mercoledì 30 gennaio 2013

3 Febbraio 2013 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino» (Lc 4,21-30).
La pagina del vangelo di oggi è il seguito di quella di domenica scorsa. Siamo nella sinagoga di Cafarnao. Gesù ha appena ultimato la lettura e la spiegazione del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”. Nel silenzio profondo che ne segue, tutti si meravigliano, rimangono stupiti: “Ma come, non è il figlio di Giuseppe? Eppure dice proprio delle belle parole; parla bene; ci piace proprio”. Sembrano tutti accoglienti, ben disposti: ma è solo un comportamento di superficie. Ben presto, infatti, messi di fronte alle parole chiare ed esplicite di Gesù, si lasciano andare alla rabbia, vengono sopraffatti dall’ira e da tutta una serie di pregiudizi; improvvisamente innalzano nei suoi confronti delle barriere, reagiscono con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, e tentano addirittura di ucciderlo; ma è Gesù che, passando in mezzo a loro, spontaneamente se ne va, riprende la sua strada. È lui che se ne va: anche se lo fa contro voglia; la chiusura dei suoi compaesani è determinante, è come eliminarlo dalla loro comunità, cacciarlo; escluso perché scomodo, perché va contro la loro mentalità chiusa e rancorosa. Le sue parole costituiscono per loro un problema. Che altro poteva fare Gesù? La sua è un’amara constatazione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria». È triste, ma è proprio così.
Quelli che lo respingono sono infatti i suoi concittadini, gente conosciuta; sono quelli che puntualmente si riuniscono tutti i sabati in preghiera nella sinagoga: persone che però hanno sì la religione nel cuore, ma non hanno Dio. Pregano dentro la “casa di Dio”, ma sono senza Dio; innalzano preghiere, ma non pregano. Hanno Gesù, ma non ne capiscono il valore e lo buttano fuori dalla loro vita.
Una constatazione quella di Gesù che, fratelli, deve farci pensare seriamente. Un “ante litteram” di ciò che succede anche oggi, di ciò che ci vede disinvolti protagonisti ai nostri giorni.
Anche noi andiamo in chiesa, ma troppo spesso dimostriamo di essere senza Dio. Andiamo in chiesa ma siamo contro Dio; non condividiamo la sua Parola. Né più né meno di come è successo allora, a Nazareth.
Anche noi vorremmo un Gesù diverso; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo secondo le nostre idee, i nostri schemi, i nostri parametri: e quando vediamo che Gesù non è così, lo rifiutiamo. Rifiutiamo in pratica colui che può salvarci, che può guarirci; rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante volte vorremmo le persone diverse da quel che sono: vero? Le vorremmo come noi; secondo le nostre esigenze, fatte tutte su misura per noi, in un certo modo; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente come noi lo immaginiamo. Ma le persone, al contrario, sono quelle che sono, sono come sono; questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dal presente, dalla vita di ogni giorno, dalla realtà.
Quante volte, fratelli, noi rifiutiamo a priori situazioni, sollecitazioni, incontri, esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Solo se avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, questi input potrebbero essere la nostra salvezza.
Gesù viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio umano, da chi vuole modellarlo secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze. Noi infatti, nel nostro egotismo, abbiamo già in testa come dovrebbe essere il nostro Dio; sappiamo già come dovrebbe comportarsi con noi, quali cose dire, quali miracoli fare. E poiché ciò non può essere, lo escludiamo dalla nostra vita. Lo accogliamo fino a quando corrisponde alle nostre idee; ma appena ci accorgiamo che è diverso, che non scenderà mai a compromessi con noi, con il nostro ego, con la nostra ottusità, automaticamente lo escludiamo. E non solo con Dio: noi ci comportiamo allo stesso modo anche con chi ci sta vicino, con i nostri confratelli, con i parenti, con gli amici: non rientrano nei nostri schemi? Li eliminiamo: “Fuori”, “Via”!
Ma che amore può avere per gli altri chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta il prossimo solo quando gli va bene? Che amore è quello di chi pretende di regolamentare la vita degli altri a modo suo?
È in questo modo, fratelli, che escludiamo il Dio-Verità dalla nostra vita: è così che obblighiamo Gesù a lasciarci, ad andarsene; non lo fa di sua iniziativa, siamo noi che lo buttiamo fuori.
Il pregiudizio dei compaesani nei confronti di Gesù, è la stessa arma che usiamo anche noi continuamente contro i nostri fratelli, contro i nostri colleghi: “Ma chi ti credi di essere? guarda che ti conosco bene; abbassa la cresta”. Dove non possiamo emergere per meriti personali, ci arriviamo calunniando gli altri: “Lo sai di chi è amico? Lo sai che frequenta gente di malaffare, che è un poco di buono, un mangione, un beone, un parassita?”. Vecchia tecnica: facendo terra bruciata intorno a noi, automaticamente saremo i soli ad emergere; per innalzare noi stessi, abbassiamo gli altri.
Purtroppo le persone che criticano tutti, che hanno da ridire su tutti, che non si fidano di nessuno, dimostrano di essere dei meschini, di avere un animo piccino e vuoto: alla fine, quello che dicono degli altri, corrisponde esattamente alla loro immagine, a quel che provano nel loro cuore avvizzito. È vero: quando sparliamo degli altri, senza saperlo, descriviamo solo noi stessi. Quanto staremmo meglio noi, invece, quanto male gratuito, quante sofferenze eviteremmo, soltanto se fossimo più aperti, più sensibili, meno acidi nel criticare, più umili nell’ascoltare gli altri e più cauti nel sentenziare!
Ma “queste cose non ci appartengono”, pensiamo convintamente: “noi siamo credenti, mica siamo pagani, non ci abbassiamo a tanto!”. Fratelli mie: Gesù non fu ucciso dagli atei, dai pagani o dai miscredenti; fu ucciso dai credenti più credenti di tutti; così credenti, così pii, così zelanti, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno. Gesù per le vie della Palestina annunciava la Buona Nuova (il Vangelo): fu ucciso non perché non era buona, ma perché era nuova. Gesù mandava in frantumi gli schemi, i pregiudizi e le visuali dei “sapienti” dell’epoca, stravolgeva la loro idea tradizionale di Dio, della Legge, del prossimo. Annunciava un Dio diverso, e i “fedelissimi” della Legge non gliela perdonarono; annunciava un Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare; annunciava insomma un Dio della vita: e non era in contraddizione tra ciò che diceva e ciò che faceva; annunciava un Dio della giustizia, un Dio che condanna le falsità e le ipocrisie nascoste:e i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con una tradizione fatta di sterili regole: e i rispettosi delle regole si sentirono spiazzati nel loro orgoglio di fedeli conservatori della Legge.
Per questo Gesù non venne accolto a casa sua: e dunque, vistosi rifiutato, se ne va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la sua gente aspettava. Ciò che prima di tutto gli stava a cuore era essere se stesso, mantenersi fedele al Suo Dio, al Padre, e alla Sua verità: questo era per Lui il Messia.
Gesù è rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome, la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Egli è un uomo compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto è compiuto”, intende dire che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che poteva fare, Egli l'ha fatto: ha vissuto la sua vita, compiendo fedelmente la missione per cui Dio lo aveva mandato in questo mondo.
Gesù non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: anzi, quando poteva, lo attaccava direttamente sotto qualunque forma gli si presentasse; quando non poteva farci nulla, se ne andava altrove. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Non gli importava molto cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era un uomo libero. Per questo poteva permettersi di dire le cose come stavano; per questo sostava con i poveri e con i ricchi, per questo era libero di incontrare e abbracciare chiunque, perfino le donne, di ascoltarle, di toccarle.
Non c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava conoscere cosa la gente pensasse di lui; non gli interessava sapere cosa l'opinione pubblica pensasse di quelle persone che incontrava: se doveva o voleva incontrarle, le incontrava, senza curarsi del parere di nessuno. Gesù, a differenza di noi, in tutta la sua vita terrena fu sempre un uomo autentico, fu sempre se stesso. Solo chi è libero da qualunque pregiudizio può vivere completamente e serenamente la propria vita: in caso contrario, non vive la propria vita ma quella degli altri; vive una vita non sua, un doppione, una fotocopia; una esperienza alienante, deludente e deprimente. Chi è fedele a se stesso non sarà mai tradito dalla vita; il male peggiore, infatti, sta proprio nel rinunciare a se stessi, alla propria anima, alla propria chiamata. Questo è il grande peccato dell'uomo, e questo è il peccato che egli deve superare e vincere ad ogni costo.
“Passando in mezzo a loro se ne andò”. Sicuramente le cattiverie, le insinuazioni dei suoi concittadini, hanno fatto male a Gesù: bassezze del genere non possono che ferire. Ma lui è passato a testa alta in mezzo a tanto lordume; niente non lo ha “smontato”, niente lo ha bloccato. Certo ha sofferto, sì, il suo cuore ne è rimasto amareggiato, ma Lui ha proseguito per la sua strada. Gesù è rimasto se stesso, è rimasto il Figlio di Dio, ha continuato imperterrito la sua missione. Impariamo da Lui, fratelli: non lasciamoci condizionare dal male, non permettiamo alle malelingue di sviarci dai nostri buoni propositi. Affidiamoci a Lui, e vedrete che nessuno mai potrà fermarci. Amen.


mercoledì 23 gennaio 2013

27 Gennaio 2013 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre N.N., in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto». Lc 1,1-4; 4,14-21.
Sono le parole di apertura del Vangelo di Luca. Le ho volutamente adattate, rivolgendole a te, sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore, uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla sua vita.
Ebbene: noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci interessa, non ci appassiona, non ci crea alcun imbarazzo ignorare tutto, o quasi, di lui.
Eppure noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su che cosa? Su cosa appoggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle nostre preoccupazioni? Allora, fratelli, siamo onesti con noi stessi; non riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è per niente solida, fratelli: non poggia su un terreno sicuro; al massimo si basa sul sentito dire, su qualche ricordo nebuloso della nostra infanzia, su delle usanze che abbiamo continuato a mantenere anche da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh, lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui, vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! L'amore è conoscenza, fratelli, e la conoscenza è amore.
Una delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti preti, è che rischiamo di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene, serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù. In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come metta continuamente a nostra disposizione il suo amore senza limiti.
Purtroppo il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi non siamo innamorati di Lui. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo innamorati. Non possiamo peraltro impegnarci, dare la vita a chi nel profondo del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù, d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera, profonda, intensa.
È questa un po’ la nostra situazione, fratelli! Immaginiamo di essere in regola solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni oggi tanto di moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, che mediaticamente propongono le loro fasulle teorie, magari condite da un eccentrico ascetismo orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di guardarci dentro.
E invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà, senza barare con noi stessi.
Certo, non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene, fratelli, per quanto ci riguarda non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di metterci sotto la sua luce, diventeremo sicuramente illuminati. Non accontentiamoci di quello che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi sul Suo volto.
Ascoltiamo, oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri; ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti da vicino.
Quando ci avviciniamo al Vangelo, noi leggiamo la nostra vita: l’“oggi” della nostra vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se veramente sentiamo quelle parole dentro di noi, vuol dire che parlano a noi di noi. Magari le abbiamo già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”. Non abbiamo capito il loro messaggio: “Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi”. Sì, fratelli: Cristo è venuto proprio per noi; perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti noi. Lo siamo noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha mandato»: Dio ha mandato anche noi: per cui le sue parole devono essere le “nostre” parole; Dio parla di noi, a noi. E lo fa oggi; anche se a noi, guarda caso, dà fastidio che Lui ci scelga proprio oggi; perché abbiamo già tanto da fare, abbiamo tanti altri impegni più importanti: i figli, la famiglia, il lavoro, la casa, la macchina, i nostri divertimenti, il nostro riposo; non possiamo sconvolgere così su due piedi tutte le nostre certezze. Vogliamo una vita serena, noi; una vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
C’è un fatto però, cari fratelli: che se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo non accade oggi, se non lo caliamo oggi nella nostra vita, quelle parole di Vita ci scivolano via, rimangono lettera morta; allora il vangelo continuerà ad essere per noi soltanto un bel libretto, un’operetta scritta bene, affascinante, un piccolo best-seller. Ma solo quello; per noi Gesù è morto e basta; Gesù non è più vivo, non è più la nostra forza, il nostro coraggio; non può più dare senso alla nostra vita.
Se gli insegnamenti del Vangelo non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore, non ci coinvolgono, non ci commuovono, allora non servono a nulla: tutto diventa inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a come lo dovremmo fare: facciamolo e basta. Facciamolo oggi. Dobbiamo dire qualcosa a qualcuno? Diciamola oggi! Dobbiamo scusarci? Facciamolo oggi. Dobbiamo intraprendere un nuovo cammino? Partiamo immediatamente. Oggi, subito: domani sarà tutto più difficile di oggi; “oggi” e non domani, perché “domani” è la voce della nostra paura; rimandare a “domani” vuol dire non farlo “mai” più!. Allora prendiamo subito in mano il timone della nostra vita, e illuminati dalla luce del Vangelo, decidiamo immediatamente la rotta da seguire. Amen.
 

mercoledì 16 gennaio 2013

20 Gennaio 2013 – II Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste, imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è accorgersene e rimediare.
Gesù dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del “vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione, fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione, delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E allora, «Fate quello che vi dirà», ci sussurra nostra Madre.
Nella vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché proprio« sei»? Il numero sei (inferiore del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo completi. Siamo «di pietra»: una specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita; una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata, fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità, più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca sussulti, non ci fa paura.
E non ci accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e per gli altri.
Ma dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità, se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più, quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati; quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci, usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità di salvezza.
Gesù disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace, morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli, è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.
 

giovedì 10 gennaio 2013

13 Gennaio 2013 – Battesimo del Signore

«Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16.21-22).
Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione è molto attuale ed efficace e la gente lo segue con attenzione. In molti si chiedono addirittura se non sia lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre: lo sentono parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”; di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente corre da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmette è certamente quella di un Dio che ama; ma è anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – ci fa capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. Dobbiamo pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige solo la perfezione, non fa sconti, ma opera con giustizia, rigore,intransigenza: ricompensa i giusti con il premio del paradiso, e castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla sua presenza. È un Dio che non prevede la spensieratezza, la gioia gratuita, il divertimento, ma incita ad un impegno continuo, massimo e progressivo; con Lui bisogna essere sempre in presa diretta, guardando continuamente in alto, bravi, perfetti, in regola.
Farsi battezzare nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima con l’immersione nell’acqua, è quindi per chi lo segue l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Lui ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma al momento della sua discesa nelle acque del fiume, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol qui descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto modo di percepire:
«Cieli aperti», sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione, in costante collegamento; e sono aperti per rendere possibile qualunque comunicazione.
«Discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba»: non che ci fosse una colomba in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all'inizio della storia del mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale, indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
«Venne una voce dal cielo»: non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi, come ho detto, la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, non mi sfuggirai dalla mia mano, nessuno ti rapirà da me; tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; mi appassiono a te, sei nei miei pensieri, non cadrai mai al di fuori dal mio sostegno; non mi devi dimostrare nulla, io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio; tu sei per me come nessun altro; sei unico per me: ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene…”.
È proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di tali concetti “messianici”, il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella vita di Gesù: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio obbligatorio da superare, durante il quale Egli prende chiaramente coscienza di chi è e di cosa è chiamato a vivere e ad annunciare.
Che cosa poi in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”. Ma per tutti, una tale occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e bello. Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati, nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per indicare una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un'altra persona, ho un altro nome”.
Ecco, fratelli; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta la nostra miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono asfittica la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: lo Spirito d’Amore che solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi, fratelli, se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, lo ripeto, perché così non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l'amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore, fratelli, non si “contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata, fratelli: ascoltiamo la Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
In questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d'ombra, nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale confortevole. E infine fidiamoci, fratelli, di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.


martedì 1 gennaio 2013

6 Gennaio 2013 – Epifania del Signore

«Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12). Il brano del vangelo di oggi è tratto da Matteo e appartiene a quella serie di racconti riportati da Luca e Matteo sui primi anni di vita di Gesù, denominata appunto “Vangeli dell’infanzia”. Uno giustamente potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”, se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri trattati teologici, con un pò di storia, ma soprattutto con tanta teologia. Non intendono, cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta delle illusioni”.
I singolari personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate sempre in negativo, con disprezzo, dalla Bibbia; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del termine “maghi”, in greco, non è peraltro molto accattivante: significa “imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi, cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre?
È chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico. Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono assolutamente casuali.
Il primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente personaggio (1Re 9,11.28), in quanto espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano, lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà modo di confermare: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Questa è la caduta della prima illusione: Dio non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli che lo riconoscono e lo accolgono.
Il secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28). Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza: Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa, un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele, il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”, il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di una mentalità religiosa elitaria.
Beh, fratelli, penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare, da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti. Sembra un gioco di parole, ma l’illusione, quando cade, crea sempre grande delusione. Solo la disillusione ci permette di vedere la realtà per quello che è.
Quando ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro, da accettare, inconsciamente noi, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza, un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si spezza dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto anche solo pensare che ciò potesse accadere. Perché il punto è proprio questo: ogni illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; fede autentica, e non solo: autentica umiltà, autentica volontà, autentico carattere: con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; quindi bisogna ripartire da zero.
Quando cade una nostra illusione, fratelli, pur se fittizia e irreale, non è mai un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa, difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di marcia; perché solo così la “verità ci farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata fiducia. Detto così è facile: invece, fratelli miei, com’è difficile il cammino nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche una piccola notizia. Come è successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo allora con fiducia soltanto a Dio, fratelli: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero fuoco d’amore autentico. Amen.

mercoledì 26 dicembre 2012

30 Dicembre 2012 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

« Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della nostra indipendenza.
Anche qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni. Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima.
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte le loro attese.
È così difficile accettare che i figli siano grandi; è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio; è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza; l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata, perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei, come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene, fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza; che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
Tornò con loro a Nazareth”, dice il vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo, tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere. Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”, che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto, nella famiglia, cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.

 

lunedì 24 dicembre 2012

25 Dicembre 2012 – Natale di nostro Signore

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,1-14).
Il Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio; indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”. Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo, e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di questo mondo.
Di fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra dignità di cristiani.
Infatti, cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli le spalle con la  nostra testardaggine, con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice: “Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo è Dio!”.
Natale: Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi? Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo? Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie, le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente realizzabile : ma neppure impossibile. “Io insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale: Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche per noi. Amen.