mercoledì 30 ottobre 2013

3 Novembre 2013 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura» (Lc 19,1-10).
Gesù sta andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua posizione la città costituiva un punto strategico per l'amministrazione romana; era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell'esercito ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui che Zaccheo incontra Gesù: o è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze, defraudando la povera gente.
Il nome Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona donna”, anche se sembra un pervertito o quant'altro, Dio vede la sua piccola parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non viene mai meno.
Zaccheo dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio: c'è un'insoddisfazione dentro di lui, c'è un tormento, una inquietudine, una irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos'altro; quello che ha, per quanto sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché la felicità non sta nelle cose ma nei valori. Le cose sono solo uno strumento per raggiungere i valori; sono i valori morali che danno piena serenità e appagamento.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos'altro. Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo è piccolo: “piccolo” non tanto di statura , ma della percezione interiore che egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora cos'ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più amato: ma non è stato così!
Allora reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato” dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c'è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto con un po’ d'amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Gesù infatti sembra continuare dicendo: “Se tu continui a startene lassù, a ritenerti intoccabile e più degli altri, sai cosa ti accadrà? Ti accadrà che non avrai amici, né compagni e nessuno vorrà entrare in casa tua. Perché quando ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, ci isoliamo e moriamo di solitudine. Vuoi vivere così, Zaccheo?”
Ma egli ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto finalmente la via dell’amore.
Ma l'amore è condivisione. L'amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano essere al massimo di sé. L'amore non è dare ma darsi. E Zaccheo si dà, dando ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non hanno nulla o se sono poveri. Per l'amore basta avere un cuore. Ci si converte all’amore non perché l'ha detto Madre Teresa di Calcutta o San Francesco d'Assisi, o perché qualcuno ci dice che così va bene e che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, si muore.
Conversione vuol dire “vivere meglio”; Zaccheo, non a caso, è “pieno di gioia”; e finalmente quel Qualcuno che egli voleva incontrare, facendo breccia nel suo cuore, senza giudicarlo per come appare all’esterno, lo incontra nel suo intimo: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
A questo punto la conclusione è ovvia: Zaccheo si sente amato incondizionatamente e gli viene spontaneo fare altrettanto. Gesù non pone condizioni; Gesù non dice: “Ti amo, vengo a casa tua, ma tu devi...”. E Zaccheo farà lo stesso, spontaneamente: chi glielo fa fare infatti di dare la metà dei suoi beni ai poveri? Nessuno! E chi glielo fa fare di restituire, non il dovuto, ma quattro volte tanto il rubato? Nessuno, perché questi sono i gesti dell'amore.
Gesù ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo a questo punto ama gratuitamente i fratelli. L'amore è gratuità. È l'amore che ci salva, che ci cambia la vita: noi tutti ce ne siamo resi conto quel giorno in cui, in qualche modo, abbiamo sentito qualcuno che ci ha detto o fatto sentire: “Non voglio nulla da te, non sono qui per chiederti qualcosa in cambio. Sono qui perché tu sei importante per me e ti aiuterò, se tu lo vorrai, ad essere il meglio di te”.
Zaccheo senza Gesù sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé.
E concludo: l'amore non è dare, ma darsi. È dire al fratello: “Ti dono quello che sono, perché tu sia il meglio e il massimo di te. E quando te ne andrai via da me, essendo migliore di me, allora saprò che ti avrò veramente amato”. Amen.

 

giovedì 24 ottobre 2013

27 Ottobre 2013 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,9-14).
La parabola di oggi ci propone due personaggi, il fariseo e il pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani; erano considerati dei traditori collaborazionisti, e quindi odiati cordialmente dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé”. In greco questa forma verbale significa più esattamente “egli prega se stesso”. Molti infatti pregano se stessi, adorano se stessi; per loro la preghiera è l’occasione per mettersi in buona luce davanti a Dio e agli uomini, per dimostrare, compiaciuti, tutti i loro meriti.
Il fariseo sta in piedi e prega in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di se stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva (frumento, olio, vino) che veniva devoluta al tempio e per i poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Quanta gente di questo tipo conosciamo anche noi: sono “i giusti”. Di loro e della loro vita esteriore non possiamo proprio dire nulla. Non troviamo in loro nessun difetto: pregano, sono ottimi padri o madri, grandi lavoratori, apertamente non fanno del male a nessuno; ma nel loro intimo sono aridi, la loro è una vita senz'anima, una vita senza vita, senza slanci d'amore.
Il pubblicano, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Il “pubblicano” era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli. Era coinvolto in un traffico di denaro “sporco”, dal quale, una volta entrati dentro, è difficilissimo uscirne. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché?
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, noi faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucarestia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo distorcere la realtà sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra pseudo “verità”, nudi e spogli.
La vera preghiera è invece quella che parte dalla profonda verità di noi stessi. Quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma gli altri non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, e possiamo pertanto nascondere a tutti e soprattutto a noi stessi, ciò che abbiamo di negativo, ciò che è imperfetto, ciò che è doloroso, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Possiamo nasconderli così bene anche a noi stessi che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi, pensiamo che non ci siano più. Non li vediamo e quindi pensiamo di essere migliori, “più” degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà e gli dispiace sinceramente. Per questo egli chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Il pubblicano riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a se stesso, non si inganna.
Solo quando uno si riconosce completamente povero davanti a Dio, solo allora può ricevere la ricchezza, che è Dio stesso. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. E per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato.
C'è una preghiera gradita a Dio e una preghiera insopportabile per Dio.
Il fariseo non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con se stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Chi di noi è tanto perfetto, immacolato, da considerarsi tale anche con se stesso, di fronte allo specchio della propria coscienza? Se rispondiamo “Io”, beh, allora dobbiamo guardarci meglio, fratelli miei, dobbiamo scrutarci minuziosamente! Perché, dove li mettiamo i nostri piccoli segreti, le nostre piccole falsità, le nostre debolezze, le nostre ipocrisie? Non è forse vero che siamo attirati dal proibito, che ce ne compiacciamo, anche se poi non lo facciamo? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta proprio antipatico e che arriviamo anche ad odiarlo? Non è forse vero che abbiamo desideri e impulsi cattivi, a volte anche perversi? Non è forse vero che facciamo pensieri di ogni tipo, anche i più trasgressivi e i meno nobili? Non è forse vero che in certi momenti, di fronte a certe disgrazie, ci disperiamo, e malediciamo Dio in cuor nostro, convinti di essere vittime della sua “cattiveria”, della sua “ingiustizia”? Non è forse vero che certe nostre reazioni ci fanno paura? Non è forse vero che abbiamo a volte tradito la fiducia degli altri, ferendoli volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci più bravi, più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso ci aggiustiamo le cose in modo che abbiano un tornaconto soprattutto per noi?
Ebbene: chi di noi è assolutamente immune da tutto questo, “scagli pure per primo la pietra”. E, guarda caso, c'è sempre qualcuno che la scaglia, sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
La preghiera non deve essere “pia”, formale, esteriore; deve essere intimamente vera, sincera, onesta: pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Dio spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Dio non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme nulla e ci ama in tutto il nostro squallore. Lui può andare dovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà: solo così potremo far spazio all’amore di Dio.
Un giovane onesto, giusto, virtuoso e irreprensibile, si presenta un giorno nel deserto da un santo eremita, e lo prega di accoglierlo come discepolo. L’eremita gli chiede: “Hai mai rubato?”. Il ragazzo risponde: “Assolutamente mai”. E il vecchio anacoreta: “Allora va' e ruba, e quando avrai imparato a farlo, torna da me”. Un invito a rubare? No, fratelli. Semplicemente un invito a indossare l’abito dell’umiltà, a distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili. Perché noi, a ben guardare la realtà, altro non siamo che quel fariseo e quel pubblicano. Amen.
 

giovedì 17 ottobre 2013

20 Ottobre 2013 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).
La parabola di oggi ci presenta un giudice disonesto: “bella novità”, diremo noi: “sarà stato come uno dei tanti di cui anche noi oggi sentiamo tanto parlare”. Solo però che a quell’epoca il compito specifico dei giudici era quello di tutelare e difendere le persone più deboli, quelle che non potevano “farsi giustizia” da sole: le vedove, i bambini e i poveri. In realtà però nella stessa Bibbia troviamo esplicite condanne contro le ingiustizie commesse proprio con la complicità e l’appoggio dei giudici. Quindi... niente di nuovo sotto il sole. Ma andiamo avanti.
È un giudice, questo del vangelo, che non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente può dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli procuri sensi di colpa per quello che fa. Compie il male e, per lui, non c'è nessun problema.
C'è poi una vedova, una persona onesta, povera, senza lavoro né protezione; una che non aveva i soldi per “comprarsi” la sentenza. Ma era una “tosta”, decisa, testarda: una che non intendeva assolutamente rinunciare al riconoscimento dei propri diritti. Per cui tutti i giorni, puntualmente, si presentava dal giudice per sollecitare la sua pratica.
Siamo dunque di fronte ad una situazione apparentemente impossibile: il giudice è un opportunista, uno che si fa i fatti suoi, che si muove solo “a pagamento”. La donna soldi da dargli non ne ha. A questo punto cos’altro le rimane da fare se non arrendersi?
La maggior parte della gente infatti, di fronte ad una situazione del genere, lascia perdere. Ed è vero, perché nella vita ci sono cose che sono veramente insuperabili. Ma non è detto però che non si possano comunque affrontare.
Noi diciamo troppo spesso: “Non ce la faccio!”. “Ma ci abbiamo almeno provato?”. Perché spesso abbandoniamo l’impresa ancora prima di provarci, dopo il primo tentativo andato male. È più facile per noi dire che una cosa è “impossibile” quando è solo difficile oppure come non la vogliamo noi.
Ci rassegniamo, o facciamo le vittime. Ma questo vangelo ci dice: “Provaci, non far finta; provaci per davvero; non guardare alla difficoltà, fidati di te, delle tue forze e soprattutto del fatto che Io sono con te; non so se ce la farai ma lotta con tutto te stesso, come ha fatto quella donna”. Non fingiamo: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le strategie possibili.
La strategia della donna non è molto ortodossa ma funziona: rompere le scatole!
Il verbo greco Ãpwpizein letteralmente vuol dire “fare un occhio nero”, colpire, mettere alle corde una persona; in senso figurato significa invece seccare, importunare, far fuori uno, farlo diventare “nero”. Per il giudice la vedova è proprio una “rogna”, una scocciatrice.
Beh, non è che dobbiamo proprio fare così alla lettera (ce ne sono già tante di persone così in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se una cosa per noi è importante, allora dobbiamo usare tutte le strategie possibili.
Cosa facciamo invece quando una nostra ingiusta situazione non viene neppure presa in considerazione? Cosa facciamo quando qualcuno ci dice un no? Facciamo un tentativo, due, tre, e poi smettiamo; ci sentiamo vittime che non possono fare niente. Invece questa parabola ci indica un comportamento diverso: “Insisti, rompi le scatole, sii insistente, assillante”. In-sistere vuol dire “stare in quella cosa”: non arrenderci. Ci teniamo e non ci muoviamo da qui.
Insistere, aver tenacia, non arrendersi, è la dimostrazione di quanto noi crediamo in una cosa, di quanto ne siamo coinvolti, di quanto quella cosa sia importante per noi. Lottare significa impiegare tutte le nostre energie per ciò che è importante. Lottare è credere che Dio ci dà una mano. Lottare è avere fiducia che con Lui troveremo una soluzione; vuol dire, in breve, “credere”, aver fede!
Fede non è dire: “Dio, fa' come voglio io”. Questo è delirio di onnipotenza, è imporre a Dio la nostra volontà! Fede è invece essere certi che con il suo aiuto c'è sempre una possibilità, un modo alternativo per affrontare e risolvere la situazione.
Lottare, infine, vuol dire anche: “Mi amo!”. Se mi amo, lotto per me. Lotto perché io sono importante e mi sento tale. Ogni volta che rinunciamo ad un nostro diritto, che rinunciamo ad esprimerci, a farci sentire, stiamo lentamente uccidendo noi stessi. Perché gli altri dovrebbero rispettarci se poi neppure noi lo facciamo? Se ci amiamo, se teniamo a noi, dobbiamo lottare per noi stessi.
La situazione della vedova sembrava già persa in partenza. Eppure lei ha una cosa che fa la differenza: la fede. Lei è la parte ferita, la parte lesa, la parte vulnerabile, quella che sente le emozioni. Ma questa donna, pur non sapendo come, né quando, “sente” dentro di sé la fiducia che qualcosa deve cambiare e agisce in conseguenza.
La vedova ci rappresenta, è una parte di noi. Ma dentro di noi c'è anche il giudice. È quella voce che ci dice: “Zitto; mettiti in un angolo!; non pensare sempre a te!; c'è chi sta peggio di te!; devi adattarti, devi subire, devi portare pazienza”. Ma con questo sistema ci dichiariamo disponibili a subire qualunque imposizione, qualunque soperchieria. Le atrocità della vita accadono per due motivi: uno perché c'è chi le compie; due perché c'è chi, pur sapendolo, non dice nulla, non si oppone.
Nel vangelo la vedova interviene invece con forza: “Non me ne sto zitta proprio per niente! Rivendico i miei diritti; rivendico il mio diritto di parola; rivendico la mia dignità; rivendico il rispetto per la mia persona. Per niente al mondo tu, o giudice, mi chiuderai la bocca; io voglio che la mia situazione, le mie emozioni, i miei diritti, siano considerati e rispettati”.
La cosa peggiore che noi possiamo fare a noi stessi è di metterci il bavaglio, condannarci al silenzio forzato, essere rinunciatari. Non è umiltà, è abulia. Non uccidiamoci, ma amiamoci. Dio ci ha creati perché fossimo sue creature, perché esistessimo, perché realizzassimo in noi l’opera del suo amore: diamoci e diamogli spazio, diamoci e diamogli voce. Dimostriamo a tutti che ci sentiamo realmente creature di Dio, consapevoli della nostra dignità, del nostro essere persone all’altezza di quel progetto divino al quale Lui ci ha chiamati. Amen.

giovedì 10 ottobre 2013

13 Ottobre 2013 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli vennero incontro dieci lebbrosi… “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano» (Lc 17,11-19)
Il vangelo racconta di dieci guarigioni e di un solo miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che gli è successo, solo in lui avviene il miracolo. Perché “guarire” è molto più che acquistare la guarigione corporale; “guarire” significa compiere una trasformazione, una conversione interiore.
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un escluso. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Era il sacerdote che, in caso di guarigione, aveva il compito di esaminare il lebbroso, di dichiararlo puro, cioè guarito. Allora il guarito si sottoponeva a tutta una serie di riti e poteva essere reintegrato nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento negli altri casi di guarigione - non fa nulla: non li tocca, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi,. Perché? Non poteva guarirli subito? O la loro guarigione dipendeva proprio dall'andare dai sacerdoti? In effetti è così: questi dieci credono alla parola di Gesù, hanno fede e questa loro fiducia li guarisce.
La fede di questi dieci è che sono convinti di poter guarire, di poter cambiare la loro situazione, e così avviene. Non è semplice per loro presentarsi a quell’autorità che li rifiutava proprio per la loro malattia: ma essi, anche se si vergognano della loro condizione, sfidano il giudizio pubblico e sociale, sfidano il rifiuto di quelle persone e vanno comunque da loro. Il segreto della loro guarigione sta qui: nell’aver recuperato la fiducia in sé e nell’andare incontro proprio a quelle situazioni che temono di più.
Se noi non crediamo in qualcosa di migliore per noi, non ci può succedere nulla di migliore. Se noi non crediamo che Dio ci ama, se dubitiamo, se siamo scettici, Dio non può trasformarci. Se noi non crediamo che possiamo guarire, non guariremo!
Molte persone non cambiano la loro vita, le loro malattie, le loro paure, i loro comportamenti negativi, perché non credono che “ la guarigione” possa succedere proprio a loro.
Quando ci sentiamo in colpa, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare incontri. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di andare? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. È l’azione che è richiesta; non una staticità passiva, un’attesa rassegnata; la loro preghiera deve diventare movimento, energia. Pregare è agire, altrimenti la preghiera rimane un lamento inutile, una filastrocca arida. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, fare ciò che Lui ci ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo una egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può farci nulla. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se ci crediamo.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano visto.
Gli altri nove hanno eseguito l’ordine di Gesù e sono andati dai sacerdoti: hanno obbedito all’ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono stati guariti ma non hanno visto Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, la fonte, la forza che li aveva guariti.
Il ritorno del samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” per ringraziare Gesù.
Le persone pensano che tutto sia dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti degli altri, e di se stessi: i privilegi non bastano mai. I nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuta! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione strettamente collegata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
Il verbo “rendere gloria”, in greco, è strettamente collegato all’accorgersi,
L’uomo in questo è particolarmente distratto. È refrattario alla riconoscenza.
Così la nostra “eucarestia” (dal greco eÇcar°zw, ringraziare, rendere grazie) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita.
Ma le nostre eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci.
L'egocentrismo delle persone si manifesta nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più.
Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono infatti dalla stessa parola: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo per i figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa e del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni che abbiamo, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo per noi è gratis. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore.
Chi non ringrazia, dimostra di non conoscere Dio. E non conoscendolo, si auto esclude dal rendergli lode. Al contrario “tornerà indietro” a ringraziare, a “bene-dire”, a  lodare Dio, colui che si rende conto di essere una insignificante particella di un immenso, meraviglioso mosaico; di appartenere cioè ad un mistero divino di amore incalcolabile, un mistero che lo trascende, che lo supera vorticosamente, nel quale si sente totalmente immerso.
Fare della nostra vita una lode perenne a Dio: è questo il senso della nostra vita. E ciò non significa esibire costantemente un sorriso beota stampato in faccia (oltretutto indice di grande falsità); ma significa dire sempre di sì a Dio; significa accoglierlo e dargli voce in tutti gli istanti della nostra vita. Una vita di lode è la vita di colui che non si sottrae alla Sua volontà; di colui che continua a “tornare” alla sua presenza; di colui che, dal suo profondo, gli innalza lode per tutto ciò che vive, in segno di umile ringraziamento. Perché egli ha veramente “visto”. Amen.
 

giovedì 3 ottobre 2013

6 Ottobre 2013 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli apostoli pongono a Gesù una domanda: “Aumenta la nostra fede”... Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe»
(Lc 17,5-10).
Nel vangelo di oggi gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato e messo a dimora, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima,  purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma il gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società,; la paura di una malattia improvvisa  e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Quante volte ci lamentiamo anche noi con Gesù: “Ho poca fede! Così non ce la faccio, non ci riuscirò mai, aumenta Tu la mia fede!”. E quante volte Lo abbiamo puntualmente sentito nel nostro cuore rassicurarci: “Lo so che ne hai poca, è normale. Fidati di quel poco che hai! Fallo crescere! Nutri quel poco che c'è in te... e vedrai!”.
Aver fede non vuol dire pregare: la fede non sono le “nostre” preghiere. La fede è fiducia, convinzione, certezza, percezione interna di essere amati, di essere degni d'amore, di essere protetti e di avere la forza per affrontare ciò che abbiamo davanti. La fede non è quello che sappiamo ma quello che viviamo, che abbiamo dentro; è il sentimento, la forza, l'energia. Religione e Fede sono due cose completamente diverse: religione è quello che facciamo, l’insieme delle nostre pratiche; la fede invece è la vitalità, l'energia, la passione che mettiamo nel farle. Esattamente come nella vita normale: la religione è il comportamento esteriore, sono i regali, le attenzioni per la persona amata, la cortesia, la galanteria: i fiori, un anello, un invito a cena. La fede è invece l’amore, la forza del sentimento che percepiamo dentro di noi, la passione che nutriamo per lei, il desiderio che ci brucia nel cuore. Tutto chiaro?
Quindi: da come reagiamo di fronte alle piccole cose, come pure davanti alle difficoltà, agli imprevisti, agli ostacoli della vita, possiamo misurare la nostra fede, la nostra fiducia in Dio. Certo, la fede non elimina materialmente i problemi e le difficoltà: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con una tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni a suo favore.
Il “gelso” però, oltre che le difficoltà materiali, rappresenta anche i nostri schemi mentali malsani, le nostre abitudini distorte, le nostre convinzioni egoistiche; i nostri schemi ci danno sicurezza, sono conosciuti, ci fanno agire in maniera automatica, senza fatica; anche se spesso sono inutili, inconcludenti. Aver fede, in tal caso, vuol dire: “Riconosco i miei automatismi, che mi fanno vivere come un robot, e li rompo”. Spacco, spezzo, cambio le dinamiche automatiche che vivo senza neppure sapere di averle. Mi credo libero e invece sono un manichino che reagisce in maniera predeterminata. Più vivo di automatismi, di pensieri fatti, di idee degli altri, di frasi ricorrenti e preconfezionate, di ciò che fanno e pensano gli altri, più mi immedesimo negli altri, uniformato, adeguato, adattato al sistema; e più sono condizionato, meno padrone di me stesso, meno libero.
Fede, fiducia, vuol dire che le cose si possono fare in maniera diversa. Fede, fiducia, vuol dire che ciò che sembra impossibile si può affrontare.
Attenzione però, perché c’è anche il rovescio di questa medaglia: ed è la “fissazione”, l’esatto contrario di “fede e fiducia”. “Fissazione” è quando, di fronte al mutarsi di una idea, di una situazione, di un comportamento, noi reagiamo sempre allo stesso modo: ci siamo “fissati”, fermati, e non c'è verso di cambiare prospettiva, posizione. “Fissazione” è quando noi stessi siamo il “gelso”, ostinati sulle nostre posizioni, cocciuti e testardi; per paura di cambiare (abbiamo fatto sempre così!), e di ciò che comporta, ci ostiniamo a percorrere la solita strada, quella conosciuta e più facile, anche se senza uscita.
La nostra società è piena di fissazioni. Persone che, quando hanno deciso una cosa, rimane quella per tutta la vita, anche se continuano a sbatterci contro. La fissazione impedisce di crescere in quanto esclude ogni possibilità di trovare strade alternative, più consone alla situazione. Molte persone, in questo modo, si sono create una loro personale realtà. Un'idea sull'amore? l'amore è così. Un'idea su Dio? Dio è così. Un'idea sulla politica? la politica è così. “Questa cosa si fa così e basta”; “quella persona, per quanto possa fare, sarà sempre così, non cambierà mai!” (è una sentenza di morte!).
La fede, al contrario, è innanzitutto elasticità; è non rimanere ancorati, fissati, sclerotizzati nelle rispettive posizioni, idee, schemi. Fede è poter cambiare, poter divenire. Fede è dare nuove possibilità alle persone, è credere nel Dio che le abita. Fede è donare fiducia.
E concludo: abbiamo fede, abbandoniamoci nelle braccia di Dio; ma questa volta facciamolo sul serio, non come siamo soliti fare, per finta, a parole.
Purtroppo abbiamo la brutta abitudine di ricordarci di Dio soltanto quando stiamo con l'acqua alla gola, quando ci accorgiamo di non farcela più; e mettiamo Dio alla prova. Gli diciamo che ci fidiamo di Lui, ma lo facciamo solo apparentemente; sappiamo solo parlare e straparlare, ma non abbiamo la fede e il coraggio di camminare sulle acque, di staccarci dalla riva, andare al largo e raggiungerlo. Eppure Lui ci ascolta sempre, e spesso lo fa anche in maniera così totale e clamorosa da spiazzarci completamente, mettendoci in condizione di dovergli dare delle risposte finalmente coerenti.
A volte la nostra vita è irrequieta, piena di dubbi, di ansie: ma ci guardiamo bene dal ricorrere a Lui con fede, per paura di dover poi cambiare; Lo invochiamo, ma non gli lasciamo nessuna possibilità di agire e di salvarci; lo invochiamo, è vero, ma pretendiamo anche di spiegargli cosa deve fare.
Allora, vogliamo essere veramente suoi discepoli? Mettiamo la nostra vita e la nostra volontà nelle sue mani: ma per davvero, sul serio! Pregando con fede e come si deve.
A questo proposito un prete, in modo scherzoso (ma non troppo), metteva in guardia i suoi parrocchiani: “Non affliggete troppo Dio con le vostre continue lamentele, con le vostre continue preghiere di insoddisfatti cronici; ricordate che l’unico, serio rischio, delle vostre preghiere è che Dio le ascolti; e così l’unica cosa che vi rimane poi da fare, è diventare santi sul serio, con i fatti, non a chiacchiere!”.
Un’ultima provocazione per concludere: non dimentichiamoci mai che, nonostante tutto quello che facciamo, siamo sempre “servi inutili”. In ogni caso. Evitiamo allora di armarci di quel sacro “zelo” così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate”, per le quali siamo completamente inadeguati. Impariamo invece a stare umilmente al nostro posto. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da uomini di grande fede, che andiamo avanti per la nostra strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli. Con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, sempre inopportune e commiserevoli, e lasciamo fare a Dio il suo mestiere. Anche perché, detto tra noi, non abbiamo assolutamente nulla da insegnargli. Amen.
 

giovedì 26 settembre 2013

29 Settembre 2013 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe…» (Lc 16,19-31)
Ad un primo veloce approccio col Vangelo di oggi, si potrebbe concludere che i ricchi vanno all'inferno e i poveri in paradiso. Quindi, visto così, sarebbe un invito per i poveri a sopportare con pazienza le miserie di questa vita, in vista di una ricompensa lassù: fermo restando che quaggiù i poveri rimarrebbero sempre poveri e i ricchi sempre ricchi.
Il senso della parabola però è molto più profondo e indica in realtà quello che ci accadrà se continueremo a vivere disinteressandoci degli altri, del bisognoso che bussa alla nostra porta, mentre noi facciamo finta di non vedere quello che ci succede intorno, quello che, per qualche tornaconto, non vogliamo vedere e che invece dovremmo vedere.
Nel vangelo ci vengono proposti due personaggi, il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso (segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale), una casa, cibo a volontà, che gli consente ogni giorno di mangiare lautamente e abbondantemente; ha “fratelli”, cioè relazioni, amici, amore; ha una sepoltura (cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo). Il ricco insomma ha tutto, non gli manca niente. L'unica cosa che non ha è un nome.
Poi c'è Lazzaro. Lazzaro non ha proprio nulla. Non ha casa, non ha cibo né amici (è solo con i cani!) e non ha nemmeno sepoltura. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, malato, ricoperto di piaghe, affamato e solo. L'unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”.
Ebbene: per la Bibbia avere un nome è fondamentale, perché il nome identifica una persona, è la persona stessa. Conoscere il proprio nome significa conoscersi, avere un'identità, una strada da percorrere, qualcosa da realizzare, essere vivi. Lazzaro, “Dio aiuta”, è il povero; il suo nome è la sua vita: ha bisogno di Dio, ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che Dio si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome. Il ricco non ha nome perché è incosciente, non si conosce, vive nella superficialità, si disinteressa completamente di ciò che succede alle porte di casa sua, e per questo non ha alcun potere sulla sua stessa vita.
Il ricco non si accorge di Lazzaro: non lo vede neppure; ma come avrà fatto a non vederlo? Era lì... alle porte di casa sua... tutti i giorni a mendicare: chiedeva aiuto e urlava il suo disagio.
Questo è il grave problema del ricco, questa è la sua condanna: il non accorgersi. E una stessa condanna sarà riservata anche a noi, ci dice il vangelo, se vivremo non accorgendoci dei Lazzaro nostri fratelli, ma soprattutto del Lazzaro che è in noi: non accorgendoci, cioè, del bisogno, del disagio della nostra anima, della nostra coscienza che urla, che strepita, che vuole la nostra attenzione, e che noi lasciamo fuori, alle porte della nostra casa.
L'inferno e il paradiso sono nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: se facciamo i “ricchi”, se sfarfalliamo, se chiacchieriamo a vuoto, se non ci poniamo mai domande serie da scuoterci l’anima, se non affrontiamo mai questioni vitali, profonde; se ci guardiamo bene dallo scavare dentro di noi, se evitiamo insomma le difficoltà, i problemi, se evitiamo il bene perché è scomodo e ci dà fastidio, se in una parola non ascoltiamo la voce della nostra coscienza, finiremo sicuramente all'inferno, alla perdita dell’amore eterno.
Dobbiamo pertanto convertirci: la conversione è il passaggio che facciamo dall’inferno al paradiso, è il momento stesso in cui smettiamo di lusingarci da “ricchi”, e accettiamo, pur con dolore ma con un senso di liberazione e sollievo, che siamo tanti Lazzaro. È in quell'istante infatti che potremo sperimentare con mano che veramente “Dio salva”.
Noi siamo i Lazzaro: siamo i soli, gli indigenti, i pieni di miserie. Siamo i soli, perché in casa nostra non abbiamo proprio nessuno.
È triste ammetterlo, ma quante volte nella vita, siamo stati Lazzaro: quante volte ci siamo trovati anche noi a dover “mendicare” amore, affetto, comprensione, e non è arrivato nulla!
Fa male aver bisogno di amore; fa tanto male dover chiedere amore, riconoscere che ne abbiamo bisogno. Fa male tendere la mano per ricevere, dover mettere a nudo la nostra anima per poter essere nuovamente accettati, perché qualcuno possa farci entrare nella sua “casa”: abbiamo il terrore di venire nuovamente feriti. Siamo deboli e vulnerabili, anche se ostentiamo sicurezza e presunzione. Del resto non è facile accettare di essere Lazzaro: di dover mendicare amicizia, calore umano, di doverci accontentare di briciole d’amore, convinti che in fondo “qualcosa” è sempre meglio di niente! In certi momenti siamo addirittura pronti a scendere a dei compromessi con noi stessi, a permettere agli altri di fare di noi quello che vogliono, pur di avere in cambio un riconoscimento, calore, comprensione, sostegno.
Non ci piace vederci come Lazzaro che, solo e abbandonato, bussa ad una porta a cui nessuno apre, un Lazzaro che nessuno vede né sente; essere Lazzaro ci fa vergognare, ci fa soffrire.
Ma è molto peggio essere i “ricchi”, perché significa trasformare la nostra vita fin da ora in un inferno. Si, perché l'inferno è solitudine; inferno è chiudere per sempre la porta di casa nostra, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L'inferno è “chiusura”: è impedire a Dio di entrare con la sua luce, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia là dove c'è tormento, solitudine e sofferenza.
L'inferno o il paradiso è quindi nelle nostre mani.
Tocca a noi decidere pertanto se ospitare in casa nostra gli altri Lazzaro, quelli che ci sono vicini, o se lasciarli fuori: dei Lazzaro che urlano, ma che noi non sentiamo. Ma se ci stanno urlando perché stanno male, guardiamoli una buona volta, e accogliamoli! Se ci stanno urlando silenziosamente la loro paura, le loro angosce, accorgiamoci delle loro urla silenziose, accogliamoli e ascoltiamoli. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, il nostro partner, i nostri confratelli, i nostri amici, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che i nostri figli, i nostri nipoti, hanno bisogno di noi, del nostro incoraggiamento, del nostro apprezzamento? Non vediamo che i nostri fratelli soffrono, che hanno la tristezza e il pianto negli occhi? Non vediamo, non sentiamo l'angoscia di chi ci vive a fianco? Non vediamo i dolori e i pesi che si tengono dentro? Eppure questi Lazzaro ci sono così vicini, fuori della nostra porta: ma noi siamo occupati nelle nostre cose, occupati nei nostri affari, nel “giardino” della nostra casa, e non diamo loro ascolto.
Nella seconda parte del vangelo c'è poi la preghiera del ricco che vorrebbe andare dai suoi fratelli perché non facciano la sua stessa fine. Ma – interviene Abramo – ciò non è possibile. Del resto, se uno ha il cuore indurito, neppure davanti a Cristo in persona crederebbe.
I segni ci sono: chi vuol vedere vede, chi non vuol vedere non vedrà mai. Molte persone vivono una vita da sordi, non hanno orecchie per ascoltare, vivono senza udire le voci degli uomini di Dio che li ri-chiamano. Molte persone hanno vicino “Mosè e i Profeti”, hanno profeti e persone, possibilità ed esperienze per poter sentire e crescere, occasioni che ricordano loro di prendersi cura di Lazzaro, della loro anima, del loro mondo interiore, di chi soffre vicino a loro, di coltivare la propria sensibilità. Non sono i miracoli che salvano, è la fede. Esseri vivi e svegli al mattino è davvero un miracolo; i computer più sofisticati fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della vita: ma tutto questo neppure ci sfiora. Siamo immersi in un continuo miracolo che si chiama vita, ma tutto questo non ci stupisce né ci commuove. E chi non vuol credere, non crederà neppure se i morti resuscitano.
Noi siamo esseri di luce e di ombra. Siamo contemporaneamente l'uomo ricco e anche Lazzaro; siamo ciò che ci piace, ma siamo soprattutto ciò che rifiutiamo, che non vogliamo accettare e accogliere nella nostra vita, che è doloroso, insostenibile; siamo esseri divini, ma anche terribilmente umani. E se ci nascondiamo una cosa, non vuol dire che non ci appartenga.
Il grande compito della nostra vita è portare luce dove c'è buio. Ma chi vuole aver a che fare col buio? Nessuno. Perché il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole entrare con la propria flebile luce in certi inferni della vita? Ovvio, nessuno. L'ignoranza è l'illusione di credere che certe cose non esistono solo perché non le vediamo. Eppure è proprio questo che la vita ci chiama a fare. Entrare negli altri con la luce di Dio, della coscienza, della consapevolezza, con la fiducia e con la forza del Padre, per portare luce e liberazione negli inferni delle anime. L'inferno è tale perché è buio; ma se c'è una luce, per quanto debole sia, anche il buio più pesto può diventare abitabile.
Noi siamo figli della luce, noi siamo figli di Dio: non dimentichiamolo.
Il diavolo, il male, ama il buio, il sotterfugio, il nascondimento, l'anonimato, la notte, l'oscurità. L'ignoranza è il peccato più grave: vuol dire lasciare nel buio, nell'anonimato, nel nascondimento, ciò che chiede di essere portato alla luce. Anche il ricco ignorava Lazzaro, ed è per questo che ha creato il suo inferno. Il buio è ciò che non sappiamo, ciò che ci spaventa, ciò che evitiamo. Vera spiritualità è portare luce nelle tenebre della nostra vita; è portare consapevolezza nell'ignoranza della nostra esistenza; è vedere tutto ciò che è Lazzaro.
Per chi vive al buio, per i figli delle tenebre non c'è possibilità di salvezza; solo i figli della luce, solo chi avrà la fiducia di non nascondersi nulla e di far entrare la luce di Dio nella propria vita potrà salvarsi e potrà vivere.
C'è una storiella: è sera e un uomo sta cercando in casa sua qualcosa. Arriva un amico e gli chiede: “Cosa cerchi?” “Cerco le chiavi dell'auto”. Allora anche l'amico si mette ad aiutarlo ed entrambi cercano per un bel po' in quella camera. Ad un certo punto l’amico gli chiede: “ Ma dove di preciso le hai perse?”. “Le ho perse in cantina”. “Ma diamine, perché cerchiamo qui allora?”. “Perché qui c'è più luce!”.
Si potrebbe anche ridere, se non fosse che questa storiella ci propone una grande realtà.
Noi tutti preferiamo muoverci dove c’è luce, sicurezza, serenità: preferiamo non lasciarci coinvolgere dal buio, dalle difficoltà della vita presente, dalle necessità del prossimo. Ma come pensiamo di raggiungere la luce, la felicità, l’amore eterno di Dio, se ignoriamo il richiamo del nostro fratello Lazzaro, e lo lasciamo morire davanti alla nostra porta? Noi abbiamo il terrore della cecità degli occhi: ma per quella del cuore nessun timore ci sfiora. Pensiamoci. Amen.
 

giovedì 19 settembre 2013

22 Settembre 2013 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua» (Lc 16,1-13).
Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza non poco e suscita in noi un notevole disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Non dice: “Ha fatto bene a fare così” e quindi: “Se ti è possibile fai anche tu altrettanto!”. Gesù, al contrario, di quel contabile disonesto si limita a lodare solo la capacità di reagire ad una situazione compromessa: il darsi da fare cioè di uno che non si rassegna, che non si butta giù, che non “piange a vuoto”, ma che trova a tutti i costi la soluzione definitiva ad un problema apparentemente irrisolvibile.
Dove infatti il testo dice: «Il padrone lodò l'amministratore disonesto», appare evidente che si tratta di una traduzione non proprio corretta: è impensabile infatti che un padrone, per quanto bravo e santo sia, accortosi di essere stato derubato dal suo amministratore, gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio bene! Hai tutta la mia stima!”.
Per capire il vero senso del testo, era sufficiente tradurre il termine greco “κυριος” del versetto 8, invece che con “padrone”, con “Signore” (è infatti “κυριος” l’appellativo più ricorrente per indicare Gesù: Luca lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventerebbe immediatamente comprensibile: “Il κυριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore”. Non è il padrone, dunque, ma è Gesù che loda l’uomo, è Gesù che sottolinea, come esempio da seguire, non ciò che lui fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In pillole insomma Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone “dormienti”, imbambolate, inconcludenti, persone cui sta bene tutto, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, uno che ha saputo valutare molto bene le sue reali possibilità”. In questo modo lo schema da seguire, così come ci viene indicato, è molto semplice: ci accorgiamo che in una certa situazione non possiamo più “lavorare”? Che quella strada che avevamo imboccato non è più praticabile? Basta, inutile tergiversare: dobbiamo immediatamente trovarne un’altra, dobbiamo agire in un altro modo, con un'altra logica; dobbiamo fare scelte mirate, più creative, concrete; in una parola dobbiamo correre subito ai ripari, inventarci un rimedio veloce ed efficace.
Quando una cosa non funziona più, è inutile insistere, lottare, illudersi che possa cambiare. Quando una cosa non funziona più, dobbiamo semplicemente cambiarla.
L’area di applicazione più ovvia di questi insegnamenti, è quella del nostro comportamento di fronte alla colpa. Abbiamo sbagliato, ci siamo comportati egoisticamente, abbiamo calpestato i nostri principi, abbiamo tradito noi stessi, la fiducia e i diritti degli altri? Se siamo già caduti così in basso, inutile recriminare, inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima. Seguitare a rimuginare sul male fatto, su cosa avremmo dovuto fare e non l’abbiamo fatto, su come avremmo dovuto farlo, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, troppo sicuri di noi, parecchio stupidi ed egoisti; ma a questo punto vogliamo forse morire? A che serve farla finita, morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolviamo? Ciò che è stato è stato. Ma se il passato non si può cambiare, siamo noi però che possiamo cambiare: siamo noi che dobbiamo imparare a non ripetere il male; a chiedere perdono a Dio e al prossimo, a riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo noi, insomma, che ci dobbiamo correggere, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
Nel vangelo è dunque la risolutezza dell'amministratore che viene lodata: non si lascia annientare dal fatto di essere colpevole di frode; non si arrende. Quante persone invece dopo un errore, dopo una colpa, anche se non grave, si lasciano andare completamente, non reagiscono, non alzano un dito per tornare come prima.
Invece, abbiamo rubato? Abbiamo tradito il partner? Abbiamo completamente sbagliato nell’educare i figli, ecc.?; certo sono fatti oggettivamente gravi, concreti. Ma non perdiamo tempo: prendiamo immediatamente in mano la situazione, rialziamoci e corriamo dal medico per le cure del caso. È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo perdonarci. E perdonarci, significa riconoscere il mal fatto, provarne un sincero dispiacere; non tanto in noi stessi, per conto nostro, nella nostra testa, ma di fronte a “qualcuno” che può a sua volta perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci, e torniamo a vivere nuovamente liberi, a testa alta.
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto l’amministratore infedele; finora egli aveva “sfruttato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora invece si accorge che quelli con cui trattava, non sono oggetti, sono degli uomini, delle persone. E come mai se ne accorge? Perché anche lui ora si trova nella stessa loro condizione. Anche lui adesso è un “debitore” del padrone, esattamente come loro. Anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè è caduto in basso, quando è costretto a vivere le stesse esperienze negative dei miseri, a dover affrontare le loro stesse situazioni compromesse, le stesse colpe - che nasce in lui la misericordia. L’uomo perfetto, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non conosce la misericordia, non sa cosa sia, non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui non è un debole e non conosce alcuna caduta. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla sua pelle cosa voglia dire sbagliare, sentirsi uno schifo, sentirsi indegni, colpevoli, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi non sbaglia mai, non può che giudicare gli altri con disprezzo. Chi non sbaglia mai non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
Tutti in genere riconosciamo apertamente di sbagliare, di essere peccatori: ma la maggior parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere quelli che facciamo; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere i critici più spietati con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire: prima, egli spendeva tutte le sue energie per defraudare i “debitori”; dopo, le sfrutta tutte per aiutarli. E ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui non ha colpe nascoste, non ha lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di niente, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È poi molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti ad ogni valore morale irrinunciabile, a Dio e alla famiglia…
Pertanto se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci! Ci sentiamo in colpa perché abbiamo un carattere difficile, perché non riusciamo a dominare i nostri istinti, i nostri scatti d’ira, perché ripetiamo all’infinito i soliti errori? perdoniamoci! Solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati: perché solo in questo modo, potremo nuovamente trasfigurarci nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.