giovedì 29 settembre 2011

2 Ottobre 2011 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano…».
Per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci ripropone il tema della vigna del Signore. Prima abbiamo visto la parabola degli operai dell'ultima ora e del padrone buono, poi quella del comportamento contraddittorio dei due figli; oggi abbiamo quella dei vignaioli assassini che vogliono impossessarsi della vigna e finiscono per uccidere, oltre agli incaricati alla riscossione, anche il figlio del padrone.
Da notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Ma il padrone di oggi va ben oltre ogni aspettativa, rasenta addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene ucciso.
L’allusione è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo ebreo. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servi sono i profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato per richiamare il suo popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. E allora Dio, di fronte all’uccisione di suo Figlio, ha fondato altrove il suo Regno, con altri popoli. È il primo grande esempio, fratelli, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio risiede dove viene accolto, altrimenti, in punta di piedi, se ne va. La vigna è il segno dell’amore infinito di Dio, è una proposta di felicità, di vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli passa automaticamente ad altri popoli e ad altri vignaioli.
Storia del popolo ebreo dunque: un popolo che inizialmente accolse il Dio Vivo con grande entusiasmo; ma poi lo respinse, lo uccise. Il Regno fu allora destinato ai seguaci di suo Figlio, ai discepoli di Cristo, a quanti, col battesimo, abbracciarono la fede cristiana. Sorsero così comunità cristiane fiorentissime: Filippi, Tessalonica, Corinto, Cartagine, Efeso. Inviati come Paolo, Cipriano, Agostino, vi dedicarono anni di duro lavoro e di grandi affermazioni. Ma anche queste colonie pian piano sono capitolate. Oggi, in quelle terre, non c’è più traccia di quel cristianesimo fervente; col tempo la fede si è spenta e Dio se ne è andato altrove, in altre nazioni. Un fenomeno che puntualmente continua a ripetersi: quando la fede di un popolo si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quella fede muore, e la Vigna di Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce altrove.
Questo fatto dovrebbe preoccuparci seriamente, fratelli, perché anche nei nostri paesi occidentali siamo arrivati al limite; e non è detto che in Europa, e anche nella nostra cattolicissima Italia, in un futuro abbastanza prossimo, non possa succedere altrettanto. Anche da noi la fede sta gradualmente perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo entusiasmo, la sua vitalità; rischiamo tra breve di non essere più un popolo di cristiani convinti: al più saremo un popolo di battezzati, perché è questo che richiede la nostra tradizione secolare, ma niente di più.
Ma torniamo alla lettura del vangelo: la parabola inizia dunque mettendo in evidenza il grande amore con cui il padrone dà vita al suo progetto. Egli compie ogni cosa nel migliore dei modi, prepara la sua vigna con grande dedizione: pianta, circonda, scava, costruisce e affida. È il riguardo e l’amore di Dio per chi dovrà poi averne cura. Ma proprio questi lavoratori lo rifiutano. Perché? Gesù è venuto nel nome dell’amore, della bontà, della guarigione, della non-violenza; è venuto per darci una vita piena e sensata. Ma noi, i vignaioli, lo abbiamo rifiutato. Ripeto: perché? Perché continuiamo a rifiutare Gesù? Non è abbastanza buono? Non ci ha amato abbastanza? Ci ha per caso ingannati? Al contrario! Egli ci ha guariti, fatti resuscitare, sfamati, perdonati, illuminati; ci ha fatto sentire in tutti i modi che ci ama perdutamente. Allora lo rifiutiamo perché ci dice la verità? Perché non asseconda i nostri giochetti sporchi?
Abbiamo visto tutti i suoi miracoli, ma i nostri occhi non l’hanno saputo individuare. Abbiamo conosciuto la sua vita, ma non abbiamo cambiato la nostra di vita, non ci siamo convertiti. Abbiamo ascoltato le sue parole, ma il nostro cuore non si è lasciato contagiare. Abbiamo sperimentato le sue guarigioni, ma la nostra mente si è chiusa in discussioni teologiche, in distinguo improponibili, tanto per crearci un alibi per ucciderlo impunemente e vanificare così la sua presenza sulla terra. Ci faceva troppa paura. Poveri illusi: come al solito non abbiamo capito nulla.
Che cosa avrebbe potuto fare di più? Che cosa dovrebbe ancora dirci Gesù per riuscire a conquistare la nostra fiducia? Cosa ancora dovrebbe dimostrarci, per essere accolto, accettato, fatto entrare nel nostro cuore? Lo stesso dicasi per i suoi inviati, i suoi santi pastori, il suo rappresentante sulla terra, il Papa: cosa devono fare di più per convincerci che vengono da noi nel Suo nome, in nome dell’Amore? Che cosa devono dirci o dimostrarci ancora? Nulla, fratelli: abbiamo avuto e sentito tutto; ora dovrebbe “bastarci la Sua grazia” (sufficit tibi gratia mea, 2Cor 12,9), ma purtroppo siamo impenetrabili, emozioni-repellenti, non assorbiamo nulla: in altre parole siamo noi il grande problema. Il problema è il nostro cuore! Siamo fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno; non vogliamo vedere la bontà che c’è attorno a noi, di chi ci aiuta, di chi ci sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i difetti degli altri, le loro dimenticanze, le loro lacune e, di contro, non riusciamo mai ad apprezzare il bene, la cortesia, la gentilezza, la premura, con cui essi ci circondano. A volte ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno muore. Soltanto quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse importante, quanto ci volesse bene. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore, finalmente si aprono: ma è ormai troppo tardi. Allora, perché non farlo prima? Perché, fratelli, siamo talmente incentrati nel nostro ego che purtroppo un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, è sufficiente per distruggere migliaia di gesti d’amore. Dimostriamo ancora una volta di avere l’animo atrofizzato, stretto dalla morsa dell’egoismo e della superbia: tutto deve girare attorno a noi. Tutti devono rispettarci, amarci, metterci al centro dell’attenzione e soprattutto lo devono fare sempre. Vogliamo cioè avere tutto, sempre e subito. Anche l’impossibile. Come i vignaioli. Cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere, possedere, anche ciò che non si può: la vigna non è loro. Loro devono semmai curarla la vigna; devono farla fruttificare, la devono lavorare, ma non possono averla, non è loro. Come la vita. La vita non è nostra! Non ne siamo i padroni, e prima o poi dovremo lasciarla. Questo è il problema, fratelli. È la morte il nostro grande problema. Nella nostra vita di vignaioli, cerchiamo di arraffare tutto, non ci fermiamo di fronte a nulla: vorremmo l’immortalità, l’onnipotenza del Padrone: ma è tutto inutile; non possiamo averle, non ne abbiamo il potere! Non abbiamo niente a cui poter dire: “Tu sei mio”. Non possediamo proprio nulla. La vigna-vita non è nostra, non possiamo campare alcun diritto su di essa. Anzi, non abbiamo proprio diritti. Punto. La vita, la nostra vigna, è un dono; può solo essere vissuta, realizzata, gustata, ma non possiamo possederla.
Eppure talvolta ci comportiamo come se dovessimo vivere per sempre. Illusi! Possiamo al massimo decidere come vivere, ma non quanto vivere!.
Tutto è dono, tutto ci è gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo, fratelli, dobbiamo imparare ad abbandonarci a Lui, alla Vita; dobbiamo fidarci di Lui, perché noi siamo nelle sue mani. Siamo noi, ma non siamo nostri!
Tutto è dono; anche i fratelli che ci vivono accanto: rallegrano la nostra vita, le conferiscono profondità e significato, ci danno forza, complicità, unione e tanto ancora, ma anch’essi non sono “nostri”, non li possiamo possedere. Possiamo solo dire “Grazie”; “Grazie per ciò che abbiamo condiviso”. E quando se ne vanno, dobbiamo pregare Dio non perché li faccia tornare da noi, ma per ringraziarlo e benedirlo della fortuna che ci ha concesso nell’incontrarli.
Quanta pazienza ha Dio con noi! Se, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, se cerchiamo di sovvertire l’ordine, se non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio non ci abbandona; anzi ci manda “messaggi”, degli avvertimenti: “Stai attento perché le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”. Ma noi, purtroppo, spesso ce ne infischiamo anche di questi messaggi, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di niente. La Vita non ci è più maestra; non l’accettiamo, e quindi non può più insegnarci nulla. Come possiamo pretendere che Dio ci parli, si faccia sentire, se di proposito non lo vogliamo ascoltare?
Eppure, quando leggiamo questa parabola, ne riconosciamo l’importanza; diciamo: “Che mascalzoni quei vignaioli! Come hanno fatto a non capire? a comportarsi così? Pensavano forse di farla franca?”. Già, loro sono stati stupidi, mascalzoni, assassini, ma noi? Noi li accettiamo i “messaggi” che Gesù ci manda? Eppure sono tanti e frequenti: siamo insoddisfatti, non ci va più bene niente, siamo sempre nervosi, irritabili, non proviamo più stupore, né gioia, non ci entusiasmiamo più per niente; la vita religiosa è un peso, la comunità è un peso, la famiglia è un peso; ecco, questo, fratelli, è un segnale chiaro, forte: e ci dice che la nostra anima langue, sta morendo. È un messaggio importante. Ma noi continuiamo a illuderci: “È il super lavoro; è un periodaccio; succede a tutti; passerà anche questo!”. No, fratelli miei, non passerà affatto.
I segnali che Dio ci manda vanno ascoltati; Dio cerca di aiutarci, ci ama, ci è amico! Non comportiamoci come abbiamo visto fare i vignaioli: il “messaggio” arriva, e noi “lo bastoniamo”, ce la ridiamo; il Padrone ce ne manda uno di più forte, e noi “lo lapidiamo”, lo rifiutiamo, neppure accettiamo di sentirlo; allora ce ne manda un altro ancora più forte, (“il figlio”): ma noi non solo non lo ascoltiamo, ma “lo uccidiamo”. Ebbene, fratelli, se non provvediamo a rimetterci in linea, la nostra situazione diventerà irrecuperabile. Dobbiamo stare molto attenti, dobbiamo prestare la massima attenzione ai “messaggi” di Dio; dobbiamo adeguarci immediatamente: altrimenti arriveremo anche noi a sentire quelle parole tremende: «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
E concludo: una parabola tragica, quella di oggi, fratelli. Una parabola che ci deve veramente far riflettere: abbiamo detto che è la storia di Dio e dell’umanità, è la nostra storia, la storia di Dio e noi; la storia delle nostre incomprensioni che ancora fatichiamo a risolvere e superare; è la storia di un dolore, il dolore di Dio; un dolore che purtroppo non ci tocca, che ci lascia indifferenti: quando invece dovrebbe spiazzarci, dovrebbe annientarci, o almeno farci interrogare seriamente. Un dolore, questo di Dio, che noi gli causiamo con i nostri continui rifiuti. È la storia di Dio, questo Dio sconsiderato, che insiste, si ripete, che continua a mettere a repentaglio la vita del Figlio, donandocelo ogni giorno nell’Eucaristia. Pensando, così, di suscitare in noi quel rispetto che gli è dovuto, quella adesione al suo infinito Amore, quella risposta che noi, stupidi vignaioli, nell’ottusità del nostro cuore, non vogliamo dare: sì, fratelli miei, anche questo gesto estremo, questa sovrumana e impensabile prova d’amore, è da noi stravolta, incompresa.
A questo punto dobbiamo dire “basta!”. Questo deve essere il nostro grido di ribellione, questo il grido che deve sgorgare prepotentemente dal nostro cuore: non permettiamo oltre che la missione del Figlio fallisca: siamo noi, ciascuno di noi, che dobbiamo opporci al delirante comportamento degli altri vignaioli, di quelli che nella loro lucida follia pretendono di uccidere sistematicamente Dio, per prenderne il posto. Forse gli altri non lo sanno, fratelli, ma noi lo dobbiamo sapere bene: con la venuta del Figlio, noi non siamo più semplici fittavoli della Vigna; essa è diventata anche nostra, il Figlio ci ha nominati suoi “coeredi”: ecco perché spetta soprattutto a noi il compito di convincere i lontani, i distratti, gli svogliati, a coltivare insieme a noi con gioia questa “comune” Vigna di Dio. Come? Sopportando con pazienza evangelica la violenza e la cecità del mondo; contrastando la sua incoerenza con la nostra vita vissuta coerentemente: ossia con un comportamento che sia in sintonia con le nostre convinzioni, col nostro pensiero; un pensiero che deve essere alimentato, come dice Paolo (Fil 4,8), da «tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato; da ciò che è virtù e da ciò che merita lode…». Amen.


mercoledì 21 settembre 2011

25 Settembre 2011 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò...».
Per quel poco che facciamo, noi ci consideriamo a buon diritto gli operai della prima ora, quelli che da una vita si impegnano attivamente nella vigna del Signore; quelli che (almeno a sentir noi!) sopportano eroicamente il caldo e le fatiche di un lavoro nascosto, sconosciuto ai più, ingrato e sottovalutato; quelli che hanno sempre il broncio, perché convinti di essere sottostimati, presi di mira; quelli che soffrono di vittimismo: che dovrebbero gioire vedendo che anche altri fratelli sono chiamati a lavorare nella stessa vigna al loro fianco; quelli che dovrebbero entusiasmarsi perché altri come loro possono giustamente sperimentare la dolcezza e la bellezza di appartenere a Dio, di servirlo più da vicino; invece no, fratelli: noi siamo gelosi. Ci sentiamo defraudati di un nostro diritto “esclusivo”. Siamo sempre all’erta, sul chi va là, diffidenti, perché, non si sa mai, qualcuno dei nuovi arrivati potrebbe farci lo sgambetto.
Eppure, nonostante ciò, giriamo tutto il giorno con un sorriso posticcio, affettato e falso, immancabilmente stampato sul viso; cerchiamo sempre di apparire solleciti, amabili, ma senza convinzione, senza alcun vero coinvolgimento, giusto quel tanto che basti a salvare le apparenze. Eccoci dunque: questi siamo noi, fratelli; siamo tutti un po’ così, operai della prima ora, sì, ma “calcolatori”, “sindacalizzati”, quelli appunto che Gesù ha strapazzato per benino domenica scorsa; e noi, guarda caso, ci siamo anche rimasti male. Non abbiamo ancora capito, e continuiamo a non capire, che se il Signore ci tratta così, se pretende di più da noi, se sembra essere più esigente con noi, è perché ci ama di più. Ci ha scelti e chiamati per una missione speciale, e noi inizialmente abbiamo anche risposto subito con entusiasmo, ma poi un po’ alla volta ci siamo adagiati, ci siamo persi nelle derive della quotidianità, dell’abitudinario. Abbiamo cominciato a fare calcoli, a cercare il nostro tornaconto e a piantare i nostri “distinguo” anche con Lui, con il Padre. Egli cerca in ogni modo di scuoterci, di farci capire che così non va, che l’unica via da percorrere è quella dell’amore, del disinteresse, della generosità, ma noi siamo duri, immobili nelle nostre posizioni di ottusi zucconi. E di grandi permalosi.
Ecco perché anche oggi Gesù riprende il discorso sui suoi operai; ci fa capire che il Padre non gradisce dei discepoli mezze tacche, dei bamboccioni viziati, ma vuole gente leale, generosa, tutta d’un pezzo.
Il nostro Dio non gradisce l’esteriorità, il manierismo, i giochetti politici; non ama il doppio gioco, il far vedere una cosa e pensarne un’altra, l’esibire come fede una grande devozione in chiesa, e poi far finta di niente: sono cose che ormai dovremmo sapere molto bene. Ma saperle non basta!
Non ci dobbiamo quindi stupire se, in linea con il tema dei lavoratori della vigna, oggi Gesù continua la sua lezione, se ci impartisce un ulteriore insegnamento, altrettanto provocatorio, altrettanto indigeribile, ma altrettanto essenziale.
Se c’è infatti una cosa, una soltanto, che manda su tutte le furie il Padre misericordioso, una cosa che lo irrita profondamente, non è il peccato, il mancargli di rispetto, ma l’ipocrisia: il nostro tentativo cioè di presentargli per buona, sincera e convinta una cosa, quando invece, noi per primi, sappiamo bene che non lo è.
Per questo potremmo definire la parabola di oggi, quella “del dire e del fare”: Gesù, in pratica, racconta di due figli che di fronte alla richiesta del padre, a voce si esprimono in un modo, ma poi nei fatti si comportano esattamente al contrario; improvvisamente cambiano idea: uno dice "sì" ma non fa, l'altro dice "no" ma ci ripensa e fa.
Ecco: è questa inaffidabilità, questo agire da banderuole, da insensati, che il Padre non ama; e c’è di più: Gesù ci fa addirittura capire che preferisce il figlio anarchico e svogliato, quello che d’impulso dice “no”, quello che comunque esprime con franchezza il suo pensiero mettendosi in discussione, a quell'altro che, salvando l'apparenza del bravo ragazzo, educato e ossequiente, gli risponde “sì”, ma in realtà non muove un dito.
In altre parole, Gesù non ama quella forma di religiosità epidermica, di facciata, che si ferma superficialmente al rito, alla devozione sterile, e che è assolutamente inefficace per un significativo cambiamento della nostra vita.
Quante persone si comportano così, fratelli miei! Persone che vivono in assoluta contraddizione con quel che credono; persone che hanno adottato un modus vivendi di comodo, in aperto contrasto con quel “credo” che a voce alta professano ogni domenica davanti alla comunità. Sono persone che dicono esternamente un “sì”, che poi nella realtà è un “no”! Non fanno ciò che dovrebbero fare, ciò a cui sono chiamate; non arrivano a sentire il sussurro dell’anima, non hanno il coraggio di seguire le vibrazioni del cuore, la passione che brucia dentro.
Quante ce ne sono, fratelli: tante, tantissime, troppe. Ci consoli almeno sapere che ce ne sono altrettante che, pur dichiarandosi atee e non credenti, affrontano la loro esistenza con grande onestà e correttezza, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria umana fragilità.
Ma noi, noi in particolare, come ci comportiamo? Anche noi, spesso, quando Dio ci affida un compito, quando dobbiamo soddisfare una sua richiesta, in prima battuta abbiamo una reazione di rifiuto: “No, non ci vado”; “No, non lo faccio”. E perché mai? Semplice: non capiamo quello che Dio vuole da noi; siamo diffidenti; siamo convinti che quello che ci propone è un qualcosa più grande di noi, delle nostre possibilità, che richiede volontà, applicazione, e tanto sacrificio; pensiamo di non farcela, sentiamo che le nostre forze non sono sufficienti; le nostre paure, i nostri scrupoli, la nostra pochezza, il nostro egoismo, la vergogna di apparire "diversi" rispetto agli altri, ci bloccano, ci immobilizzano: insomma non vogliamo metterci in discussione. Per fortuna poi, dentro di noi, riusciamo a capire tutta la serietà e l’importanza di questo nostro essere scelti; finalmente capiamo che bisogna andare, reagire, muoversi, dirgli di “sì” con tutto il cuore, anche se questo ci sembra pazzesco, folle. Non dobbiamo fare troppi calcoli, dobbiamo deciderci, fratelli: dobbiamo semplicemente andare, dobbiamo fidarci, dobbiamo buttarci; non possiamo aspettare oltre, non possiamo perdere altro tempo. Capita l’importanza della traversata, preparata la barca e noi stessi, dobbiamo levare l’ancora e partire, navigare, navigare. Non possiamo rimanere per sempre immobili nel porto. Una volta che abbiamo intuito la volontà di Dio, non possiamo continuare a tergiversare, far finta di nulla, continuare a stare inerti, non uscire dal porto, dal nostro guscio, dalle nostre sicurezze: sarebbero occasioni di fare qualcosa di grande, mancate, incompiute, mai fiorite, mai sbocciate, e questo solo per colpa nostra. Un vero peccato, fratelli! Forse qualche volta abbiamo anche detto subito di “sì”, magari trascinati dall’emozione di udire la Sua voce dentro di noi; ma passato il momento magico della professione religiosa, del presbiterato, del matrimonio, il nostro “sì” si è bloccato, si è fermato, non l’abbiamo più approfondito, non ha messo radici, non ha trovato consistenza e terreno fecondo nel nostro cuore. E nel tempo è diventato un “no”: la nostra entusiastica adesione iniziale alla chiamata, si è spenta. Per la nostra aridità. Ebbene, fratelli, non è questo che Dio vuole da noi: dobbiamo invece continuare senza sosta a lavorare alacremente nella sua vigna: Dio ci ha chiamati, già col battesimo, proprio per questo; è questo che dobbiamo fare per la società in cui viviamo, per i nostri fratelli, per la Chiesa, per il mondo; è ciò che tutti, indistintamente, si aspettano tacitamente da noi! Del resto è il compito che Dio ci ha affidato; per cui ci ha concesso doti particolari, per cui ci assiste continuamente con la sua grazia. Sono doni che non possiamo lasciare incolti; non possiamo esimerci, non possiamo fare altrimenti. Riattizziamo quel fuoco della sua Parola che ci bruciava dentro e muoviamoci in fretta, agiamo! Agire vuol dire riconoscere per valida la sua chiamata, vuol dire capirne l’importanza, vuol dire rispondere “si”, con i fatti, a Dio e a noi stessi.
Abbiamo bisogno di tanta onestà: dobbiamo armarci di grande rispetto per Dio, per noi e per gli altri; un rispetto soprattutto morale, di tanta sincerità e umiltà. Lasciamo che siano le canne al vento a fare chiasso. Noi, lavoriamo nel silenzio.
Guardiamo a Gesù: che uomo è stato! Un uomo vero, trasparente, coraggioso fino in fondo, senza le nostre piccole e grandi bugie, senza le nostre meschinità: seguiamo le sue orme, cerchiamo di essere anche noi uomini “del sì” come Lui; anzi, ci siamo mai chiesto che uomini siamo noi? Come ci comportiamo? Per esempio, quando dobbiamo difendere la nostra fede, i nostri ideali, le nostre convinzioni, testimoniandoli in pubblico, vincendo il “rispetto umano”, e non lo facciamo, nascondendoci per paura o per vergogna, ci siamo mai chiesto che uomini siamo? Quando non abbiamo il coraggio di guardare dentro il nostro cuore per paura di soffrire o di scoprire le nostre miserie inconfessabili, tutte le nostre magagne, che uomini siamo? Quando pretendiamo onore e rispetto, ma noi trattiamo gli altri con alterigia, disprezzo e rancore, che uomini siamo? Quando nella nostra vita sociale ci professiamo pacifisti convinti, rispettosi dei diritti del prossimo, salvo poi aderire a manifestazioni e cortei per la pace, spaccando tutto quello che troviamo, che uomini siamo? Quando in società ci teniamo ad ogni costo a passare per cittadini modello, salvo poi evadere il fisco e non pagare le tasse, che uomini siamo? Certo, essere veri, dire sempre la verità, essere trasparenti in tutto, non ci garantisce assolutamente una vita tranquilla; ma sicuramente ci fa sentire uomini e donne veri. Non ci darà molti soldi e forse neppure molte amicizie, ma ci darà una cosa che niente e nessuno può darci: la nostra dignità.
Ecco, fratelli: questa è in sintesi l’onestà che Gesù ci chiede nel vangelo di oggi: e la richiede sopratutto quando ci rapportiamo con i nostri fratelli e con Lui.
Evitiamo pertanto di indossare davanti a Dio il nostro vestito bello, quello della festa, quello del perfetto devoto, del perfetto cristiano; indossiamo invece sempre quello dell’onestà, quello, a volte lacero e sporco, del sincero cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente da Lui, senso e luce per la propria esistenza. Senza questa verità e onestà, fratelli, finiremo col perdere la strada, col tradire la fiducia che Dio ha riposto in noi; finiremo col costruirci un altro Dio da adorare, uno che assomiglia troppo a noi stessi… Una religione che si esaurisce nella esteriorità della preghiera e del culto, nella menzogna e nel timore!
Gesù ci chiede di imitarlo sia nelle parole che nelle opere, senza perdere tempo nella ricerca di coerenze pagane di questo mondo, ma nella serena consapevolezza che l’aver incontrato Lui e il suo Vangelo ci obbliga automaticamente a cambiare vita.
Non comportiamoci come quei cristiani che vivono nella loro coscienza in compartimenti stagni: quelli che si ricordano di Dio forse cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, e finita la benedizione della Messa, amen! E lasciano volentieri Dio da solo nei tabernacoli! Non celebriamo il Dio della vita con azioni di morte, fratelli! Siamo autentici con Dio. Non lo blandiamo. Non pretendiamo di indossare davanti a Lui un abito che non è il nostro e che ci sfigura. Presentiamoci invece a Lui, nella nudità imbarazzata dell’essere come siamo, umilmente autentici. Amen.


giovedì 15 settembre 2011

18 Settembre 2011 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna…».
La parabola di oggi potrebbe sembrare a prima vista una difesa dell’autonomia discrezionale del datore di lavoro nello stabilire la retribuzione ai suoi operai. Un padrone, dunque, esce di primo mattino per cercare degli operai a giornata da mandare nella sua vigna: trovatili, si accorda con loro per “un denaro”, il corrispettivo di quei tempi per un giorno lavorativo. Preoccupato però per l’urgenza della vendemmia, esce ancora, in ore diverse del mattino e del pomeriggio, e continua ad assumere chi trova, mandando tutti a lavorare nella sua vigna. Alla fine della giornata, gli operai si presentano dal padrone per ricevere ciascuno la sua paga: per primi vengono chiamati quelli che hanno lavorato un’ora soltanto e ad essi il padrone consegna un denaro ciascuno. A questo punto gli altri, fatto un rapido calcolo, pensano di ricevere una paga proporzionale alle ore di lavoro rispettivamente effettuate. E invece niente: sia chi ha lavorato un’ora, sia chi tre ore, sia chi l’intera giornata, tutti ricevono la stessa identica paga di un denaro a testa. Beh, di fronte ad un simile trattamento penso che anche noi ci saremmo sicuramente “alterati”: quanto meno avremmo denunciato tale sperequazione al competente “sindacato”, magari ricorrendo pure ad uno sciopero esemplare. Secondo i nostri contratti collettivi di lavoro, un trattamento simile è infatti assolutamente inammissibile. Le nostre leggi economiche decretano: “La paga va liquidata al dipendente sulla base delle ore lavorative prestate”. Quindi, se chi aveva lavorato un’ora aveva avuto un denaro, chi ne aveva lavorato nove doveva incassare nove denari: punto. Non c’è scampo.
Ma Dio, fratelli miei, non ragiona come noi; Egli si comporta diversamente. Dio non dà secondo i nostri “diritti”, Dio non usa i parametri sindacali: Dio agisce così perché ama! Egli ha dato il minimo giornaliero di sopravvivenza a tutti, indipendentemente dalla quantità di “lavoro” svolto da ciascuno, proprio perché ama tutte le sue creature allo stesso modo e vuole che tutti, indistintamente, abbiamo le stesse possibilità di vita.
La giustizia di Dio non è legata ad alcuna legge economica del tipo: “Hai lavorato tot, eccoti tot”. Egli non pensa come tanti ricchi della nostra società industrializzata: “Se non lavori e non guadagni tanto da poterti sfamare, è un problema tuo, non mio”. No, fratelli, questa non è la giustizia di Dio: la sua è la giustizia dell’amore, del cuore. Dio vuole che ciascuno viva, che ciascuno abbia il necessario, che ciascuno possa avere le stesse possibilità per realizzarsi.
La chiave della parabola sta invece altrove, fratelli: ossia nel mettere allo scoperto e nel condannare un nostro comportamento molto comune, quello cioè di confrontarci sempre con gli altri. Lo scontento, il malessere, la convinzione di subire ingiustizie, sentimenti che spesso ci affliggono, provengono quindi non dall’esterno, dagli altri, ma esclusivamente dal nostro interno, dalla gelosia che scaturisce dal nostro continuo confrontarci egoisticamente con quanto succede agli altri: una serpe velenosa, l’invidia, si insinua nei nostri cuori, obnubila la nostra mente, e ci destabilizza da ogni logico raziocinio: “lui sì, io no! Lui tanto, io poco!”
La molla che fa scatenare il malcontento degli operai della prima ora,a ben vedere, non è quindi il comportamento del padrone nei loro confronti: essi infatti hanno ricevuto esattamente quello che avevano concordato: chiuso; è invece la constatazione della somma percepita dagli altri la responsabile del loro malumore: e questa, fratelli, in una parola, si chiama “invidia”. A nessuno di essi interessa più l’essere stato trattato con giustizia dal padrone; quello che ora li manda in bestia è che gli altri hanno guadagnato di più lavorando di meno.
Ecco, è su questo atteggiamento, fratelli miei, che dobbiamo meditare: a chi di noi non è mai capitato di comportarsi così? Chi di noi, in qualche modo, non ha mai ceduto all’invidia? Se lo negassimo saremmo disonesti con noi stessi. Tutti noi, chi più chi meno, in certe situazioni pecchiamo di incoerenza, non siamo onesti, obiettivi. I nostri rapporti “fraterni” perdono di lucidità, di autenticità.
Certo, un normale confronto con gli altri è assolutamente normale: non viviamo soli in questo mondo. Quello che è innaturale, decisamente negativo, è impostare la nostra esistenza su quella degli altri, condizionare i nostri stati d’animo a quello che di meglio e di più succede agli altri.
È come se il padrone del vangelo in pratica ci dicesse: “Io e te abbiamo concordato una giornata di lavoro per un denaro: tu eri contento così e lo hai accettato; perché ora sei tanto arrabbiato? Perché vuoi impedirmi di essere generoso, buono e grande d’animo con gli altri? Ti ho forse tolto qualcosa? Ti ho defraudato di qualcosa? E allora perché ti lamenti?”. E mette il dito nella piaga, facendo capire quanto sia dannoso un confronto invidioso con l’altro. Se fossero stati presenti soltanto gli operai della prima ora, non ci sarebbe stato alcun problema. Sarebbero stati tutti felici: avevano lavorato, avevano guadagnato il pattuito, e tutti se ne sarebbero tornati a casa soddisfatti. Cos’è che ha rovinato la loro festa e la loro gioia? Il confronto, fratelli. L’aver visto per gli altri un trattamento migliore del loro: e non vanno più a casa felici per quello che hanno guadagnato, ma tristi e infuriati perché gli altri hanno guadagnato di più. Eppure sono stati trattati con giustizia, hanno portato a casa il pattuito, che motivo c’era per lamentarsi?
Purtroppo è così: il confronto malevolo, l’invidia, toglie ogni valore a tutto quello che abbiamo: non lo consideriamo più, non lo gustiamo, non lo viviamo più; non guardiamo più a noi stessi, a ciò che siamo, a ciò che abbiamo, ma abbiamo lo sguardo fisso sugli altri. E il confronto con loro ci distrugge, ci rovina la vita, ci porta ad odiarli.
Lasciamo perdere, fratelli: credetemi, questo confrontarci maniacale con gli altri è una gara persa in partenza; nella vita ci sarà sempre qualcuno che è più di noi, che ha più di noi, che sa più di noi, che è più bravo di noi, più apprezzato, più bello. Se non siamo felici, la causa non sono gli altri, ma siamo noi; il vero problema siamo noi, fratelli, soltanto noi! Non ci accettiamo per quello che siamo; non siamo sicuri di noi stessi, pensiamo di non valere e ci mettiamo continuamente alla prova: “Ho di più io o gli altri? Sono più intelligente io o gli altri? Sono più bravo… onesto… rispettabile… cristiano… simpatico… bello… io o gli altri?”. Se la risposta è “io”, allora tutto è ok: ci sentiamo a posto, soddisfatti di essere superiori agli altri: è l’orgoglio che ci sostiene. Ma se la risposta è “gli altri”, allora crolliamo, cadiamo in depressione; oppure scatta in noi una insana rincorsa per essere e per avere sempre di più, più di ogni altro; oppure, ancora, attacchiamo, giudichiamo ingiustamente e con livore gli altri perché secondo noi non meritano di essere o di avere più di noi: “Non è giusto!”.
E questo succede perché nella vita siamo noi, purtroppo, i più accaniti sostenitori dei nostri meriti, siamo noi in assoluto gli unici a poter vantare dei meriti.
Ebbene: Gesù con questa parabola, se la prende proprio con la logica del merito, secondo cui Dio ci ama e ci premia in funzione dei nostri meriti; lo fa perché lo meritiamo, perché ci comportiamo bene. Così la pensavano i devoti del suo tempo. E così la pensiamo anche noi. Ma Gesù dà una spallata a questa logica umana: una logica che pone la giustizia come unico modo di relazionarsi fra le persone e con Dio. Per carità, la giustizia è certamente importante, ma rischia di trasformarsi in un'arida contabilità dei meriti. Invece, molto più importante del merito, c'è la grazia, c’è il dono: è questo che praticamente ci dice oggi Gesù.
Allora, non cadiamo, fratelli, nell’errore degli operai della prima ora: essi non hanno capito con quale padrone hanno a che fare. Hanno ridotto la loro fede semplicemente a fatica e sudore. Peggio: guardano con sospetto gli altri, quasi fossero concorrenti dei loro privilegi. Ma non è così che deve essere, soprattutto per noi che abbiamo colto la luce del Vangelo.
Rinunciamo a questa gara di chi è più meritevole, a questo confrontarci ossessivamente con gli altri: cerchiamo di essere noi stessi, non sragioniamo! Accettiamo gli altri per quello che sono: nostri fratelli. Perché ridurci a confrontare una pera con una mela? Vale di più la pera o la mela? Che senso ha? Sono due frutti diversi, entrambi ottimi, punto e basta! Che senso ha guardarsi in cagnesco, paragonarsi con cattiveria, confrontarsi invidiosamente e farsi vicendevolmente i conti in tasca? Lo ripeto: non perdiamo tempo, imitiamo invece Gesù, mite e umile di cuore.
Ringraziamolo e gioiamo per la grazia che ci ha concesso di poter lavorare nella sua vigna, pur non disponendo di alcuna specializzazione; gioiamo per la possibilità offerta anche agli altri nostri fratelli anche a quelli dell’ultimo momento di accogliere quella stessa grazia che ha donato a noi e che ci ha trasformati. La bontà di Dio contagi ogni istante della nostra vita, renda questa nostra “giornata lavorativa”, sin d'ora, specchio di quella gioia che il Signore un giorno riverserà nei nostri cuori. Il nostro Dio, amore infinito, ci faccia uscire dalle ristrettezze di una fede "sindacale", per percepire, almeno un poco, il calore di quell’immenso fuoco d'amore e di bontà che è il suo cuore. Auguriamocelo umilmente. Amen.
 

martedì 6 settembre 2011

11 Settembre 2011 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita “comunitaria”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante in una comunità ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci offre un ulteriore approfondimento del tema: uno dei modi più efficaci per esprimere l'amore, è il perdono.
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. «Quante volte devo perdonare?». Egli ha capito perfettamente che bisogna perdonare: ma quali sono i limiti di questo perdono? Egli pensa di mettersi in linea con la predicazione di Gesù, andando oltre le tre, quattro volte, previste dall’antica legge come per es. in Amos (2,4) e Giobbe (33,29) e, per tenersi sul sicuro, propone “sette volte”. Ma la risposta di Gesù va ben oltre: rovesciando il canto di Lamech che prevedeva un crescendo di violenza scatenata dal gesto di Caino: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette…» (Gn 4,24), Gesù fa capire quali impensabili risorse di misericordia siano legate all’avvento del suo Regno: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». In altre parole, caro Pietro, non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplice: il perdono non è frutto di un gesto eroico che nasce dal grado di bontà del discepolo, ma è la logica conseguenza di chi si rende conto di quanto perdono, lui per primo, abbia ricevuto dal Signore... Chi si guarda un po’ dentro, e vede quanto male è stato perdonato a lui, non può esimersi dal perdonare a sua volta. Quindi l'unica misura del perdono è perdonare sempre, senza misura e senza calcoli, perché così fa Dio con noi. La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, infatti, non è quella che ristabilisce la parità, in base alla regola “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti. Egli sostituisce la giustizia della legge che uccide, con la sua, quella dello Spirito che dona vita.
Perdono incondizionato, dunque. Ma cos'è il perdono? È possibile il perdono? Come si giustifica? Come viverlo? Cercherò di dare una risposta condivisibile a tali quesiti.
Per ciascuno di noi è una cosa naturale, istintiva, reagire alle offese degli altri, offenderci, rimanerci male e in qualche modo vendicarci, anche se si tratta di piccole cose. Se poi subiamo contrasti più gravi, torti o azioni cattive, lesioni alla nostra dignità, alla salute o alla vita nostra e dei nostri cari, sentiamo non solo il bisogno e il diritto di far valere le nostre ragioni (e fin qui può andare bene), ma di affrontare con altrettanta durezza e cattiveria il responsabile, per fargli pagare ad ogni costo quel “male” che abbiamo ricevuto. Ma è una soluzione che non paga. Perché ci fa cadere inevitabilmente in quel meccanismo in cui il male richiama altro male, la violenza (di qualunque tipo) richiama e moltiplica violenza; in questo modo non plachiamo certamente l’odio, ma lo alimentiamo facendolo crescere sempre più; inoltre l’idea della vendetta ci illude, ci corrode l’anima, inducendoci a pensare che è lei, la ritorsione, a rimettere le cose al loro posto; ma il risultato è ingannevole perché ci fa vivere nel tormento, con l'inferno nel cuore. Possiamo cogliere tanti piccoli esempi intorno a noi: vicini di casa che hanno litigato per un nonnulla e lasciano passare anni e decenni senza riprendere un dialogo, una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono ogni rapporto per cause spesso futili e banali; fedeli che collaborano nella parrocchia, impegnati nella chiesa, che si dilaniano l’anima per immaginari soprusi o per sgarbi di “lesa maestà” subiti da altri collaboratori; confratelli e consorelle in grave disaccordo che, pur assistendo quotidianamente all’Eucaristia, al momento della pace si riducono alla finzione, lasciando intatto nell’intimo del loro cuore il sentimento corrosivo del rancore, chiudendosi in maniera totale all’invito di Gesù di usare amore e misericordia. Ciascuno rimane orgogliosamente arroccato sulle proprie posizioni, su versanti diametralmente opposti. Eppure il perdono è l'unica strada, umana e cristiana, che consente, cristianamente e umanamente, di condurre una vita vera, autentica, serena e felice. Abbiamo anche tanti esempi di situazioni umanamente molto più dolorose e strazianti: quando per esempio qualcuno ti porta via il marito o la moglie e rovina la tua di vita e quella della tua famiglia, dei tuoi figli; quando qualcuno con grande superficialità, anche se involontariamente, causa la morte di una persona cara. Cosa fare allora? Come gestire queste situazioni gravissime? Come continuare a vivere, dopo aver subito azioni così distruttive? Ebbene, fratelli, non ci sono appelli, non ci sono eccezioni: anche in questi casi dobbiamo perdonare. Dobbiamo farlo noi per primi e indurre anche gli altri, che ci sono vicini, a farlo. Sembra impossibile, non è vero? Certo, umanamente parlando, visto dall’esterno, il perdono può sembrare un gesto eroico, irrazionale. Ma a ben vedere, non è altro che un gesto di equità, un concedere all’altro lo stesso beneficio che noi abbiamo già ricevuto in larghissima misura. Difficile da praticare, questo si. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto. Per questo dobbiamo chiedergli tutta la forza di cui abbiamo bisogno. Dobbiamo aprirci, anche se è difficile, alla rassegnazione, aprirci alla pace del cuore. Dobbiamo insomma aprirci a nuove dimensioni che rasentano il “divino”, diventando capaci di lottare contro l'odio, di santificare il dolore, di ritrovare la pace, di vivere, in una parola, il perdono. Gesù lo lascia intendere con estrema chiarezza: “perdonare” deve essere un distintivo per quanti vogliono seguirlo sul Suo cammino.
Come ho detto, molti pensano che il perdono sia un sentimento che nasce dal cuore, un gesto spontaneo di chi è già avanti nel difficile cammino della perfezione. No, fratelli. Il perdono è un atto di volontà che tutti possono e devono fare: un impegno forte, che deve regolamentare la nostra vita, il nostro modo di pensare, il nostro relazionarci, il nostro vivere da cristiani. Non è una cosa naturale, spontanea, semplice; ma è un gesto contro natura, irrazionale, incomprensibile: irrazionale e incomprensibile, del resto, come lo è tutto il messaggio evangelico di Gesù. Egli, perdonando e scusando contro ogni logica umana i suoi torturatori, i suoi carnefici, ci ha lasciato il più sublime esempio di perdono: le sue non sono quindi raccomandazioni astratte, ma sono vita vissuta, scuola pratica da seguire e basta.
Il cristiano è pertanto chiamato a perdonare, sempre e in ogni caso, proprio perché Dio lo ha sempre fatto con lui e continua a farlo. La sproporzione del debito dei due servi, magistralmente sottolineata nella parabola di oggi (migliaia e migliaia di talenti contro pochi denari) sta ad indicare l’enorme divario che esiste fra il perdono di Dio e il nostro. Ecco, fratelli: noi siamo chiamati a perdonare perché siamo dei “perdonati”, perché noi per primi abbiamo fatto e facciamo esperienza continua del gratuito perdono divino e non certo perché siamo più buoni degli altri. Cosa che difficilmente riusciamo a capire, perché spesso siamo convinti che se perdoniamo, lo facciamo perché in fondo in fondo siamo migliori degli altri, migliori sicuramente di quei “disgraziati” che ci hanno offeso. Non dobbiamo perdonare per dimostrare qualcosa a qualcuno, fratelli; ma solo perché noi per primi abbiamo bisogno assoluto di perdono, e perché portare rancore, fa più male a noi che agli altri... Siamo poi chiamati a farlo gratuitamente, senza pensare ad un qualche tornaconto, magari sperando che il nostro gesto cambi l'atteggiamento di chi ci ha offeso. Sicuramente il nostro perdonare, come quello di Gesù, rischierà di essere ridicolizzato dalla gente, forse ci verrà rinfacciato come un segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla sua strada il grande perdono di Dio, non può più fare a meno di guardare all'altro, al suo fratello, senza comprensione, senza amore e verità.
Con questo, fratelli, non voglio dire che il perdono debba cancellare, oltre ai torti e alle ingiustizie subiti, anche il loro ricordo; sarebbe umanamente impossibile. Ma il ricordo deve rinvigorire e riconfermare il nostro impegno, deve essere motivo di gratitudine verso quel Dio, che per la sua infinita bontà ci rinnova quotidianamente il suo di perdono. Molti dicono: “Vorrei perdonare, ma non ci riesco. Non riesco a dimenticare; appena vedo quella persona, il sangue mi torna a ribollire. Non posso farlo!”. Beh, provare simili sentimenti, come ho detto, è naturale, è umano; ma a queste persone dobbiamo dire: “Perdona, perdona sempre e comunque: l'importante non è ciò che senti, ma ciò che tu vuoi nel tuo cuore. Perché se tu vuoi perdonare, se lo desideri, hai già perdonato”.
E allora: come figli di Dio, dobbiamo avere verso i nostri fratelli gli stessi sentimenti di misericordia che Dio ha usato con noi: in altre parole, grazie al nostro perdono i torti e le ingiustizie che sopportiamo ci fanno diventare, paradossalmente, come Dio; il male che noi facciamo agli altri, diventa perdono di Dio a noi; il male che gli altri fanno a noi, diventa perdono nostro, che ci rende simili a Dio!
È in questo senso che dobbiamo leggere il famoso detto di Paolo: «dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia!» (Rm 5,20). Il perdono che riceviamo e che accordiamo, da peccatori perdonati, è esattamente il “respiro di Dio”, quello Spirito divino che diventa nostra vita. Del resto possiamo definire una comunità “osservante”, “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti, perché non sbagliano mai o non offendono gli altri; ma perché tutti si sentono dei “perdonati” e perdonano di cuore amando gli altri. Il male reciproco che inevitabilmente si fanno, non costituisce quindi un elemento dirompente, ma nel reciproco perdono diventa il collante che li unisce saldamente in Cristo.
Davanti a Dio, fratelli miei, noi tutti siamo debitori, eccome! Tutti siamo peccatori, assolutamente insolvibili; mai, in tutta la nostra vita, potremo rendergli l’amore che gli è dovuto, quell’amore che invece noi, con tanta disinvoltura, gli sottraiamo continuamente con i nostri peccati. Eppure egli è sempre pronto a condonarci tutto, a perdonarci senza limiti, indicandoci la strada del perdono che dobbiamo percorrere nei confronti dei nostri fratelli.
E nella parabola di oggi, Gesù ci offre proprio una dimostrazione pratica dei suoi insegnamenti, attraverso le vicissitudini dei due servi: riconsideriamola brevemente.
Il primo servo doveva al suo re una cifra enorme, “diecimila talenti”, una somma che non avrebbe mai potuto pagare al suo padrone: giusto per avere un’idea, un talento era pari alla paga di seimila giornate lavorative; diecimila talenti corrispondevano quindi a sessanta milioni di paghe quotidiane: una somma che per restituirla, quel servo avrebbe dovuto lavorare duecentomila anni senza mangiare. Un’assurdità. Consapevole di questo, egli tenta il tutto per tutto: si getta a terra e supplica tra le lacrime il suo creditore. E il re prova compassione per lui; si immedesima talmente nella sua angoscia, nella sua disperazione, al punto da considerarle più importanti della somma ingente che quel derelitto gli doveva. E in uno slancio di misericordia gli apre il suo cuore e gli condona tutto il debito. Un condono tombale, senza penalità alcuna. 
Bene: quello stesso servo, cui era stato condonato il suo mostruoso debito, “appena uscito”, trova un suo pari che gli doveva pochi denari... “Appena uscito”, fratelli; non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo. “Appena uscito”, quindi ancora emozionatissimo per quanto gli era capitato, ancora frastornato dalla gioia irrefrenabile per aver scampato un grave pericolo, per essere stato liberato da un incubo insopportabile: lui, che aveva appena fatta esperienza della grandissima misericordia regale, senza alcuna esitazione, sopraffatto dall’ira, prende il suo compagno per il collo e lo strangola gridando: “rendimi ciò che mi devi”; una inezia, poche monete rispetto ai miliardi che gli erano stati appena condonati! E senza pietà alcuna, lo fa gettare in prigione.
Che dire di questo servo, che così tanto ci assomiglia? Senza dubbio non è l'esempio che dobbiamo seguire! Certo, agli occhi del mondo egli si comporta nel rispetto del diritto e della giustizia. Fa cioè valere i suoi diritti, e quindi è nel giusto. Si, fratelli, è nel giusto, ma è un uomo senza pietà. Sarà anche onesto di fronte alla legge, ma è un uomo decisamente cattivo. Non ha saputo riconoscere al compagno, in una situazione decisamente meno impegnativa per lui, la stessa amicizia, la stessa misericordia che lui invece aveva appena sperimentato in misura clamorosa.
Purtroppo, fratelli, anche a noi può capitare spesso, e con facilità, di essere giusti ma spietati, onesti ma cattivi!
Non basta la giustizia umana per essere uomini superiori; e meno ancora per essere figli di Dio. Dobbiamo capire che il perdono guarisce, matura e fortifica chi lo esercita, cioè noi, non coloro che lo ricevono; e che quindi perdonando facciamo soprattutto i nostri interessi!
E concludo: Gesù suggella il suo insegnamento, proponendoci una pietà, una misericordia, un perdono razionalmente incomprensibili quanto si vuole, ma di una coerenza estremamente semplice: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?»
Due sono dunque i motivi per cui dobbiamo avere pietà e perdonare: per conquistare il cuore di Dio e per introdurre nell’apparente equilibrio di questo nostro mondo garantista, il “disordine divino”, scompaginante, del suo messaggio d’amore. E dobbiamo farlo col cuore. È difficilissimo perdonare veramente di cuore: comporta un profondo atto di fede, un dare fiducia all'altro senza guardare al passato, mirando solo al futuro; esattamente come fa Dio con noi: Si, fratelli: Dio ci perdona per un atto di fede, perché crede in noi, si fida di noi! Egli è sicuro che perdonandoci, investe su di noi, sul nostro cammino di perfezione. Non vi sembra meraviglioso tutto questo? Se solo sapessimo, se capissimo di quanto amore il Signore è capace di colmarci! Se prendessimo più seriamente l’insegnamento di questa pagina del Vangelo! Allora forse riusciremmo a costruire veramente delle comunità, una Chiesa, di perdonati!
Ecco, preghiamo proprio per questo: che le nostre comunità cristiane diventino luogo di comunione, di accoglienza, di perdono dato e ricevuto; perché tutti diventino testimoni credibili dell'amore infinito e gratuito di Dio. Amen.


mercoledì 31 agosto 2011

4 Settembre 2011 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita. Ecco allora che il senso profondo della Parola di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante e per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non dalla quantità delle nostre preghiere o dalla frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dai nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come stiamo con gli altri.
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, anche in quei momenti, non dobbiamo mai dimenticare di amare. Sì, fratelli. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella nostra vita possiamo anche non litigare mai, essere sempre ossequiosi con tutti, ma nonostante ciò, non amare nessuno; al contrario possiamo anche litigare spesso con i nostri fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Come è possibile? Il “litigio”, il nostro scambio “robusto” di opinioni, deve poggiare su una reale onestà mentale, sulla carità, sull’amore verso l’altro: ogni “scontro” ci deve lasciare ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso l’altro, e non totale chiusura nelle nostre posizioni, nel nostro astio. Ci sono persone che per anni litigano sempre per la medesima e identica cosa: vuol dire che non hanno mai saputo imparare, capire. Che serve allora litigare? Non serve, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamoci a un dialogo tra sordi.
Ma l’insegnamento di oggi va oltre: in una controversia, due sono le cose importanti: la prima è di evitare di pubblicizzarla, di mettere in piazza la lite, di dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori; la seconda è un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è un problema tra noi, dobbiamo sapere che in quel preciso momento egli ha ancor più bisogno del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior delicatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola con grande carità e discrezione. Ce lo sottolinea in apertura il vangelo di oggi: «Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo»; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: «Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era normale denunciare apertamente l’operato di una persona: se sai una cosa dilla a tutti. Gesù, invece, propone una cosa del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va fra te e qualcuno? Va da lui e diglielo. Se ci vai, conoscerai personalmente il suo punto di vista: forse ti ricrederai, forse non era come tu pensavi. Va dunque e senti di persona: soprattutto non basarti su quello che dice la gente.
Se ci aprissimo lealmente, fratelli, potremmo sicuramente capirci, potremmo aiutarci, venirci incontro e smettere di giudicarci: perché quando le persone fanno qualcosa, molto spesso lo fanno per dei buoni motivi che noi non conosciamo. Spesso infatti le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza, non per cattiveria.
Noi, invece, cosa facciamo? Se abbiamo un problema, un contrasto, un’opinione contraria con qualcuno, piuttosto che chiarire con lui, corriamo subito a sparlare e a malignare su di lui con i nostri “confidenti”. I quali si sentono immediatamente in dovere di mettere a loro volta al corrente della cosa i loro di “confidenti”, innescando così una reazione a catena di chiacchiere senza costrutto, il più delle volte crudeli, false e ingiuste.
Smettiamola fratelli, di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ascoltiamo soprattutto! Per quattro volte il vangelo ci ripete il verbo “ascoltare”. «Se ti ascolterà avrai guadagnato… se non ascolterà prendi ancora… se poi non ascolterà costoro…, se non ascolterà neanche la comunità…». Una insistenza con la quale vuole quasi imporci la condizione per un nostro corretto comportamento con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Come lo viviamo noi, fratelli miei, questo “ascoltare”? Ascoltiamo veramente? Ascoltiamo le parole false e volubili o la voce profonda e veritiera del nostro cuore? Cosa intendiamo esattamente per ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il nostro fratello ha sbagliato, come facciamo ad ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati al nostro parere preconcetto, lo ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, lo ascoltiamo? Se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, lo ascoltiamo? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio oppure tiriamo su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come facciamo ad ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, lo ascoltiamo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere un po’ altrettanti Dio, lo ascoltiamo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri e quindi ci preoccupiamo più di noi che di lui, lo ascoltiamo? E se non lo sappiamo ascoltare, come possiamo dire di amarlo?
La comunità di Matteo, come qualunque altra comunità, non era certamente perfetta: c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di dire: «In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore». Anche oggi non esiste comunità, famiglia, in cui non ci siano tensioni, conflitti, scontri. Ora - lo ripeto - litigare, entrare in conflitto, non significa non amarsi: vuol dire solo che si è diversi. Litigare è inevitabile! Non fa problema; un problema serio è invece quando due persone non litigano mai, quando due persone si scoprono sempre all’unisono: vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, si è “conformata”, almeno esteriormente, all’altra. Ma non è questa la vera prova d’amore; l’amore si dimostra soprattutto dal modo con cui vengono affrontati e risolti i problemi conflittuali. È così che dimostriamo la nostra maturità. È così che la nostra comunità (famiglia, parrocchia, luogo di lavoro, casa religiosa), dimostra di essere una comunità matura: perché, fratelli, la maturità non si conquista semplicemente con lo stare insieme, ma soltanto imparando a come stare insieme. Maturità è saper trasformare l’inevitabile conflittualità di un “con-fronto”, in un chiarimento di idee, in un ampliare le vedute, in un arricchimento reciproco.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, una comunità non cresce. Per questo è decisivo il modo con cui affrontiamo queste tensioni, questi conflitti, perché possono essere contemporaneamente causa di divisione o di comunione, di unione o di rottura, di separazione o di crescita.
Le situazioni, le difficoltà, non vanno mai ignorate, ma affrontate sempre nel modo giusto. Non c’è cosa peggiore che pretendere che tutto vada sempre bene, voler vedere solo tutto rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non paga mai.
Ancora: litigare, non significa essere ribelli, malvagi, come molti pensano: non è facendo valere le nostre ragioni che siamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è il modo con cui lo facciamo. Non esprimere mai il proprio punto di vista, per finta modestia o mellifluità, significa adeguarsi passivamente, e talvolta irrazionalmente, alla volontà del proprio partner o del proprio leader; non significa essere buoni, quanto piuttosto spersonalizzarsi oltre ogni limite; non volersi mai misurare con l’opinione altrui, è indice di due situazioni: o si è una vittima che subisce passivamente, oppure un tiranno che comanda in maniera dispotica.
Ecco l’importanza del parlarne, fratelli: esponiamo all’altro le nostre difficoltà, ascoltiamo le sue, lasciandoci mettere in discussione dalle sue parole. Non è importante chi vince. Abbandoniamo l’istinto di dominare l’altro, di dimostrare ad ogni costo che noi abbiamo ragione. Un pensiero ci deve accompagnare sempre in questi casi: dove c’è uno che vince, c’è sempre un altro che perde, e chi perde si sente umiliato.
Ascoltiamoci dunque: ascoltiamoci nel modo giusto, perché “ascoltare” vuol dire “cerco di mettermi nei tuoi panni (em-patia). Mi spoglio delle mie idee, per sentire quello che senti tu e mettermi nel tuo stesso punto di vista. Se rimango nel mio, non ti ascolto”. Ascoltare vuol dire andare ben oltre le parole, per cogliere quello che l’altro vive.
Molti dicono con orgoglio: “Noi amiamo la gente, l’umanità intera; noi amiamo tutti gli uomini”, ma poi, in realtà, non amano nessuna persona in particolare. L’umanità, la “gente”, non esiste: esistono solo le singole persone, gli uomini concreti. Non basta dire che noi amiamo, così in astratto; dobbiamo dimostrarlo con i fatti, concretamente, nei confronti di persone concrete, perché è il modo con cui ci relazioniamo con gli altri, nell’ambito della comunità in cui viviamo, che rivela chi siamo realmente.
Dobbiamo quindi imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, ad esprimere quello che abbiamo dentro, senza doverci sentire inferiori a nessuno; dobbiamo imparare l’empatia per ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti, dobbiamo avere l’ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti inevitabili di odio, di rabbia o d’altro; tutti sentimenti molto comuni in una convivenza. Purtroppo, fratelli, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, una vita guidata dall’amore e dall’ascolto.
Quanti di noi, fratelli, contano migliaia di conoscenze, senza essere poi amici di nessuno. Lasciatemelo ripetere: è perché sono immaturi, non vivono un rapporto armonico con loro stessi, non hanno imparato ancora a conoscere se stessi, non sanno superare quello stadio primordiale dell’aggressività, in cui si tende a proiettare sugli altri i propri limiti, i propri conflitti, le proprie manie, le proprie tendenze aggressive.
Quanto consolanti e promettenti sono invece le parole conclusive della Parola di oggi: «Se due si accorderanno per domandare una cosa, il Padre ve la concederà».
“Ac-cor-dare” vuol dire letteralmente “avere il cuore che batte alla stessa frequenza dell’altro”; in greco è “sin-fonia”. L’accordo è formato da note diverse: ogni nota è diversa, ma insieme formano l’ac-cordo, la bellezza, la sublimità di un concerto. «Se due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Essere uniti è come cantare all’unisono, con lo stesso ritmo, con la stessa tonalità, trovarsi in perfetta sintonia; è quando due cuori, nelle rispettive profondità, nelle rispettive aspirazioni, si fondono in un unico slancio d’amore.
Ecco, fratelli: quando si realizza questa “simbiosi”, quando avviene questo “contatto”, sperimentiamo la forza irresistibile e traumatica della immediata presenza di Dio tra noi, nella nostra comunità; è questo, e questo soltanto, che ne suggella l’unione.
Dire un sacco di cose, essere iperattivi, apparire sempre e comunque spumeggianti, esibire la nostra modernità, non significa essere “in sintonia”, non vuol dire vivere una vera unione con gli altri: in questo modo non arriveremo mai a sperimentare la forza dell’amore, i nostri cuori non riusciranno mai a vibrare in profondità. Parlare di tutto quello che facciamo, del tempo, dei vicini, dei confratelli, del lavoro, è solo un diversivo, non basta a guarire i nostri rapporti di convivenza, non risana il nostro cuore, non ci fa incontrare nel vivo con l’altro.
Ciò che ci rende uniti, ciò che ci salva, non consiste nel “regalare” agli altri parole, ma regalando noi stessi, con semplicità, così come siamo, con la nostra vulnerabilità, con le nostre paure, con le nostre imperfezioni. L’unione vera nasce proprio da questo “metterci a nudo”, dal farci vedere e accettare per quello che siamo. Buttiamo alle nostre spalle pregiudizi, incomprensioni, orgoglio; armiamoci di coraggio e facciamolo, con serenità, con umiltà, senza temere di essere traditi, fidandoci dell'altro: e in questo caso avremo la sensazione inconfondibile che tra noi, nella nostra comunità, c'è anche Lui. E questo ci deve bastare per vivere sereni. Amen.

giovedì 25 agosto 2011

28 Agosto 2011 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno…».
Ad un certo punto della sua vita Gesù affronta decisamente il suo destino. La sua condotta di vita, troppo aperta, troppo chiara e manifesta, era già diventata pericolosa. Quello che diceva e quello che faceva era troppo provocante, troppo compromettente per la gente altolocata, per i ricchi del suo tempo, per i potenti, e di certo non gliel’avrebbero fatta passare liscia. Gesù era “troppo” per tutti, in tutti i sensi: non era l’uomo del compromesso, delle mezze misure, degli adattamenti o delle vie di mezzo. Il suo parlare era chiaro: “si si, no no!”.
Era inevitabile quindi che decidesse a questo punto di completare la sua missione, affrontando quella che sarebbe stata la svolta decisiva della sua vita, la grande sfida col mondo: andare a Gerusalemme. Finché viveva e predicava in Palestina tutto sommato non interferiva più di tanto con i grossi poteri. Ma andando a Gerusalemme si sarebbe scontrato inevitabilmente con gli interessi dei potenti, con le più alte autorità religiose. Prima di tutto con gli anziani: per loro Gesù era troppo infantile, troppo acerbo, troppo sognatore, un romantico idealista. Per il loro cuore di ghiaccio, razionale, rigido, un uomo così era pericoloso; un uomo che si stupiva degli uccelli del cielo o dei gigli dei campi; un uomo che accoglieva i bambini o che accarezzava le donne, cosa avrebbe potuto fare di buono?: “Che sono queste smancerie? Che sono queste effusioni amorose? Romanticismo, cose da poeti, da adolescenti, da femminucce”. E, infatti, lo condanneranno a morte. Poi si sarebbe scontrato con i sommi sacerdoti: per i loro cuori pieni zeppi di leggi, di tabù, di regole, di prescrizioni, di cose da osservare, Gesù era troppo libero. Annunciava un Dio troppo vicino, un Dio che non faceva paura, che si chinava amorevolmente sull’ uomo. Un Dio troppo progressista, sociale, vicino alla liberazione dell’uomo; un uomo che si crede in contatto con Dio, che gli parla, che rivendica la pretesa che Dio parli al suo cuore; un Dio amico, vicino, che si preoccupa dei lebbrosi, dei pagani, degli esclusi; un Dio che mette tutti sullo stesso piano: ma che Dio è questo? Come si permette quest’uomo di pretendere di sapere chi è Dio? Di Dio bisogna avere paura, bisogna temerlo, obbedirgli, non come fa quest’uomo che lo chiama papà! Gesù era per loro una rivoluzione: parlava di un Dio che non conoscevano, metteva in discussione e in dubbio ciò in cui avevano sempre creduto. E, infatti, lo condanneranno a morte.
Infine avrebbe avuto grossi problemi anche con gli scribi: per i loro cuori così pieni di arroganza, così pieni di sé e del loro orgoglio (loro erano gli unici interpreti della Scrittura, loro sapevano tutto, cos’altro poteva essere annunciato di nuovo?) Gesù era una bomba che sconvolgeva il loro mondo e la loro vita, e stravolgeva tutto il loro sistema, i loro credo, le loro interpretazioni bibliche. Per loro Gesù era troppo pericoloso; quest’uomo che parla della Bibbia in un modo totalmente distorto, chi si crede di essere? Questo uomo non ascolta i padri, la tradizione: come può pretendere di saperne più di noi, noi, gli unici custodi e interpreti della Parola e della tradizione? E, infatti, lo condanneranno a morte.
Gesù percepisce l’ostilità che sta montando intorno alla sua persona. Il suo modo di vivere tocca e mette in discussione troppe persone, troppi interessi e troppi cuori. Tutto quello che fa, è osservato, sezionato, e si cerca ogni pretesto per metterlo in cattiva luce, per avere da ridire su di lui, per trovare malignità contro di lui, per accusarlo. È la sorte dei grandi uomini: siccome non li si può attaccare nella verità, li si attacca con le menzogne.
Gesù lo sente, sa tutto questo, lo intuisce; percepisce che si sta organizzando il pretesto per imbavagliarlo, per contenerlo, per metterlo a tacere, per tendergli inganni: Egli sa di essere un uomo scomodo e poiché non sarebbero mai riusciti a imbavagliarlo, a farlo stare zitto, prima o poi avrebbero trovato l’occasione per zittirlo definitivamente, uccidendolo. Come puntualmente avvenne.
E lo dice ai discepoli: “Guardate, mi potrebbero uccidere. Potrebbe capitare: preparatevi. Andare a Gerusalemme sarà molto pericoloso. Ho paura, ma devo andarvi lo stesso; non posso tirarmi indietro, non posso abbandonare la mia missione. Non posso tradire il mio cuore, tutto quello che sento e provo, la mia missione, il mio Dio. Io devo andare”.
Questo è il messaggio che Gesù si preoccupa di trasmettere ai suoi; ma gli apostoli sono scettici, fanno fatica a credere e ad accettare la cosa. Non può essere. Come si può perseguitare un uomo come Gesù? Come si fa a voler del male ad un uomo così? Come si può anche solo pensare di togliere la vita ad uno che dà la vita? E Pietro, sanguigno come al solito, sbotta improvvisamente: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
Pietro qui fa da maestro a Gesù; i ruoli si capovolgono e gli si mette davanti. Il vangelo dice che “trasse in disparte” Gesù. Gesù ha deciso di seguire la sua strada; Lui ha una direzione ben precisa, ha la sua missione da compiere; Pietro invece vorrebbe distoglierlo, lo tira fuori, lo tira in disparte dal suo andare. Ma Gesù, che poco prima gli aveva detto “Tu sei la pietra su cui fonderò la mia chiesa”, lo redarguisce, gli risponde severamente: «Lungi da me, satana»; letteralmente: “Dietro di me, satana”. “Io vado dove devo andare: non distrarmi; non cercare di intralciarmi il passo, togliti da mezzo, mettiti dietro!”.
E qui c’è un primo importante messaggio per noi, fratelli. “Qualunque cosa succeda nella nostra vita, dobbiamo andare sempre avanti”. Non fermiamoci, non arrendiamoci, soprattutto non compiangiamoci! Dopo ogni sconfitta, dopo ogni fallimento, dopo ogni caduta, quando non sappiamo dove andare, quando ci verrebbe voglia di cedere, continuiamo ad andare sempre avanti; se siamo caduti, rialziamoci e proseguiamo!.
Parole che ci vogliono dire anche un’altra cosa: “Niente e nessuno si metta tra voi e il vostro cammino, nessuno osi intralciare il vostro cammino”. Satana, che cerca sempre di pararsi davanti a noi, deve invece stare dietro, non ci deve infastidire, non deve pretendere di guidarci, di portarci dove vuole lui: siamo noi che andiamo dove vogliamo e dobbiamo andare.
Ma chi è Satana? Qui Satana è Pietro, l’amico di Gesù. Sicuramente Pietro non voleva male a Gesù, anzi pensava di fargli cambiare idea proprio perché gli voleva bene. Satana, quindi, non è sempre colui che ci odia, quel demonio che ci fa paura, con le corna e il fuoco, contro cui dobbiamo andare dall’esorcista. Satana spesso è proprio uno che ci vuol bene, Satana sono i nostri cari, le persone amiche, chi ci è vicino; Satana è chiunque si mette davanti a noi e pretende di consigliarci quale strada fare, secondo il suo modo di vedere le cose. Satana siamo addirittura noi stessi quando per pigrizia, per non faticare, per non accettare la responsabilità di essere adulti, ci mettiamo comodamente a traino di qualcun altro, lo seguiamo passo dopo passo; facciamo per filo e per segno quello che gli altri ci dicono, ci conformiamo supinamente a ciò che gli altri hanno stabilito per noi: “Davanti a te nessuno”, dice Gesù. Satana quindi è chi ha le soluzioni per noi, chi ha le risposte per noi, chi ci dice cosa è bene e cosa è male per noi. Satana sono tutte quelle persone che con la loro posizione, con la loro autorità, con la loro influenza, tentano di gestirci, di manovrarci, di manipolarci. Satana è questa società che decide per noi come dobbiamo vestirci, cosa dobbiamo comprare, cosa mangiare, dove dobbiamo andare in vacanza, quali programmi guardare in tv, cosa fa tendenza (cioè cosa deve piacerci), insomma come e cosa devo pensare. Ma attenzione: se accettiamo che qualcuno si sostituisca a noi, che si metta davanti a noi sulla nostra strada, vuol dire che noi accettiamo di stargli dietro, vuol dire che ci sta bene seguire questo qualcuno: e quindi rinunciamo a fare la “nostra” strada, quella che magari abbiamo iniziato con tanto entusiasmo.
Gesù non fu certo succube di qualcuno, non fu vittima di una cieca fatalità, ma affrontò ad occhi aperti e con grande volontà la sua missione di amore e risurrezione attraverso il dolore e una morte straziante. Gesù era perfettamente consapevole di quello a cui andava incontro: sapeva perfettamente che la sua non era una sofferenza occasionale, gratuita. Egli non era venuto per soffrire senza motivo. Al contrario durante tutta la sua vita aveva predicato a tutti amore, felicità, amicizia, libertà; Gesù non voleva, né per sé, né per gli altri, la sofferenza, ma la gioia; non la morte, ma la vita.
Nella nostra vita dobbiamo invece fare i conti con due forze contrapposte: la fantasia e la realtà. Con la fantasia tendiamo a soddisfare tutte le nostre aspirazioni, immaginiamo e viviamo situazioni da cui possiamo trarre tutto il massimo piacere possibile. Ma sono fantasie, e devono fare i conti con i fatti, con la realtà, con la vita concreta; una vita, in cui purtroppo non è possibile avere tutto ciò che si desidera, in cui esistono limiti invalicabili. In questo mondo non siamo da soli; ben presto dobbiamo imparare che bisogna convivere con altre persone, con altri progetti, con altre situazioni che ci impongono spesso delle rinunce, anche molto pesanti; non dobbiamo mai dimenticare che la nostra esistenza ha delle regole e dei limiti: è essenziale. Perché l’unica certezza che abbiamo sulla nostra vita, è il suo limite temporale: noi non vivremo per sempre; non potremo mai realizzare tutti i nostri sogni, i nostri progetti: non possiamo sposare tutte le donne che vorremmo, e neppure abbracciare tutte le professioni che ci piacciono o seguire tutte le vocazioni verso cui siamo attratti: di tutte le possibili strade, dobbiamo percorrerne una, la nostra, con impegno, entusiasmo e fedeltà. Non possiamo ridurci a pensare che siano le ricchezze di questo mondo a renderci felici: e neppure credere che l’accumulare “giocattoli” (case, cellulari, auto, vacanze speciali, vestiti, oggetti da esibire) o addirittura il “possedere” le persone, ci dia l’amore e la felicità di cui abbiamo bisogno. Se crediamo questo, siamo rimasti bambini, non siamo ancora cresciuti, pensiamo che tutto il mondo continui a girare intorno a noi. Continuiamo a vivere nel mondo dei sogni, della fantasia.
Crescere è doloroso, é faticoso. Abbandonare le maschere e i sogni illusori è difficile per tutti. Guardare in faccia la realtà, e non quello che si vorrebbe essere o avere, è a volte tragico. Non illuderci, non ingannarci, è traumatico: è come una spada che ci taglia in due. Vedere che il tempo passa, che non si è più giovani, che non si è più atletici, belli, vigorosi come una volta, che le difficoltà aumentano, non ci fa certo piacere, ma è la realtà che dobbiamo accettare e con cui convivere serenamente. Anzi dobbiamo cogliere il senso di tutto questo: accorgerci che possiamo essere feriti, vulnerabili, rivedere nitidamente in un flash back tutti gli errori commessi a causa del nostro orgoglio, renderci conto che fino ad oggi abbiamo vissuto una vita vuota, di facciata, insulsa, tutto questo ci fa un male cane, è uno smacco tremendo, una occasione salutare che ci deve catapultare in una nuova esistenza. Nella realtà. Nelle nostre vere possibilità. Sulla strada autentica della nostra vocazione, quella in cui Dio ci vuole. Dobbiamo ridimensionare le nostre illusioni: dobbiamo rinunciare ad un sacco di idee, di chimere, di sogni irrealizzabili, di illusioni, di fantasticherie; dobbiamo fare i conti con la vita reale, perché, fratelli miei, la realtà non si cambia, si può solo viverla: anche se dobbiamo farlo con sofferenza, con quella sana sofferenza che è l’umile accettazione della Volontà di Dio. Perché lui solo vuole il nostro bene.
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Gesù è chiaro in proposito, e le sue parole ci devono portare alla logica conseguenza del “pensare secondo Dio” e non secondo gli uomini.
“Rinnegare”, in greco, significa “dire di no”. Non nel senso che dobbiamo sistematicamente rifiutare tutto, ma nel senso che dobbiamo dire dei “no” a certe illusioni di vita, traducendoli in altrettanti “sì” alla Vita. Dobbiamo rinnegare noi stessi, cioè dire di no alle nostre fantasie, a quelle maschere dietro le quali volentieri ci nascondiamo, per aderire generosamente a quelle situazioni in cui la Vita ci chiama.
Dobbiamo, dice il vangelo, “dire di no” a tutto ciò che non siamo noi, dobbiamo prendere la vita nelle nostre mani e viverla con maturità e sincerità. Perché la vita che abbiamo è unica, ed è un dono impareggiabile: dobbiamo prenderla e amarla così com’è. C’è un proverbio russo che dice: “Con le bugie giri tutto il mondo, ma non arrivi mai a casa”. Proprio così, fratelli miei! Chi mente a se stesso, chi si mostra all’esterno diverso da quello che è nel suo intimo, si allontanerà sempre di più da se stesso, dal suo bene.
“Chi vuol salvare la propria vita la perderà”: cioè, chi non vuole osare, chi non vuole rischiare di vivere in prima persona la sua vita, con tutto ciò che comporta, gioie, dolori, affanni, la perde. Solo chi è disposto a perdere le proprie convinzioni, le proprie idee, i propri egoismi, a mettersi in gioco, la trova. Perché per vivere autenticamente la nostra vita, dobbiamo in qualche modo “morire”. Chi vuol rimanere così com’è, perirà. Chi vuol fermare il tempo per non progredire, morirà; perché il tempo non si può fermare.
A che serve all’uomo vivere e fare un sacco di cose se poi perde la sua anima, la sua strada, se stesso? A che ci serve indossare una maschera e vivere una vita non nostra? A che ci serve ciò che facciamo, se poi non viviamo? Se poi non siamo felici? Se poi perdiamo Dio, la Speranza? Se poi perdiamo il dialogo profondo con chi amiamo? Se poi non riusciamo a esprimerci? Non è da sciocchi, da insensati? Lo sappiamo tutti che non funziona: nessuna maschera, nessuna vita non nostra, ci farà mai felici! Cosa possiamo sperare in cambio della nostra anima, della nostra vita? Quando abbiamo perso ciò che abbiamo dentro, abbiamo perso tutto. Ci siamo mai chiesti perché molte persone sono vuote, tristi, prive di vita? perché hanno perso l’unica cosa che non dovevano perdere, l’unica cosa che avevano: la loro anima, se stesse, la loro unicità. Ripeto: se dentro siamo vuoti, tutto ciò che ci circonda è vuoto.
E concludo: Dio dà a ciascuno secondo le sue azioni. Sì, è proprio così, fratelli. “Custodisci il tuo cuore perché da esso sgorga la vita”, dicono i Proverbi. Se corriamo dietro al mondo, all’effimero, avremo il mondo, l’effimero. Se seguiamo Gesù, avremo Gesù. Ognuno raggiungerà ciò che insegue. Se non inseguiamo niente, non arriveremo a niente! Chi insegue cose da poco, avrà poco; chi osa molto, avrà molto, magari non tutto ciò che insegue, ma sicuramente molto. Perché Dio ci dà in base alle nostre azioni, e non solo nel futuro, ma anche nel presente. In altre parole: la vita che viviamo dipende da noi, è nelle nostre mani: in fondo (e la cosa ci dà molto fastidio) ognuno è l’artefice della propria vita, della propria felicità o infelicità. Quindi non lamentiamoci, fratelli, perché, se la nostra vita è così, vuol dire che in qualche modo siamo stati noi a volerla così. Dice infatti il Siracide (15,17-18): “Davanti agli uomini ci sono la vita e la morte; a ognuno sarà dato quello che a lui piacerà”. Pensiamoci. Amen.