dei nostri interessi; un qualcosa che ci coinvolge totalmente; un qualcosa, oltretutto, che può essere capito, perseguito e realizzato soltanto mediante la fede.
L’autentica comprensione di questo vangelo presuppone infatti la fede. Senza fede non lo si può capire. Quando leggiamo infatti che non dobbiamo “preoccuparci” del cibo e del vestito, ma che dobbiamo affidarci completamente alla provvidenza divina, come fanno gli uccelli e i fiori, la nostra esperienza ci documenta che la realtà è ben altra, ci dice che non è vero. Possiamo dire infatti, che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste? No, perché anch’essi devono faticare e volare continuamente per trovare erbe e animaletti con cui nutrirsi; anch’essi cioè si “preoccupano” se non hanno cibo. Possiamo affermare che i gigli del campo, i fiori, le piante, non lavorano? No, perché dentro la pianta, nelle sue radici, c'è un lavorio continuo ed enorme. Possiamo sostenere che mangiare e bere ci viene dato “in aggiunta”, gratis? Decisamente no, perché cibo e acqua non ci cadono dal cielo. Da un punto di vista materiale, dunque, tutto dipende da noi: se non ci diamo da fare non mangiamo e non beviamo, questo è sicuro.
Ma se leggiamo queste stesse parole dal punto di vista della fede, allora ci rendiamo conto che effettivamente tutto dipende da Dio: gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. I gigli dei campi sono vestiti meglio di Salomone? Certamente! E lo stesso vale anche per le cose che ci riguardano, come per esempio per i nostri figli: è ovvio che siamo noi a crescerli materialmente; ma se guardiamo con altri occhi, come possiamo dire di essere noi? Tutto ciò che li riguarda è un miracolo, è un dono: la nascita, la crescita, lo sviluppo, l’intelligenza, la maturità ecc... insomma, non siamo noi che li abbiamo creati così come sono, è qualcun Altro.
Se guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle e la luna che brillano nel cielo, conosciamo bene le loro proprietà sotto il profilo astronomico o fisico; ma se guardiamo con altri occhi, dobbiamo riconoscere che tutto l’universo è ordinato da una mente sublime, da Lui.
Quando siamo veramente felici, quando trabocchiamo di gioia e di amore, noi ci rendiamo conto che l'amore è in noi, che viviamo nell’amore; ma, se riflettiamo, siamo noi ad aver creato questo amore? Viene da noi? È vero, lo sentiamo in noi, ne godiamo pienamente, ma nello stesso tempo non percepiamo di far parte di un progetto d’amore universale, di essere creature volute da un Essere divino e soprannaturale, che è Amore e felicità totale?
È vero: se guardiamo alla nostra vita realizzata e felice, pensiamo subito che tutto è merito nostro; ma con occhi più profondi, con gli occhi della fede, dobbiamo riconoscere che un “Angelo” ci ha sempre protetto e indirizzato nelle nostre scelte.
Avere fede vuol dire dunque guardare la vita oltre ciò che appare. Gesù infatti ci dice: “Guarda oltre gli uccelli del cielo; non riesci a guardare oltre i gigli del campo? Guarda sempre oltre, e troverai qualcos'altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa... guardiamo sempre oltre. Quando guardiamo una persona... guardiamo oltre, guardiamo “dentro” di lei.
Superficialità è fermarsi alla superficie delle cose: la montagna è solo un ammasso di detriti, sassi, alberi e terra; un tramonto sul mare, un concentrato di microparticelle infinitesimali illuminate dai raggi tenui del sole; le persone che incontriamo, soltanto un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule, ecc... Ma è tutto qui? No: avere fede vuol dire non fermarsi a guardare le cose solo per come ci appaiono; vuol dire non essere ciechi, vuol dire non essere fuori dalla realtà. Fede è vedere oltre, dentro le cose, dentro le persone, dentro gli avvenimenti; vedere la vera realtà, la vera essenza di ogni cosa, oltre la crosta, oltre l’apparire.
Questo vangelo allora ci fa riflettere e ci interroga; ci fa capire che per trasmettere la fede, dobbiamo conoscere e parlare il linguaggio della fede: che non è “parole” ma “mistero”. “Mistero” vuol dire appunto “rimanere senza parole, a bocca aperta”. È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di così grande, forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il linguaggio della fede è la musica e la danza dell’universo. È lo stupore, la meraviglia, l'entusiasmo (entusiasmo in greco = “avere Dio dentro”); è la commozione, il pianto, la vulnerabilità, la tenerezza, la compassione. È la “passione”: il percepire, il sentire, il patire con gli altri. Fede è la percezione del Mistero di Dio che ci abita. È parlare con Dio. Nella nostra vita sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se sì, è allora che viviamo di fede.
Allora avere fede, vuol dire non aver paura: perché la fede è il contrario della paura, è non lasciarsi bloccare dalla paura. Nella Bibbia l'espressione “non temere” ricorre ben 365 volte, esattamente come i giorni dell'anno: per cui ogni mattina dobbiamo alzarci armandoci di tanta fede, allontanando decisamente dalla nostra mente ogni presagio di paura. Con questo però non vuol dire che tutto andrà automaticamente bene: ma che, in ogni caso, sapremo affrontare con fiducia ciò che ci capita. Fede (in Dio) è sapere che, comunque, avremo le risorse, le capacità, l’aiuto divino, per affrontare e superare ciò che la vita ci chiama ogni giorno ad affrontare e superare.
E concludo: siamo sempre aperti e positivi con tutto quello che incontriamo; avventuriamoci nel tempo, plasmiamo il mondo, ma non facciamoci assorbire da esso. Cerchiamo la nostra forza interiore, che sta nella dedizione verso gli altri e non nell'io. Non perdiamoci nell’esteriorità, nell’apparire, ma tutto ciò che facciamo, facciamolo col cuore, guardando in alto. Viviamo i nostri valori, e non giudichiamo gli altri. Combattiamo per i nostri ideali, per i nostri obiettivi, ma cerchiamo soprattutto la pace interiore. Affrontiamo le nostre paure, non neghiamole, ma trasformiamole in forza di vita. Accettiamo il nostro essere “finiti”, mortali, ma con la certezza di essere vivi e amati dall’Amore infinito. Amen.

mercoledì 19 febbraio 2014

23 Febbraio 2014 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,38-48).
Gesù continua anche oggi la sua catechesi sul comportamento che dobbiamo tenere. Domenica scorsa ci aveva detto che Lui non era venuto per abrogare l’antica legge, ma solo per “completarla”; come? puntando il dito sullo spirito con cui ci poniamo di fronte alle leggi: perché è questo che deve cambiare; quindi niente più esibizionismi, esteriorità, tornaconto, ma solo cuore, amore, altruismo.
Nel vangelo di oggi va oltre, entra nello specifico: ci illustra cioè con raccomandazioni ed esempi, fino a che punto dobbiamo arrivare per essere coerenti con la sua legge dell’amore.
E come al solito Gesù è molto chiaro ed esplicito: “Avete inteso che fu detto agli antichi: occhio per occhio e dente per dente”. Certo, era la legge del “taglione”; una legge brutale, primitiva; una legge discutibile quanto si vuole, ma che almeno riusciva in qualche modo a limitare la vendetta e la selvaggia sopraffazione del più forte, ristabilendo una certa parità.
È chiaro che una legge che cerca di fermare il male, ricorrendo ad altro male, non offre una soluzione valida del problema: soprattutto non risolve di certo il male, semmai lo raddoppia.
Per questo Gesù, a tale prospettiva, contrappone immediatamente (io però vi dico) una nuova economia, la sua, quella dell’amore. In un clima arroventato dalla vendetta, dall’odio, dalla legge del più forte, dall’egoismo, Egli introduce la legge del perdono, della generosità, della comprensione, dell’amore sincero.
“Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. Beh, bisogna riconoscere che sono parole pesanti, incomprensibili per la mentalità di allora e di oggi.
Del resto sono parole che non si trovano in tutto l'Antico Testamento, non si trovano nei Vangeli (solo in Luca e in Matteo), non si trovano nel resto del Nuovo Testamento e neppure nella letteratura ebraica o cristiana. È un comandamento nuovo, unico, è un fulmine a ciel sereno.
Gesù con queste parole vuole stravolgere l'immagine tradizionale di Dio: il Dio che lui rivela all’umanità è un Dio completamente diverso: non è violento, non nutre odio, non è vendicativo. Finora si diceva: Dio è potente perché si fa giustizia, perché punisce, castiga; è “collerico” e si vendica. Ma Gesù intende mettere un punto fermo a questa concezione. In pratica dice: nossignori! Dio non è affatto così. “Il Padre celeste fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti”. Dio non è violento; quindi, cari ebrei, Dio non invierà nessuno a sistemarvi le cose, Dio non verrà a liberarvi, facendo guerra ai romani”. Il Dio dei Patriarchi che scende dall’alto e combatte contro i nemici del “suo” popolo, non c’è più: la grande illusione, l’antica certezza che un giorno le cose sarebbero cambiate per mano di un inviato divino, di un re, di un condottiero che avrebbe fatto delle giuste rappresaglie, deve cadere. “No, Dio non verrà così, perché Dio non è così”.
Quella che Gesù propone, è una mentalità nuova, uno stile nuovo, passivo, remissivo, umile. La sua è una resistenza non violenta, ma altrettanto efficace sia sul piano sociale che personale.
Contro il dramma della tirannia del male, contro una naturale rassegnazione umana, contro il lasciarsi trascinare dagli eventi, Gesù prospetta una nuova soluzione: “Non arrendetevi. Voi dovete insorgere: dovete comportarvi in un modo clamoroso; dovete andare oltre ogni regola e ogni comune aspettativa. Voi dovete amare. Dovete amare spassionatamente. Nessuna tirannia umana può imporre dei limiti al vostro cuore, alla vostra coscienza, al vostro amore; nessuna tirannia può privarvi della vostra dignità di creature di Dio, della vostra libertà interiore. Possono schiavizzarvi nel corpo, ma niente e nessuno potrà mai costringervi dentro, nel vostro intimo, a meno che non siate voi stessi a volerlo”.
“Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”: è questo dunque il succo delle regole e degli esempi che Gesù ci fa nella Parola di oggi. È la sintesi dei suoi insegnamenti.
Così, con il primo, raccomanda: “Non opporti al malvagio”. In altre parole: “per vincere il male dovete combattere soprattutto il male, non la persona che lo compie”. Non dobbiamo disprezzare e non dobbiamo condannare a priori il fratello che, sventuratamente, si comporta male: è già sufficientemente punito dalle sue stesse opere cattive, che lo tengono lontano dall’amore divino: inutile infierire contro un poveretto, infierire contro chi si procura da solo la propria infelicità; non discriminiamo un fratello che, proprio in quanto tale, merita invece la nostra carità, la nostra compassione, il nostro amore. Odiarlo significherebbe abbassarci al suo stesso livello, entrare anche noi nella medesima spirale di violenza che allontana da Dio e rende infelici. Gesù odia il peccato, ma ama i peccatori; dobbiamo fare altrettanto; quando infatti noi odiamo i nostri fratelli peccatori, dimostriamo tutta la nostra fragilità, la nostra dipendenza dal male; dimostriamo cioè di avere anche noi la loro stessa mentalità di peccato. Solo se il nostro cuore è puro, solo se viviamo nell’amore di Dio, possiamo amare con tenerezza il peccatore, possiamo cioè compatirlo (patire-con-lui), condividere cioè il suo dolore, accogliendo sulle nostre spalle il peso del suo fardello, sull’esempio di Cristo, l’Agnello di Dio, che per togliere i peccati del mondo li ha presi su di sé.
In questo senso, non solo non dobbiamo ricambiare male con male, ma dobbiamo essere pronti a sopportare addirittura il doppio di quanto ci viene fatto: “a chi ti schiaffeggia, offri l’altra guancia”.
Colpire con uno schiaffo era abbastanza normale a quel tempo: era il modo di chi stava sopra per umiliare chi stava sotto. Era normale per i padroni colpire gli schiavi e i servi; era normale per i mariti colpire le mogli. Come altrettanto normale e umano, per chi subiva questi affronti, era il provare sentimenti di ribellione, di odio e di vendetta. La vita purtroppo è così: ci ferisce, e ogni ferita provoca in noi due sentimenti tremendi: dolore e collera. Tanto dolore, tanta collera; tanta sofferenza, tanto odio. Se conserviamo l'odio dentro di noi, esso fermenta, diventa rancore, ci inaridisce, ci indurisce la mente e il cuore: noi invece, non possiamo mai correre il pericolo che il rancore uccida il nostro cuore. Per questo Gesù vuole suggerirci: “Guarda negli occhi chi ti percuote e porgigli anche l'altra guancia. Dimostragli cioè che sì, lui ti può punire, può farti del male; può anche sottomettere con la violenza il tuo corpo: ma non potrà mai dominare il tuo cuore”.
Ancora: “ se uno ti vuol portare via la tunica, lasciagli anche il mantello”.
La tunica era il capo d'abbigliamento intimo, che si portava direttamente sul corpo; il mantello, invece, era il capo pesante che si portava al di sopra. La tunica rappresenta quindi l'intimità: “vuoi ferirmi nell'intimità? Ok, puoi farlo; puoi anche prendermi tutto, lasciandomi nudo come un verme, ma non potrai mai privarmi della mia dignità. Non ho nulla da nascondere”. Succede infatti che quando compiamo un errore, quando ci rendiamo conto di aver commesso un’infamia, ci copriamo, facciamo di tutto per nascondere agli altri la nostra vergogna, il nostro peccato; siamo pronti ad indossare qualunque maschera, anche la più fasulla, pur di “coprire” la nostra “nudità” interiore, pur di salvaguardare in qualche modo la nostra immagine esteriore, la nostra rispettabilità di fronte agli uomini; pensiamo di ingannare la nostra coscienza ricorrendo a falsi travestimenti: e non ci rendiamo conto che, così facendo, perdiamo la nostra dignità: se al contrario amiamo, se viviamo uniti a Dio, niente e nessuno può farci temere la nostra “nudità”: perché davanti a Dio siamo sempre nudi, nudi con le nostre sole opere!
 “Dà a chi ti chiede”: è la regola aurea per mantenere sempre la nostra integrità morale: poiché “dare” sta esattamente agli antipodi rispetto a “prendere”. Prendere, possedere, è infatti il principio di ogni male. Dare, al contrario, comporta sempre una condivisione. Quando “diamo”, entriamo “in comunione”, stabiliamo cioè col prossimo un intimo rapporto di amore e carità.
Infine, l’ultima raccomandazione: “se uno ti costringe a fare un miglio, tu fanne due”.
Cosa vuol dire? Significa che non dobbiamo adattarci supinamente alle provocazioni della vita (fare un miglio); ma dobbiamo reagire, dobbiamo mantenere sempre il potere della nostra libertà. Dimostriamo al mondo che siamo sempre liberi, anche quando siamo obbligati e costretti.
Insomma, in estrema sintesi, per la vita di tutti i giorni, cosa vuol dirci Gesù con il suo “amate i vostri nemici”? Prima di tutto c’è da dire che Gesù qui fa una netta distinzione tra l'amore e i sentimenti di amore. Mi spiego: Gesù non dice: “Devi sorridere ai tuoi nemici” oppure “devi provare simpatia, considerazione, ammirazione per chi ti odia”, oppure “devi sentire affetto” per i tuoi nemici, per chi ti ha fatto del male o per chi ti ha ferito (nutrire cioè per i nemici questi sentimenti d’amore). Gesù sa che le emozioni, i sentimenti, non si possono comandare. La donna che viene picchiata, come può essere felice di questo? Come può sorridere al marito violento? L'uomo che viene derubato dal socio di lavoro, come può provare affetto e benevolenza per chi gli ha rovinato la vita e l'ha messo “su una strada”? Il bambino che si sente preso in giro, che è vittima di bullismo, come può provare affetto e ammirazione per chi gli fa questo? No - dice Gesù - non si possono provare sentimenti di amore per i nemici.
Gesù però dice un'altra cosa: “Amali anche se sono i tuoi nemici”. Cioè: “Continua a fare il loro bene, continua a fare quello che è bene per la loro salvezza, quello che è il meglio per loro, anche se sono i tuoi nemici”.
E concludo, al riguardo, con una favoletta molto significativa: «Due turisti in mezzo ad una tormenta di neve, intirizziti dal gelo, con la notte ormai incombente, stanno tentando di arrivare al rifugio. Miracolosamente incontrano per strada un uomo del luogo, che invece di aiutarli o di aggregarsi a loro, li deruba e scappa. Proseguendo il loro cammino, ad un tratto, i due sentono delle urla: era il ladro che, scivolato in un crepaccio, si era fratturato una gamba e non potendo più camminare, cercava aiuto. Uno dei due dice: “Ben gli sta! Così impara! Se l'è voluta!”, e tira dritto. L'altro pensa: “Ma come faccio ad andare avanti? Questo qui muore! È vero, mi ha derubato dei soldi ma io non lo deruberò della vita”. E così si ferma, lo tira su, se lo mette sulle spalle e faticosamente, in mezzo alla tormenta, riprende il cammino. Dopo aver marciato per un lungo tratto, improvvisamente si imbatte su qualcosa, immobile per terra: è il suo amico che aveva tirato dritto: era morto di freddo. Lui, invece, sudando per il peso e con il calore dell'altro sulle spalle, era rimasto vivo, e poté raggiungere il rifugio. Il suo nemico fu per lui il suo vero amico»!
Morale della favola: nella nostra “civiltà” odierna tira un’aria così nebbiosa di confusione, che a volte molti si arrogano il diritto di farsi arbitri di ciò che è bene o male, a seconda della loro convenienza personale, travolgendo in questo modo gli eterni valori cristiani, proponendone altri personalizzati, miseri, scadenti, effimeri. È come voler mandare in soffitta la voglia di verità, l’eroismo dell’amore, la bellezza della giustizia. Ebbene: in questo clima di sfacelo morale, noi dobbiamo cercare di fare sempre e comunque del bene a tutti; anche a chi ci fa del male: perché il bene che facciamo, prima o poi, ci ritornerà indietro. Amen.

mercoledì 12 febbraio 2014

16 Febbraio 2014 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17-37).
Un vangelo all’apparenza contraddittorio quello di oggi. Dapprima sentiamo Gesù che conferma in pieno la validità della Legge antica, e subito dopo lo sentiamo puntualizzare, mettere dei paletti, introdurre delle vere e proprie rettifiche. Ma nessuna contraddizione in ciò: lo dice Lui stesso: “sono venuto per dare compimento”, sono venuto cioè a ridare alla Legge il suo autentico significato. Gesù in pratica - sul problema dell’osservanza dei precetti - ha voluto spostare la nostra attenzione da un piano puramente materiale, legale, ad un piano spirituale, molto più vasto, che coinvolge anche le nostre intenzioni, il nostro cuore.
Gesù, in una parola, va ben oltre l’osservanza formale della legge. Ad un certo punto sembra dire: “Basta, così non si può più andare avanti. Il vostro rapporto con Dio non può continuare a basarsi soltanto sull’osservanza esteriore e materiale della Legge; non potete riempirvi la bocca dicendo: Noi siamo ebrei, noi siamo figli di Abramo, noi siamo il popolo dell’Alleanza, e poi fate quello che volete. Non potete più giustificarvi dicendo che ciò che fate è volontà di Dio, parola di Dio, quando Dio in realtà non c'entra proprio per nulla”.
Per questo precisa: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20); era noto infatti che la maniacale osservanza, la giustizia, il modo di intendere Dio, degli scribi e dei farisei, era tutta una costruzione fittizia, puramente legalista, apparente.
A quel tempo tutti pensavano che se una cosa era scritta nella Bibbia, si poteva e si doveva fare comunque; “se la Legge dice così, si deve fare così!”. Gesù invece dice: “No, neanche per sogno! Non dovete essere “ottusi”, non dovete preoccuparvi solo di quello che è scritto, ma del perché è scritto; dovete preoccuparvi di cosa Dio vuole da voi, e lo capirete soltanto se è l’amore che vi guida, se le vostre azioni sono mosse dalla carità, dalla retta intenzione, dal totale coinvolgimento della vostra anima, piuttosto che dall’adeguarvi senza alcuna convinzione, dal lasciarvi coinvolgere solo meccanicamente”. Il cuore della Parola di Dio è l’amore, perché Dio è Amore. Quindi, al limite, se la Bibbia prescrive qualcosa che va contro l'amore, lo fa andando contro Dio: è questa l’essenza della “rivoluzione” di Gesù. Certo, per un ebreo, fiero di essere il privilegiato da Dio, doveva essere dura sentirsi parlare in questo modo! Il suo orgoglio andava in frantumi: e proprio per questo Gesù era così odiato dagli ebrei più ortodossi.
Anche noi però dimostriamo talvolta di avere questa stessa mentalità. Quante volte anche noi cristiani ci nascondiamo volentieri dietro le “regole”! “Vado in chiesa tutte le domeniche, osservo i precetti, mi comporto da bravo cristiano, rispetto il prossimo, trovo simpatia per il Papa, la Chiesa ecc.; insomma non faccio mai nulla di male!”. E quando diciamo così, ci aspettiamo ovviamente che ci dicano: “Ma che bravo!”.
Ma non siamo “bravi” proprio per nulla! Perché ci comportiamo così solo per nostra soddisfazione, per sentirci bravi, in regola, rispettabili e rispettati; facciamo le cose solo superficialmente, meccanicamente, “per sentirci a posto”, a scanso di eventuali “sorprese” (non si sa mai!). Siamo dei bravi “osservanti”, ma non dei bravi cristiani. Perché nel nostro “fare”, nel nostro “rispettare” la legge di Dio, non c’è Amore, non c’è Dio, ma soltanto noi stessi.
Se la moglie dicesse al marito: “Ti amo perché lo dice la Bibbia”, quanto amato si sentirebbe quel poveraccio? Lui non vuole certo essere amato perché lo dice la Bibbia! ma perché lei lo ama per davvero, con tutto il suo cuore, con tutta se stessa, perché è veramente innamorata di lui. Amare a comando, significa non amare, essere vuoti, sterili; significa non aver nulla di meraviglioso da dare; significa avere un cuore gelido, arido. Significa insomma rinunciare alla Vita.
Questa è la “legge nuova” di Gesù. Ma allora Gesù abolisce l'Antica Alleanza? Assolutamente no, la riporta semplicemente al suo vero, profondo, autentico spirito. La fa passare cioè dall'esteriorità (sono fedele a Dio perché osservo i suoi precetti) all'interiorità (sono fedele a Dio perché lo seguo per amore, vivo nell'amore). È in questo senso che Gesù è “venuto a dare compimento”, a far evolvere l'antica alleanza. Nel senso che i criteri di Gesù non sono più quelli “del tempo antico”. Egli cioè non rompe con gli antichi, ma con tutto ciò che la gente attribuiva agli antichi, con tutto ciò che facevano passare per ovvio, per scontato, insomma per “legge”; si mette contro l'interpretazione falsa e stupida che la gente dava degli “antichi”. Perché gli antichi, nelle loro leggi, avevano riposto un significato ben più completo e importante.
Gesù è un ebreo e sa benissimo che le norme e le leggi hanno un senso profondo. La legge del sabato, ad esempio, a noi può sembrare stupida per come era applicata. Gesù, invece, ne capisce benissimo il senso, capisce che la sua portata è molto più vasta: per cui se la legge prevede “Nessun lavoro di sabato”, non ci si può fermare ad una interpretazione legalistica, assurda, fuori dalla realtà. Egli infatti precisa: “È ovvio che se di sabato una pecora ti cade in un fosso, l'afferri e la tiri fuori” (Mt 12,11).
Oppure con i sacrifici al tempio: chi aveva peccato (frodato, rubato, ecc.), veniva riammesso nella comunità israelitica attraverso il “sacrificio” della “restituzione”. Lo scopo vero del sacrificio era quindi quello di pentirsi e di ottenere il perdono. Perfetto: ma Gesù se la prende non con i sacrifici in sé, ma con quei sacrifici fatti soltanto per essere a posto con la propria coscienza, fatti un po’ per “comprarsi” Dio, per essere “riabilitati” davanti agli altri, non certo come gesto di sincero pentimento per le proprie malefatte. Ancor prima di qualunque offerta o sacrificio, precisa Gesù, è necessario chiedere perdono, bisogna riappacificarsi sul serio con il “fratello” offeso.
Le leggi evolvono anche. Gesù non dice: “Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Loro sono stati molto importanti per quel tempo; meno male che ci sono stati! Ma adesso sappiamo cose che una volta non sapevamo; adesso abbiamo capito che Dio non è più un giudice che se sbagliamo ci punisce; abbiamo capito che Dio è amore; abbiamo capito che Dio non è esclusiva di pochi, di un popolo, ma il Dio di tutti, del mondo intero; adesso abbiamo capito che Dio è amore, misericordia, compassione, tenerezza per tutti, anche per le donne, per i bambini, per gli esclusi, i lebbrosi, i peccatori. Questo loro non lo sapevano: e noi non possiamo giudicarli per questo. Teniamo il buono e lasciamo ciò che non è più buono. Non rimaniamo attaccati alle regole: le regole sono fatte per l'uomo e non l'uomo per le regole (Mc 2,27). Le regole servono per vivere, ma quando diventano contro la vita, non servono più e devono essere rinnovate, sostituite da altre.
Vi ricordate? Una volta le donne non votavano. Poi si è capito il valore della parità di dignità tra uomo e donna e allora la regola è cambiata. In Italia la donna vota dal 1946; il primo Stato in cui la donna ha votato è stato la Nuova Zelanda nel 1893. Le leggi cambiano in base all'evoluzione della gente. Non dobbiamo attaccarci alle regole ma allo spirito che sta dietro alle regole. I valori durano sempre; le regole, che sono soltanto delle “concretizzazioni” dei valori, possono cambiare. Finché ci aiutano, le rispettiamo; quando non ci aiutano più le superiamo e ne facciamo delle altre.
Noi insomma non dobbiamo lasciarci condizionare dall’esteriorità, che è sempre mutevole, o dai “si è fatto sempre così”. Dobbiamo andare in profondità, Dobbiamo agire soprattutto in maniera strettamente coerente con la nostra coscienza. Dobbiamo essere uomini d’un pezzo: il nostro parlare deve essere “sì, sì; no, no”. Dobbiamo, come dice Gesù, essere uomini liberi, uomini franchi e veri. Non dobbiamo lasciarci vivere nei compromessi, nel doppio senso, nella ricerca egoistica del nostro “star bene”, costi quel che costi; dobbiamo avere il coraggio delle nostre parole e delle nostre azioni; non nascondiamoci dietro le fantasie.
Anche a costo di andare controcorrente. Quante volte abbiamo il terrore di esporci! Quante volte eludiamo le nostre vere responsabilità! Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto, di parlare francamente, di comportarci da “cristiani”, da uomini e donne vere: “Sì,sì, no, no”, dice Gesù. Il “politichese” non è il linguaggio di Cristo. Impariamo da Lui. Amen.
 

giovedì 6 febbraio 2014

9 Febbraio 2014 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo…» (Mt 5, 13-16).
Il vangelo di oggi ci propone due immagini: il sale e la luce. Sale e luce esprimono due effetti completamente opposti. L’effetto del sale non lo vediamo: lo riconosciamo, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non lo vediamo. Vi è mai capitato di preparare la pasta e di dimenticare il sale? Lo “sentiamo” immediatamente. Non si vede, ma se manca, lo sentiamo subito. La luce invece si vede, e fa vedere ogni cosa. Avete presente un black-out? La luce scompare e non si vede più niente. Si è completamente al buio!
Sale e luce, dunque, esprimono rispettivamente: qualcosa che non si vede, che si gusta ma non si vede; e qualcosa invece che è molto visibile, che è percepibile da tutti. Noi dobbiamo essere così: nascosti, invisibili, ma assolutamente necessari e riscontrabili.
Prima considerazione: il sale dà sapore; il “sapore” della vita è dato dal “sentire”: sentire noi stessi, ma anche ciò che ci circonda, il canto degli uccelli, il soffio del vento che scompiglia i capelli, un bimbo che piange, persone che ridono... Attraverso questo “sentire”, noi riusciamo a capire un qualcosa in più su di noi, sulla nostra vita; è come avere un'intuizione sulle sue vicende: abbiamo la fortuna di poter godere delle meraviglie del creato, ma dobbiamo fare anche i conti con la gioia e il dolore... Per questo è importante “sentire” le realtà che ci circondano: sono fonti inesauribili di emozioni, di vibrazioni, di vita interiore, di rinascita. Ma noi, noi “sentiamo”? Cosa sentiamo? Quanto sentiamo? Chiediamocelo, perché il “sentire” è vita; e se lo gustiamo, se lo percepiamo, se lo assaporiamo, diventa cibo salutare per la nostra anima.
Cosa succede se gustiamo poco, se sentiamo poco? Cosa succede se abbiamo perso il senso del gusto? Non sentiamo più niente. Diventiamo insensibili, insofferenti verso tutto e verso tutti. E a volte siamo proprio così! Se la vita ci riserva sofferenze, dolori forti, traumi profondi, cosa facciamo per uscirne fuori, per evitare di soccombere, per non farci trascinare alla deriva della vita? Adottiamo una soluzione: tagliamo tutti i ponti con ciò che ci circonda, e così non sentiamo più niente. Ci desensibilizziamo, ci anestetizziamo. Un rimedio valido per quel momento: ma catastrofico se lo continuiamo anche nel futuro, in quanto continueremo ad essere tagliati fuori dalla vita; non sentiremo più nulla: né la gioia, né l'amore, né la vitalità, né la compassione; nulla più ci procurerà commozione, nulla più ci farà tenerezza. Saremo impassibili, indifferenti, lontani e insensibili a tutto ciò che ci offre la vita. Allora ci lamentiamo che la vita è noiosa; che è un tran-tran insopportabile; che è sempre la solita, insignificante; che purtroppo non c’è nulla da fare e bisogna accontentarsi. In realtà la vita è ricchissima; siamo noi che non sentiamo, che siamo in “folle”, che non riusciamo più ad ingranare nessuna marcia.
Ci veniamo a trovare nella stessa situazione di quando, ascoltando musica con le cuffie, qualcuno ci dice qualcosa; diciamo: “Scusa, non ho sentito!”. E cosa facciamo? Ci togliamo le cuffie. Ebbene: nella vita dobbiamo fare altrettanto. Per sentire la “vita”, per gustare il sapore delle cose, dobbiamo togliere i tappi che ci siamo messi. All'inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio per non sentirlo che ci siamo messi i tappi!), ma se avremo pazienza e voglia di superare la situazione, pian piano, risentiremo nuovamente il gusto del bello, del buono; in una parola ci riprenderemo il “sapore” della vita e di ogni cosa del creato.
Altra considerazione: il sapore della vita ci viene dal sentirci utili.
La grande domanda che tutti, prima o poi, ci facciamo – e se non ce la facciamo è perché la risposta potrebbe non piacerci - è: “A che serve la mia vita?”.
Alcune persone, come i genitori, vivono “servendo” i figli (nel senso di essere utili ai figli; far crescere una vita ci fa sentire certamente utili, importanti, orgogliosi; è una cosa meravigliosa). Soltanto che poi i figli crescono, e poiché i genitori hanno ancora bisogno di sentirsi utili, continuano ad intromettersi negli affari dei figli. E si arrabbiano se questi li escludono dalla loro vita.
Altre persone si sentono “realizzate” dal lavoro; poi quando per qualche motivo vengono “scaricate”, vivono questa esperienza come un autentico fallimento totale.
Per altri ancora il “sentirsi utili” diventa una mania, una necessità vitale, per cui se talvolta non vengono “invitati” o coinvolti, si offendono, si risentono, si infuriano, arrivano anche a rompere legami forti di parentela o di amicizia. In questo caso, il “sentirsi utili” coincide con il nostro bisogno di primeggiare, di essere considerati indispensabili, di essere ammirati: e questo non va bene.
Per “essere veramente utili” dobbiamo infatti metterci a disposizione per dare o fare un servizio alla collettività, al prossimo: noi viviamo se il nostro vivere produce “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita; allora, anche se siamo servi, all’ultimo gradino della scala sociale, anche se non appariamo, se non saliamo le vette della notorietà, siamo comunque utili a qualcosa e a qualcuno. Noi viviamo e sentiamo di aver dentro di noi qualcosa di importante, dei talenti, una passione, dei doni, che possono essere utili ai fratelli, a questo mondo: lo rendiamo disponibile, lo offriamo, lo doniamo; e il nostro dono è utile, ci aiuta. Perché in questo c'è sapore, c'è gusto, c’è gioia: anche nel faticare, anche nel lottare, anche nel soffrire, perché ciò fa parte di quello che siamo, e deve servire, rendere un servizio agli altri. Non a caso la parola “sale” in ebraico (melah; m-l-h) ha la stessa radice di “pane” (lehem; l-h-m): il “sapore” infatti proviene dall'essere dono, nutrimento vitale (sale o pane) per qualcun altro.
«Voi siete il sale della terra». Ora, la “terra” è la vita di tutti i giorni: cosa vuol dire allora essere sale, senso, sapore, di questa terra? Vuol dire aiutare le persone a trovare il significato, il senso della loro vita, il senso di ciò che accade. Solo così siamo il sale della terra.
Dobbiamo insegnare alle persone a riflettere su ciò che vivono, a farsi delle domande, ad ascoltare Dio che parla al cuore di tutti, sempre e in continuazione; e lo fa attraverso i fatti, gli eventi e gli incontri di ogni giorno. La gente dice: “Dio? E dov'è?”. Per forza dice così, perché non lo sente, perché pensa che Lui se ne stia altrove, a farsi i fatti suoi, mentre noi dobbiamo arrangiarci quaggiù. Ma non è così: perché Lui, al contrario, ci è vicino, ci parla e ci educa continuamente. E noi dobbiamo farlo capire alla gente, dobbiamo ridare loro il gusto della vita.
La parola sapienza viene dal latino “sapio” che vuol dire “assaggiare, gustare”. Dobbiamo pertanto diventare saggi, sapienti; e lo diventeremo se sapremo “gustare”, quando sapremo imparare dalle nostre esperienze. Tutto insegna o nulla insegna: dipende da noi. La vita è una grande scuola, se si vuole imparare. Ma solo se si vuole imparare.
L'altra immagine del vangelo è la luce. La luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi, ad esempio, è difficile capire il Salmo: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118), perché la luce ce l’abbiamo sempre a portata di mano, è sempre a nostra disposizione. Ci basta un pulsante per accenderla! Ma fino ad un secolo fa', anche una piccola lampada o una semplice candela erano fondamentali. Ebbene, Dio è la nostra luce, e noi dobbiamo irradiarla intorno a noi. “Dio” infatti è una parola sanscrita che vuol dire “luce”. E la luce è abbinata alla vita: “Venire alla luce” o “dare alla luce”, significa nascere; “spegnersi”, vuol dire morire. Allora, cosa vuol dire “siete la luce del mondo”? Vuol dire esattamente due cose: “emettere” luce (essere luminosi) e “portare” luce (illuminare).
Emettere luce: tutto l'universo sembra materia ma, come ci insegna la fisica quantistica, tutto invece è luce, energia. Noi siamo materia ma potenzialmente siamo luce. Il nostro compito? Diventare luce, diventare luminosi e illuminati, per illuminare la nostra vita e fare luce in quella degli altri, perché tutti possiamo così vedere la vera entità di ciò che siamo.
La gente si guarda allo specchio e cosa vede? Vede un corpo, grasso o magro, bello o brutto, con la pelle liscia o piena di impurità, di brufoli. La gente mangia, beve, accumula e possiede; vive nel piano della materia. Ma noi dobbiamo far capire alle persone che la vera essenza di ciascuno, non è questa. Noi siamo luce perché abbiamo uno “spirito” che vuol vivere in noi: abbiamo un’anima che vivrà per sempre, e uno Spirito che vuol uscire da noi, che vuole manifestarsi. Ebbene, emettere luce vuol dire entrare in contatto con questo Spirito, e comunicarlo a tutti, per far vibrare la loro parte “vera”, quella interna, quella che c'è in tutti noi. Sì, perché noi siamo anima, siamo spirito; noi siamo emozione; siamo “divino”; siamo energia, siamo canto; siamo musica; siamo luce; siamo fuoco; siamo forza. Noi siamo nel tutto e il Tutto è in noi. Senza spirito, senza interiorità, non c'è luce per noi e neppure per questo mondo. Vi ricordate il volto di Madre Teresa? non era certo bello! Pieno di rughe! Eppure... aveva una luce! Il suo volto e i suoi occhi lasciavano trasparire una luce meravigliosa. Perché dentro di lei c’era Dio, l'Energia, e lo si vedeva chiaramente!
Emettere luce allora vuol dire risplendere, illuminare, far vivere la luce che abbiamo dentro.
Vuol dire far uscire tutta l'energia, la vitalità che abbiamo dentro. Dobbiamo essere sempre il meglio, il massimo di noi. Non possiamo vivere al di sotto di ciò che siamo: risplendiamo, illuminiamo questo mondo con la nostra luce. Cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo a diventare una stella nel cielo di questa vita, per illuminare il mondo?
In uno stadio, durante una manifestazione notturna di tanti anni fa, i riflettori improvvisamente si spensero. Allora un uomo urlò: “Tutti quelli che hanno un accendino, lo accendano”. E piano piano uno, due, dieci, cento, mille, diecimila... Lo stadio si illuminò a giorno. Ebbene, tutto il mondo ha bisogno di noi e della nostra piccola luce: e tutto il mondo sarà più luminoso, se anche ciascuno di noi diffonderà la sua luce. Amen.

giovedì 30 gennaio 2014

2 Febbraio 2014 – Presentazione di Gesù al Tempio

«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,22-40).
Leggendo il vangelo di oggi, può sembrare che tutto quello che è capitato a Maria e a Giuseppe prima e durante la nascita di Gesù, non li abbia toccati più di tanto. Possibile che non si siano resi conto chi fosse quel “loro” Figlio? Possibile che Maria non abbia capito le parole dell’angelo? Che Giuseppe non abbia capito quel sogno? Impossibile, ma sembra proprio di no!
Infatti cosa fanno? Siccome erano stati educati all’obbedienza della Legge, siccome da che mondo e mondo si è sempre fatto così, anch’essi continuano a fare così. Quindi portano Gesù, colui che è venuto a rompere con la tradizione e con il passato, a sottomettersi alla tradizione; lo portano cioè - lui che è Figlio di Dio! - a diventare figlio di Abramo.
Otto giorni dopo la nascita, infatti, lo portano nel tempio per la circoncisione. È la tradizione; una tradizione che crea abitudine e infonde sicurezza: noi sappiamo una cosa, la conosciamo bene, e la facciamo volentieri sapendo di essere in grado di farla, e questo ci dà sicurezza. Perché cambiare? L’abitudine, in fin dei conti, ci semplifica la vita. Ma quando l’abitudine diventa senza senso, una perdita di tempo, allora diventa anche inutile. Controproducente. Non è più un’abitudine è una schiavitù.
Tuttavia è difficile staccarsi di punto in bianco dalle tradizioni imposte dalla comunità. È difficile imboccare un’altra strada seguendo solo il proprio cuore; è difficile dar voce a ciò che si sente dentro; è difficile prendersi la responsabilità delle proprie scelte. È difficile staccarsi da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che intere generazioni hanno sempre fatto, da ciò che tutti continuano ancora a fare.
Il popolo ebraico era vincolato, a proposito di neonati, da due tra le più antiche prescrizioni della legge: la purificazione della madre (Lv 12) e il riscatto del figlio primogenito (Es 13,1-2). La prima prescrive che, dopo la nascita del bambino, la madre, trovandosi in uno stato di impurità, non deve toccare alcuna “cosa santa” né entrare nel santuario. Trascorsi i quaranta giorni previsti dalla legge, la coppia deve invece salire al tempio perché la donna possa purificarsi, offrendo in sacrificio a Dio, in espiazione del suo peccato di impurità, un agnello oppure un colombo o una tortora. Subito dopo la purificazione della madre, essi devono “riscattare” il loro bambino, in quanto ogni primogenito, fin dalla nascita, è “proprietà” di Dio.
Maria e Giuseppe dunque, pur con tutto quello che avevano visto e vissuto nel loro cuore fin dall’inizio, accettano la tradizione e fanno tutto secondo la Legge religiosa: essendo poveri e non potendo offrire un agnello, ovviamente portano con sé soltanto un paio di tortore.
Compiuta la prima parte del rito, improvvisamente appare sulla scena un personaggio strano: un certo Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Non è detto che sia vecchio (normalmente i “sapienti” erano persone piuttosto anziane). Si dice invece che è un uomo giusto e timorato di Dio. Potrebbe far pensare ad un sacerdote, ma si dice che lo “Spirito Santo era sopra di lui” (nei vangeli i sacerdoti non hanno mai lo Spirito Santo!). Quindi non di un sacerdote si tratta, ma di un uomo di Dio, un profeta; Simeone non è un uomo del culto ma della Vita.
I “genitori” di Gesù, per riscattare il loro primogenito, cercano un uomo della Legge. Ma trovano un uomo dello Spirito. Le sue parole non si riferiscono a nessuna regola o prescrizione: sono parole piene di vita. Maria e Giuseppe rimangono ancora più impressionati di fronte ad esse: già i pastori avevano parlato di un “salvatore” (Lc 2,18), già l’angelo aveva annunciato a Maria che il suo sarebbe stato il Figlio dell’Altissimo (1,32); adesso questo uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”. Cosa vuol dire tutto questo? Cosa vuol dire che questo figlio sarà “segno di contraddizione, rovina e resurrezione per molti in Israele”?
Sono andati al tempio pensando che un sacerdote purificasse la madre del bambino, invece trovano quest’uomo che annuncia a gran voce che sarà il loro bambino a “purificare” Israele.
Gesù cioè sarà per molti la “pietra d’angolo”, la pietra su cui costruire, su cui piantare le basi della propria vita; per molti altri, invece, sarà “pietra di scandalo”, ossia la pietra contro cui inciamperanno le loro infedeltà, la pietra che li farà cadere dall’arroganza delle loro scelte di vita.
Seguire Gesù non è cosa facile, piana, indolore. Non ci si trova davanti un bel sentiero, dritto, ombreggiato, con fontanelle d’acqua e panchine dove vuoi, con uccellini, sole, pieno di “vogliamoci bene” e “amiamoci tutti”. Gesù ci mette al contrario davanti a scelte difficili, a bivi oscuri, a cadute e rotture frequenti; Gesù ci pone davanti a verità dure da accettare, destinate a trasformare radicalmente la nostra vita; Gesù insomma ci mette di fronte a noi stessi, alla nostra coscienza, alle nostre responsabilità, alle quali non possiamo sfuggire. Sì, perché Gesù è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento. Gesù non ci lascia sonnecchiare tranquilli. Ecco perché il suo Vangelo è contemporaneamente Vita per alcuni, morte per altri.
Simeone predice tutto questo a Maria, le predice ciò che succederà: in particolare le preannuncia sofferenze tremende: pur non dicendole nulla, le dice tutto. E Maria ascolta: lei ascolta, anche se non sa cosa Simeone intenda veramente dire.
La Maria che ci appare dal vangelo, è molto diversa dalla Madonna potente, onnisciente, sicura di sé, rappresentataci lungo i secoli dalla pietà popolare: per tre volte, in questo capitolo, viene detto per esempio che Maria non comprende; ed è vero: in quel momento lei effettivamente non arriva ancora a capire in pieno il suo ruolo, e meno ancora quello di suo figlio; lei non immagina mai cosa sarebbe successo; non immagina quanto le sarebbe costato quel “Si” affidato all’angelo, fin dove l’avrebbe portata; lei però conserva “tutte queste cose meditandole nel suo cuore”; pur non capendo, accoglie con la massima disponibilità il messaggio di Dio, aderendo in tutto e per tutto alla sua volontà. Maria non arriva a capire neppure suo figlio Gesù; però lo segue sempre, con trepidazione, con semplicità, con discrezione, con assoluta fiducia. E questo è il grande “passaggio”, il grande “merito” di Maria: passare dal ruolo di madre a quello di discepola di suo Figlio.
Maria, fin dall’inizio di questa sua “avventura”, non si rende conto di tutto, molte cose la turbano, molte cose non le tornano: per esempio non capisce la presenza dei pastori a Betlemme: i pastori erano ritenuti i rifiuti della società, erano considerati i peccatori per eccellenza: a forza di stare con le bestie erano diventati bestie anche loro. Che ci fa allora questa gentaglia da lei? Come mai soltanto questi “signori” vengono dal suo Bambino? “C’è qualcosa che non quadra”, pensa Maria. “Come mai il Figlio di Dio viene annunciato come il Salvatore da gente che la mia religione ha sempre guardato come cattivi, peccatori, disonesti?”. L’angelo le aveva promesso che Dio avrebbe dato a Gesù il “trono di Davide suo padre”; come mai, allora, Dio lo lascia circondare da questa gente poco raccomandabile, come mai Dio usa questi ceffi per onorarlo? L’angelo le aveva detto anche che quel figlio, Gesù, “sarà chiamato Figlio di Dio”. Sembrava che Maria avesse finalmente capito. Sembrava, perché dal vangelo non appare così; Maria infatti dimostra di non aver capito affatto cosa volesse dire “Figlio di Dio”; se avesse capito, non lo avrebbe portato nel tempio - lui, il Figlio di Dio appunto – per sottoporlo ad un adempimento legale che lo metteva sullo stesso piano degli altri mortali, ai figli di Abramo.
Ma c’è anche un’altra cosa che Maria non comprende: cosa vuol dire Simeone con “una spada ti trafiggerà l’anima?”. Cerchiamo anche noi di capirlo.
C’è da dire che nella Scrittura la “spada” è il simbolo della parola di Dio: “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio” (Ap 1,16); e ciò per indicare l’incisività, l’efficacia infallibile, precisa e tagliente della Parola. Pertanto, la spada che trafiggerà Maria, altro non è che la Parola stessa del Dio suo Figlio!
Quale sarà infatti la prima parola che Gesù dice nel vangelo? È il rimprovero rivolto ai suoi genitori e soprattutto a sua madre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). La parola di suo figlio è difficile per lei da capire, le causerà dispiacere, sconforto, incomprensione, derisione. In quel momento Maria dovrà rendersi conto che tutte le sue aspettative di madre, riposte su questo figlio, si realizzeranno in maniera ben diversa da come lei pensava. Gesù mette subito le cose in chiaro, sottraendosi alle naturali attese dei genitori. In altre parole, è come se Gesù avesse detto loro: “voi mi avete generato ma non siete mio padre e mia madre; mio padre e mia madre sono il Signore del cielo (padre) e della terra (madre)”. E ancora una volta, per la terza volta, il vangelo dice: “Ma essi non compresero le sue parole” (2,50).
La spada tagliente per Maria sono dunque le parole di Gesù: le creano una sofferenza, un dramma interiore: un dramma che esplode in tutta la sua “crudezza”, quando Gesù sembra rifiutarla proprio come madre. Un giorno lei e gli altri fratelli lo raggiungono, mentre in una casa è intento a predicare alla folla seduta intorno a lui: gli dicono:“Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano” (Mc 3,32). Gesù risponde in maniera dura e seccata: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. E girando lo sguardo su quelli che lo circondavano dice: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,33-34). Parole forti; parole che costringono Maria a cambiare radicalmente, a smettere il suo essere madre per convertirsi; a trasformarsi cioè in “discepola” per diventare “figlia” di suo figlio.
Maria capisce che per Gesù non conta più tanto come “madre”; ma può contare come “discepola”. L’intimità con suo figlio non è garantita più dal fatto naturale di essergli madre, ma dalla sua trasformazione in “discepola”, dall’instaurare cioè con lui un nuovo rapporto, dal creare una unione ancor più intima, una simbiosi inarrestabile col suo cuore e col suo sentire.
Per rimanere “intima” con suo figlio, Maria deve dunque compiere un cambiamento radicale. Perché sarà il suo nuovo ruolo di discepola, in aggiunta a quello di madre, che le consentirà di seguire Gesù fino in fondo, fino alla croce.
La spada per Maria non sono le sofferenze naturali di una madre per il figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada tagliente per Maria è capire che la sequela, il seguire suo Figlio come discepola, è più importante, viene prima del legame ancorché forte, naturale e di sangue, che esiste tra madre e figlio. Maria, per seguire il figlio, ha dovuto rinunciare al “privilegio” della sua posizione di madre. Questo intendeva dirle Simeone, il giorno della “presentazione” di Gesù al Tempio.
E a noi, cosa dice questa ricorrenza? Cosa significa, per noi oggi, “presentazione al tempio”? Beh, sicuramente significa “offrire” i nostri figli a Dio; ma non basta farlo una volta sola, all'inizio della loro vita, col battesimo; bisogna poi seguirli, continuare a educarli nella fede. Bisogna crescerli nella fede. Bisogna irrobustirli nella fede. Perché i genitori sono i primi evangelizzatori dei figli: non tanto con le prediche, ma con le piccole cose, con le preghiere che insegnano, con le risposte che danno alle loro domande, con i giudizi che esprimono e i discorsi che fanno in loro presenza, con la coerenza della loro vita famigliare cristiana.
Presentare i figli al Signore, educarli alla fede, significa anche accettare che crescano fedeli a Dio nella libertà delle loro scelte, attraversando pure dei periodi di crisi, magari evitabili.
Uno santo prete diceva: “Quando si è fatto tutto il possibile e non si può più parlare ai figli di Dio, è giunto il momento di parlare a Dio dei figli, cioè di pregare per loro, sempre”.
E poi dobbiamo mettere in conto anche la “spada”. Quella spada della sequela di Cristo che porta a rinnegare i rapporti di sempre, quelli familiari, quelli delle persone care: non perché si voglia loro male, ma semplicemente perché il loro parlare non decolla, non riesce più a spiccare il volo, non corre più in direzione di quella libertà, di quell’autonomia, di quell’osare, tipici del seguire le orme di Gesù in risposta alla sua chiamata. Una chiamata che impone spesso scelte dolorose, ma inevitabili; scelte che lacerano il cuore e l’anima; ma scelte che fanno vivere.
Ebbene la Spada affilata che plasma tutti, è seguire la Parola di Dio, elemento indispensabile per diventare veri discepoli di Gesù: cambiare costa sempre fatica; è come subire una lama che ci taglia, che ci pota. Crescere, maturare, fa sempre male: fa male abbandonare i nostri sogni, anche se irrealizzabili; fa male confrontarsi con la cruda realtà; fa male andare avanti con mille ferite che straziano il nostro cuore. Ma questa è la via sicura del “discepolato”. Raccomandiamoci a Maria, a nostra madre, a colei che per prima ha dovuto percorrerla. Amen.

giovedì 23 gennaio 2014

26 Gennaio 2014 – III Domenica del Tempo Ordinario

«E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini. Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono...» (Mt 4,12-23).
La fede non è un miscuglio di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è “movimento”. Dio mi chiama e io devo andare da Lui. C’è una chiamata (vocatus, vocazione), qualcosa che mi tocca, che mi interpella, che dice al mio cuore “Tu, vieni!”, e c’è una risposta (responsum, responsabilità) che per le logiche comuni è sempre una pazzia, ma che è la Vita per chi segue il Signore.
La fede è andare, muoversi, lasciarsi coinvolgere; fede è mettersi in gioco, scendere dal proprio “io” e aprirsi all’ascolto: “Eccomi! Non posso far finta di niente! Non posso tirarmi indietro! Non posso vivere e sottrarmi alle mie responsabilità! Vengo!”.
Quante persone, soprattutto giovani, a volte si chiedono: “Cosa devo fare nella vita?”. È una domanda che prima o poi tutti ci siamo posto: una domanda che richiede un profondo esame di noi stessi; che si attende da noi una risposta seria, una risposta convinta, propositiva: a volte invece riusciamo a trasformarla in un espediente per sfuggire dalle nostre responsabilità, per rinviare un necessario doversi coinvolgere.
Con la scusa di aspettare la “grande” chiamata, quella decisiva, quella fondamentale, quella che “vale”, continuiamo ad ignorare, ad accantonare quelle “piccole”, quelle di ogni giorno. Le chiamate “normali”, quelle che ci invitano a lasciarci coinvolgere nel quotidiano, nella scuola, nel lavoro, nel sociale: perché dobbiamo stare sempre zitti di fronte a ciò che vediamo? Fino a quando continueremo a dire: “Non mi riguarda?”; fino a quando possiamo tirarci indietro? Far finta di non sapere, di non aver visto?
Eppure intorno a noi c’è un enorme, un immediato, improrogabile bisogno di “opere”, di interventi! C’è bisogno di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto e più vero; c’è bisogno di creare strutture e mentalità rispettose del prossimo, dei più deboli; c’è bisogno di gente che entri sul serio nel mondo della finanza e della politica per rovesciare quella rassegnazione che tanto ci avvilisce: “tanto è così, e andrà avanti sempre così”; c’è bisogno di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro, la fama superficiale, l’autopromozione; c’è bisogno di persone che credano nell’uomo, che si possa costruire un mondo nuovo e diverso; c’è bisogno di persone profonde che sappiano dialogare, ma anche forti e determinate per difendere i nostri valori morali e religiosi; c’è bisogno di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di milioni di persone emarginate, che sopravvivono nei meandri di dinamiche malsane e opprimenti.
Ma chi si deve muovere? Gli altri? Tutti pensiamo che tocchi a qualcun altro. Tutti siamo pronti a scaricare “il barile” ad altri: “La società dovrebbe... i politici dovrebbero... la chiesa... la scuola... le famiglie dovrebbero, ecc.”. D’altro canto i giornali, le tv, i discorsi, pullulano di “esperti”, di consulenti, di parolai urlanti, di bellimbusti che pretendono di convincerci che loro soltanto sanno come fare le cose, che hanno un sacco di idee, che se avessero carta bianca… Ma poi, chi si rimbocca veramente le maniche? Chi va? Chi si impegna? Chi lotta?
Ebbene: “avere fede” vuol dire, in concreto, che se c’è un problema, noi siamo disponibili, siamo pronti a farcene carico; “avere fede” vuol dire: “Io ci sono. Manda me”. Essere cristiani “adulti” vuol dire, insomma, mettersi in gioco sul serio. Altrimenti continueremo ad essere dei bambini piagnucoloni, perennemente in attesa che qualcuno corra in nostro aiuto, che qualcuno ci imbocchi.
È troppo comodo dire che la chiamata di Dio è una cosa riservata ai preti e alle suore. Quella certamente è un tipo “particolare” di chiamata. Ma Dio non chiama solo loro, Dio non chiama soltanto alcuni; Dio chiama tutti, noi compresi. Anche solo pensare, per esempio, che Dio esiste, è già una chiamata: percepirne anche solo l’esistenza, ci spinge automaticamente a conoscerlo meglio; ci spinge a percorrere un nostro cammino di approfondimento, di avvicinamento, con tutto quel che segue. Dio è un problema vitale; è troppo importante per ogni singolo uomo perché egli possa sistematicamente ignorarlo. Dobbiamo prima o poi conviverci: Madre Teresa diceva: “ Dio non ha mani, ha solo le nostre mani; non ha piedi, ha solo i nostri piedi... Lasciamoci usare da Lui e il mondo sarà ricolmo d’amore”.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato. È individuale, nel senso che ogni chiamata è personalizzata; ogni chiamata è diversa per modalità, per il compito che propone, per il carisma particolare, per l’impegno che richiede. È insomma singolare, unica, personale. Ma ogni chiamata ha sempre una dimensione globale, mondiale, universale: “Andate in tutto il mondo”. Dio non è qualcosa da tener nascosto, di intimo, qualcosa da vivere chiusi nella nostra stanza, nel nostro cuore: neppure le monache recluse lo vivono in questo modo; non dimentichiamo che Santa Teresa di Lisieux è patrona delle missioni, pur non avendo mosso un piede fuori dalla clausura! Se la nostra fede è così, atrofizzata, statica, cristallizzata, vuol dire che non è fede; essa è semmai un ripiego, un’evasione da noi stessi, un pretesto per la nostra coscienza; è come una droga, è alienazione e basta.
Fede al contrario è agire, andare, muoversi, camminare; è azione, è relazionarsi. Attenzione però: agire non è fare. Il fare non necessariamente ci coinvolge in prima persona, può essere il risultato di un processo meccanico, passivo; l’agire invece è ciò stesso che noi viviamo, è l’energia che abbiamo dentro, il fuoco e la passione che coltiviamo nell’anima e che, insopprimibile, esplodendo all’esterno, crea e trasforma completamente la nostra vita, fa vivere la Vita. Se la fede pertanto non diventa trasformazione del mondo e della società, desiderio e impegno di lotta contro il male, quel male che ingabbia l’Amore, è una fede vuota, inutile, è un nulla, è vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi i cristiani) a portare il vangelo nel mondo. Ma il vangelo è molto diverso da come pensa e vive il mondo. Da qui il loro impegno a cambiare questo mondo, a farlo nuovo, a renderlo diverso. La fede è trasformazione. E quando alla domenica assumiamo anche noi il pane e il vino trasformati in corpo e in sangue di Cristo, anche noi, come loro, dobbiamo trasformarci, dobbiamo batterci per trasformare il mondo. Dico “batterci”, perché non è un compito facile. Dobbiamo seguire la nostra fede, infischiarcene di cosa dice la gente; non curarci di cosa possa pensare; ciò che conta per noi è seguire la nostra strada, ascoltare i suggerimenti della nostra anima e scegliere di vivere sempre come Lui si aspetta da noi.
Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi non vuol dire “battersi il petto” o “diventare religiosi”, uomini di chiesa. Pentirsi non vuol dire commiserarsi, dirsi: “Mi faccio schifo, sono un essere immorale, un miserabile!”. Convertirsi, dal greco “meta-noèo”,vuol dire “cambiare mentalità”; dall’ebraico shub, vuol dire “cambiare direzione”.
Il concetto è semplice: se non cambi, se non ti converti, se nella tua vita non fai una conversione ad “U”, continuerai a ripetere sempre gli stessi errori. Non basta quindi pentirsi, riconoscere di aver sbagliato: fin tanto che continueremo per la nostra stessa strada - magari in tempi e con modalità diverse - ripeteremo inevitabilmente i nostri errori. L’essenziale, l’unica cosa necessaria, è “cambiare percorso”, tagliare col passato, tagliare con certe amicizie, con certe abitudini, con certi ambienti. Solo così la nostra fede potrà rispondere adeguatamente alla “nostra chiamata”.
Gesù, nel chiamare i primi discepoli, propone loro una soluzione drastica, una cosa da pazzi: lasciare immediatamente famiglia (base della società) e lavoro (certezza di sopravvivere). Questi uomini, di punto in bianco, hanno pertanto dovuto sconvolgere radicalmente le loro idee; hanno dovuto cambiare religione; mettersi in contrasto con ciò che tutta la gente diceva e pensava; hanno dovuto deludere le aspettative delle loro famiglie, dei loro cari; andare incontro a contrasti e persecuzioni. Su Gesù infatti circolavano dicerie terribili: che era figlio di una prostituta (Tertulliano), che era un fanfarone (Origene), che mendicava vergognosamente (Origene), che cercava gente stupida e deficiente (Celso).
Beh, per la verità, non è che i primi discepoli fossero, anche caratterialmente, un granché: Levi, Matteo l’evangelista, era impuro e traditore perché esattore delle imposte per conto degli odiati romani (non potevano essere perdonati e qualunque cosa toccassero era impura!). Simone, lo zelota (zelota in greco, cananeo in aramaico), era un fanatico. Zelota vuol dire appunto fazioso, esaltato! Simone, Pietro (petros=pietra), era chiamato così per il suo carattere duro e ostinato.
Giacomo e Giovanni sono chiamati dallo stesso Gesù i Boanerghes, gli assalitori, gli attaccabrighe per il loro orgoglio e il loro carattere collerico.
Le chiacchiere e i pettegolezzi su questo gruppo, non si contano più (vedi per es. il vangelo di Filippo e vari altri vangeli apocrifi). Il loro è un gruppo singolare, diverso, che gli altri non capiscono e apertamente commiserano.
Ma essi sono la futura Chiesa. Sì, perché chiesa, ec-clesia, letteralmente, non significa altro che “chiamati fuori”. La chiesa, secondo il pensiero di Gesù, è quello spazio in cui la gente vive in maniera diversa dagli altri.
In una società dove tutti pensano al lavoro, alla famiglia e ai figli, Gesù propone uno stile decisamente diverso: la cosa più importante per lui infatti non è tanto queste situazioni (lui non ebbe né famiglia, né compagna, né figli), ma vivere seguendo lo slancio del proprio cuore, vivere con compassione, con tenerezza, far uscire le potenzialità che abbiamo dentro, vivere con leggerezza, elasticità, entusiasmo, sorriso, umanità.
Nessuno viveva così a quel tempo (e neppure oggi!): e Gesù fu osteggiato non perché il suo messaggio fosse cattivo, ma proprio perché imponeva una vita diversa da quella di tutti gli altri; e questo spaventava la gente.
Eppure la chiesa è nata esattamente così: è l’insieme di quelli che vivono secondo la chiamata di Cristo (“i chiamati fuori”) e lo fanno in maniera diversa. Non perché credono di essere migliori degli altri, ma perché hanno scelto di seguire ideali e valori decisamente migliori; perché essi vogliono veramente seguire Cristo, vivere insomma per Lui, con Lui, in Lui. Amen.

venerdì 17 gennaio 2014

19 Gennaio 2014 – II Domenica del Tempo Ordinario


In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!... [e] testimoniò dicendo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,29-34).
Il Battista, nel vangelo di oggi, dice: “Io ho visto e ho testimoniato”. Troppo spesso le persone parlano per sentito dire. Allora bisogna chiedere: “Quel che dite l’avete visto voi? Voi c’eravate?”. “No, ma l'abbiamo sentito dire... tutti ne parlano...”. “Ma voi c’eravate?”. “No, ma che significa?”. “Significa che dovete starvene zitti”.
Testimone è solo colui che ha visto, che ha toccato con mano, non colui che crede, che pensa, che ipotizza, che interpreta. Per questo il Battista è sicuro, certo, perché ha visto.
E noi, cos’abbiamo visto di Dio? Come possiamo dire di conoscerlo? L’abbiamo mai incontrato? Troppa gente pretende di parlare di Dio: ma parla a vanvera, dice solo stupidaggini, fa solo chiacchiere; perché in realtà non ha mai “incontrato” Dio. Per parlare di Dio, bisogna prima incontrarlo: “Se l’hai incontrato, allora Dio esiste, altrimenti no”, diceva André Frossard nel suo libro: “Dio esiste io l’ho incontrato”.
Allora la domanda che spesso ci poniamo: “Ma io, conosco Dio? Io credo in Lui?”, è una domanda mal posta. La domanda giusta è: “Cos’ha fatto Dio per me? Riconosco in me, nella mia vita, l'opera continua di Dio?” Perché solo se lo abbiamo incontrato personalmente possiamo testimoniarlo; solo se abbiamo “visto”, sappiamo!
Il Battista dunque rende testimonianza a Gesù: “È lui l’agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo”. È l’espressione, centro del vangelo di oggi, che anche noi ripetiamo tre volte durante la Messa. Ma che vuol dire “agnello di Dio”?
Gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame; conoscevano bene agnelli, pecore e capre. Conoscevano il Salmo 22: “Il Signore è il mio pastore”. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua immolavano (tutt’oggi) per ricordare l’uscita dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio sul quale - ogni anno, il giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) - venivano caricate simbolicamente tutte le colpe del popolo, e poi veniva mandato a morire nel deserto. È infatti da questo fatto che è nata l’espressione “il capro espiatorio”: la persona cioè che prende su di sé tutte le colpe degli altri... le colpe non sue. Era un rito primitivo, per liberarsi dalle proprie colpe. Del resto tutti i popoli, in ogni tempo, hanno sempre offerto sacrifici a tale scopo, per liberarsi dalle proprie colpe: “sacrifico qualcosa di caro, d’importante, perché Dio abbia misericordia di me e perdoni i miei errori”. E di errori ne commettiamo veramente tanti, soprattutto quando pretendiamo di insegnare a Dio come deve fare il suo mestiere.
Dovremmo essere come l’acqua che si adatta ad ogni recipiente: invece no: vogliamo essere noi a decidere e stabilire cosa è buono per noi e dirigere la nostra vita. Ma allora che significato ha “credere in Dio” se poi siamo noi e non Lui a dirigere la nostra vita?
Quante volte scontrandoci con i fatti quotidiani diciamo: “Questo non è giusto!”. Quante volte diciamo: “Perché Dio mi tratta così?” Quante volte esclamiamo: “Ma perché Dio si vendica con me? È proprio cattivo!”. E se invece fosse che Dio ci sta chiamando? E se invece dovessimo passare proprio di là? Allora non imprechiamo mai, non chiediamo ragione a Dio di tutto ciò che ci succede. Diciamo piuttosto: “Cosa devo imparare? In cosa devo migliorare? Qual è l’insegnamento che devo ricavare da quanto mi succede nella vita?”.
Del resto, ogni tappa, ogni passaggio che dobbiamo superare nella nostra vita ci costringe a fare delle scelte, ci costringe a far morire qualcosa di noi. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire qualcosa, vuol dire sacrificare il proprio agnello.
L’agnello, allora, è il sacrificio; è cioè il dolore (l’agnello, simbolo della vulnerabilità, della debolezza), che devo pagare; è il soffrire, per crescere, per evolvere, per diventare spirituale, puro. Nella nostra vita abbiamo sempre avuto paura di fare una scelta difficile, controcorrente: ebbene, l’agnello è il prezzo della libertà interiore. Abbiamo sempre temuto di dire di no agli altri per non farli soffrire: l’agnello è il prezzo dell’autonomia. Abbiamo sempre voluto pianificare e decidere tutto: l’agnello è il prezzo della fede.
Nel mondo dello spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande (l’amore disinteressato) dona anche la felicità e la pace più grande.
Ma, ripeto, perché paragoniamo Dio ad un “agnello”?
Agnello, in ebraico, si dice con la parola “taljah” che vuol dire sia “agnello” che “servo”. Probabilmente Giovanni Battista quando parlava di Gesù intendeva non tanto l’agnello, quanto il “servo di Dio”. Con il tempo però i cristiani lessero la parola “taljah” solo come agnello. D’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui sgozzavano gli agnelli? Gesù quindi è il nuovo, ultimo e definitivo agnello, che toglie il peccato dal mondo.
È vero che l’espressione della Messa “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, per noi vuol dire: “Ecco Colui che è morto a causa dei nostri peccati; Ecco Dio che si è sacrificato per noi”.
Ma questa espressione significa anche tutt’altro; significa un po’ il contrario di quello che normalmente pensiamo. Vuol dire infatti: “Dio è buono come un agnello; Dio non ti farebbe mai del male; Dio è bontà, è tenerezza; Dio non è vendicativo: non te la fa pagare se lo ferisci; Dio non è geloso: non si arrabbia se vuoi bene ai tuoi cari, al tuo prossimo, come a Lui. Dio non è violento: non vorrà mai la tua sconfitta”.
Gesù dunque era “l’agnello”, in quanto immagine e simbolo della bontà; l’agnello non fa paura: Dio è così. Per nessun motivo al mondo dobbiamo temere. Lui non tradisce, Lui non volta le spalle, Lui sta sempre dalla nostra parte, Lui non ci abbandona mai. L’agnello è simbolo di dono: il latte, la lana e la carne; Dio è così: tutto quello che Lui ha ce lo dona. Lui vuole che noi siamo felici, felici al massimo, che siamo inebriati di vita.
Noi oggi possiamo dire ancora meglio, possiamo paragonare Gesù ad “un abbraccio”: è infatti tra le sue braccia, stretti a Lui, che possiamo veramente sentirci accolti, accettati, avvolti, riconosciuti, stimati, amati.
Quando ogni domenica ripetiamo le parole: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo...”, non dobbiamo cadere in ansia per le nostre debolezze, per le nostre umane infedeltà: ci devono invece rassicurare. Dio è un agnello che ci viene incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha, perché possiamo vivere e vivere al massimo; perché cresciamo, ci espandiamo, siamo noi stessi; perché amiamo e siamo amati. Se Dio viene paragonato ad un agnello, vuol dire che Dio è buono. Cosa ci può mai fare un agnello? Un leone, un lupo, una tigre, sono pericolosi, ci possono fare del male. Ma un agnello? Dio è così.
Allora andare a fare la comunione, è come andare dalla persona amata: una gioia, un’attesa, un’aspettativa. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia della mamma: lì sentiamo quanto valiamo, quanto siamo belli e amati. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: ci sentiamo sempre al sicuro.
Certo, Dio è anche l’Agnello che toglie i nostri peccati: le nostre scelte sbagliate ed egoistiche, le nostre paure di donarci, i blocchi d’amore del nostro cuore, i condizionamenti negativi del nostro spirito. Ma a Lui interessa più la nostra salvezza che il nostro castigo; innamorato come una Madre, buono e rassicurante come un Agnello, ci prende per mano per aiutarci ad affrontare e superare tutto questo.
Dio infatti si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, intransigente. Ma che può farci un bambino? E se pure qualche volta ci mette alle strette, se ci da una qualche tirata d’orecchie, se insomma talvolta è fermo, esigente con noi, è solo per amore, perché ci ama veramente, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici.
C’è una storia andina che racconta di una banda feroce di predoni che, scesa dalle alte vette delle Ande, attaccò un villaggio, e portò via tutte le ricchezze degli abitanti e anche un bambino. La gente del villaggio formò subito una squadra per andare a riprendersi almeno il bambino; ma erano contadini, inadatti a scalare le alte vette delle montagne. Ci provarono comunque: tentarono in tutti i modi a scalare quelle rocce. Ma tutto fu inutile: dopo giorni e giorni di tentativi erano ancora bloccati a metà strada. Ad un certo punto rimasero tutti sbigottiti vedendo la madre del bimbo che scendeva dalla vetta con il figlio in braccio; era salita da sola fin lassù. Le corsero incontro e le chiesero: “Come hai fatto a salvarlo? Noi che siamo in tanti, uomini forti e vigorosi, non ci siamo riusciti; tu da sola, sì?”. E lei: “Era mio figlio!”. Ebbene, Dio è come quella madre: e noi siamo i suoi figli. Amen.