giovedì 28 giugno 2012

1 Luglio 2012 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla…”La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”… “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”… e sentì nel suo corpo che era guarita dal male» (Mc 5,21-43).
Nel vangelo di oggi sono tre gli elementi che desidero sottolineare. Prima di tutto il passaggio di Gesù da una parte all’altra del lago di Genezaret; poi le due figure di donne, due situazioni di vita completamente diverse: la giovane figlia di Giairo e la donna sofferente di abbondanti perdite di sangue.
Gesù nel suo peregrinare passa dunque da un luogo all’altro, compie continui spostamenti; e il suo non è solo un passaggio materiale, uno spostamento fisico, ma è un affrontare e risolvere questioni nuove, lasciare nuovi insegnamenti adeguati alle nuove situazioni. La vita infatti è fatta di distacchi, di passaggi, di cambiamenti: si lascia un posto per andare verso un altro, verso nuovi contesti. E quando ciò avviene, in noi si scontrano due forze diametralmente opposte: la forza conservatrice e quella progressista. Una prima dice: “Sta fermo qui, non muoverti. Qui sei al sicuro, perché andare a rischiare? Perché metterti in pericolo? Qui conosci già tutto: il tuo territorio, il tuo spazio, le persone che ami; cercare, cambiare, conoscere, andare verso l’ignoto è pericoloso”. E così ci convinciamo di rimanere fermi, di non crearci problemi, difficoltà, di stare nel nostro nido. Abbiamo praticamente tutto; perché mai dovremmo cercare qualcos’altro? Ma nessun vivente che si apre alla vita rimane sempre nel suo nido, nessuno si rifiuta di imparare a muoversi da solo, a fare le proprie esperienze, nessuno ignora i suoi desideri, nessuno lascia le proprie aspirazioni disattese. Quello che andava bene prima, ad un certo momento non ci soddisfa più, sentiamo che ci manca qualcosa, che dobbiamo aprirci ad altri bisogni, ad altri spazi. È il richiamo della Vita, fratelli, una Vita che ci vuole sempre più noi stessi, che ci immergiamo sempre di più in lei. Allora dobbiamo andare oltre. E allora ecco l’altra forza che ci spinge ad uscire, che ci dice: “Fuori, cerca, costruisci, divieni, diventa te stesso, diventa ciò che la Vita vuole per te”. E Gesù, in questo suo uscire, in questo suo passare oltre, ci insegna che ci sono delle difficoltà, che ci sono degli elementi duri e ostici da affrontare, ci sono degli imprevisti. È la tempesta che lo ha colto improvvisamente nel lago (il vangelo di domenica scorsa). La vita non è tutta rose e fiori; è un luogo dove tempeste, eventi duri, scontri, lotte, accadono continuamente. Eppure sono proprio le difficoltà che ci fanno scoprire la nostra forza e la nostra fiducia. Dobbiamo imparare non a evitare le tempeste perché altrimenti saremo sempre in fuga dalla realtà, dal mondo e dagli altri.
Quante volte parlando con gli altri noi diciamo di noi stessi: “Io non riesco ad essere cattivo”; dove per “cattivo”, intendiamo uno che sa farsi rispettare, uno che fa valere con decisione le sue ragioni. E ne siamo tutto sommato soddisfatti. Ora, da una parte è anche comprensibile, ma così facendo rimaniamo in balia di tutto e di tutti. Se la carità e l’amore ci guidano nei rapporti col prossimo, per il resto non dobbiamo rimanere passivi, insensibili e comunque perdenti: abbiamo il dovere di realizzare e valorizzare il capolavoro che Dio ha immaginato in noi, la nostra dignità di Figli. È questo l’insegnamento di Gesù: dobbiamo cioè prendere coscienza di ciò che siamo, dobbiamo custodire tutto il bello e il buono che ci è stato dato, e lavorare su di noi per buttare via ciò che fa male, ciò che è negativo, così da costruire saldamente la nostra personalità. La “nostra” vita, fratelli, non dipende dagli altri: è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, nelle nostre decisioni responsabili. Questo vuol dire essere adulti: è il passaggio dal bambino istintivo all’adulto razionale. Il “noi”-bambino si aspetta tutto dagli altri: “La parrocchia… il governo… il comune… la Chiesa… dovrebbero fare così e così… spetta a loro”. L’adulto, invece, è lui che fa in prima persona.
E arriviamo alle due figure femminili: la prima è la figlia dell’uomo, Giairo, descritto nella prima parte del vangelo di oggi. Lui è il capo della sinagoga, è una persona importante in paese e sua figlia deve essere l’orgoglio del papà. Perché, si sa, un figlio è sempre lo specchio dei genitori. Siamo avvocati, medici, laureati, professori? ebbene, noi che sappiamo di essere gente superiore, non possiamo avere un figlio come tutti gli altri. Il nostro deve essere un “modello”, deve essere assolutamente “più” degli altri: nostro figlio è sempre il più bravo, il più bello, il più educato, il più intelligente, il più sportivo, quello che eccelle in tutto, ecc. Ma nostro figlio è solo un bambino, un bambino come tutti. Quanti genitori dicono: “Mio figlio è già un ometto, un adulto. Parla e si comporta come un grande!”. E ne sono fieri, magari causando uno stravolgimento della realtà: è un dramma infatti assistere in TV a certi scimmiottamenti di divi o dive imposti ai loro piccoli da genitori obnubilati dall’orgoglio! Dovremmo proprio chiederci: “dov’è finito il bambino che era vostro figlio?” Hanno costruito un palazzo distruggendo le fondamenta!
Giairo parla di sua figlia e la chiama “figlioletta”; ma sua figlia ha già dodici anni e a quell’età in Israele si era adulti. La tratta ancora come la sua bimbetta, ma non lo è più, non è più il suo “giocattolo”. Quante volte sentiamo dire: “Sono così belli da piccoli!”: certo, ma attenzione: non sono dei giocattoli con cui ci divertiamo. E poi, sono belli perché fanno quello che vogliamo noi o sono belli perché sono “unici”?
Gesù, a differenza del padre, tratta questa fanciulla da adulta: dopo averla “svegliata”, ordina di darle da mangiare. Il cibo è la vita, il nutrimento, la voglia di vivere. Questa ragazza probabilmente non aveva più voglia di mangiare, non aveva più voglia di vivere perché soffocata dai legami familiari troppo intrusivi (noi oggi la definiremmo “anoressica”). Che in tale situazione ci fosse la responsabilità dei genitori, ci viene suggerito dal fatto che Gesù per entrare nella stanza dove giaceva la ragazza, prenda con sé non solo il padre, ma anche la madre. Questa figlia (in genere avviene così per tutte le anoressiche) respingeva oltre il padre anche la madre, non voleva il loro “nutrimento”. Ma Gesù la chiamerà per quella che è: “Talità, ragazza, donna. Non sei più bambina, cresci, divieni, fiorisci; hai dodici anni”.
Altre parole che sentiamo spesso: “Godetevi i figli finché sono piccoli, perché poi, da grandi, sono solo problemi”. Per forza: da piccoli ce li godiamo perché fanno come diciamo noi, ci obbediscono! Ma poi crescono e vogliono dire la loro e vogliono fare le loro scelte, le loro esperienze. Allora non li controlliamo più, allora ci sfuggono. E a questo punto emerge nella sua autenticità il nostro stile educativo: quello oppressivo, tirannico che dice: “Finora mi ha sempre obbedito, e gli è andata bene; adesso vuol fare di testa sua? che si arrangi!”; un comportamento deleterio e diseducativo che fa crescere nei figli dipendenza e paura, sottomissione e ribellione. L’altro stile invece, quello del colloquio e della condivisione, dice: “Ora sei grande, possiamo finalmente discutere; parliamone, confrontiamoci!”; uno stile che fa crescere nei figli fiducia e amore. Ovviamente, fratelli, ciò è possibile solo se noi stessi siamo genitori maturi e adulti. Quanti padri, invece, quando la figlia arriva all’adolescenza la rinnegano. Fino a quel momento era la “loro bambina”; ma improvvisamente la “loro” bambina preferisce i ragazzi suoi coetanei, si scontra con il padre, rifiuta quello che prima accettava, non vuole più il “bacetto” della buona notte. Se prima il padre era il suo mito adesso non lo è più. Se prima la madre era la sua confidente, ora è un’antagonista. Allora i genitori, che in qualche modo si sentono rifiutati, adottano generalmente due comportamenti, entrambi negativi: o la lasciano sola, disinteressandosi completamente di quello che lei fa e di come lo fa, oppure non accettano che diventi grande: diventano succubi delle loro paure, delle loro difficoltà di adattarsi alla nuova situazione: non è più soltanto “nostra” figlia; sta diventando una donna, appartiene al mondo! La ragazza del Vangelo vuole crescere, vuole diventare donna, adulta, grande, autonoma. I suoi invece la stanno uccidendo, la stanno soffocando, non la vogliono lasciare, non sono preparati a perderla. Per questo non si regge sulle proprie gambe, non sta in piedi, non può confidare in se stessa, perché suo padre la soffoca: decide tutto lui (è il capo della sinagoga, lui sa!); la dirige, perché solo lui sa quali scelte sono buone per lei. È chiaro che questa figlia deve staccarsi da casa sua, deve tagliare il cordone ombelicale per poter crescere. È chiaro che per lei è difficile, perché ama suo padre. Vuole andarsene ma non vorrebbe procurargli troppo dolore.
Abbiamo mai pensato, fratelli miei, quanto sia difficile per i nostri adolescenti dirci di no, mettersi contro di noi, opporsi a noi? Ci vogliono bene, non vogliono deluderci, sentono di aver bisogno di noi. E se noi ci intromettiamo prepotentemente in tutto, potrebbero anche non affrancarsi mai. È chiaro allora che la figlia ha tutti i buoni motivi per mettere da parte suo padre, altrimenti non arriverà mai a realizzare la sua autonomia, non potrà mai trovare nessun altro uomo, né potrà vivere la sua vita. Ma è ancor più chiaro che Giairo deve lasciarla andare. Per lui, lasciarla andare, è come vederla morire. E sua figlia, come avviene nel vangelo, effettivamente muore. Giairo ricorre a Gesù: ma sua figlia potrà guarire, potrà rivivere, solo a condizione che lui accetti il fatto che sua figlia non è più una bambina ma una donna: e lo riconosce, inginocchiandosi davanti a Gesù; riconosce, cioè, di essere lui, in prima persona, il maggior responsabile della malattia della figlia, di essere lui la vera causa di questo disagio; e gli chiede aiuto. Ma Gesù non fa sconti a Giairo; la guarigione arriva soltanto dopo che la figlia è morta. Egli deve prima “distaccarsi” da sua figlia. Questo deve avvenire e avverrà. Giairo deve accettare questa “morte” dentro di sé. Persa la figlia, la bambina, deve accettare la donna, una donna che cammina con le sue gambe, che “è passata” ad un altro stile di vita. Amare è far diventare grandi, adulti, indipendenti, autonomi. Amarsi è diventare grandi, adulti, autonomi, responsabili della propria vita senza delegarla più a nessuno.
L’altra donna del vangelo, invece, è già adulta, ed è gravemente ammalata: soffre cioè di continue e dolorose perdite di sangue. Questa donna ha dei seri problemi con la sessualità, con la sua femminilità. La stessa religione ebraica le impedisce di guarire: lei impura non può toccare nessuna persona, tanto meno un maestro come Gesù: renderebbe impuro anche lui. È una donna che vive isolata perché rende impuro qualunque cosa o persona le capiti di toccare.
C’è una religione che guarisce e c’è una religione che invece ammala. Per esempio tutto ciò che era sessualità, fino a qualche tempo fa, era peccato. La donna dopo il parto poteva entrare in chiesa soltanto dopo quaranta giorni; avere rapporti sessuali prima del matrimonio era peccato gravissimo e se la donna rimaneva incinta, e non era sposata, il matrimonio riparatore doveva essere celebrato alle cinque o alle sei di mattina; se si guardava con ammirazione una donna era peccato; se si pensava intensamente ad una donna era peccato; qualche confessore si preoccupava soprattutto di “quei peccati”, tutto il resto era secondario. Parlare di sessualità era tabù; se uno aveva un qualsiasi problema sessuale doveva gestirselo da solo. La sessualità non era un piacere ma un dovere (coniugale) e l’unico scopo per viverla era fare figli. Una religione con tali convinzioni ha sicuramente contribuito a iniettare terribili sensi di colpa nelle coscienze di tanti fedeli. E le donne subivano! Certo non era così dappertutto e per tutti, ma quasi!
Oggi, come fede, come chiesa, dobbiamo avere il coraggio di parlarne apertamente, non soltanto per stabilire se la sessualità va praticata prima o dopo il matrimonio. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la sessualità è la forza, l’energia più forte che come uomini, come donne, possediamo. Un’energia dirompente, intensa, passionale, esplosiva; un’energia che fa paura, e proprio per questo, deve essere gestita bene. È energia di vita. Dobbiamo capire cosa accade, cosa c’è in gioco, dobbiamo entrare in quest’argomento così vitale per l’uomo e per le donne: è nella relazione sessuale che nasce la vita: ora, se non c’è Dio qui, in quale altro posto c’è? Nella sessualità noi sperimentiamo infatti la forza creatrice di Dio, l’intensità e l’unione più grande di un rapporto; nella sessualità si innescano le paure più grandi: di essere dominati, rifiutati, traditi, di non lasciarsi andare, di non essere all’altezza, di essere vulnerabili; emergono la nostra aggressività, le nostre ossessioni e perversioni: ebbene, se non c’è bisogno di Dio, di guarigione, di comunicazione, di aprirsi qui, dove mai? Nella sessualità si vivono le unioni più profonde e le divisioni più grandi: per questo c’è bisogno di confronto, di relazione umana ed evangelica, di potersi esprimere, comprendere, donare.
L’oscurantismo e la paura di una volta erano sicuramente riflesso della paura della sessualità. Una paura, però, che ha portato per reazione all’attuale esaltazione insensata e delirante della sessualità: dal nulla, oggi navighiamo impunemente nel troppo!
A ben vedere, la donna del vangelo che soffre di emorragie è dissanguata non solo perché perde sangue ma perché ha perso tutti i suoi averi nella ricerca della guarigione. È una donna umile, una donna che dà, una che fa un sacco di cose per gli altri, che si “fa in quattro per gli altri”.
Il sangue è la forza vitale dell’uomo: senza sangue si muore! Il suo sangue è la sua affettività, i suoi sentimenti, che offre a tutti; ma dai quali non riceve niente. Il suo sangue versato è il simbolo di tutto quello che lei spende, dà, versa agli altri, ma che non crea e non fa nascere nulla. Questa donna ha dato la sua vitalità a tante persone ma non è felice, anzi è ammalata, triste, insoddisfatta e sola. E ciò perché ha sempre dato per ricevere. Dà per avere amore, per avere attenzioni, per essere riconosciuta, per “guarire”. Dà molto, ma lo fa per ricevere anche molto.
Ci sono due modi di dare: c’è chi dà perché è pieno di amore e c’è chi dà per ricevere qualcosa in cambio. Chi dà perché è ricolmo d’amore, lo fa con passione, con un entusiasmo che nasce dalla ricchezza del suo cuore. Non chiede niente, quindi non ha pretese, non colpevolizza gli altri se non fanno altrettanto e non fa la vittima se gli altri non lo ricambiano. Lui dà perché si sente sovrabbondante. Chi dà per ricevere, invece, ha bisogno di affetto, di attenzioni, di riconoscimento. E siccome non è in grado di chiedere, fa qualunque cosa, si distrugge, “si disfa”, pur di avere un ritorno. Siccome il suo cuore è vuoto, egli deve in ogni caso ricevere; ma non è mai pago: gli altri non lo fanno mai bene, non basta mai, non fanno come vuole lui, ha sempre da ridire.
Ciò che colpisce comunque di questa donna è il suo coraggio: infrange le regole e fa ciò che non si poteva fare: tocca Gesù. Ciò che fa è sfrontato, ardito, pericoloso; è una donna che vuole vivere ad ogni costo. Ciò che colpisce è la sua convinzione di poter guarire, il suo non adattarsi alla sua attuale condizione. Gesù le dirà alla fine: “La tua fede ti ha salvato”. Cioè: “è per questo coraggio, per questo credere al di là di tutte le tue sconfitte e le tue delusioni, che tu sei guarita. Tu hai dato fiducia alla vita che c’era in te, e non alle regole che invece la bloccavano; ecco, sei guarita”.
Questo è Gesù, fratelli. Gesù le dà esattamente ciò di cui ha bisogno: una forza che da lui passa a lei. Finalmente, forse per la prima volta, questa donna trova accoglienza, trova qualcuno da cui ricevere, qualcuno che non le chiede più soltanto di dare ma dal quale può finalmente ricevere amore e riconoscimento. Ma ad una condizione: Gesù chiede: “Chi mi ha toccato?”. Chiede cioè di uscire allo scoperto, di legittimare il suo bisogno di amore, i suoi impulsi e i suoi desideri. Ella deve venir fuori davanti a tutti e affrontare il giudizio della gente. Se prima gli si è avvicinata da dietro, di nascosto, adesso deve farlo davanti e davanti a tutti. Solo in questo modo la vita torna a circolare dentro di lei, e possiamo esserne sicuri, anche fuori di lei.
Ebbene fratelli, noi siamo vita: la vita vuole circolare liberamente in noi. La vita vuole uscire ed esprimersi da noi. Mettiamo allora in circolazione la vita che abbiamo dentro. Siamo vita che vuol vivere. Sì, fratelli: noi abbiamo bisogno di amare; abbiamo bisogno di dire a qualcuno: “Ti amo, ti voglio bene, sei importante per me”. Noi abbiamo bisogno di essere amati, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica: “Ti amo, ti voglio bene, sei luce per i miei occhi”. Noi abbiamo bisogno di affetto: abbiamo bisogno di accarezzare e di essere accarezzati, abbiamo bisogno che l’amore che vive in noi esca attraverso le nostre mani, il nostro corpo, i nostri gesti, le nostre parole. Noi esistiamo e abbiamo bisogno di esprimerci. Abbiamo bisogno di sentire che ci siamo, che possiamo esprimerci, che possiamo scegliere, che possiamo plasmare la nostra vita. Abbiamo dentro di noi sentimenti ed emozioni che non possiamo lasciar languire. Tutto in noi è vita. Vita è il nostro pianto: abbiamo bisogno che le lacrime solchino il nostro volto perché in certi giorni soffriamo. Vita è la nostra rabbia: abbiamo bisogno che la rabbia, il nostro “no” a ciò che non ci va bene, esca fuori. Vita è lo stupore che portiamo dentro: abbiamo bisogno di fermarci e di congiungere le mani quando l’invisibile si fa visibile, quando la bellezza si dipana davanti ai nostri occhi, quando la tenerezza tocca il nostro cuore. Vita è la felicità che abbiamo dentro: abbiamo bisogno di cantare, di danzare, di ballare, di ridere e di sorridere. Vita è creare: abbiamo bisogno di fare di noi qualcosa di utile, abbiamo bisogno che la nostra vita produca altra vita. Vita è chiedere aiuto: abbiamo bisogno di sentire la presenza, la vicinanza, l’accompagnamento e l’amore di qualcuno per noi. La vita ci abita ma non può vivere se non la esprimiamo. Dobbiamo avere, come questa donna del vangelo, la forza di legittimarci, di tirare fuori tutta la vita che c’è dentro di noi e che vuol vivere. La vita per sua natura vuol espandersi, uscire, nascere. Bloccarla, è morire.
Fede è far vivere la vita che c’è in noi. Peccato, è seppellire e lasciar morire la vitalità che Dio ha messo in noi. La qualità essenziale della vita è la “vitalità”. Senza vitalità siamo come un mare senz’acqua o un campo senza terra. Senza vitalità siamo come un ramo secco attaccato all’albero: si aspetta soltanto che cada. Vitalità è amare sempre, con perseveranza, ad ogni costo, oltre ogni avversità. A volte pensiamo che i grandi amori siano come gli alberi secolari, destinati a sfidare qualunque tempesta, e soprattutto a lottare contro il tempo, senza mai venir meno, senza mai morire. Invece non è così, fratelli; anche un grande albero può perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. I grandi amori, come gli alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un po’ d’acqua in meno. Muoiono se li facciamo morire dentro. Pensiamo che vivano anche senza linfa vitale. Ma non è possibile. Due vecchietti sposati da tempo immemorabile sono seduti in stazione e aspettano il treno. Sulla panchina di fronte, siedono due giovani innamorati. I due anziani osservano la giovane coppia in silenzio. La ragazza abbraccia il ragazzo con tenerezza e lo bacia teneramente. L’uomo anziano, con gli occhi che brillano, sfiora la moglie con la mano e le sussurra: “Potresti farlo anche tu!”. L’anziana donna lo guarda sdegnato: “Ma se non lo conosco neppure!”. Non le era neppure sfiorato il pensiero che lui parlasse di loro due e non della giovane coppia. Ecco, questo è arrivare a non vivere fino in fondo la vita; questo è rimanere senza linfa e far morire la vita dentro. Amen.
 

giovedì 21 giugno 2012

24 Giugno 2012 – Natività di San Giovanni Battista

«Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei» (Lc 1,57-66.80).
Il calendario liturgico, quest'anno, ci propone una delle feste più significative della cristianità: la nascita del Battista. Giovanni è una figura straordinaria all'interno della fede: Gesù stesso lo indica come il più grande uomo mai vissuto, “il più grande tra i nati di donna” (Mt 11,11) ed è l'unico santo di cui ricordiamo sia la nascita (24 giugno) che la morte (29 agosto).
È definito “profeta”: una figura speciale, uno cioè che in forza del suo nome indica un'azione di Dio, il “chinarsi” di Dio, l'irradiarsi di Dio sul suo popolo. I profeti non predicono il futuro (quelli sono gli indovini!), ma sono amici di Dio che, animati dallo Spirito Santo, indicano al popolo l'interpretazione degli eventi, ammoniscono, scuotono, a volte con metodi piuttosto inusuali e rudi. E fra questi profeti spicca appunto, come un gigante, Giovanni Battista. Un austero asceta del deserto, tagliente predicatore, profeta disposto a morire pur di mantenere fede alla sua missione di verità. Un Giovanni che prepara e dispone il popolo all'accoglienza del Messia ma che, teneramente, resta anche lui spiazzato dall'originalità di questo Messia. Come biasimarlo?
Impregnato completamente di Antico testamento, egli invita il popolo alla conversione predicando la venuta di un Messia giusto giudice, portatore di vendette e punizioni; al contrario, di fronte al comportamento del Messia Gesù, ispirato ad una inaudita tenerezza, ad un amore senza limiti, rimane inizialmente spiazzato, per venire poi ammaliato e completamente assorbito dalla disarmante novità introdotta da Gesù.
Uomo e profeta straordinario. Ma per capire la sua straordinarietà, abbiamo bisogno di silenzio: lo stesso silenzio di Zaccaria che riflette sulla vera natura di questo suo figlio, “inviato” da Dio ad Israele come un dono speciale. Un “inviato”, peraltro, che ha molto da dire anche a noi, sia come uomo che come testimone di Cristo.
Sappiamo dalla Bibbia che Dio “segna” fin dalla nascita, con speciali interventi, quelli che lui sceglie per sé, i grandi re, i suoi rappresentanti, i condottieri, i profeti.
È questo il caso del Battista: figlio di una donna sterile, resa feconda per dono di Dio, la sua nascita è accompagnata da strane circostanze: singolare e sorprendente è la determinazione dei genitori di imporgli proprio quel determinato nome, “Giovanni è il suo nome”; un nome che non rientra assolutamente nella tradizione familiare, come invece era d’obbligo in quei tempi; come pure singolari sono i salti gi gioia, pieno di Spirito santo, che il bimbo compie nel grembo materno allorquando Maria fa visita alla cugina Elisabetta; e, una volta nato, “tutti furono meravigliati” per l’improvviso riacquisto della parola da parte del padre Zaccaria, tanto da farli esclamare: “Chi sarà mai questo bambino?”. È quindi evidente che Dio ha scelto e preparato il suo uomo: “Davvero la mano del Signore stava con lui”.
È naturale quindi che la sua austera e severa preparazione per poter continuare la missione di Elia, per diventare come Lui un grande profeta, anzi per diventare il più grande dei profeti, avvenga nel deserto: si tratta infatti della stessa preparazione e dello stesso luogo scelto da Dio per educare il popolo di Israele. La missione del Battista costituisce infatti lo sbocco naturale di quella tensione messianica presente in tutto l'Antico Testamento, quella tensione verso l'evento straordinario, atteso da millenni, del Gesù di Nazaret, il Cristo Messia.
E proprio Gesù fa di lui un elogio molto grande: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? E allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re. Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te”» (Lc 7,24-27).
Giovanni è un uomo coerente, irremovibile nei suoi principi, integro fino al martirio, di una intransigenza morale che riassumeva tutta l'anima veterotestamentaria. La sua predicazione e il battesimo che lui dava al Giordano “per il perdono dei peccati” (Lc 3,3), segnano il passaggio definitivo da una realtà ad un’altra completamente nuova, il superamento della linea di demarcazione tra l’antica Legge e i Profeti e il Regno di Dio rappresentato da Cristo; Giovanni è il traghettatore dell’uomo verso questa novità cristiana, ben superiore all'antica Legge. Una novità così sconvolgente che riuscirà a disorientare la sua stessa fede messianica, per la quale a questo punto ha bisogno di esplicite rassicurazioni: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3) manderà infatti a chiedere a Gesù. Egli ha bisogno di conferme, anche se è consapevole di dipendere completamente da Gesù, di essere il testimone umile e preciso della Sua divinità e in particolare della Sua specifica missione di salvatore: «Io non sono ciò che voi pensate che io sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali” (Mc 1,1-13). E ancora: “Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele” (Gv 1,30-31). Si sentiva non lo sposo, ma l'amico dello sposo, colui che aveva solo la funzione di presentarlo: “Non sono io il Cristo, ma sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,20-30). E lo indicherà non soltanto come Messia, ma anche come Figlio di Dio, l’agnello sacrificale che si offre spontaneamente per la salvezza di tutti: “Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).
In sostanza, dunque, Giovanni è uno che, venuto dal Primo Testamento, si è inoltrato nel Nuovo diventando pienamente discepolo di Gesù, suo primo testimone e missionario.
E questa, fratelli, è esattamente la strada che Giovanni ci indica per essere anche noi dei veri testimoni di Cristo: fare prima di tutto una seria esperienza personale di Gesù, indicarlo agli altri come unico Maestro, e quindi metterci da parte, perché sia solo Lui a crescere nel cuore di quanti gli abbiamo condotto. La sua testimonianza fino al martirio, ci svela inoltre la sua libertà interiore, di uomo senza compromessi, che consiste in quella rettitudine del cuore (“puri di cuore”) che fa di un uomo un docile strumento di Dio.
Questo è Giovanni. E noi, fratelli miei, dobbiamo essere come lui; noi, i nuovi Giovanni, diventati figli di Dio per mezzo del Battesimo - non voluto da noi, ma voluto dall'Alto - siamo infatti chiamati come lui a tener fede alle Sue parole, impegnandoci a vivere veramente da suoi figli, da risorti, da obbedienti alla volontà del Padre. E lo siamo soprattutto quando non ci teniamo aggrappati ai nostri privilegi, quando siamo obbedienti alla volontà di Dio, quando ci veniamo incontro l'un l'altro, quando non ci scoraggiamo se gli altri non valutano positivamente quanto facciamo.
Ecco, fratelli, in questo modo anche noi saremo altrettanti profeti; saremo come le migliaia di nuovi profeti che vivono nella Chiesa di oggi: sì perché i profeti, quelli veri, esistono ancora, sono veramente presenti in mezzo a noi; sono tutti quegli uomini e donne che vivono il Vangelo con semplicità e fedeltà, diventando motivo di conversione per gli altri. Non sono persone straordinarie, non fanno miracoli; sono semplicemente persone che vivono il Vangelo con amore, con tenacia, con convinzione: sono coniugi che aprono il loro cuore e la loro casa per alleviare le sofferenze di tanti bimbi feriti gravemente nell'anima; sono giovani che si impegnano ad educare alla vita i loro coetanei, e che spendono il loro tempo libero nel volontariato o nella “caritas”; sono quei preti che non si negano mai, per nessun motivo, a quanti cercano e bussano alla loro porta; sono quelle sorelle consacrate che consumano giorni e salute per dare speranza ai disperati, conforto ai malati, luce ai moribondi… Siamo circondati da questi silenziosi testimoni di Dio; viviamo tra migliaia di questi profeti che danno testimonianza al Signore, anche senza vestire con peli di cammello! Ringraziamo Dio, fratelli, per i tanti profeti che ancora incrociamo giorno per giorno, che ci spronano ad imitarli, che ci invitano a leggere il presente alla luce della fede.
Purtroppo la società contemporanea è immersa nel pessimismo; anche nella Chiesa prevale una logica mondana piccina e rissosa. Ma non deve essere così: la figura del Battista, e dei tanti che cercano di vivere la sua stessa esperienza, ci deve aiutare a cogliere i segnali di luce che, nonostante tutto, ci raggiungono nella quotidianità.
Riconoscere e accogliere questi profeti significa allora scrutare, interrogarsi, non dare per scontata e acquisita la vita di fede e la fedeltà al Vangelo. Tempi nuovi richiedono modi nuovi di vivere e di annunciare il Vangelo.
Ecco, fratelli miei; così devono essere le nostre comunità cristiane: comunità di profeti, chiamati a leggere il presente alla luce del Vangelo, per dare speranza a questo nostro mondo tanto inquieto. È urgente e vitale che noi, Chiesa, ci riappropriamo di questo ruolo profetico; anche se si tratta di una scelta scomoda. Guai a noi, fratelli, se pensiamo di appartenere ad una Chiesa che è dalla parte dei potenti, dei ricchi, dei più forti! Noi, come Giovanni, non siamo chiamati per blandirli; la nostra missione è invece di vivere e di promuovere la conversione dei cuori; di far accogliere il Dio che viene continuamente tra noi; di denunciare il sopruso e l'ingiustizia sia dentro che fuori della Chiesa, con mitezza e senza “personalismi”, ma con estrema determinazione. Ciascuno di noi deve essere quindi un “segno” luminoso nell’ambiente in cui vive; deve essere, il più possibile, la vera trasparenza di Dio. Amen.
 

giovedì 14 giugno 2012

17 Giugno 2012 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-34).
Leggiamolo attentamente il vangelo di oggi, fratelli: soprattutto noi che siamo convinti di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della Chiesa, quelli che hanno sempre un soluzione migliore per ogni cosa, quelli che, se dessero retta a noi, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli: non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super dedizione che concorrono a fare grande il Regno di Dio. Il Regno, ci dice oggi il vangelo, è come il seme: ha solo bisogno di essere piantato alla giusta profondità per germogliare e dare frutto; non ha certo bisogno dell’assistenza o della consulenza del seminatore! Il comportamento del contadino ci suggerisce al contrario una verità importante: che seminare è sempre doloroso; prima di tutto perché significa donare un qualcosa che ci appartiene, che abbiamo acquistato con fatica e sacrificio, e da cui dobbiamo separarci: «nell'andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare…» (Sal 125). Seminare è quindi impegnativo, è gravoso; ma soprattutto è una scommessa, poiché è un lavoro che mette in discussione le nostre sicurezze.
Nei confronti della nostra semina, dobbiamo pertanto tener presente tre cose. La prima è che il seme cresce spontaneamente; il suo processo di sviluppo è automatico, sfugge all'azione del seminatore, tant’è che avviene anche quando lui dorme, anche quando lui è assente. La seconda è che questo sviluppo spontaneo risponde alle caratteristiche naturali del seme, alle sue proprietà, che lo stesso Creatore gli ha predisposto. La terza è che il risultato finale deve essere sempre un frutto di gran lunga più abbondante e più nutriente del seme originario.
Ebbene, fratelli: sono questi gli insegnamenti che dobbiamo fare nostri nel lavoro di semina.
Noi oggi viviamo in un’epoca in cui i simboli sacri hanno perso completamente la loro importanza; gli insegnamenti religiosi sono ampiamente ignorati e contestati; siamo in un'epoca che possiamo definire post cristiana, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua Parola sono stati banditi dalla società. Questo però è il nostro terreno, questo è il terreno in cui dobbiamo seminare il Regno di Dio: un terreno certamente inospitale, arido, una pietraia. Ma ciò non deve scoraggiarci; non deve smorzare il nostro impegno di cristiani; anzi ciò deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non si tratta di essere dei “superman”, degli spaccamontagne, dei faccio tutto io, come siamo inclini a pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”, dei fedeli annunciatori della Parola: perché questo deve essere il nostro metodo di “seminatori”, qualunque sia il terreno su cui siamo mandati a seminare. Con umiltà e costanza. Dobbiamo farlo con lo stile di Dio. Sia Ezechiele che il Vangelo sottolineano oggi che lo stile di Dio è fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia; uno stile che rispecchia in qualche modo quello del contadino: egli non può modificare i tempi delle stagioni di questo mondo, e quindi aspetta paziente e fiducioso la stagione del suo raccolto; noi dobbiamo fare altrettanto, dobbiamo anche noi aspettare pazientemente che i frutti del nostro lavoro giungano a compimento, dobbiamo aspettare con fede l'ora della carità di Dio, quella carità assoluta che ha la sua radice nella nostra speranza.
Questo, fratelli, ci insegna oggi il Vangelo. Un vangelo in cui l'ottimismo di Gesù è evidente. Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle idee e sa che quelle racchiuse nella Parola di Dio hanno una potenza divina che supera tutte le altre: egli sa per certo che la parola uscita dalla bocca di Dio non tornerà mai senza effetto, senza aver operato ciò che egli desidera e senza aver compiuto ciò per cui egli l'ha mandata (cfr Is 55,11). Lavorare con una tale semente ci deve solo che tranquillizzare; perché essa, la Parola, produca frutto, dobbiamo soltanto seminarla; dobbiamo cioè annunciarla, dobbiamo fare la nostra evangelizzazione: tutto il resto viene da sé; non dipende da noi; dipende da Dio e da chi accoglie la Sua Parola; il nostro non è un lavoro individualistico, è un lavoro da équipe, collettivo, a più mani, diretto e coordinato però da un'unica mano, magistrale e risolutiva, che controlla e soprassiede a tutto; come dice giustamente Paolo alla comunità cristiana di Corinto: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6).
Non è quindi l'azione dell'uomo che produce il Regno, ma è la potenza stessa di Dio, nascosta nel seme della sua Parola. In quest'ottica, tutte le nostre ansie, tutte le nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, ma sono dannose. Sono inquietudini che non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
L'efficacia del vangelo è su un altro piano, è all'opposto dell'efficienza mondana. Il regno di Dio è di Dio. Quindi non è l'uomo che può farlo, ingrandirlo o addirittura impedirlo. Semmai, con il suo comportamento dissennato, a volte può soltanto ritardarlo un po', come succede con una instabile barriera di fango e rifiuti che contrasta il corso impetuoso dell'acqua del fiume.
Gesù dunque ha seminato in ciascuno di noi la sua Parola, e ci ha incaricati di gettare anche noi questo suo seme: è Lui stesso, infatti, il seme di Dio che dobbiamo spargere nel terreno della storia. E aspettare con la paziente fiducia di chi sa attendere.
Gesù ha detto: «Il regno di Dio è vicino» (Mc 1,5); ma quanto vicino?  Non ne abbiamo la percezione; apparentemente nulla è cambiato da allora: la gente ha continuato a vivere, a soffrire e a morire. Di nuovo c'è stato semplicemente un uomo che predicava in un luogo poco importante dell'impero e i suoi ascoltatori erano malati, analfabeti, squattrinati: quelli che non contavano niente. Tanto che ancora oggi ci chiediamo: è tutto qui il regno di Dio? Sì, fratelli, è tutto qui! Grande come un granello di senapa. Proprio perché Dio è grande non ha paura di farsi piccolo; proprio perché il suo regno è potente, può fare a meno di ogni apparato esterno grandioso: non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi.
Non gli servono eserciti; nonostante Il mondo lo combatta con tutti i mezzi; nonostante opponga al Suo Regno le sue attraenti seduzioni: il denaro, il possesso, il piacere; nonostante esibisca tutte le sue forze destinate a incutere timore: la persecuzione, le tribolazioni, la morte violenta... Ecco perché le parabole ci dicono che il Regno viene attraverso lotte e opposizioni. E che, nonostante gli ostacoli, esso avrà la meglio. Ma gli ostacoli a volte sono posti non tanto dalla malvagità dei cattivi, ma proprio dalla stupidità dei buoni; la più grande alleata del nemico è proprio la nostra ignoranza spirituale; è il nostro assecondare il diavolo, che ci mette volentieri a disposizione quei mezzi che il Signore scartò come tentazioni: il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza.
Soltanto Gesù, fratelli miei, è la grandezza di Dio: Gesù che per noi si è fatto “piccolo” fino alla morte di croce; e grazie a questo “annientamento” è diventato il grande albero sotto l'ombra del quale tutti possono trovare accoglienza. E noi, i discepoli, dobbiamo rispecchiare esattamente questo Suo spirito di piccolezza e di servizio; perché solo così riusciremo a vincere il male del mondo, con il suo imperativo di grandezza e di potere. Al contrario chi ama veramente si fa piccolo per lasciare posto all'altro; il suo io scompare per diventare pura accoglienza dell'altro.
«Annunciava loro la parola secondo quello che potevano intendere».
Ecco, fratelli, questo è un altro insegnamento del vangelo di oggi; è un tratto importante della pedagogia di Gesù: carità, comprensione, progressività, adattamento ai fratelli e ai loro ritmi di crescita. Ecco perché, a imitazione di Gesù, dobbiamo incarnarci, immedesimarci nelle situazioni personali dei più deboli, di chi non capisce o di chi non riesce a convertirsi in fretta, o di chi non riesce a reggersi con i suoi piedi, ricordandoci che un tempo eravamo anche noi nelle loro stesse condizioni; e forse lo siamo ancora.
Dobbiamo comportarci come Gesù ci ha insegnato. Misericordioso e compassionevole, Egli vuole la conversione di tutti: Egli si rivolge a tutti, buoni e cattivi, disposti e indisposti, preparati e impreparati, perché vuole che tutti, indistintamente, siano salvati. E soprattutto dobbiamo ricordarci che il Regno di Dio non è un nostro prodotto, non è il risultato di un nostro sforzo titanico; è un dono Suo. Un dono sottratto alle logiche di efficienza e di visibilità che spesso condizionano la nostra spolmonante frenesia.
Ebbene, fratelli, noi discepoli di ogni tempo, che viviamo nel dubbio e nella paura che il seme della Parola faccia cilecca, e che il Regno di Dio diventi soltanto un promettente miraggio nel deserto della crisi attuale, noi discepoli dunque, siamo invitati seriamente a rinforzare, a irrobustire la nostra fede, la nostra fiducia, la nostra umiltà. Dobbiamo essere certi che il seme di Dio, una volta che lo abbiamo seminato, porterà comunque il suo frutto. Senza di noi. Non ci sono dubbi. Amen.

giovedì 7 giugno 2012

10 Giugno 2012 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo

«Prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti”»( Mc 14,12-16.22-26).
Oggi celebriamo la festa del “Corpo e del Sangue” del Signore: una festa nata a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, piccolo centro non lontano da Roma. Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino; durante una messa, al momento dello “spezzare il pane”, dalla piccola ostia zampilla del sangue, che macchia vistosamente il corporale steso sull’altare; ancora oggi quella tovaglietta macchiata è esposta alla venerazione dei fedeli nel Duomo di Orvieto. L’autenticità del miracolo è immediatamente confermata da due eminenti teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, inviati sul luogo dal Papa, insieme al vescovo di Orvieto, per le verifiche del caso. Dal 1264 questa festa è estesa a tutta la chiesa.
Originariamente però, già nel primo millennio, con il nome “Corpo del Signore” non si intendeva l’eucarestia, ma l’assemblea che si riuniva per celebrarla, ossia gli uomini e le donne che costituivano la nascente Chiesa (tant’è che ancora oggi ricordiamo questa antichissima tradizione mediante l’incensazione durante la messa: si incensa infatti Dio rappresentato oltre che dall’altare, dal Vangelo, dal Pane consacrato, anche dall’assemblea dei fedeli). Erano pertanto le persone il “verum corpus Christi”; l’eucarestia era il “corpus mysticum”. Poi, nei secoli, le cose si sono invertite.
Ora, amare un pezzo di pane può essere anche facile; credere che in questo pane ci sia Dio, anche se più impegnativo, non è che ci stravolga concretamente la vita. Ma, fratelli miei, amare le persone che ci stanno intorno, vedendo in esse Dio, beh questa è tutta un’altra cosa. Vedere e credere, che anche in “certi” volti, in certi personaggi, spesso antipatici e insopportabili, ci sia veramente Dio, è decisamente impegnativo, coinvolgente e sconcertante. Non lo sarà per i santi, ma sicuramente lo è per noi. Madre Teresa infatti era solita dire: “Mi è particolarmente difficile pensare che chi riesce a vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane, non riesca poi a vederlo nelle persone, negli uomini e nei volti del prossimo”. E un santo predicatore le faceva eco: “Non so se chi ama Dio ami anche l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama sicuramente Dio”.
Nel Vangelo di oggi Gesù in pratica ci dice: “non solo io vivo, ma voglio fare di questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo intero”. Ecco, fratelli, questo è il punto. Per cui, noi che ci professiamo discepoli, fratelli di Cristo, non solo viviamo, ma dobbiamo anche mettere questa nostra vita a servizio degli altri. Questa deve essere per noi una necessità, un bisogno imprescindibile della nostra esistenza. Altrimenti, che ci stiamo a fare in questo mondo? perché vivere? Se la nostra vita non serve a nessuno, se non è utile per qualcuno o per qualcosa, che significato ha vivere? A questo punto esserci o non esserci, è la stessa cosa.
Ricordo che per la mia Cresima, da ragazzo, mi regalarono un orologio: una volta era il massimo, era un oggetto da “grandi”; e la Cresima sanciva proprio l’ingresso del ragazzo tra i cristiani “adulti”. Era così bello, quell’orologio, che i miei genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. Non lo portai e cadde nel dimenticatoio. Quando anni dopo lo ritrovammo, non funzionava più. Ora, che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a niente. Ebbene, fratelli, molte vite sono proprio così: per paura di osare, di perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, sull’indecisione, sulla eccessiva prudenza, sul non esporsi più di tanto; vite che passano e non lasciano segno; vite che non servono a nessuno, che si trascinano in giornate tristi, vuote, buie.
Chi segue Cristo, invece, ha bisogno di sentire che la sua esistenza è dono, che lui è un servo utile, che è come il grano che si frantuma per diventare alimento per gli altri. Questo dobbiamo essere noi: pane e vino; dobbiamo infondere forza, dobbiamo placare la sete, dobbiamo offrire agli altri gusto, saggezza, sapore. Solo così, per noi e per il mondo, vivere avrà veramente un senso; solo così la nostra vita avrà dato i suoi frutti. Quante persone muoiono invece con il rimorso di non aver vissuto! Quanti si rendono conto troppo tardi che la loro vita non è mai stata “dono”; non sono serviti a nulla, sono stati inutili, completamente insignificanti per il mondo intero! È come se non avessero mai vissuto.
Gesù in pratica ci dice: “Io voglio che la mia vita sia un pane che vi nutre”. Vuole cioè che la sua vita ci offra sostentamento, ci dia forza e lucidità, ci faccia crescere, ci renda maturi.
Purtroppo la vita passa, fratelli miei. Non illudiamoci di rimanere qui per l’eternità, di vivere per sempre. Anche per noi arriverà il “nostro giorno”, lo sappiamo: allora non facciamoci trovare a mani vuote, offriamo con gioia i frutti del nostro amore: perché solo se saremo stati “vita che dà vita”, solo se nel nostro vivere quotidiano ci saremo “consumati”, non avremo motivo di temere, nulla potrà turbarci: allora potremo serenamente passare la mano. Chi vive in pieno, non teme di morire.
Facciamo allora, fratelli, il punto della situazione e chiediamoci seriamente: la nostra vita è “pane” che nutre qualcuno? È vino che disseta e corrobora? Oppure è soltanto un tempo che scorre inutilmente? C’è tanta gente che non si dà mai, che non si concede mai; se parliamo con loro non ci fanno mai vedere quello che hanno dentro, gente che ha troppa paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello. E si giustificano dicendo: “È troppo difficile”. Non riescono a donarsi. Per paura di perdersi, di sbagliare, non si danno, e non capiscono che è proprio facendo così che si perdono. Noi invece, con i nostri fratelli, con la nostra famiglia, con le nostre comunità con cui abitiamo, come la mettiamo? Ci siamo mai chiesto a che serve condividere una stessa casa, se poi neppure ci si parla? Che senso ha? Nessuno: perché se non c’è comunicazione tra noi, se le nostre anime non si incontrano, non si toccano, non si parlano, se i nostri occhi non si penetrano, noi “stiamo” insieme solo perché “facciamo” insieme tante cose; ma non possiamo certo dire che “siamo” insieme. Il dono più importante che possiamo fare agli altri non sono i nostri soldi, offrire le cose più belle e varie di questo mondo; il vero dono è donare ciò che siamo, ciò che abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda: la nostra anima, i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri slanci. Solo donandoci agli altri così, senza riserve, gli altri potranno averci, potranno conoscerci, potranno averci nel loro cuore e nella loro anima.
Gesù non ci ha lasciato nulla di questo mondo in eredità: non ricchezze, non una casa, non un libro, non una dottrina e neppure una regola. Gesù ci ha lasciato solo se stesso, attraverso un po’ di pane e di vino: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, è questo il grande mistero che la Chiesa oggi medita. Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un tramonto, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma, fratelli miei, l’autentica, la più grande mediazione, è quella di Cristo: Dio continua a darsi a noi in un rapporto di amicizia e di grazia, attraverso il pane della domenica, attraverso appunto il corpo di Gesù; e questo rapporto con Dio continua anche attraverso il “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora attraverso il corpo dei “nostri” fratelli, nei quali vediamo Cristo.
Possiamo definire il Cristianesimo la “religione del corpo”. Per secoli si è fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (e quindi il corpo, tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è spirito è invece elevato e sublime. Quindi umiliamo il più possibile la materia, perché solo così emergerà lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità, fino a qualche decennio fa, passava solo attraverso la completa rinuncia ad ogni piacere, di qualunque natura (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento, allegria). Così, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato: qualunque divertimento era demoniaco. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente sporco, diabolico, negativo, causa di perdizione.
Ma non è così, fratelli: il nostro corpo è abitazione di Dio, è tempio di Dio; il corpo dei nostri fratelli è Dio, esattamente come corpo di Dio è il “pane consacrato” della domenica che noi assumiamo. Dio è qui, in noi, nel nostro corpo. Lo Spirito di Dio, su questa terra, esiste solo attraverso un corpo: quello di Gesù, il nostro, quello dei fratelli, della Chiesa. Il corpo diventa così spirituale e lo Spirito diventa corporeo. Quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, anche il corpo sta bene. Tante nostre malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo infatti prendere tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a star bene; perché non è il nostro corpo ad essere ammalato, è il nostro spirito. Il corpo non è altro che la visualizzazione, il “monitor”, lo schermo del nostro spirito. Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio, perché il nostro corpo è a pieno titolo inabitazione dello Spirito.
Il corpo ha dunque bisogno della nostra anima, come l’anima ha bisogno del nostro corpo: se il nostro corpo ha bisogno di carezze e di contatto, è perché la nostra anima ha bisogno di amore, di essere riconosciuta e accarezzata. Se il nostro corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi è perché lo spirito esige concretezza: è lui che ha bisogno di contatti veri, profondi, perché lui vuole incontrarci là dove non abbiamo paura, dove gli altri non possono intromettersi, dove gli altri non possono sedurci (se-durre: attirare sé); là dove siamo veramente noi, dove nessuno può “cambiarci” in qualcos’altro. Se il nostro corpo ha bisogno di piacere, è perché il nostro spirito aspira a tutto ciò che è bello, buono e divino. Curare quindi il nostro corpo significa curare anche la nostra anima. Tenerlo in forma, significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la nostra anima è gravemente ammalata; ed ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”, ha bisogno di pause salutari per eliminare quella “sazietà mortale” che le impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”. È proprio vero, fratelli: il nostro corpo ha bisogno di silenzio, di meditazione, di solitarie occasioni di preghiera, per potersi integrare completamente nel Corpo di Dio; perché, come dicevo, il Cristianesimo è la religione del corpo.
Ogniqualvolta ci accostiamo alla Comunione, il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare in casa nostra; nonostante quel che siamo, nonostante tutto, Lui non si vergogna di noi, viene anzi per amarci, è felice di incontrarci, di diventare un tutt’uno con noi, di immedesimarsi in noi: Corpo nel corpo. Allora, fratelli miei, in quel prodigioso momento, alle parole “Corpo di Cristo”, e alla nostra conferma “Amen, Sì”, esprimiamo umilmente in cuor nostro: “Signore, questo è il “mio” di corpo…” e sentiremo Gesù che a sua volta ci dirà “Amen, Sì, lo so”. Capite? Noi diciamo “sì “ a Lui, e Lui risponde “sì” a noi; una accettazione totale. Un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci deve seriamente impegnare nella vita, sintonizzandoci sulle importanti parole di Paolo: «Voi che avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede…» (Col 2,6); pertanto «vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale» (Rom 12,1); poiché «se vivete secondo la carne, morirete; se invece uccidete con lo Spirito le azioni del corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» (Rom 8,13s)». Amen.
 

mercoledì 30 maggio 2012

3 Giugno 2012 – Santissima Trinità

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 16-20).
Oggi è la festa della Trinità. Una solennità in cui la Chiesa celebra un Dio che è comunione, amore, relazione, famiglia. Dio non è un’entità solitaria, ma una realtà dinamica, viva e “relazionale”. Sì, fratelli, Dio è “relazione”: Dio è amore e comunione. Relazione, amore, comunione, sono concetti che tutti conosciamo, che tutti sperimentiamo nella nostra vita. Nell’amore, infatti, ciò che conta è l’essere uniti, legati insieme dalla condivisione, essere all’unisono, senza per questo perdere la propria identità: è importante donarci senza perderci; è importante essere uniti senza annullarci, è importante rimanere divisi senza separarci. È da questi concetti che noi possiamo trarre un’idea di Dio Trinità, dell’amore trinitario: un Dio unito ma non uniforme; separato ma non diviso. La Trinità, prima di essere dogma, è quindi per noi esperienza: quella stessa esperienza che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono cioè che Dio è amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma contemporaneamente erano lo stesso Dio, erano la stessa esperienza. E per esprimere queste verità, utilizzarono l’immagine che tutti conosciamo: la famiglia. Sì, la famiglia è come Dio: è comunione, amore, relazione, un rapporto di stretta unione tra persone distinte… Ci sono tanti invece che dicono di sapere chi è Dio, ma non vogliono fare esperienza di Dio; e non capiscono che senza “provarlo” non arriveranno mai a capirlo. Non capiranno mai che Dio è relazione, amicizia, amore, incontro, comunione.
“La Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” scriveva Papa Benedetto XVI: una magistrale definizione che esprime appunto l’esistenza di una relazione fondante, di un dialogo d’amore intimo: in Dio c’è un Padre che ama il Figlio e che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito.
Questo fratelli è Dio-famiglia. Questa deve essere esattamente anche la nostra di famiglia: la vera forza della famiglia non sta tanto nel fatto che due persone stanno insieme, che convivono, quanto invece nella profonda e sacra relazione d’amore che si instaura tra loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è profondità e maggiore è lo scambio, l’apertura verso l’altro; più c’è amore (spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia. Ecco perché ogni vera relazione deve essere in qualche modo trinitaria, deve cioè essere composta da tre elementi: l’io, il tu e il noi.
Lio significa che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi con le mie gambe, che sono persona. Io sono io e non te. Io sono unico (unus) e non posso confondermi con te. Molti pensano che fare le stesse cose significhi unione: sì, può aiutare, ma non è questa l’unità di due entità distinte. Molti pensano che stando insieme, alla pari, arriverà anche l’intimità. Ma non funziona così. Molti credono che vivendo in due i problemi personali di ciascuno passeranno. Ma non è così. L’unione, l’intimità, l’affiatamento si raggiungono soltanto attraverso l’accettazione dell’altro come persona, nella sua singolarità. Molti pensano di raggiungere un rapporto ideale mediante una totale “fusione” con il partner, mediante l’annientamento della propria personalità, nel non poter più vivere senza di lui, nel dipendere totalmente da lui, nell’attendere da lui qualunque cosa, ogni attenzione. Ma è una fusione destinata a frantumarsi. Ogni rapporto è così come siamo noi. Se noi siamo entità mature, consapevoli, aperte, lo saranno altrettanto anche i nostri rapporti, altrimenti no.
Lo stesso vale per il secondo elemento, il tu: vuol dire che tu devi essere te stesso; che tu non sei me e io non sono te. Per cui nella famiglia non dobbiamo fare necessariamente le stesse identiche cose; non dobbiamo pensarla esattamente alla stesa maniera; non dobbiamo essere “fusi”; ma uniti; due entità distinte, con tutte le loro caratteristiche e peculiarità, ma unite. Le coppie che fanno rigorosamente sempre e tutto insieme, nascondono la paura dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma nel loro guscio c’è tanta paura. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione. Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Se tu non sei tu, non accetterai neppure che io sia io. Perché prima o poi mi vorrai cambiare; perché vorrai che io faccia ad ogni costo esattamente come te; perché non accetterai la mia diversità, poiché non accetti la tua. Ciò che trasforma il rapporto in vera unità, in vera unione, è invece il terzo elemento, il noi. La vera forza della famiglia sta proprio nella relazione reciproca; è il rapporto fra l’io e il tu, che forma il noi. Nient’altro. È quello che costruiamo insieme, tu ed io, la nostra “coesione”, la nostra unità. È quello che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente tra noi, non può esserci rapporto, è normale. Magari staremo anche insieme, ma solo per convenienza, per abitudine; forse anche per paura di iniziare a vivere veramente, preferendo piuttosto tirare avanti.
È il noi che dice quanto ci amiamo. È lo spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto: un rapporto vero, intenso, è infatti dato dalla capacità che due persone hanno di uscire individualmente da sé stesse (senza perdersi) per creare un noi, uno spazio in cui possono esprimersi e accogliersi.
La relazione è quindi l’elemento universale indispensabile per ogni rapporto, ne è lo stile. In questo senso l’amore deve essere relazionale: deve cioè dare e ricevere, altrimenti non è amore. Il parlarsi deve essere relazionale: altrimenti diventa monologo, autoritarismo, imposizione. Se non accetto le posizioni dell’altro, se non lo ascolto, se non cambio io stesso, non c’è relazione. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro, cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Senza la relazione, le persone sono solo oggetti. Anche l’educare deve essere relazionale; come pure il lavoro, il gioco, l’amicizia, la preghiera. Tutto deve essere improntato alla “relazione”, tutto deve corrispondere al nostro “stile” di vita: e vivere in uno stile relazionale vuol dire appunto vivere secondo il modello trinitario. E tanto basta; perché per noi cristiani è il massimo.
Proprio per questo, fratelli miei, dobbiamo lavorare sodo sul nostro relazionarci: è infatti la qualità delle nostre relazioni che ci qualifica come cristiani; sono le nostre relazioni che, ci piaccia o no, danno un valore e un senso alla nostra esistenza.
A volte ci lamentiamo e diciamo: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. È vero; ma dovremmo anche chiederci: “Ma io, in che maniera mi pongo?”. Perché se è vero che abbiamo il diritto di essere amati, è altrettanto vero che abbiamo il dovere di renderci amabili. Se gli altri ci rifiutano, spesso lo fanno perché hanno ottimi motivi per farlo. Se nessuno ci ama, per prima cosa dobbiamo verificare se non dipenda proprio da noi. Non meravigliamoci. Noi tutti sappiamo infatti che la bontà della nostra vita, la nostra maturità, la nostra serenità, l’amore, l’armonia, la preghiera, la fede, dipendono semplicemente dalla nostra capacità di intessere relazioni positive, sane, profonde e durature. E oggi, cari fratelli, la Trinità ci ricorda appunto questo: che tutto è “relazione”; che il Tutto è “relazione”; che Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sono in perenne “relazione”; e che pertanto anche noi, creature mortali, dobbiamo vivere sempre in “relazione”. È questo il nostro DNA trinitario. Amen.


giovedì 24 maggio 2012

27 Maggio 2012 – Solennità di Pentecoste

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 15,26-27; 16,12-15).
Con la Pentecoste il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni termina: si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, il tempo della Chiesa, dello Spirito.
Cos’è successo nel frattempo? Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro come un grembo materno, si sentono avvolti, protetti: lì si sentono al sicuro, nascosti. I cinquanta giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, sono stati per loro un tempo di forte crisi, di forte scelta, di ridiscussione della loro vita.
Poi scoppia questo terremoto: un uragano, uno scossone elettrizzante. Lo Spirito è sceso nei loro cuori, nelle loro menti. Ed ha letteralmente scombussolato la loro esistenza. I loro pensieri, le loro incertezze, la loro vita che prima andava in un senso, ora improvvisamente cambiano direzione. Da timorosi, dimessi e spaventati, diventano forti, intrepidi, battaglieri: diventano “altri”. Si sono lasciati “scombussolare” dallo Spirito: perché, fratelli miei, lo Spirito scombussola, e noi dobbiamo lasciarlo fare: perché mai, nessuno Spirito, potrà mai scendere in chi non accetta di lasciarsi scombussolare. Certo, non è una cosa da nulla; si tratta di prendere o lasciare; all’istante. Perché lo Spirito è impetuoso, distrugge all’istante le nostre sicurezze, i nostri progetti, i nostri rifugi mentali, i nidi della nostra tiepidezza.
Quando invochiamo lo Spirito, fratelli, ricordiamoci bene delle conseguenze: il nostro radicale cambiamento di punto in bianco non potrà più essere rimandato, non avremo più scuse, deve essere affrontato. Subito. Con generosità, senza calcoli o sconti.
Quanti cristiani invece pensano a vanvera dello Spirito: non sanno cosa significhi. Non sanno cosa comporti. Vogliono lo Spirito, ma non vogliono cambiare: stanno bene così come sono; ma non capiscono che così facendo rifiutano lo Spirito!
L’irruzione dello Spirito è accompagnato da una crisi. La parola greca “crisi” vuol dire separare, distinguere, dividere: la crisi è quindi un punto di svolta, di separazione, un momento in cui è necessario distinguere ciò che dobbiamo tenere e ciò che dobbiamo lasciare; riconoscere il nuovo e avere il coraggio di lasciare il vecchio. È pertanto impossibile crescere, evolvere, rinascere, sfuggendo le crisi. Tutte le nostre crisi; che sono tante: ci sono le crisi della vita: gli anni che corrono inesorabilmente; il passaggio dalla giovinezza all’età matura; i sessant’anni; la morte delle persone che amiamo; una persona amata che ci lascia, che si allontana da noi; le disavventure e le difficoltà economiche, la perdita del lavoro. Ci sono le crisi mentali e spirituali: la nostra fede non ci soddisfa più; abbiamo bisogno di maggiori certezze; le nostre sicurezze non ci servono più; le nostre convinzioni vengono scalzate. Ci sono le crisi affettive: il nostro modo di amare non va più bene, richiede nuovi impulsi, maggiore profondità; emergono paure, blocchi o cose che ignoravamo; ci accorgiamo di non essere poi così tanto liberi.
Ogni crisi è una sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci fa più forti, ci scuote.
La crisi è pertanto il momento della discesa dello Spirito, il momento in cui ci purifichiamo, in cui lasciamo spazio perché la Vita ci faccia più veri, più maturi, più liberi e più trasparenti; il momento in cui Dio ci modella e ci plasma, ci forgia e ci rende come Lui vuole: ecco perché chi evita la crisi, rimane infantile, involuto.
La festa di Pentecoste esprime dunque questa verità: Dio abita dentro di noi. Dio non è più presente fisicamente in mezzo a noi, ma è presente in noi con il suo Spirito.
Quando noi sentiamo questa affermazione pur registrandola con la mente e sapendola ripetere a memoria, in pratica rimaniamo interdetti: “Cosa vuol dire? Io non sento nulla! Cos’è questo Spirito?”. In effetti, se chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E se non sa risponderci, è perché non lo conosce, non l’ha mai sperimentato, non l’ha mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un di più, un qualcosa che si aggiunge a quello che già siamo. Per cui ne possono fare anche a meno. Stanno benone così come sono. Ma lo Spirito, fratelli, non è un’aggiunta, non è un qualcosa di appiccicaticcio; è qualcosa che noi già abbiamo, già siamo, senza saperlo né averlo mai saputo.
Lo Spirito non decide un bel giorno della nostra vita di scendere dentro di noi, ma abita già in noi (ricordate il “soffio di vita” della creazione?). Lo Spirito pertanto altro non è che il modo con cui Dio abita in noi. Essere dello Spirito, spirituali, non vuol dire pregare molto, o fare cose pie e religiose, frequentare la chiesa o andare in pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere dello Spirito, vivere dimostrando a tutti chi abbiamo dentro, chi è la nostra guida che ci abita dentro. È uno stile di vita.

I mistici cristiani (Eckhart) dicevano: “Tutte le creature sono orme di Dio... Dio ha creato tutte le cose; non che le abbia fatte divenire, e poi se ne sia andato per la sua strada, ma è rimasto in esse”. Eppure se noi guardiamo una persona, non vediamo Dio, vediamo solo una persona. Che cosa invece vedevano i santi? Madre Teresa è chiara. Un giorno disse ad un giornalista: “Vede, io Dio lo vedo chiaramente. È qui in questo uomo che soffre o in quello lì, in quel letto, abbandonato da tutti. Dio è in me, è in lei. Io lo vedo. Se lei non lo vede purtroppo non dipende da me, ma solo da lei. Per me lui è evidente!”. Che cosa vedeva questa donna? Che occhi aveva per vedere Dio presente in ogni creatura? Era una santa; e i Santi, si sa, quando guardavano le persone, non vedevano il corpo, la materialità, ma la luce, lo Spirito che abitava in esse.
Ora cosa c’entra questo con la festa di Pentecoste? C’entra, fratelli, eccome: perché lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Si tratta di andare oltre le apparenze. Gesù fu precisamente l’uomo del guardare oltre le apparenze, del guardare dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un paradiso lontano, ma è qui, oggi, adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la luce, lo Spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro? Come sono liberi!”. Gesù vedeva i fatti che accadevano e vi leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti, i poveracci, i bisognosi e mentre tutti cercavano di evitarli, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro bisogno d’amore, donando amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza (“Siete peccatori, avete sbagliato, lontani da Dio!”), Lui andava dentro. Sapeva cogliere la luce che li abitava dentro; sapeva vedere la forza e il desiderio di vita nascosti dentro di loro. Lui vedeva un pescatore qualsiasi e vi coglieva i desideri profondi del suo animo. Lui era vicino in croce ad un assassino, un omicida e, mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e, mentre noi non proviamo che rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel profondo delle loro tenebre e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è dentro ad ogni essere.
E noi? Ci sarà capitato di passare qualche volta davanti ad un albero secolare. Sta lì da tanto tempo, prima di noi; e chissà quanto tempo rimarrà lì, anche dopo di noi. Ma noi non ci siamo mai resi conto che c’è, che sta lì; non ci siamo mai fermati ad ammirarlo veramente, non ci siamo mai seduti alla sua ombra, insomma non lo abbiamo mai “visto” per quello che realmente è. Per noi è solo un tronco di legno; non ci siamo mai fermati ad “ascoltarlo”, a “parlargli”; non abbiamo mai imparato nulla da lui. Non abbiamo colto il suo Spirito, non lo abbiamo mai considerato come un essere vivente, che parla attraverso lo stormire delle sue fronde, non abbiamo mai provato ad entrare nella sua luce che cattura dal sole. Siamo troppo distratti, indifferenti: e come facciamo con quell’albero, così purtroppo facciamo anche con i nostri fratelli. E questo non va.
Abbiamo un sacco di cose da fare, e questo ci tiene tesi, ci assilla: ma non ci chiediamo mai il vero perché della nostra irrequietezza e del nostro nervosismo. Nel nostro intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Cerchiamo di farcene una ragione: “pazienza, bisogna accontentarsi; è così per tutti”; ma la verità è che non riusciamo a capire cosa sia quello che non va in noi. E continuiamo a correre, a fare, a produrre, e non ci accorgiamo di essere fermi, concentrati sul materiale. Non riusciamo ad entrare nello Spirito che c’è in ogni cosa. Questo è il problema, fratelli. Non riusciamo a vedere il divino, vedere Dio, che si nasconde dentro le persone e la vita stessa.
Ci siamo mai chiesto perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché, se possiamo “fregare” gli altri, lo facciamo volentieri? Perché niente ci intenerisce? Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare? È chiaro: siamo fermi al materiale. Purtroppo viviamo in una società che è incapace di guardare allo spirituale, e questo non ci aiuta. È una vera malattia. Suo unico interesse è l’avere: “Quanto costa? Quanti soldi hai? Quanti soldi servono? Quanti soldi ti danno?”; come pure la centralità dell’io, l’egocentrismo: “Io…, io…; Io faccio così; se non ci fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là; parlo io; io so; io non ho bisogno…”. Noi ci scandalizziamo per ciò che succede nel mondo, per le notizie dei telegiornali; ma dimentichiamo che siamo noi a comportarci così, è la società che noi stessi formiamo.
Perché, quando il valore che conta è vincere sempre, eccellere, essere sempre i primi in tutto, è naturale che lo Spirito passa in seconda linea; è in questo modo che lo perdiamo, che perdiamo l’anima dello “stare” insieme. Quando giudichiamo o valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca; quando il divertimento viene prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato; quando ragioniamo in base alla logica del “do ut des”; quando non sappiamo più pregare, non troviamo più il tempo per congiungere le mani, per fare silenzio, per metterci in contatto con la nostra anima, ebbene, fratelli, siamo già al capolinea: ci siamo sganciati dallo Spirito, abbiamo fatto del materialismo il centro della nostra vita. Siamo materia quando dovremmo essere Spirito: così siamo materia quando alla domenica vediamo sull’altare il pane, e siamo invece Spirito quando vediamo in quel pane, il Pane divino, il Cristo. Siamo materia quando vediamo nell’amico, nella persona che incontriamo, soltanto uno che ci importuna, che ci scoccia, che ci dà fastidio; siamo Spirito quando iniziamo a vedere il lui uno che soffre, che vive un dramma, uno che ha un cuore e un’anima. Siamo materia quando al mattino vediamo soltanto un altro giorno pesante da superare; siamo Spirito quando vediamo un’altra opportunità donatami da Dio per sperimentare la sua infinita bontà e misericordia. Siamo materia quando qualunque cosa ci fa innervosire; siamo Spirito quando iniziamo a chiederci il perché di questo nervosismo, cosa dobbiamo imparare e fare, cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Siamo materia quando guardiamo alla nostra vita in termini di successi, di conquiste, di cose raggiunte, di posizione sociale, di quale immagine diamo agli altri; siamo Spirito quando finalmente iniziamo a percepire i movimenti del nostro cuore e della nostra anima. Così, materia è mangiare, Spirito è gustare; materia è respirare, Spirito è essere consapevoli del soffio di Vita che inspiriamo per noi ed espiriamo per gli altri. La nostra vita può essere insieme terribilmente materiale o divinamente Spirituale, può essere piena di buio o di luce. Tutto per noi può essere materia, o tutto può essere Spirito: dipende solo da noi; da come noi ci poniamo e guardiamo.
Ben venga allora, fratelli, questo uragano dello Spirito! Scenda nei nostri cuori quella scintilla divina che rianimi il nostro fuoco che langue. Perché a noi serve veramente una Pentecoste, una crisi, uno scossone, uno Spirito che distrugga i nostri nascondigli e ci butti fuori; che ci costringa ad uscire dai nostri cenacoli di paura. Uno Spirito che ci costringa a camminare a testa alta, sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue insidiose lusinghe. Dio è con noi, fratelli; Dio è in noi! Ascoltiamolo! Amen.

giovedì 17 maggio 2012

20 Maggio 2012 – Ascensione del Signore

Fino al V secolo la festa della Resurrezione di Gesù, comprendeva anche l’Ascensione e la Pentecoste. Solo successivamente sono nate tre feste: Gesù è vivo? Sì, Gesù non è rimasto nella morte (Resurrezione); e dov’è adesso Gesù? È salito al cielo, cioè è in Dio (Ascensione) e lascia a noi il compito di proseguire la sua opera. E ci lascia soli? No, perché è presente in mezzo a noi con il suo Spirito (Pentecoste). Dunque «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto» (Mc 16, 15-20). 
La duplice sottolineatura fatta dal vangelo dell’andare e del predicare, non è casuale ma voluta. All’ordine impartito, segue puntualmente il suo compimento. Viene cioè rimarcata l’importanza della missione: non siamo invitati ad andare per “esibirci”, per fare gli “uomini immagine”, ma per “predicare”, per far “conoscere” e testimoniare il vangelo a tutti, ovunque.
Chi c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore? Gesù, ovvio. Ma adesso Lui non c’è più, è asceso in cielo, e manda noi suoi discepoli. Noi dunque siamo i nuovi Gesù. E notiamo bene: “In tutto il mondo… ad ogni creatura… dappertutto”: il vangelo, (eu-anghelion=buona/bella notizia), l’annuncio, infatti, è per tutti, indistintamente; la chiamata alla salvezza e alla santità è universale, fratelli, per cui dobbiamo essere noi a renderla possibile a tutti, anche se sappiamo che salvezza e santità non sono riservate automaticamente a “tutti”, ma soltanto a quei “molti” che liberamente accetteranno il messaggio e lo vivranno fedelmente. Del resto cosa ha fatto Gesù qui in terra? Mentre i religiosi ebrei dicevano: “Questi sì e quelli no; questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta d’identità, io guardo il cuore. Io ho un messaggio da proporre al vostro cuore, un messaggio di luce, di vita, di amore, di riconciliazione, di pace, di verità. E vengo da voi. Se mi accogliete bene; se non mi accogliete vado da un’altra parte. Ma Dio è per voi e per tutti”. Una volta si leggevano queste parole pensando: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna cristianizzare il mondo intero. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non vuole assolutamente fare proseliti o seguaci “per forza”. Gesù vuole solo che il suo vangelo, il suo messaggio d’amore arrivi proprio a tutti. In altre parole vuol dire: “Guardate che Dio è già dentro di voi! Tiratelo fuori, vivetelo, esprimetelo. Se volete la salvezza, dovete fare così. Non avete idea di quanta forza, di quanta potenza, di quanta energia voi disponiate dentro di voi. Voi potenzialmente siete già tutti di Dio: io non vengo per aggiungervi qualcosa dentro, ma solo per dimostrarvelo, per farvelo capire bene, perché possiate toccare con mano, vedere e rendervi conto, di ciò che siete e di ciò che con me potrete essere”.
Non si tratta dunque di convertire tutto il mondo, ma di annunciare che il Dio del vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei giusti e dei non giusti. Non si tratta di mettere Dio “dentro”, ma di farlo tirar fuori! Perché Dio è la possibilità di un incontro, di una esperienza che tutti possiamo fare, di una semplice parola, perché Dio vive già dormiente in noi.
La catechesi, la predicazione, gli esercizi spirituali, non servono per “aggiungere”: devono soltanto far “emergere”, far risplendere la grandezza di Dio che vive in noi, di quel Dio che vive “diverso” ma unico, in ogni creatura. Dio è una presenza costante. Educare a Dio vuol dire quindi mettere ogni creatura in collegamento, in relazione col Dio che già vive dentro di lei. Poi sarà lei a decidere sul da farsi. Non noi. Non gli altri. Altrimenti diventa imposizione, violenza: come se tutti dovessero avere la nostra stessa idea, condividere la nostra medesima esperienza di Dio, privata e personale, senza accorgerci che così facendo invece di avvicinare i nostri fratelli a Dio, semplicemente li allontaniamo dal “loro” Dio, dal Dio che coabita in loro, dalla loro risposta personale, una volta che noi glielo abbiamo indicato.
Siamo dunque noi i chiamati ad essere nuovi Gesù. Lui non c’è più, ci siamo noi. Gesù ha vissuto un tempo storico, circa trentatre anni. Poi se ne è andato. Ma adesso ci siamo noi. Il vangelo è chiaro: «Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano».
Sono le ultime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; e da qui inizia quella della Chiesa, la nostra storia. Lui non c’è più, anche se in effetti c’è sempre; perché Lui vive in noi: Egli continua a vivere attraverso le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra, le nostre azioni. «Operava insieme con loro»: in greco è “sinergia”: noi agiamo e Lui è la nostra forza; con l’Ascensione, come abbiamo detto, Dio non agisce più se non attraverso di noi, solo ed esclusivamente attraverso di noi.
Purtroppo il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: noi siamo interessati soprattutto a chiedere; noi chiediamo tutto a Dio (che faccia questo, che ci tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci mandi il miracolo o quello che ci serve). Siamo come i bambini che chiedono, chiedono, chiedono. Ma ora, fratelli, siamo diventati grandi, e il nostro cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti: Dio c’è? No, se pensiamo che Lui debba fare tutto ciò che dobbiamo fare noi, fare le cose al posto nostro. Dio in questo modo non interviene più, non scende più. Non possiamo più appellarci a Lui. Dio c’è? Sì, se finalmente siamo convinti che Lui è la forza che c’è in noi, che Lui è la fiducia e la vita che abitano in noi, alle quali possiamo liberamente e continuamente attingere. Da questo punto di vista Lui è sempre con noi e lavora (sin-energia) con noi e attraverso di noi.
Poi c’è una frase da chiarire: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». È la conseguenza finale. Il concetto di salvezza implica purtroppo quello di condanna: o ti salvi o sei condannato, perso, morto; o vai in paradiso (salvezza) o vai all’inferno (condanna). Ma prima di arrivare a tanto, urliamo a tutto il mondo cosa vuol dire “salvezza” nel vangelo di Gesù: “salvezza”, per Gesù, è vivere alla luce del vangelo, cioè una vita vibrante, appassionata, dove la gioia si esprime, l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, dove si va al di là di se stessi, dove insomma ci si sente “vivi”. Questo per Gesù è “credere”: perché quando incontri veramente Dio ti infiammi, bruci di vita. Prima eri freddo, di ghiaccio, morto; improvvisamente ti riscaldi, ti sciogli e diventi meravigliosamente vivo. “Salvarsi”, per Gesù, vuol dire salvarsi dal morire di ogni giorno, dall’essere spenti, dall’essere come dei morti che vivono. “Condanna” è non credere; cioè non poter pensare o non riuscire ad essere così vivi. Vuol dire chiudersi, rifiutare l’annuncio, ignorarlo volutamente. Per questo è importantissimo che tutti lo conoscano.
E quali sono i segni che accompagneranno il nostro “andare” e “predicare”? «… nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno…».
Quando pensiamo alla vita dei Santi, diciamo: “Che uomini straordinari! Come hanno fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati, come se fossero dei super-uomini, dei super-eroi. Invece è vero il contrario: non sono loro che hanno vissuto da super-eroi, siamo noi che viviamo decisamente al di sotto delle nostre possibilità. Quello che loro hanno fatto, è esattamente ciò che tutti possiamo fare, ciò che tutti possiamo vivere.
«Parlare lingue nuove». Ma, fratelli, abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi? Di cosa parliamo noi? Del tempo, di ciò che ha fatto o detto il vicino, il collega, il capoufficio; dell’ultimo gossip; con tante chiacchiere, tante insinuazioni, tanti giudizi, con tante parole vuote, senz’anima. Per il semplice fatto che parliamo, siamo convinti di comunicare, di trasmettere, di esprimerci. Ma non è così. Però possiamo farlo con altri linguaggi, diversi dal nostro; con quelle “lingue nuove” di cui parla il vangelo: come per esempio il “linguaggio del silenzio”: ti ascolto; faccio silenzio e ti ascolto; ascolto le tue parole e il tuo cuore. Ascolto la natura, il canto degli uccelli; ascolto il mio cuore che batte o il respiro della mia anima. C’è il “linguaggio degli occhi”: fermiamoci un momento e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima; attraverso gli occhi raggiungiamo l’anima dei fratelli. Il “linguaggio del corpo”: abbracci, carezze, baci, coccole, contatto: con chi ci sta vicino, con chi amiamo e ci ama, con i figli, è un linguaggio indispensabile. Il “linguaggio del cuore”: esprimere le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri bisogni e desideri. Il “linguaggio dell’anima”: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici; un linguaggio che unisce e rende compartecipi.
Ebbene, fratelli, noi siamo troppo distratti: non ci rendiamo conto di quanta vita, di quanta energia, di quanta forza, di quante vibrazioni noi possiamo comunicare con questi linguaggi, con queste parole che non sono “parole”.
«Prendere in mano i serpenti». Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Lo sappiamo bene; quante volte infatti evitiamo le persone, perché le giudichiamo “serpenti”; quante volte fuggiamo dai nostri doveri, dalle cose che dobbiamo fare: ci fanno paura, siamo convinti di non farcela, sono troppo grandi, troppo pericolose. Invece la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Andare in chiesa, vivere da cristiani, onestamente, non ci dice più nulla? Affrontiamo la questione. Perché tirare avanti e fingere che tutto vada bene? Parliamone umilmente con la nostra guida spirituale! C’è qualcosa che non va con i fratelli? Qualcosa di segreto che ci turba? Prendiamo in mano la situazione. “È difficile, mi vergogno!”: tranquilli, abbiamo dentro di noi tutta la forza per farlo, perché Lui è con noi, Lui lavora (sinergia) con noi. C’è una questione scottante, scabrosa, un problema veramente difficile, che ci fa paura? Prendiamola in mano, Lui è con noi. Se, fratelli, ci fissiamo soltanto sul problema, non abbiamo molte possibilità di risolverlo. Ma se guardiamo anche alla Sua forza che è in noi, allora tutto sarà più semplice, tutto si potrà affrontare e superare.
«Se berranno qualche veleno, non recherà loro danno». Gli altri sparlano di noi, con cattiveria. È veleno. Veleno puro. Ma dobbiamo essere “superiori”, sapere che questo è lo scotto che tutti prima o poi devono pagare: del resto “se sei buono ti tirano le pietre”, come diceva una vecchia canzone; e se sei cattivo anche. La maldicenza fa parte della natura umana: non ci si può proteggere dal giudizio degli altri. Noi saremo sempre e continuamente sottoposti a giudizio, critica, osservazione, disapprovazione: ma possiamo imparare a disinteressarci e continuare per la nostra strada, al di là di tutto questo. È chiaro che a nessuno piace non essere apprezzato, capito, giudicato positivamente; anzi a tutti fa male il veleno della critica. Ma Dio, che è dentro di noi, è più forte delle critiche di tutte le persone; se siamo ancorati nella Vita, diventeranno innocue, sarà un gioco berle e mandarle giù.
E concludo: Lui è dunque asceso al cielo: ma ora, fratelli, al suo posto qui sulla terra ci siamo noi. Ascensione non significa “sottrazione” della persona di Gesù al nostro contatto, ma “moltiplicazione” della sua presenza attraverso noi. Beh, pensiamo, è un’impresa difficile, a volte disperata! Ma non è vero: dobbiamo solo pensare che dentro di noi c’è Lui; Lui, che continua a vivere in noi con tutta la sua forza. Quello che ha fatto Lui, lo possiamo fare anche noi. E se siamo convinti di questo, niente ci sarà impossibile, nulla potrà abbatterci. Non a caso Gesù disse: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Ecco, fratelli, questo ci dice l’Ascensione: e allora perché stiamo ancora col naso all’insù, a “guardare il cielo” (At 1,11)? Perché continuiamo a rimanere “imbambolati” e dubitiamo ancora? Muoviamoci. Tutto dipende da noi, tutti ci stanno aspettando! Amen.