mercoledì 17 ottobre 2012

21 Ottobre 2012 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35-45).
È la terza volta che Gesù spiega ai suoi, in maniera chiara ed esplicita, quello che dovrà affrontare a Gerusalemme; finisce appena di dire testualmente, riferito al “Figlio dell’uomo”, a se stesso, «lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno, lo uccideranno…»(v.34), che immediatamente (v. 35), Giacomo e Giovanni danno prova, ancora una volta, di non aver capito nulla della vera missione di Gesù. Essi tornano ancora, con insistenza, sull’assegnazione dei posti d’onore nel Regno: e chiedono esattamente il contrario di quello che Gesù vuole per loro.
Non capiscono: andare a Gerusalemme, per loro, è tutt'altra cosa rispetto a quello che dice Gesù: per loro significa la grande occasione di una vita; significa l’occasione per acquistare potere, onori, prestigio, fama. E allora, perché non sfruttare il momento? Perché non mettere le cose in chiaro, e ottenere da Gesù la dovuta garanzia su ciò che si aspettano come riconoscimento finale? Sono purtroppo ciechi: non riescono a capire che Gesù non è il Cristo dei loro desideri, ma quello della promessa di Dio.
Essi lo amano: ma lo fanno a modo loro, senza preoccuparsi di conoscerlo veramente: non importa se si chiama Gesù o in qualunque altra maniera. L’importante è seguire uno che garantisca la realizzazione dei loro sogni, della loro voglia di emergere.
Ma il regno di Dio non è gloria e potere, ma “calice da bere” e “battesimo in cui immergersi”. Non si tratta di chiacchiere e di vuoto prestigio, ma di realtà concrete che implicano coinvolgimento, immersione, passione intensa, a volte anche dolorosa.
Seguire Gesù è fuoco, ardore, partecipazione piena e totale. Seguire Gesù non dà privilegi, dà solo vita vera.
Chi vuol vivere alla sequela di Gesù, fratelli, deve “bere”: deve cioè accogliere, incontrare, accettare tutto ciò che contiene il calice della sua vita. Sarebbe troppo bello sottrarsi ad alcune situazioni, evitare certe questioni dure e certe zone oscure. Ma non si può.
E come nel battesimo ci si immerge completamente nell’acqua, così chi segue il Signore deve lasciarsi andare a fondo, deve mettersi completamente nelle sue mani, deve confidare in Lui sapendo di fidarsi di Lui. Bisogna smettere di pianificare, di progettare, di decidere con la mentalità di questo mondo; bisogna al contrario abbandonarsi e lasciarsi portare da Lui.
Per Giacomo e Giovanni seguire Gesù significa sicuramente essere migliori degli altri, sentirsi superiori, ma non nel senso di Gesù: loro continuano a non capire, per cui Gesù è costretto a spiegarlo ancora una volta: il suo “regno” non è come quelli di quaggiù. Nei regni umani i sovrani abusano del loro potere, calpestano i popoli, li umiliano, li rendono schiavi, in ginocchio, così da sentirsi superiori, da sentirsi potenti e forti. Sfruttano i popoli e li usano per i loro scopi e per i loro interessi.
Nel Regno di Dio non è così. Nel Regno di Dio, il primo non è chi comanda ma chi serve. Nel Regno di Dio il primato non appartiene al potere ma all'amore; bisogna sentirsi come “schiavi”: non nel senso di appartenere a qualcuno, ma nel senso di sentirsi come quelli che sono ultimi, al gradino più basso della società, all’ultimo posto; non in senso negativo e statico, quindi, ma in senso positivo e dinamico: perché se è giusto non sentirsi superiori  ai propri fratelli, è altrettanto giusto non sentirsi troppo inferiori (doulos, sottomessi), chiudersi in facili commiserazioni; perché seguire Gesù vuol dire mettersi a fianco dei fratelli, alla pari, per amarli e servirli (diakonos) con gesti concreti , perché la Vita che è in loro, viva e si espanda.
È così che Gesù concepisce la sua vita: “Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
In che cosa consiste per Gesù il suo “servire” (diakoneo)? Nel rivelarci, nel farci finalmente capire mediante la sua vita, che il Padre lo ha mandato, gli ha fatto assumere la natura umana, a nostro esclusivo beneficio, per pagare il nostro “riscatto”.
Gli ebrei conoscevano perfettamente la procedura del “riscatto”. Era un’usanza molto comune a quel tempo: il lytron (riscatto) era infatti il denaro con cui potevano liberare uno schiavo dalla sua condizione servile, per ridargli dignità e autonomia.
Ebbene, noi eravamo schiavi del peccato: vivevamo nella “disarmonia” con le cose, con gli uomini e con Dio: vivevamo lontani da Dio, armonia dell’universo. Gesù accettando di assumere la nostra natura umana, non considerò irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma si “svuotò”, si annientò per diventare simile a noi (kenosis, Fil 2,7); e lo fece per riscattarci dalla nostra schiavitù.
Con la sua vita, Gesù ci ha dunque amati e “serviti”, ci ha dimostrato con i fatti che non c'è alcun motivo di aver paura di Dio, che non lo dobbiamo temere, che possiamo davvero fidarci di Lui, che non ci abbandonerà, che possiamo vivere questa vita anche rischiando, perché in ogni caso, Lui c'è e ci ama. Con la sua morte Egli ci ha liberati dalla paura della morte.
Leggendo questo vangelo ritroviamo molti punti in comune con la nostra vita; scopriamo che molti dei comportamenti dei discepoli, dai quali magari ci dissociamo, ci riguardano invece molto da vicino, fanno parte del nostro vivere quotidiano. E, ammettiamolo fratelli, vedere che perfino gli apostoli hanno vissuto e provato gli stessi nostri sentimenti, beh, un po’ ci consola.
Quante volte, fratelli, anche il nostro chiedere si esprime in questi termini: “io pretendo…, io voglio…, devi fare come dico io”. È chiaro che anche il nostro è egoismo, si tratta cioè di voler sopraffare gli altri ad ogni costo, di piegarli irrazionalmente al nostro volere.
L'amore invece chiede, non pretende. L'amore non modifica, non manipola l'altro. Pertanto, se abbiamo bisogno di qualcosa, se stiamo male, se c'è qualcosa che ci piacerebbe avere dagli altri, chiediamolo, serenamente. Possono dirci di sì o di no. Ma non possiamo pretendere niente, perché nessuno ci deve niente.
Spesso ci creiamo delle false aspettative. Spesso accusiamo il partner, il confratello, chi ci sta vicino, del nostro malessere, della nostra insoddisfazione. Ma se stiamo così, il più delle volte dipende solo da noi. Gli altri non ne hanno colpa. Non aspettiamoci dagli altri quello che noi stessi non siamo in grado di fare e di dare.
Anche nella preghiera, molto spesso ci comportiamo allo stesso modo: “Signore fammi questo, Signore fammi quello, Signore dammi...”. Noi non “preghiamo”, non chiediamo umilmente, pretendiamo, reclamiamo, esigiamo da Dio la risposta che vogliamo noi. “Ho pregato tanto, ma Dio non mi ha ascoltato”. No, non è vero: Dio ci sente e ci ascolta benissimo; soltanto che quello che noi chiediamo evidentemente non coincide con il nostro bene. La preghiera, fratelli, non funziona come al supermercato: prego, pago, ottengo. La preghiera deve essere disponibilità ad accettare ciò che Dio ritiene giusto per noi: “Sia fatta la tua volontà…”.
Giacomo e Giovanni sono uomini; sono come noi, molto vogliosi: cercano di trarre il meglio dalle situazioni. Sono ambiziosi: in latino “ambitio” significa appunto “andare attorno”, “circuire”, per ottenere qualcosa. L'ambizioso mira soprattutto a quei risultati che lo rendono importante; circuisce il potente di turno solo per stare in alto, per stare anche lui tra i potenti.
E se l'ambizione diventa sfrenata, automaticamente si accoppia con l’avidità: allora nulla ci basta, nulla ci appaga, nulla ci frena; la nostra aspirazione più grande, quasi maniacale, sta nell’ottenere riconoscimenti, nel sentirci i più importanti, nel considerare tutto e tutti a nostro servizio: persone, potere, denaro.
L’ambizioso, se avido, è sempre arrogante. Perché la sua arroganza nasce dalla sua insicurezza interiore; l'arrogante crede di avere sempre ragione, si crede forte, crede di non avere mai paura, crede di poter fare tutto e di sapere tutto. In realtà è un poveraccio che non riesce a gestire neppure se stesso: e questo lui, nel suo intimo, lo sa bene.
Con l'arrogante è impossibile dialogare, perché egli non sa dialogare, non vuole “dialogare”; non ha motivo di dialogare. Basta lui.
Per fortuna c’è anche il lato positivo dell’ambizione, un lato sano, che consiste nel cercare di migliorare noi stessi, di dare corpo ai nostri progetti di vita, di realizzare i nostri sogni: in altre parole significa essere attivi, tenaci, motivati, porci di fronte alla vita in maniera costruttiva: e questo, lo ripeto, è lodevole, encomiabile. Non vi è nulla di male se mettiamo a frutto i nostri talenti, combattendo contro l’indifferenza, l’apatia, il disinteresse.
Ecco, fratelli: questa settimana puntiamo l’attenzione proprio su questi comportamenti; interroghiamoci, esaminiamoci: noi, che magari abbiamo qualche compito di responsabilità all’interno della chiesa, noi catechisti, noi ministri, noi animatori, come ci poniamo nei confronti di Dio e dei nostri fratelli? A cosa miriamo?
Nel mio peregrinare per il mondo, fratelli, ho visto persone straordinarie, umili, consapevoli dei propri limiti e innamorate di Dio, consumare la vita nell'annuncio del Vangelo, senza mai nulla chiedere per loro stessi. Ho visto sacerdoti in età di pensione, pieni di acciacchi, portare ancora personalmente, tra le intemperie, l'immenso dono del Pane di Vita ai malati, in piccole comunità sperdute; ho visto monaci che solo passando, ti trasmettono con il loro incedere modesto e riservato, il loro intimo e incessante colloquio con Dio, la loro serenità e tranquillità, nella consapevolezza di essere un nulla nelle mani di Dio; ho visto nelle periferie giovani preti passare tutto il loro tempo libero ad educare ragazzi, magari giocando pazientemente con loro in un polveroso e improbabile campo di calcio. Persone che hanno capito l'importanza del "servire" evangelico.
Ma ho visto anche ecclesiastici in rosso molto sensibili alla tentazione dell'applauso e della gloria, preoccupati più di rispolverare vecchi titoli e privilegi che di dedicarsi alla carità e alla cura spirituale del prossimo. Ho visto preti oltremodo “esuberanti”, convinti che bastasse la loro costante e pavoneggiante presenza mediatica per confermare i fratelli nella fede e dare credibilità alla chiesa. Ho visto collaboratori laici, molto attenti a quantificare e pubblicizzare i loro insignificanti risultati, desiderosi solo di riconoscimenti umani. Ho visto catechisti offendersi per un richiamo, lettori incupirsi per una minore attenzione loro riservata, educatori stancarsi al primo soffio di vento.
Purtroppo, fratelli, anche questo è prestare il fianco alla ricerca di potere, alla propria affermazione personale, senza pensare che qualunque forma di potere, qualunque ricerca di prestigio, è contraria al “servizio”. Nel servizio noi “serviamo”, e basta; ci mettiamo cioè a disposizione dell'altro; nella ricerca di potere, invece, nella ricerca di gloria, nella superbia, noi pretendiamo solo, esigiamo che sia l'altro a servire noi, che sia l’altro a mettersi sempre a nostra disposizione, che sia sempre lui a riconoscere la nostra superiorità assoluta.
Ecco, fratelli: penso che tutti (io per primo) abbiamo ancora tanta strada da fare; penso che tutti dobbiamo stare attenti a non cedere al richiamo della mentalità del mondo, della vanagloria, del prestigio personale; dobbiamo invece guardare sempre e solo a Gesù, al Maestro che ha amato tutti, in assoluta umiltà e mitezza.
E concludo con la preghiera del Salmista: “Signore, assolvimi dalle colpe che non vedo, dalle colpe delle quali non mi rendo conto. Salvami dall'orgoglio; fa che esso non abbia mai alcun potere su di me; perché solo così mi renderò irreprensibile, solo così potrò liberarmi dal grande peccato”. Amen.
 

mercoledì 10 ottobre 2012

14 Ottobre 2012 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» Mc 10,17-30.
Il vangelo di oggi racconta di un uomo. Un uomo, ricco, che non ha un nome: così come tutti i ricchi del vangelo, che non hanno mai un nome; del resto anche nella vita essi dimostrano, in genere, più interesse per le loro ricchezze che preoccupazione per non essere riconosciuti con la loro identità!
L'uomo dunque va da Gesù. Anzi: gli corre incontro; prova nel suo cuore un grande desiderio, è molto motivato. L'uomo è alla ricerca di qualcosa che gli manca, sente che nella vita c'è un di più da raggiungere. Fosse stato felice, soddisfatto di come viveva, sicuramente non si sarebbe dato così tanto da fare, non avrebbe corso. Ma egli sente un grande vuoto dentro di lui.
E quest'uomo s'inginocchia come si faceva una volta con i personaggi illustri, con i maestri di vita: inginocchiarsi fa capire infatti il sincero desiderio di sapere, di imparare, mette in luce l'umiltà e la disponibilità dell’animo a ricevere consigli. Chiama Gesù “buono”, e non si accorge che tale complimento tradisce in lui il desiderio di farsi subito benvolere, tanto che Gesù quasi si indispettisce: “Perché mi chiami buono?”. “Non adularmi, non farmi troppe moine, troppi complimenti gratuiti”. Gesù si schermisce di fronte a tanto entusiasmo. «Nessuno è buono, se non Dio solo». La sua risposta potrebbe però essere fraintesa: non è anch'Egli Dio? mette forse in dubbio la sua bontà? No, le sue sono parole che vanno oltre l’immediato significato; egli vuole qui metterci in guardia dalla nostra faciloneria di dare troppo credito al primo arrivato; di affidarci acriticamente a qualunque “predicatore di verità”: «Nessuno è buono…». Gesù, in altre parole, ci apre gli occhi: “non dovete prendere per oro colato tutto ciò che i vari “guru”, i vari santoni vi predicano; non dovete dipendere completamente da gruppi “speciali”, da leader invasati, da movimenti, associazioni, che propongono idee più sante del vangelo stesso. Dovete essere adulti; non comportatevi da neonati deboli e fragili, che dipendono in tutto dalla mamma. Avete un cervello, conoscete me e i miei insegnamenti, ragionate e agite di conseguenza”.
Noi invece siamo naturalmente portati ad attaccarci a qualcuno o a qualcosa; e lo facciamo più per indolenza, per pigrizia, che per convinzione: lo facciamo per evitare responsabilità dirette, per non far la fatica di essere noi a dover esaminare, valutare tutto ogni volta, e quindi dover scegliere; molto meglio andare a ricasco degli altri. Salvo poi, se ci accorgiamo di aver preso una cantonata, a scaricare immediatamente su di loro ogni responsabilità: “Me l'hai detto tu! Mi avevi garantito che…! Il prete mi aveva detto che … nel catechismo c'era scritto che…”. “No, amico mio - ci dice Gesù – non trovare scuse, la vita è tua, soltanto tua. Gli altri possono dirti qualunque cosa, tutto ciò che vogliono, ma tu, tu solo, sei responsabile delle tue scelte”.
Gesù dunque, di fronte a tanta foga, propone a quest’uomo la cosa più semplice e ovvia: “osserva i comandamenti”; ma la risposta che si sente dare è che egli lo fa già, li osserva tutti fin da bambino. E non lo dice per vantarsi: è uno che parla seriamente, onestamente, con umiltà. Non si tratta di un megalomane, di uno sbruffone; è una persona che sta cercando veramente qualcosa di più, che vuole veramente placare la sua sete di vita, di vivere ad alta quota; è uno con una grande anima, e se si butta ai piedi di Gesù per avere un consiglio, vuol dire che non è soddisfatto di quanto gli altri maestri gli hanno trasmesso, detto, insegnato; non lo hanno convinto nel cuore. Lui vuole cose vere; è deciso ad andare al centro delle cose.
Gesù stesso rimane colpito da tanta determinazione: si ferma e lo fissa (il verbo greco “em-blepsas” dice letteralmente gli “penetra dentro”, lo scruta nel profondo, per sincerarsi della sua buona fede.
E qui il vangelo sottolinea un particolare stupendo: Gesù “lo amò”. Perché Gesù lo ama? Perché quest'uomo è uno di quelli che fanno sul serio, uno di quelli che non si accontentano di osservare solo esteriormente regole, norme, precetti: vogliono andare oltre, oltre i comandamenti, oltre la normalità; perché sentono nel loro cuore una speciale “chiamata” a dare un qualcosa “di più”. Persone, insomma, che non cercano il riconoscimento umano, l’approvazione della gente, ma vogliono entrare sinceramente nel grande mistero della Vita.
Gesù “lo amò” perché aveva capito che quell’uomo era spinto veramente e convintamente dal cuore. E proprio perché lo ama, gli offre la possibilità di realizzare in pieno queste sue aspirazioni, dedicandosi al totale servizio di Dio: “Va', vendi quello che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Sconvolgente. Una doccia fredda. Il nostro uomo rimane di stucco, perplesso, sorpreso. Non se l’aspettava: se Gesù si fosse fermato a qualcosa di ragionevole, di attuabile, certo, egli era prontissimo a fare di più. Ma quando gli chiede di fare una scelta così radicale, di dare un taglio netto al suo presente, quando gli propone di fare un salto nel vuoto, decisivo e senza ritorno, non se la sente; rinuncia, e se ne va triste. Ma perché Gesù è stato tanto severo ed esigente con lui, pur amandolo? Perché questo, fratelli, è l'amore del Maestro. È l’amore speciale con cui Egli tratta i suoi discepoli, coloro che lo seguono senza voltarsi indietro, quelli che lavorano tutto il giorno nella sua vigna, sopportando il caldo torrido, senza avanzare alcuna pretesa. Gesù scorge le potenzialità che queste persone hanno dentro, e le chiama non a divertirsi, ma a prestare un faticoso servizio; le “advocat”, le chiama a sé, le “convoca” una per una; le ama dando loro la grazia speciale della “vocazione”: “Tu hai qualcosa di grande, di speciale – dice loro -. Abbi fiducia in ciò che hai dentro. Tu puoi volare molto in alto, non accontentarti di strisciare per terra; rischia, buttati, segui di slancio ciò che io ti suggerisco, lascia il facile, scegli il difficile, entra tra i chiamati a lavorare esclusivamente per me, vivi nel mio amore e il mio amore ti trasformerà”.
Troppo spesso leggiamo questo vangelo in maniera riduttiva; come: “Se sei ricco non puoi seguire Gesù”; oppure: “Se non dai ai poveri tutto quello che hai, tutti i tuoi averi, non puoi seguire Gesù”. Ma Gesù qui non si riferisce tanto ai beni materiali: per Lui qui la “ricchezza” è qualsiasi nostro attaccamento morboso; credere fermamente cioè che una determinata cosa, e solo quella, sia in grado di darci la felicità: anche se sappiamo bene che niente al mondo, può renderci felici, all’infuori del regno di Dio.
L’uomo del vangelo dunque se ne va triste; perché si rende conto che quello che gli chiede Gesù è troppo rischioso; la paura lo frena.
E questo può capitare anche a noi, fratelli: perché un conto è lavorare tranquillamente, senza farci mancare nulla, magari cercando di migliorarci, di fare le cose per bene; ma tutt’altra cosa è fare un salto decisivo; smettere improvvisamente di fare quel poco di bene che facciamo, e di operare scelte decisive, spesso traumatiche. E se all’invito di Gesù anche noi rispondiamo “no”, come quell’uomo, anche noi proveremo la stessa profonda tristezza: la tristezza per aver detto “no” anche a noi stessi, per esserci dichiarati inadatti alle cose sublimi, al servizio di Dio .
Gesù aveva visto qualcosa di grande in noi, aveva fatto dei progetti. Per questo ci ha chiamati. Noi abbiamo sentito il suo richiamo, ma non abbiamo avuto il coraggio di prendere il largo. Più che a Gesù, ripeto, abbiamo detto “no” a noi stessi: ci siamo accontentati dei nostri sogni mediocri. Potevamo vivere al Suo fianco alla grande; potevamo vivere esprimendoci “divinamente”; potevamo volare ad alta quota, ma per paura, per ignavia, abbiamo scelto la polvere.
È questo, fratelli e sorelle, che ci rende tristi: quando cioè rinunciamo a ciò che potremmo essere, a ciò che potremmo diventare, a dare corpo alla forza divina che abbiamo dentro, e che col nostro “no”, blocchiamo sul nascere.
Una grande tristezza allora accompagnerà la nostra scelta; una tristezza che non passerà mai; una tristezza che ci segnerà per tutta la vita. Una spina costante che ci logorerà l’anima: potevamo essere aquile, seguire il richiamo delle vette immacolate, librarci liberi incontro al sole. Abbiamo preferito invece il basso profilo, molto meno impegnativo, nascosti tra le aride pietraie.
Ci sono cristiani che pensano ancora di garantirsi il Regno di Dio facendo carità, facendo sostanziose offerte alla Chiesa, tante buone azioni, tante preghiere, una vita onesta. Un po' come sono soliti fare con la raccolta dei punti ai supermercati o dal benzinaio: se raggiungono un numero tot di bollini, hanno diritto al premio. Ma non è così, fratelli. Entrare nel Regno dei cieli è un’altra cosa. Questo “non solo è difficile - dice Gesù - ma è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago” (a proposito: cammello in greco è “kàmelon”; alcune trascrizioni usano invece “kàmilos”, che significa “grossa fune, gomena da barca”, rendendo le parole di Gesù più comprensibili al suo pubblico di pescatori). Ora che un “cammello”, oppure se si preferisce una “gomena”, passi per la cruna di un ago, non solo è difficile ma impossibile. Qui non dice “è molto raro, ma possibile”; vuol dire proprio: “È impossibile!”.
È quindi categoricamente impossibile pretendere il Regno, se non ci sbarazziamo delle nostre “ricchezze”, dei nostri “amori” morbosi, dei nostri attaccamenti maniacali alle persone e alle cose. Dio ci offre continuamente la possibilità di affrancarci: e lo fa gratuitamente.
Del resto questo attaccamento smodato alla mentalità, alla vita, ai piaceri di questo mondo, questa forma di “ricchezza” per dirla col vangelo, non solo non ci salva, ma non ci fa neppure vivere. Perché diventa una forma di schiavitù. Una dipendenza totale che inibisce ogni nostra iniziativa. Diventiamo succubi del pensiero altrui, delle usanze, delle abitudini, delle apparenze.
Sentite questa: ogni sera, un guru indiano si sedeva con i suoi discepoli per pregare; il gatto dell'ashram ne approfittava e si cacciava fra i piedi degli oranti, distraendoli. Perciò il guru ordinò che il gatto venisse legato durante l'adorazione serale. Dopo la morte del guru, il gatto continuò ad essere legato tutte le sere durante l'adorazione. E quando il gatto morì, un atro gatto fu portato nell'ashram per essere puntualmente legato durante l'adorazione serale. Qualche secolo più tardi, gli ammiratori del guru, scrissero dei libri e dei dotti trattati sul profondo significato liturgico dell'usanza di legare un gatto durante l'adorazione!
Vi fa ridere? Eppure c'è da piangere se pensiamo a tutto quello che facciamo semplicemente perché lo abbiamo sempre fatto o perché non ci domandiamo se ciò che facciamo abbia ancora un senso.
E concludo: non attacchiamoci all’apparenza; non lasciamoci sopraffare dall’ansia del risultato: sono anche queste delle “ricchezze” che non portano a nulla. Ci sono persone che passano da una “ricchezza” all'altra: prima era quella donna; poi quell'auto; poi quel posto di lavoro; poi la casa in montagna o al mare; poi quell'altra posizione sociale più affascinante. E così passano ad inseguire, traguardo dopo traguardo, qualcosa che non c'è e che non raggiungeranno mai.
Non cerchiamo affannosamente di possedere tutto, non attacchiamoci alle persone e alle cose, perché non potremo mai possederle, non potranno mai essere completamente “nostre”, non ci daranno mai la felicità.
Facciamo in modo di non essere mai “posseduti” dal desiderio di “possedere”: perché solo così saremo pronti a seguire Gesù; e con Lui troveremo la felicità e la pace del cuore, quelle vere, quelle che non avranno mai fine. Amen.
 

giovedì 4 ottobre 2012

7 Ottobre 2012 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie… Per la durezza del vostro cuore [Mosè] scrisse per voi questa norma. Ma dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,2-16).
In questo vangelo i farisei vanno da Gesù per tendergli una ennesima trappola. Ad essi in realtà non interessano affatto le questioni matrimoniali, se sia lecito o no il “divorzio”; vogliono semplicemente sapere se Gesù condivide e giustifica il loro comportamento. Ancora una volta invece di mettersi in discussione, cercano giustificazioni. Vogliono cioè far passare per giuste e corrette le loro inique azioni.
A quel tempo in Israele era pacifico che un uomo potesse ripudiare la propria moglie. Era un non-problema, qualcosa ormai di tacito, qualcosa che non meritava più alcuna attenzione. Se qualcuno ne parlava ancora, non era certo sulla liceità o meno di ripudiare la propria moglie, quanto piuttosto sul motivo per cui cacciarla: era cioè necessario appellarsi alla sua infedeltà o bastava molto meno?
Si era infatti arrivati al punto di cacciare la moglie anche per i motivi più banali: perché usciva con i capelli sciolti; perché scambiava qualche parola con un estraneo; perché le era capitato di bruciare la cena, ecc. Insomma, se un maschio voleva, poteva “scaricare” la propria moglie quando e come voleva.
Ma anche questa volta Gesù, come sempre, non accetta la provocazione: risponde a tono, e le sue parole si scontrano con la loro mentalità maschilista, condannando apertamente l'abitudine ormai istituzionalizzata di ricorrere al “ripudio” matrimoniale: “Mosè ce l’ha permesso”, dicono. “Sì – risponde Gesù – ve l’ha permesso, ma non perché sia giusto, ma perché voi siete di testa dura, avete un cuore di pietra, arido e insensibile. Ve l’ha permesso perché altrimenti trasformate il vostro matrimonio in un inferno, spingendo vostra moglie alla follia, ad uno squilibrio mentale insanabile. Ve l’ha permesso solo per non crocifiggere ulteriormente le persone che vi stanno accanto. Ma non perché questo sia il piano di Dio”.
Il “piano” di Dio. Ecco: Gesù sull'argomento rimanda proprio a questo principio innegabile e insopprimibile, che è l’intenzione originaria di Dio. In sostanza, possiamo così tradurre il suo insegnamento; che vale anche per noi: “Ve lo spiego meglio: nel piano di Dio, maschio e femmina sono due entità distinte, ma di pari dignità. Lo scopo del loro incontro è che lascino le loro famiglie, i loro affetti, le loro sicurezze, per diventare una carne sola. Ma attenzione: non può esserci unione dei corpi, se non c’è unione delle anime; non c’è unione fisica, se non c’è l’unione dei cuori. Quindi se la legge vi permette di cacciare le vostre mogli è solo perché voi - che non le amate, voi che le dominate, che le maltrattate, che le considerate al pari di un oggetto - rendete la loro vita un autentico inferno. La legge ve lo permette, è vero, ma non è questo il piano di Dio. Il piano di Dio è che i due nel matrimonio siano per sempre una “carne sola”, cioè un’unione di cuori, un’unione di anime, un'unione di vita, di amore, in una reciprocità (maschio e femmina), in cui nessuno domina, nessuno si sente superiore”.
È evidente che Gesù si schiera qui in maniera decisa contro quella superiorità maschile, capricciosa e insensata, che calpestava impunemente i più elementari diritti delle donne. Egli si scaglia contro lo strapotere dei maschi nei confronti delle donne; una prepotenza considerata purtroppo naturale, ovvia; era un diritto acquisito di cui addirittura vantarsi; quando invece divorziare equivaleva abbandonare la donna al suo destino, privandola di tutto, figli compresi, esponendola ad una vita miserabile, ad una fine certa.
Gesù sa che pronunciando queste parole, introduce per quel tempo, una novità rivoluzionaria. Egli cioè riconosce apertamente dignità e diritti alle donne; eleva cioè la donna allo stesso livello sociale del maschio: incredibile! Forse anche per questo le donne lo hanno così tanto amato. Con Lui si sentivano considerate, accettate. In Lui trovavano speranza, fiducia, carità.
Noi pensiamo che situazioni simili siano oggi improponibili, ben lontane dalla nostra civiltà; pensiamo che il pensiero maschilista sia ormai un fatto anacronistico, un fenomeno d’altri tempi, universalmente superato: ma non è proprio così, fratelli. Non dimentichiamo infatti che le donne, per esempio nella nostra civilissima Italia, hanno iniziato a votare soltanto nel secolo scorso! Che la violenza sulle donne, in questa nostra società del 2000, uccide più del cancro e più degli incidenti stradali. Che un miliardo di donne, cioè una su tre, sono picchiate o stuprate o mutilate o assassinate per mano del marito, del fidanzato, di un familiare o di un amico. Che le donne sottoposte a mutilazioni genitali sono più di 120 milioni. Che in India, solo nel non lontano 1998, sono state bruciate almeno 6000 donne per questioni di dote. Che in Russia l’anno successivo ne sono morte 14.000 per violenza domestica. Che negli Usa viene violentata una donna ogni 90 secondi. Che sempre in Italia sono 715 mila le donne che hanno dichiarato di aver subito uno stupro o un tentato stupro, nel corso della loro vita. E allora con che coraggio andiamo orgogliosi quando parliamo di “pari opportunità” per le donne?
Non è vero, anche oggi non siamo tutti uguali: aveva ragione George Orwell quando, nel 1984, scriveva: “Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”. C’è ancora chi va fiero di appartenere al “sesso forte”. Ma, se ci pensiamo bene, quanta insicurezza, quanta debolezza, quanti complessi ci devono essere nella mente di chi ha bisogno di un simile riconoscimento! Essere considerati “forti”, superiori! Rispetto a chi? Nessuno è più forte, fratelli; nessuno è migliore degli altri, tutti siamo mortali, tutti siamo deboli, indifesi, peccatori. Tutti abbiamo la stessa identica dignità! Quella che ci è stata data da Dio. Perché siamo tutti sue creature.
A conferma di tale principio, Gesù rimanda alla Genesi (1,27) dove si dice chiaramente che «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Entrambi dunque, maschio e femmina, sono immagine di Dio; entrambi hanno la stessa impronta divina, la stessa “divinità”. Se poi approfondiamo meglio le parole, notiamo che in ebraico “uomo” (jsh) e “donna” (jswha) sono due lessemi che concorrono a formare il tetragramma divino (jhwh): in altre parole, è nell’unione, nella fusione, di “maschio” e “femmina” che Dio si fa presente. Potrebbe sembrare un giochetto esegetico, ma se ci pensiamo bene è una intuizione che ci indica come il matrimonio – unione, fusione, tra uomo e donna - abbia come fondamento Dio stesso. Non per niente la donna è l’altra “vita” del maschio (è questo il significato di “costola”). L’uomo, per essere pienamente se stesso, per realizzarsi completamente, deve integrarsi, confrontarsi, diventare un tutt’uno con l’altra sua “vita”; e così per la donna.
“Essere uno”, però, non significa “fondersi”, uni-formarsi, nel senso di fare le stesse cose; l’unione vera è tutt’altro, è “com-unione”, alleanza con l’altro componente della vita. È compenetrazione di sentimenti, di cuore. Perché solo così, maschio e femmina, potranno entrambi realizzare e completare la propria vita. Questo è il progetto di Dio. Ogni elemento è predisposto anche morfologicamente a questa unione e integrazione. E questo elimina automaticamente qualunque sostituzione di identità, qualunque confusione di ruolo e di immagine: il maschio deve essere maschio, la femmina deve essere femmina. Ognuno ha il suo ruolo preciso, secondo le leggi immutabili iscritte nella natura.
Pensate per esempio all’educazione dei figli: il papà non può essere la mamma e la mamma non può essere il papà. È quindi assurdo ipotizzare una “famiglia” con due “genitori” dello stesso sesso. La donna, nella famiglia, è colei che c’è, che è presente, che avvolge, che custodisce, che ama, che protegge. L’uomo è invece colui che fa', che costruisce, che ha il compito di mettere il figlio davanti alle proprie decisioni, alle proprie responsabilità, alla gestione della propria libertà.  Il padre inserisce il figlio nella società e lo costringe a confrontarsi con gli altri suoi pari; gli insegna le regole, il confronto, il rispetto per gli altri.
Sono ruoli diversi; richiedono due entità diverse. Ecco perché in casa, in famiglia, non possono esserci confusioni: né due papà né due mamme; ecco perché le pretese di riconoscimento legale in questo senso, avanzate oggi anche da molti cristiani e cattolici, sono puro squilibrio, coercizione della natura, incoscienza, un “accostamento”, mai una “unione”. Inutile girarci intorno: il papà è il papà e la mamma è la mamma: nessun surrogato, nessun miscuglio contro natura, perché la differenza c’è, eccome!
Poi Gesù pronuncia questa frase solenne, che incute quasi paura: «L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». Che sarebbe: “Questo è il progetto di Dio, questo è ciò che fin dall’inizio Dio ha pensato per l’uomo e la donna. Non allontanatevi mai da questo progetto. Non dividete, non separate, non isolate mai l’amore, la comprensione, la carità, nelle vostre relazioni di coppia, in quel matrimonio maschio-femmina che Dio ha istituito per voi”. Gesù praticamente ci rimanda all’essenziale, al significato più profondo del matrimonio, a come Dio l’ha pensato e voluto. Queste sue parole non sono un rimprovero, un avvertimento terribile, una minaccia. Vogliono dire semplicemente: “Se vengono meno le condizioni essenziali, prime, insostituibili, non c’è più “matrimonio”, non c'è più “comunione”. I due possono stare insieme, condividere una stessa esistenza, essere anche reciprocamente fedeli, ma la loro unione non è più alimentata da linfa vitale.
La fedeltà nel matrimonio non è tanto “non fare” qualcosa. Ridurre la fedeltà a non tradire l’altro, è banalizzarla. La fedeltà intesa da Dio non è solo uno “stare insieme”, un non separarsi; non è negativa, proibitiva, coercitiva; ma al contrario è positiva, concreta, propositiva: significa credere e vivere in un valore superiore, in un qualcosa di grande, di vivo, di soprannaturale.
Essere fedeli nell’amore è molto più difficile che essere fedeli nel corpo. Se, per esempio, proviamo nel più profondo dell'anima, sentimenti come questi: “Mi è difficile raccontarti quello che ho dentro, perché mi vergogno; eppure ti sono fedele. A volte mi è difficile non dare per scontato il mio amore: non te lo dico, non lo dimostro, me ne dimentico. A volte mi è difficile fermarmi e guardarti negli occhi e guardare il tuo cuore, ciò che sei dentro. A volte mi è difficile ascoltarti, soprattutto quando ce l’hai con me, o quando sono stanco. A volte mi è difficile parlare di certe cose: dei miei e dei nostri problemi, delle nostre incomprensioni, delle in-attenzioni; preferisco tralasciare. A volte mi è difficile vincere la pigrizia. A volte mi è difficile dire di “no” a me, per dire di “sì” a noi. A volte mi è difficile non pretendere l’impossibile da te o quello che tu non mi puoi dare. A volte mi è difficile accettare che tu mi dica di “no”. A volte mi è difficile rendermi conto che non mi sono ancora staccato da mia madre, dopo tanti anni, e che continuo a confrontarti a lei. A volte mi è difficile parlare di questioni spinose, sapendo che se sto zitto tu non le saprai mai. A volte mi è difficile sentire che ti amo e commuovermi per te, perché mi dico che non ho più l’età per certe emozioni. A volte è difficile non scaricare su di te le tensioni che accumulo altrove. A volte è difficile arrivare ad un compromesso tra i miei bisogni e i tuoi. A volte è difficile vedere che tu hai ragione e che io sbaglio. A volte è difficile accettare che abbiamo bisogno di aiuto reciproco, altrimenti la fiamma del nostro amore lentamente ma inesorabilmente muore”.
Ecco, riconoscere queste debolezze, significa “fedeltà”; soprattutto rimediare, mettere in pratica ciò che ci suggerisce il cuore, è onestà verso di noi e verso l’altro: perché questo è amore. Questo è curare, alimentare, rendere un rapporto vero, solido, sincero, trasparente, dove ci si dona e ci si accoglie. Perché non è l’unione e la fedeltà materiale che genera l’amore, ma è l’amore che genera l’unione.
Un’ultima riflessione: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio».
Dopo la catechesi sul matrimonio, a Gesù portano dei bambini. Forse è un caso, o forse no, ma l’aver inserito a questo punto il discorso su di essi, acquista un significato molto particolare: perché, fratelli miei, quando la simbiosi marito-moglie si spezza definitivamente, sono sempre i figli, i bambini a subirne le più drammatiche conseguenze. Checché ne dicano gli esperti, sono i bambini che subiscono in profondità, un trauma difficilmente superabile: perché – nonostante le mille assicurazioni, nonostante le dimostrazioni d’affetto, essi comunque si sentono rifiutati, messi da parte, tagliati via, estirpati dal loro habitat naturale che è la famiglia.
I bambini, ci fa capire qui Gesù, sono infatti l’immagine emblematica della fiducia, della speranza, del bisogno di accoglienza, del potersi abbandonare tra quelle braccia che offrono attenzioni incondizionate, sicurezza, tranquillità, amore vero. Ecco perché per essere accolti da Lui dobbiamo essere bambini: è questo che vuole Gesù; e lo vuole per tutti: anche per noi adulti, ormai scettici, provati dalla vita, sofferenti, stanchi, delusi. Dobbiamo accogliere questo suo invito, per poterci sentire nuovamente accolti tra le sue braccia, protetti, amati, al sicuro. Con Lui non c’è da aver paura, non c’è da temere; con Lui siamo a casa, non abbiamo da dimostrare nulla, perché siamo accettati per quello che siamo.
E noi lo sappiamo questo; lo sentiamo, lo percepiamo distintamente soprattutto quando ci rivolgiamo a Lui nella preghiera, nel silenzio, nella meditazione. È allora che avvertiamo il nulla che siamo, tutta la nostra debolezza, la nostra fragilità; è allora che ci rendiamo conto di essere, in fondo al nostro cuore, dei perenni bambini, impacciati e sprovveduti; è allora che sentiamo con commozione di aver bisogno del calore delle sue braccia; è allora che, con sincero sgomento, ci rendiamo conto che il bilancio della nostra esistenza è fallimentare; una esistenza la nostra, troppo spesso sorda e insensibile ai suoi continui richiami d’amore.
Ce ne rendiamo conto: Lui, anche ora, è sempre lì, con le sue braccia spalancate, e ci aspetta. Braccia che danno Vita, le sue; braccia che proteggono, che danno sicurezza, che allontanano ogni pericolo, ogni male, ogni nemico, braccia sempre pronte a sorreggere, a rialzare dopo le cadute, braccia tra le quali è possibile finalmente ritrovare la pace, l’Amore eterno. Ridiventiamo dunque bambini, fratelli, e corriamo tra quelle braccia. Amen.

 

martedì 25 settembre 2012

30 Settembre 2012 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa»( Mc 9,38-43.45.47-48).
Per inquadrare bene le proteste che Giovanni rivolge a Gesù, anche per conto degli altri discepoli, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più vicini a Gesù, non sono riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino. Figuriamoci come ci rimangono quando si accorgono che un tizio qualunque, uno che non è neppure dei loro, ci riesce, eccome! Capite? Cosa non fa la gelosia! Cosa non fa pensare l’invidia: “ Ma come, noi che siamo suoi discepoli, i “chiamati”, gli “addetti ai lavori”, non ci siamo riusciti; e questo qui, che nessuno sa chi sia, che neppure segue Gesù alla lontana, invece sì; il minimo che possiamo fare è di farlo smettere!” Giovanni e gli altri sono ancora fuori dalla logica del “servizio”, sono ancora succubi della mentalità del settarismo, che pretendeva il monopolio della salvezza.
Esattamente come ci comportiamo anche noi, oggi, dopo oltre duemila anni: Non vi sembra di riascoltare le nostre petulanti lamentele? “Ma come, noi andiamo sempre in chiesa, ci sforziamo di osservare le leggi di Dio, non rubiamo, non uccidiamo, eppure siamo considerati come tutti gli altri; anzi Dio ci ama allo stesso modo di quelli che ne combinano di tutti i colori! Non è giusto!”.
Ebbene, fratelli, questo vangelo mette veramente in crisi il nostro modo di pensare.
Un modo di pensare che ci poneva al di sopra degli altri: lungo i secoli infatti, la chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: fuori di lei non vi era possibilità di salvezza. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè dentro la chiesa, aveva la possibilità di salvarsi. Soltanto chi era battezzato. Ci sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. E in proposito si citava il vangelo: “Chi non è con me è contro di me”. Parole sacrosante: ma altrettanto sacrosante sono quelle di oggi: “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40) con cui Gesù, in sostanza, ci mette in guardia dal lanciare giudizi preconcetti, proprio perché un conto sono quelli che combattono, che sono ostili, che si schierano decisamente contro il Maestro, e un altro quelli che non fanno nulla di tutto questo, anzi che lo ammirano pur non appartenendo apertamente al “gruppo” dei discepoli.
L’appartenenza ad una “élite” esclusiva, non deve mai condizionare i criteri di giudizio. Dio non è questione di appartenenza, ma di spirito, di anima, di amore. Gesù abolisce decisamente il criterio: “Non è dei nostri”. Non è dei nostri, e allora? Gesù non guarda “con chi”; non ci chiederà mai a quale associazione apparteniamo, in quale movimento carismatico siamo impegnati; bensì cosa facciamo di buono per gli altri, come siamo dentro, nella nostra anima; con quanta carità trattiamo i nostri fratelli. Gesù non ha mai chiesto: “Tu sei dei miei? Sei cristiano? Da dove vieni? Di che nazionalità sei? Se non sei “dei nostri”, vattene, fuori, via. Sei un infiltrato maledetto!”. Al contrario non si stancava di insegnare: “Fa il bene, ama, sii disponibile, sii accogliente, ascolta, e Dio è sicuramente in te: tu sei benedetto”.
Quanto lontani siamo ancora da Gesù, fratelli miei: pensiamo solo per un attimo a cosa succede oggi intorno a noi: la corruzione dilaga, non esiste più la verità, non esiste più l’ascolto, il rispetto. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la faziosità, il preconcetto assoluto. Se chi parla appartiene ad uno schieramento diverso dal nostro, qualunque cosa dica, non ci va bene. Non ci interessa neppure sapere cos’ha da dire: ci basta sapere che è dell’altra corrente, che non è “dei nostri”. Viceversa se qualcuno della “nostra parte” delinque, ne combina qualcuna di veramente grossa, non ci tocca più di tanto, lo difenderemo sempre e dovunque ad oltranza, perché “è dei nostri”. Ma questa, fratelli, è legittimazione della falsità, del crimine, della delinquenza. E di esempi ne conosciamo a migliaia! Le pagine di cronaca di questi giorni ce ne offrono un triste e desolante florilegio.
È vero che l’attaccamento al proprio clan è un retaggio tribale; fondamentale, al pari dell’unione che si crea tra una madre e i suoi figli. Se una madre non sentisse come “suo” il figlio, il figlio non potrebbe sopravvivere. Solo se sentono “propria” la loro creatura, una madre e un padre affronteranno coraggiosamente ogni difficoltà e controversia per difenderlo da ogni pericolo. E in questo modo il piccolo si sentirà di appartenere a quella famiglia, si sentirà in qualche modo inserito nell’autorevole “proprietà” dei genitori. L’istinto di possesso, di attaccamento, di appartenenza è sicuramente fondamentale per la vita; senza di esso non ci sarebbe vita. Ma poi arriva il momento in cui ci viene chiesto di crescere. E sarà l’individuo che deciderà a quale gruppo, a quale famiglia, a quale comunità aggregarsi.
Gesù dice: “Anche se non è dei nostri, ma fa le nostre stesse cose, agisce cioè come noi, è comunque dei nostri”. Non apparterà fisicamente al nostro gruppo ma ha lo stesso nostro spirito. È comunque spiritualmente “uno” con noi; “Dio” e “Spirito”, in effetti, sono Uno.
Si può, allora, essere uniti a Gesù pur non appartenendo alla comunità dei discepoli.
Dio è anche fuori. Dio è anche negli altri, tanto quanto in me. Dio è anche in chi non si definisce cristiano. Il Bene è anche fuori della chiesa. Chiunque fa il bene viene da Dio: “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, né per salvarsi, né per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio, di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo spirito” (Gv 3,8). Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte venga, la verità è originata dallo spirito”. Dovunque c’è il bene; dovunque c’è qualcuno che ama; dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto, lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Troppo spesso succede invece che noi ci comportiamo come dei bambini capricciosi: solo quello che facciamo noi va bene; solo come lo facciamo noi è fatto bene; solo il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro Dio è vero. Solo noi, solo io, solo così, ecc. Il nostro punto di vista è soltanto la vista da un solo punto!
Eppure non è detto che le vedute degli altri siano tutte sbagliate; a volte semplicemente non sono come le nostre. Ecco perché dobbiamo innanzitutto ascoltare tutti, capirli, avvicinarci con rispetto e confrontarci. La religione (etimologicamente “legare insieme strettamente”) dovrebbe aiutarci proprio a questo: a legare insieme tutte le esperienze di vita, a trovare ciò che abbiamo in comune, a trovare ponti,collegamenti, riferimenti, a illuminarci su ciò che ci unisce e su ciò che ci divide, per farci finalmente incontrare.
Dobbiamo imparare a dire: “Non è migliore o peggiore di noi; è solo diverso”. Dobbiamo arrivare a pensare che le stesse cose possono essere fatte in molti modi e in modi completamente diversi dai nostri. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli, l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere concepite in molti modi. E non è detto che un modo sia migliore o peggiore dell’altro; che uno sia giusto o sbagliato; che uno sia buono e uno cattivo. È un modo semplicemente diverso.
Poi il vangelo parla dello scandalo, di essere – come dice altrove – una pietra d’inciampo. Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di camminare. “Scandalo” per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con il sesso; è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di procedere nel nostro cammino.
E Marco qui riporta alcune situazioni estreme, riservate a ciò che è causa di scandalo: esempi molto semplici e chiari che comunque non vanno presi alla lettera, ma capiti nel loro senso profondo. Vogliono dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male, che ti impedisce di continuare il tuo cammino di vita, che non ti fa libero, che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo, eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Sono indicazioni, quelle di Gesù, che mettono comunque l’accento sulle caratteristiche che devono contraddistinguere le nostre scelte:
1. La scelta comporta un “taglio”; bisogna cioè cambiare rotta, modificare, recidere nettamente per neutralizzare ciò che ci fa male; da qui nasce l’importanza del discernimento, dell’esame personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo in realtà, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
2. La scelta è dolorosa; certe decisioni non sono certo facili, non si fanno a cuor leggero; ci possono far soffrire al punto da maledirci per averle prese. Esperienza insegna che le scelte indolori non sono importanti, fondamentali, non sono essenziali e di assoluta necessità per poter conseguire un risultato certo. Sono normalmente dei palliativi. Le scelte vitali straziano invece il cuore e l’anima.
3. La scelta è radicale. Non si può transigere. Non si può giocare. Quando bisogna operare, incidere, bisogna farlo. Senza anestesia. Non è bello, non è piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere risoluti, decisi e fermi, altrimenti si muore. «Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna…». “Chi ha orecchi da intendere, intenda”. Amen.

mercoledì 19 settembre 2012

23 Settembre 2012 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà... Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,30-37).
Gesù è stato un uomo che durante tutta la sua vita aveva ben presente l’idea della morte; in particolare la” sua” di morte: un evento drammatico, l'estrema dimostrazione del suo amore per l’umanità. Nel Vangelo di Marco, per ben tre volte, Egli torna esplicitamente sulla tragica conclusione della sua vita terrena, introducendo comunque la visione della sua vittoria finale sulla morte stessa. E puntualmente i discepoli reagiscono in maniera ottusa, dimostrando di non aver capito nulla: domenica scorsa Pietro si preoccupava di rimproverare Gesù, insegnandogli a fare il messia; oggi i discepoli discutono tra loro su chi sia il più grande; al terzo annuncio, Giacomo e Giovanni si avvicineranno a Gesù e gli chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra nel suo regno”. Poveretti, sono ancora lontani anni luce dallo stravolgimento della loro vita e delle loro idee per opera dello Spirito, per cui ogni volta danno prova della loro impossibilità di capire e di immedesimarsi nelle parole di Gesù.
Purtroppo quello della morte è un discorso che anche noi non amiamo molto; cerchiamo in tutti i modi di evitarlo; è tabù. Eppure verrà un giorno in cui non ci saremo più; un giorno in cui dovremo abbandonare i nostri cari, il lavoro, le nostre attività, le nostre passioni, le cose più care; saremo costretti a fare un salto nel vuoto, verso l’ignoto, assolutamente da soli.
Per questo la morte ci crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il problema non pensandoci: si ubriacano di presente, per non pensare al futuro inesorabile. Ma anche così non funziona. Questo continuo lavorare, questo continuo affannarsi per tutto e per niente, questo continuo aggrapparsi in ogni cosa all’attimo fuggente è il loro inefficace antidoto contro la paura della morte.
Possiamo ricorrere ad ogni mezzo per non pensare, ma questo non cambia la realtà. Perché questa è la vita, la “nostra” vita, che deve fare i conti con una indiscutibile realtà: “Tu ora vivi ma prima o poi morirai”.
La morte purtroppo è angosciante, è una realtà che non vorremmo esistesse, ma c’è! E non possiamo vivere senza confrontarci con essa. Dobbiamo essere consapevoli che vivere giorno dopo giorno è avvicinarci alla fine, è un po’ come morire a piccoli passi. Il celebre psicologo Carl Gustav Jung diceva: “Un uomo che non si ponga seriamente il problema della morte, e non ne avverte il dramma, è un uomo che ha bisogno di essere curato”.
Un confronto profondo e onesto con la morte ci farà vivere in maniera più intensa, più vera: è un confronto che sviluppa in noi la saggezza del vivere. Il filosofo Montaigne diceva: “Insegnando all’uomo che deve morire, gli si insegna soprattutto a vivere”.
Viviamo dunque l’essenziale: che senso hanno infatti tutte le nostre “paranoie”, le nostre “fisime”, dal momento che dobbiamo morire?”. Lavoriamo e diamoci da fare. Ma ricordiamoci sempre che un giorno “lasceremo qui tutto!”. Evitiamo allora, fratelli, di vivere solo per lavorare, perché è da stupidi. Accumulare denaro e ricchezze per il piacere di possedere, è l’atto più insensato che un uomo possa fare: che senso ha? Non porterai nulla con te dopo la morte. Lavoriamo invece per vivere onestamente e dignitosamente.
Se oggi fosse l’ultimo giorno della nostra vita, cosa faremmo? Forse che sistemeremmo la casa? Puliremmo il bagno? Ci preoccuperemmo dei nostri soldi in banca? O cercheremmo piuttosto di stare con le persone che amiamo? Di gustare fino in fondo le ultime ore, apprezzando ogni singolo minuto di vita?
Dobbiamo pertanto individuare quelle che sono le cose essenziali nella nostra vita, e tenerle sempre presenti ogni giorno e ogni ora.
Sulla tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Questa piccola fossa basta ora all’uomo cui non bastava il mondo intero”. Di fronte a certe ambizioni, a certe competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere. La morte è la “grande livella”, come scrisse il comico Totò, che rende tutti uguali, che tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi.
Viviamo oggi le piccole cose che rendono felice la nostra vita. Se non lo facciamo oggi, domani forse non lo potremo più fare. Chi vive intensamente tutte le emozioni del suo cuore non teme di morire. È solo chi è sterile, chi conduce una vita arida e inutile che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: perché la morte gli preclude qualunque possibilità di cambiare. Ecco perché, fratelli, tutto quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare oggi: il tempo passa, meglio non sprecarlo.
Sistemiamo oggi tutte le questioni che abbiamo in sospeso, domani potrebbe essere tardi. Diciamo oggi ai nostri figli quanto siano preziosi per noi e quanto sia bella la loro presenza, cosa sarebbe la nostra vita senza di loro. E ringraziamoli per tutto ciò che ci hanno dato, soprattutto per la felicità che hanno portato nel nostro cuore e nella nostra casa. E non ci importa nulla se a volte è stato faticoso! Diciamo oggi al nostro sposo, alla nostra sposa: “Ti amo. A volte non lo faccio capire, ma ti amo tanto”. Diciamo oggi ai nostri amici, ai nostri fratelli, a quelle persone che ci sono vicine, che sono state importanti per noi, che ci hanno in qualche modo aiutato a crescere: “Grazie: perché tu hai contato molto nella mia vita”. Cosa aspettiamo? Aspettiamo di non avere più tempo? La vita passa.
Cominciamo a vivere per qualcosa che abbia veramente senso. Ma facciamolo in fretta, facciamolo già da oggi, perché il tempo a disposizione è limitato. E allora più che preoccuparci di “quanto” dobbiamo vivere, preoccupiamoci di “come” dobbiamo vivere! Vivere tanto per vivere, senza pensare il fine per cui si vive, significa sprecare inutilmente il dono del tempo che ci è concesso.
Se i nostri giorni finiscono, dobbiamo trovare un significato profondo da dare alla nostra vita. La nostra vita deve essere un dono da lasciare ai nostri cari, ai nostri fratelli. Se siamo un frutto che nessuno vuol mangiare, allora non serviamo a nulla; allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Dobbiamo essere invece un frutto appetibile e gustoso, che altri potranno mangiare; e allora ci sentiremo utili, importanti, necessari. Allora anche se moriamo, non moriremo invano.
Vale la pena di osare, fratelli. Salire sulla barca della nostra vita e dire: “Duc in altum, Prendi il largo”. Poter dire al termine della vita, con Paolo: “Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7)”. In altre parole potremo dire: “Ho vissuto”.
Allora non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non abbiamo fatto. Non lasciamoci condizionare dal rischio di sbagliare, di morire, di essere deriso o giudicato; pensiamoci bene: non è forse maggiore il rischio di non vivere? E non è forse vero che chi non vive, è già morto dentro?.
Dio ci ha fatto un dono preziosissimo: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.
Quante persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto, non ci hanno mai provato.
Ricordate la parabola dell’uomo con un solo talento (Mt 25,14-30)? Il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.
Abbandoniamoci e abbiamo fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli, vulnerabili. È una lotta impari: vince sempre lei. Allora dobbiamo imparare a fidarci. Dobbiamo imparare che non possiamo controllare tutto; che non possiamo gestire tutto; dobbiamo fidarci senza avere garanzie, non possiamo avere certezze o assicurazioni. Dobbiamo solo fidarci.
Penso che ogni uomo, sul punto di nascere, abbia detto tra sé: “Oddio che sta succedendo? Dove sto andando? No, no, no, non voglio uscire da qui, non voglio lasciare questo mondo, sto così bene qui dentro! Fuori è la fine!”. E invece no, fratelli miei: fuori era non la fine ma l’inizio della vita. Ci fidiamo e sentiamo che sarà così.
Ma torniamo al nostro vangelo di oggi. Dunque: mentre Gesù sta parlando della sua morte – e capite che angoscia doveva avere dentro – che fanno i suoi amici, i discepoli? Discutono su chi fra di loro potrà sedersi nel Regno al posto d’onore, su chi sarà il più grande, il migliore.
A questo punto a Gesù cadono le braccia, si deve sedere; deve cioè interrompere il suo cammino, il suo andare, perché i suoi discepoli, pur seguendolo, di strada ne hanno fatta ben poca; sono ancora molto indietro e belli fermi. E deve spiegare loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino, accoglierete me e mio Padre”.
Il bambino (dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo), non aveva nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua, doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo in assoluto.
Allora: “se tu accogli un bambino”, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più al di sopra di qualcuno, non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli altri e che si ritengono indegni di tutto. Gesù era l’ultimo, ma non era inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per tutti cioè non sentirsi superiori, avanti a nessuno.
I discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si considerano più dei altri, superiori agli altri. Essi cercano cioè lo stesso potere del loro “padrone”.
Il padrone (dominus: signore, padrone, proprietario) domina. Il padrone (dominus) gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, superiore agli altri, che considera chiaramente inferiori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide lui, perché lui si sente “di più”.

Ma noi non dobbiamo essere di questi padroni: dobbiamo essere servi perché nessuno ci è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è colui che si umilia, ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente superiore a loro.
Noi tutti siamo in qualche modo padroni: abbiamo cioè il potere di gestire, di dominare sugli altri. Dobbiamo quindi stare molto attenti quando esercitiamo questo potere. Pensate al potere che hanno i genitori con i propri figli; di un capo con i suoi operai; di un dirigente con i suoi dipendenti.
Ci sono persone che si sentono autorizzate di infierire sugli altri, fanno fare loro quello che vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi anche solo iniettiamo un senso di colpa nell’altro, stiamo facendo una mossa subdola e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.
L’amore non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se abbiamo bisogno di mettere in rilievo la nostra superiorità, vuol dire che stiamo nascondendo la nostra inferiorità e che la camuffiamo con il bisogno di superiorità. Quando facciamo pesare e “notare” agli altri quello che abbiamo fatto per loro, stiamo tentando di dominarli. Cerchiamo di gestirli, di aver potere su di loro.
Quanta gente incontriamo che “se la tirano”, fanno i preziosi, non ci danno mai una risposta o devono essere pregati per darci una mano? Quante persone ci fanno notare che loro “hanno”, che “sono laureate”, che possono permettersi questo e quell’altro: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoci notare la nostra inferiorità. Sono padroni. Si domina anche facendo notare sempre all’altro i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre da inferiore, da incapace.
E allora concludo: il nostro comportamento è da “signore”, o siamo dei “signori”? Abbiamo rispetto per tutti, o ci sentiamo “più” degli altri? Siamo come il Signore che non gestiva nessuno, che non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o siamo signori, padroni, che vogliono, pretendono, decidono per gli altri, li manipolano? Dunque: Signore o signori? Amare o possedere? Riflettiamo. Amen.

 

mercoledì 12 settembre 2012

16 Settembre 2012 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: La gente, chi dice che io sia? […] E Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo» (Mc 8,27-35).
Gesù sta andando verso Cesarea di Filippo e strada facendo parla con i suoi discepoli.
Del più e del meno. Sa di essere qualcuno per la gente; sa di essere sulla bocca delle persone; sa che si parla di lui; ed è naturale quindi che il discorso cada anche su questo, sull’opinione cioè che la gente ha di lui, chi dicono che egli sia. Ognuno riferisce il sentito dire: qualcuno dice Giovanni il Battista, chi Elia, chi un altro profeta. Ma Gesù non si accontenta e riformula la richiesta: Ma “voi chi dite che io sia?”. Bella domanda. Anche per noi. Tu che leggi, cosa dici? Chi è Gesù per te?
Nella vita arriva un momento in cui tutto ciò che abbiamo imparato, che sappiamo, che conosciamo, non conta più nulla; l’unica cosa che conta è una nostra risposta. Risposta che nessuno può dare al posto nostro.
Nelle questioni essenziali della vita siamo sempre soli, soli con noi stessi e con le nostre decisioni prese o rimandate. Nelle questioni essenziali non conta più niente ciò che ci circonda, ciò che fanno o non fanno gli altri: la domanda inevitabile e improrogabile è rivolta solo a noi e la risposta che conta è solo quella nostra.
L’episodio evangelico di oggi segna una svolta decisiva, un momento cruciale nel vangelo di Marco: Gesù capisce che è arrivato il momento di lasciare tutto e di andare a Gerusalemme; Egli sa bene che laggiù non può contare né sui capi religiosi, né sull’appoggio della gente; e neppure su quello degli apostoli. Quello che lo attende a Gerusalemme è una questione sua, solo sua.
Pietro però comincia proprio qui a capire chi Lui sia veramente. E decide di buttarsi per Lui. Egli improvvisamente percepisce, sente che lì, al suo fianco, c’è la Vita, c’è l’ebbrezza della Vita, c’è il sapore della Vita, e si butta a capofitto, anima e cuore. Da questo momento in poi, pur facendo errori non da poco (lo rinnegherà per ben tre volte!) Pietro non tornerà più indietro su questa decisione. Ha trovato la Vita: come può lasciarla?
Ma veniamo a noi; tocca anche a noi rispondere, fratelli, con altrettanta franchezza e onestà; chiediamoci ancora: “Ma io cosa provo per te, Signore? Chi sei tu per me? Quanto sei importante nella mia vita? Quanto sono disposto a giocarmi per Te?”.
Pietro non ha avuto esitazioni: “Tu sei il Cristo!”; “Tu sei per me la vita, la luce, la sicurezza, la via, il faro, il mettermi in gioco, la verità; tu sei qualcosa che mi ha cambiato la vita, che l’ha resa diversa, piena, intensa, pericolosa”. Ma noi?
Gesù a questo punto ordina ai suoi il silenzio; raccomanda “severamente” di non parlarne con nessuno, di non farne parola con altri. Perché questa raccomandazione? Perché sono risposte private, che riguardano solo Lui e noi, non si possono buttare in pasto alle chiacchiere della gente: sono strettamente personali, ciascuno le deve rispondere per sé. Ciascuno deve scoprire dentro di sé chi è per lui il Cristo. Ciascuno deve trovare da sé la propria risposta.
Nel nostro cammino di apostoli, sapere che Gesù è stato l’amore di tutti i santi, non ci fa avanzare neppure di un millimetro; tocca solo a noi dare spazio alla passione che dorme dentro di noi. Sapere che Gesù è stato la fiamma che ha incendiato il cuore di tutti i mistici, non ci serve a nulla se anche noi non ci lasciamo contagiare da quel fuoco, se non lasciamo bruciare dentro di noi quella fiamma!
Questo è il punto. Pure Pietro non si limita alle belle parole, a fare una bella professione di fede, ma prende una importantissima decisione: economicamente non stava certo male (aveva una famiglia, le sue barche, i suoi garzoni); ma ora decide di lasciare il sicuro, di lasciare le certezze, per un ideale, per quello che Gesù gli offre. E quindi rischia tutto.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente anche per noi, fratelli: anche noi, quando avremo trovato la Vita, colui che ci riempie l’anima, dobbiamo deciderci. Dobbiamo seguirlo, dobbiamo abbandonare i nostri dubbi, le nostre paure. Deciderci. E andare.
“Decidere” significa indirizzare le nostre energie e le nostre scelte verso un obiettivo; vuol dire “tagliare, tagliare via, far accadere” (dal latino de-caedo). “Decidere” è fare un taglio netto: una volta fatto, non si può più tornare indietro. Sono le decisioni che ci guidano, che determinano le svolte alla nostra vita. Le nostre decisioni trasformano il caso in destino. È con il nostro decidere che iniziamo a costruire la nostra vita. Perché quando decidiamo, scegliamo di seguire solo una strada. Quando invece non decidiamo, non ne scegliamo nessuna; anzi, peggio, ci facciamo andar bene quella che altri hanno scelto per noi; e poi, anche il non voler decidere è pur sempre una decisione; discutibile, ma una decisione.
“Decidersi” implica sempre una rinuncia. È la rinuncia consapevole di chi sa che non può fare tutto, e quindi rinuncia a ciò che potrebbe fare di non importante, vitale, e sceglie ciò che per lui è fondamentale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Quanta gente si lamenta della sua situazione, fratelli miei: ma chi si lamenta, lo fa perché non ha deciso. Non vuole o non sa decidersi. La nostra vita non ci va bene? Cambiamola! “Ma è difficile! È impegnativo, pieno di imprevisti, di pericoli!”: e allora stiamo come stiamo, ma smettiamola, non lamentiamoci, non facciamoci compatire.
Desiderare di cambiare non vuol dire volerlo: una preferenza, un desiderio, non è una decisione. Decidersi è scegliere e agire in quel senso. Senza ripensamenti.
Le grandi decisioni nascono dentro: “Come voglio vivere? A che livello, a che profondità? Voglio o no faticare per finalmente trovarmi e andare avanti? E poi, soprattutto, quanto lo voglio? Quanto sono disposto a lottare, a soffrire, a cercare? Quanto lo voglio?”.
È la risposta a queste domande, fratelli, che genera le decisioni, nascoste e invisibili, ma che cambiano la nostra vita e ne determinano la qualità.
Anche Gesù fa la sua scelta: sceglie “Dio”. E decide di andare a Gerusalemme. Eppure sa che questa decisione comporterà pericolo, lotta, scontro e, perfino, la morte. Lo sa, e lo dice anche chiaro chiaro ai suoi discepoli.
Ma essi non capiscono ancora. Di fronte alle sue parole, Pietro quasi lo rimprovera. Egli ha altre idee su Gesù. Ha intravvisto la sua divinità, la sua messianicità. Gli dice: “No Signore. Abbiamo tanto successo qui, tanta gente ti segue, sei amato da molti. Perché rischiare così tanto? Se tu muori finirà tutto: che senso ha che tu vada a morire?”. Ma Gesù lo zittisce seccamente: “Via da me satana. Questi sono i tuoi calcoli ma non quelli di Dio. Io devo rimanere fedele a me stesso. È vero, potrei guarire tantissima gente, vivere ancora per tanti anni, essere utile a tante persone. Ma a che serve tutto questo se non sono fedele alla mia missione, a ciò che ho dentro? A che serve tutto questo se tradisco ciò che sono, la mia strada, il mio mandato?”. E nel versetto successivo (che oggi non leggiamo) spiega meglio: “ A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?” (8,36). Già; a che serve?
A che serve voler “salvare”, cioè fermare, cristallizzare, immobilizzare la vita, quando così facendo la perdiamo? È la legge della vita, fratelli. Se non vogliamo cambiare, se non vogliamo crescere, se non vogliamo svilupparci, automaticamente moriamo. Se non vogliamo ascoltare le esigenze profonde, le chiamate della Vita, abbandoniamo la Vita, ci stacchiamo dalla Sorgente della Vita, ci perdiamo, moriamo.
La vita non si può fermare. Non ci possiamo attaccare né alle relazioni umane né alle grandi idee, ai grandi progetti. Chi vuol seguire Gesù, deve dire semplicemente “no” a quell’atteggiamento naturale dell’uomo che vorrebbe fermare le cose; chi vuol seguire Gesù deve invece muoversi, librarsi in alto, mettere in gioco le proprie idee, le proprie convinzioni, e seguire il Signore della Vita là dove vuole portarci.
Dobbiamo cambiare mentalità, fratelli. Una mamma rimprovera il suo bambino: “Lo sapevi che quando hai rubato i biscotti dalla dispensa, Gesù ti vedeva?”. “Sì”, risponde lui. “E cosa pensi che ti stesse dicendo?”. “Visto che non c’è nessuno, prendine un po’ anche per me!”.
Ecco, dobbiamo fare come quel bimbo: dobbiamo essere creativi, pieni di iniziative, dobbiamo cambiare prospettive, cambiare idee, non possiamo rimanere attaccati sempre alle convinzioni degli altri! Dobbiamo essere critici, aperti e onesti con noi stessi.
La linfa vitale scorre continuamente, va e viene, è Vita; ma nel momento stesso in cui noi blocchiamo questo scorrere, iniziamo irrimediabilmente a scivolare verso la morte. Non possiamo bere acqua putrida, ristagnante; solo l’acqua che scorre, viva e zampillante, è in grado di dissetarci. Amen.

mercoledì 5 settembre 2012

9 Settembre 2012 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«… E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,31-37).
Dopo aver constato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Di fronte pertanto ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia territorio, e va in terra pagana, a Tiro e Sidone.
E proprio qui, non tra gli eletti ebrei, Egli incontra una fede esemplare. Un fenomeno abbastanza usuale anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la religione infatti può essere seguita anche solo attraverso pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede no: la fede è la convinzione interiore e profonda che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
E dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna “siro-fenicia”, quindi pagana, non di origine ebraica; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola al sordomuto, come ci racconta oggi Marco.
Un sordomuto è dunque oggi il beneficiario della bontà divina. In che modo possiamo ritrovarci noi in quel sordomuto? Che riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio? Dobbiamo leggerlo soltanto come un esempio della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος (moghilàlos) che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto: perché solo se “ci sentiamo” possiamo esprimere qualcosa di noi. Non possiamo esprimere quello che non sentiamo. E allora? Se non ci sentiamo più, fermiamoci, fratelli: cerchiamo di riscoprire quello che abbiamo dentro, ascoltiamoci con maggior attenzione, scrupolosamente. Fuggiamo il “rumore” assordante del mondo. Il silenzio, cioè smettere di ascoltare i rumori esterni per ascoltare le voci e i suoni interiori, è la base di ogni crescita spirituale, di ogni conoscenza, di ogni progresso umano.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo sordomuto: e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo tocchi. Ancora una volta dei pagani dimostrano più fede dei religiosi ebrei. E Gesù premia la loro fiducia. Come tante altre volte, Egli interviene con la sua grazia laddove trova la giusta predisposizione, sia nei confronti di persone religiose, che di chi non viveva secondo la religione del Tempio.
Confortati da tale certezza, fratelli, guardiamo anche noi con rinnovata fede e umiltà all’Amore divino: anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita abbiamo avuto esperienze negative, anche se siamo “tiepidi”, non praticanti, anche se ci siamo allontanati magari decisamente da Lui, Gesù ci può sempre e comunque guarire. Se ci avviciniamo e ci fidiamo di Lui, Lui può cambiare la nostra vita. Non dobbiamo coltivare pregiudizi o diffidenze. Gesù ci salva, ci guarisce non perché esibiamo l’etichetta di “cristiani” ma perché crediamo nel suo amore infinito, confidiamo totalmente in esso, perché siamo certi che se Lui vuole può guarirci, nonostante i nostri demeriti. Soltanto questo dobbiamo credere fermamente; solo in questo dobbiamo porre la nostra fiducia.
Succede però che a volte siamo così sordi, così “ostruiti”, da non percepire neppure la gravità della nostra situazione, non ce ne rendiamo neppure conto. Abbiamo bisogno che qualcuno, con più fede di noi, “ci porti”. Ecco perché è tanto importante avere una “guida” spirituale che ci accompagni nel nostro andare verso Gesù.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina lontano dalla folla. È una cosa che Gesù fa spesso (Mc 5,40; 8,23); la folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, è il giudizio impietoso delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimaniamo succubi del loro giudizio, delle loro valutazioni, non possiamo guarire.
La “folla” ci dice: “Tu devi fare così; devi fare come dico io”. Ricordate? Quante volte abbiamo sentito la frase: “No, così non va bene”; che poi vorrebbe dire: “Non fai come va bene a me”!
La folla cerca di condizionarci, di determinarci, di dirigerci, di farci fare quello che vuole lei. E finché non ci sottraiamo al suo influsso, non ne usciamo, non ne veniamo fuori, non possiamo ascoltarci, non possiamo essere noi stessi. La folla in altre parole è quel “condizionamento” interiore che ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre ispirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Ma non possiamo seguire due padroni, dice Gesù: o seguiamo noi stessi, la nostra coscienza, o seguiamo gli altri, la “folla”. O facciamo felici noi stessi o gli altri; o realizziamo noi stessi o quello che gli altri vogliono per noi stessi: dobbiamo scegliere!
La “folla” è tremenda, fratelli, ha un potere enorme. Noi, per una legge naturale, siamo attratti dalla “maggioranza”. Cioè: noi pensiamo che quello che fa la maggioranza sia giusto e, proprio poiché lo fanno tutti, sia sicuramente lecito. Quindi, se facciamo qualcosa di diverso dagli altri, pensiamo subito che sia sbagliato. La maggioranza ha il potere di influire in maniera categorica su di noi. E, credetemi, c’è bisogno di una grande maturità, di una forza interiore enorme, per affermare noi stessi, la nostra coscienza, e staccarci da una maggioranza che agisce in maniera diversa dalla nostra.
Una volta che i due si sono appartati, Gesù inizia il trattamento di guarigione del sordomuto. Prima di tutto gli tocca le orecchie con le dita; deve cioè aprirgliele materialmente,deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale.
Infatti, se noi non “sentiamo”, non percepiamo la nostra malattia, come facciamo a guarirla? Se non sentiamo la nostra insoddisfazione, come facciamo a eliminarla? Se non sentiamo il nostro dolore interiore, come facciamo ad uscirne? Se non sentiamo che stiamo morendo, in che modo possiamo intervenire per continuare a vivere? Non è un caso che la nostra società sia zeppa di anestetizzanti e psicofarmaci; non è un caso che la gente corra sempre e che non si fermi mai; non è un caso che non si sappia più fare silenzio e che il rumore sia il nostro compagno di sempre. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di sentire, di pensare.
Poi Gesù gli tocca la lingua con la saliva. Deve cioè renderla fluida, deve insegnargli a parlare, ad esprimersi, a “dirsi”. In altre parole Gesù gli dice: “Devi tirare fuori tutto quello che hai dentro. Devi dare un nome a ciò che provi. Devi definire la tua gioia, la tua rabbia, il tuo dolore, la tua emozione. Devi raccontarti. Devi vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Devi tirare fuori da te chi veramente sei”.
Quindi, guardando in cielo, Gesù emette un forte sospiro; si può dire che urla quasi al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”. Ora, se i primi due gesti erano riservati alle orecchie atrofizzate del poveretto, l’ordine “Apriti” è rivolto direttamente e unicamente all’uomo. Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato, gli urla addosso perché si è caparbiamente rinchiuso in se stesso e non vuole fare nessuno sforzo (ha tanta paura!) per “aprirsi”, per tornare a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo torpore, per spaccare quella corazza in cui si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altre volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto dentro di noi l’urlo di Gesù: “Apriti… apriti… apriti!”.
E il sordomuto guarisce. E nessuno può trattenere i presenti dal gridare al mondo l’entusiasmo e la gioia per quanto Gesù ha operato. Neppure Gesù: perché più egli cerca di zittirli, più essi proclamano al mondo le meraviglie di Dio: “Ha fatto bene ogni cosa…”.
Aprirsi, fratelli, significa dare una dimensione alla nostra vita. Aprirsi vuol dire far entrare e incontrare il nuovo. Aprirsi è vivere. Aprirsi è cantare e proclamare Dio Amore. Chiudersi significa ignorarlo, è morire.
Apriamo dunque il nostro cuore. Evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero; abbiamo soltanto paura di soffrire. Non ci rendiamo conto che chiudendoci preferiamo tenerci dentro sofferenze ben più gravi? “Apriti”.
Perché condannarsi a portare certi pesi e certe pietre? Perché privarsi della gioia e dell’intensità dell’Amore solo per paura di soffrire? “Apriti”. Apriamo la nostra mente. Leggiamo, impariamo, frequentiamo nuovi corsi e nuove esperienze. Non diciamo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare. “Apriti”.
Apriamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il mangiare, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non dobbiamo temere di non essere all’altezza di altre esperienze di vita.
Ci sono ragazzi che sono perennemente assorti nei giochetti elettronici, smanettano convulsamente la consolle dei loro minuscoli apparati, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: non possono che sclerotizzarsi. Non esiste solo quello: frequentate gli amici, i gruppi, conoscetene di nuovi; se possibile uscite dal vostro paese, andate alcuni mesi all’estero, accostatevi a nuove esperienze. “Apritevi”!
C’è una coppia di giovani sposi che tutti i sabato sera si ritrovano con gli stessi amici nella solita pizzeria; tutte le domeniche sono a pranzo dai genitori di lei e la sera dai genitori di lui. Non dite: “Li amiamo!”. È che avete paura di sperimentarvi diversamente. “Apritevi”!
C’è una famiglia che da ventisette anni va in vacanza sempre nel solito posto. Non dite: “Qui è bello”. È un'abitudine pigra bella e buona, è non voler affrontare la fatica di cambiare. “Apritevi”!  
Quanti di noi, fratelli, facciamo sempre le solite cose, i soliti incontri, i soliti riti fatti sempre alla stessa maniera. “Apriamoci!”.
Ecco: a questo invito costante e quasi assillante di Gesù, dovremmo sempre rispondere: “E perché no?”. Di fronte ad un nuovo progetto di vita, di fronte ad una nuova esperienza, ad una nuova idea, ad un nuovo incontro, prima di rifiutarlo chiudendoci a riccio, chiediamoci: “E perché no?”. Se rimaniamo aperti, la Vita entrerà dentro di noi e ci colmerà con la sua forza. “Io sto alla porta e busso” (Ap 3,20), ci dice Gesù: apriamogli dunque!
Vedete, noi siamo come un forziere. Un forziere nascosto. Conteniamo un tesoro preziosissimo, disponiamo di perle preziose, gioielli, monete d’oro. Ci scopriamo ad immaginare lo stupore e la gioia di chi ci scoprirà, di chi riuscirà a forzare la nostra serratura. Ci perdiamo a fantasticare su tutte le cose che il fortunato potrebbe fare o diventare grazie alle nostre ricchezze. Immaginiamo, fantastichiamo… Ma se non accogliamo l’invito di Gesù nessuno, anche trovandoci, potrà mai aprirci! Siamo un tesoro di indicibile valore, ma rimaniamo un tesoro inutile.
Si, fratelli: perché se non siamo noi ad aprirci, nessuno potrà mai farlo, nessuno potrà mai conoscerci, confrontarsi con noi. Se non ci apriamo, chi ci potrà amare? Chi potrà condividere i suoi progetti, le sue aspirazioni con noi? Se non ci apriamo, è come se vivessimo tutta la vita con un altro nome! Rischiamo di venire amati per una persona che non siamo! Se non ci apriamo, non saremo mai niente: viviamo come se fossimo già morti. Amen.