mercoledì 23 febbraio 2011

27 Febbraio 2011 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

« Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete… non preoccupatevi del domani…».
“Disfattista”. Ecco cosa direbbe un convinto sindacalista moderno di fronte alla logica del Vangelo di oggi. “Come si fa a campare così? Dove andrebbe a finire l’industria, il commercio, il prodotto interno lordo, e via dicendo, se tutti la pensassero così? Hai voglia a guardare gli uccelli, i fiori dei campi e quant’altro: qui, se non ti dai da fare, se non ti preoccupi, non arrivi a mangiare. Altro che i passeri!” Eh sì, fratelli: questa è la mentalità dominante: questa è la legge che fa girare il mondo; «di queste cose vanno in cerca i pagani» ribatte Gesù. E come al solito non gli si può dar torto.
Del resto che fa la nostra società tutti i sacrosanti giorni? Guardiamoci un po’ intorno: un attivismo frenetico la domina incondizionatamente, spingendola su due fronti diametralmente opposti: alcuni vivono l’oggi in modo sregolato, cercando di cogliere al volo l’attimo fuggente, approfittando di tutte le occasioni – lecite o non lecite non importa – purché assicurino piacere, soddisfazione, senso di appagamento; altri invece investono tutte le loro risorse proiettati solo nel domani, vivendo quotidianamente in un crescente affanno per assicurarsi benessere, prosperità, ricchezza, incapaci di porre limiti alla loro fame di potere.
Gli uni e gli altri, a ben vedere, ci fanno pena: la voracità del piacere li schiavizza entrambi; entrambi calpestano il presente, l’oggi, tormentati dall’inquietudine per un ipotetico domani: illusi! Ma chi vi assicura di arrivare a quel domani?
Un atteggiamento questo che, in verità, non deve proprio essere una esclusiva del nostro tempo, se già più di duemila anni fa Gesù ne denunciava l'assurdità, invitando piuttosto a confidare nella Provvidenza, ad avere fiducia in Dio che conosce bene “quello di cui abbiamo bisogno”: il che, guardate, non significa vivere da incoscienti, senza far nulla, aspettando la manna dal cielo; significa invece non dare alle cose materiali un'importanza maggiore di quella che dovrebbero avere, non vivere nell’ansia continua per quanto si teme possa accadere in futuro. Questo è da gente senza fede.
Al contrario «cercate – prima di tutto – il regno di Dio e la sua giustizia»; cercate cioè quello che è giusto davanti a Dio: il resto verrà da sé. Dio è un Padre che non abbandona, che non può trascurare chi si ricorda di essere suo figlio. «Non preoccupatevi del domani; a ciascun giorno basta la sua pena». In questo sta la saggezza cristiana.
"Guardate, osservate" insiste Gesù. Una raccomandazione che coglie nel segno, che vale proprio per noi. Noi infatti non siamo più capaci di osservare; non siamo più capaci di riempirci gli occhi dell’altro mondo, di ciò che ci circonda. Passiamo davanti ad universi di bellezza ogni giorno, e noi nulla: non alziamo neppure lo sguardo. Ininterrottamente presi dai nostri affanni, dalle nostre fatiche, dalle nostre rinunce, dai nostri progetti e soprattutto dalle nostre manie.
Osserviamo invece la vita, fratelli; guardiamoci intorno, osserviamo la natura... C'è un universo di bellezza, un oceano di meraviglie nel quale tuffarci.
E Gesù lo sa bene: non si inventa nulla di strano per rassicurarci, per lanciarci dei messaggi. Non passava certo ore e ore della notte per scoprire qualcosa di nuovo da raccontarci! Preferiva camminare, osservare, guardare: la donna che impasta il pane con una misura di lievito, la bellezza della luce, il semplice e forte sapore del sale, il male provocato da uno schiaffo, il chicco di grano che marcisce nella terra, il sole che sorge sui buoni e sui cattivi, la pioggia che cade, una donna che piange, un uomo che prega nascosto in una stanza, e un altro ritto come in una piazza.
«Guardate gli uccelli del cielo e i gigli del campo! Non vi rendete conto di quanto valete? Non preoccupatevi di quello che mangerete, di quello che berrete e del vostro vestito».
Attenzione però: le parole di Gesù, lo ripeto, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lui ha ben presenti, che gli sono sempre davanti, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Non sono parole, le sue, che invitano ad una filosofia di vita apatica, indifferente, insensibile, stoicista! Non confondiamo. Gesù conosce bene la vita. Conosce bene la tentazione per l'uomo di affannarsi, di agitarsi convulsamente per qualunque cosa i suoi occhi la vedano “buona”! Fino al punto di perdere la bellezza della vita stessa.
Non è così fratelli? Non rischiamo anche noi tante volte, volendo capire tutto della vita, col finire di non capirci nulla? È vero: l'affanno procura tesori, ma i tesori procurano affanno; e diventiamo cani che si mordono la coda; più ci affanniamo e ci preoccupiamo e più ci allontaniamo dalla possibilità di vivere la vita, più ci facciamo condizionare da essa; più ci allontaniamo dal vivere le possibilità che il tempo ci dona, e più ci lasciamo travolgere dalla velocità degli eventi stessi. Vorremmo essere al sicuro, possedere la sicurezza della vita, vorremmo avere tutto in mano. Anche il domani. E invece Gesù sa che il domani è nelle mani di Dio, che il tempo è nelle sue mani e nella misura in cui vogliamo possederlo, proprio allora esso ci sfugge di mano.
E allora, fratelli, accogliamo con tutta semplicità l’oggi che ci è dato di vivere; e mettiamo il domani nelle mani di Dio. Accogliamo in questo modo il messaggio di Gesù, accogliamo il suo Vangelo!
Chi, come noi, ha riconosciuto Gesù quando è passato lungo la propria vita, e ha abbandonato la barca degli affanni materiali per seguirlo, è veramente libero: è libero di darsi da fare, di appassionarsi per la propria vita, per la vita dei fratelli; ma con l’operosità lieta di chi sa che la vita è veramente un dono di Dio. Un dono che ci supera. Che ci sovrabbonda.
Gesù ci chiama a vivere nella libertà, ci vuole uomini e donne libere, non schiavi dell'ansia, dello stress o dell'affanno, non schiavi delle nostre paure: paura del giudizio degli altri, paura di chi ci vive accanto, paura di morire, paura del domani, paura di ingrassare, paura di non essere alla moda... Non dobbiamo vivere sempre sotto la minaccia di noi stessi; le paure sono anzitutto dentro di noi: Martin Luther King al termine di un suo discorso disse: "La paura ha bussato alla mia porta; l'amore e la fede hanno risposto; e quando ho aperto, fuori non c'era nessuno." Amore e fede annientano qualunque ansia, qualunque paura.
«Non vi affannate... non vi affannate»: per ben cinque volte in pochi versetti Gesù ci ripete questa raccomandazione. Si, perché noi già viviamo con tante, con troppe cose: abbiamo gli armadi pieni, le dispense colme, eppure viviamo sempre nell’affanno, preoccupati del domani. L'ansia ci fa accumulare cose inutili, e più accumuliamo, più sentiamo il bisogno di avere. Gesù invece ci invita a chiedere solo il pane per l'oggi: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Non ci dice di chiederlo in anticipo anche per domani. No, solo per oggi.
«Cercate – ci dice ancora – cercate il regno di Dio». In altre parole, “cercate prima di tutto di vivere con amore, cercate di avere l'amore tra voi, cercate di essere fratelli, cercate di volervi bene, cercate chi ha più bisogno di voi, cercate l'accordo, cercate la mia Presenza. Cercate prima di tutto queste cose: questo è l'importante: tutto il resto vi verrà dato in aggiunta”. È infatti l'amore, il cercare di far felice l'altro, l'antidoto all'ansia, al nostro affanno quotidiano.
Questo deve essere, fratelli, il nostro “cercare” quotidiano. Ed è proprio in questo continuo “cercare”, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi intuiamo e scopriamo il senso della vita. Cercare non significa capire tutto, ma essere pronti ogni giorno a imparare. Imparare a vivere. Imparare ad amare. Il senso della vita, infatti, è nelle pieghe stesse del nostro vivere: usciamo di casa ogni mattina, fratelli, e osserviamo, guardiamo, camminiamo, apriamo gli occhi e spalanchiamo il cuore.
E impariamo. Impariamo che la vita è un dono, un tesoro, è oro puro. E respiriamo. Si, respiriamo questa vita, a pieni polmoni, respiriamo l’amore, respiriamo la fede, cantando con gioia a Dio. Amen.

mercoledì 16 febbraio 2011

20 Febbraio 2011 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Imitate il Padre, imitate Dio, siate perfetti come lui».
Ci risiamo. Per la terza volta veniamo messi con le spalle al muro. Se non l’abbiamo capito prima, dobbiamo per forza capirlo ora. Ma cosa vuole Gesù da noi?
Nulla, fratelli miei: semplicemente che diventiamo santi!
Capitolo quinto di Matteo: ricominciamo ancora da capo. Facciamo in modo che la nostra vita ricominci da qui. Dove mai siamo stati in tutti questi anni? Che abbiamo fatto di tanto speciale, da sentirci così tanto sicuri? Da non provare più alcuna esitazione nel sistemarci le cose a modo nostro? Da mettere con tutta naturalezza il vangelo tra i tanti libercoli e opuscoli farciti di stupidaggini che amiamo così tanto consultare per la nostra vita diventata ormai atona, incolore, senza slanci veri?
Si certo, siamo ossequienti al Vangelo, in qualche momento amiamo anche Gesù, sinceramente e con trasporto: ma poi? Beh, ma poi ci sono anche tante altre cose che ci aspettano, tante cose di cui solo noi dobbiamo farci carico, che nessuno si offre di risolvercele: c’è il lavoro, c’è la famiglia, ci sono i figli, i nipoti, i confratelli e le consorelle, tutti che rompono in continuazione; poi c’è la palestra, c’è la cucina, e perché no? C’è finalmente anche un po’ di relax, di svago tutto per noi. Anche noi ne abbiamo diritto, no?
Che possiamo fare ancora di più?
Matteo, capitolo quinto: una serie di staffilate secche per il nostro pietismo, per la nostra indifferenza, per la nostra supponenza, per la nostra superbia, per il nostro egoismo, per la nostra “astuzia” nel trovare sempre una scappatoia di fronte alle nostre responsabilità.
Per favore, fratelli, non facciamo anche adesso i soliti perbenisti! Cerchiamo di essere onesti con noi stessi almeno in questo momento! Smettiamola di guardare all’altro, come termine di paragone per la nostra condotta! Un esempio da seguire ce l’abbiamo, chiaro e lampante:«Siate santi come il Padre mio». Dove corriamo a destra o a sinistra? La strada giusta è qui, davanti a noi.
Matteo, capitolo quinto: altro che “politically correct”: qui è tutta un’altra musica!
«Beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i puri….; sarete beati quando vi insulteranno, quando vi perseguiteranno… Voi siete sale della terra e luce del mondo… Avete sentito dire: non uccidere, ma io vi dico chiunque si adira con suo fratello sarà sottoposto a giudizio… Udiste che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Io però vi dico: non opporti al malvagio, anzi se uno ti colpisce la guancia destra, tu porgigli anche l’altra… ».
È un crescendo, una escalation: dal “beati” iniziale, che tutto sommato poteva anche starci, siamo passati a doverle anche buscare, sempre e comunque, felici e contenti. Non è un po’ troppo?
E allora chiediamocelo ancora: Ma cosa vuole veramente Gesù da noi?
E la solita voce dentro di noi ci ripete implacabile: “Voglio che tu sia santo come il Padre mio!”
Altro che chiacchiere. È arrivato il momento di buttarci finalmente tutto alle spalle, di capire che non è più possibile condurre una vita, corretta si, magari anche in ordine con una certa morale, ma appena passabile rispetto al vangelo!
E poi, quale morale? Quella cristiana? Ma senza Cristo, anche quella è inutile; senza la “carità” anche i miracoli sono luce fatua!
Invece come cambierebbero le cose se ci mettessimo nella prospettiva di Matteo cinque: come cambierebbero radicalmente le cose se ci mettessimo nella determinazione di imitare il Padre! Diventeremmo capaci di amare fino all'inimmaginabile, perché solo così ci sentiremmo amati da Dio, esattamente nel modo in cui lo siamo realmente!
Allora, fratelli, cosa aspettiamo di uscire dalla logica dell'occhio per occhio e dente per dente? Quando diremo basta al do ut des? Quando decideremo di farla finita con la nostra fede anestetizzata?
Prendiamo con coraggio in mano il Vangelo, allunghiamo con decisione il passo sulle orme di Cristo, non facciamoci distrarre dagli specchietti luccicanti del mondo, siamo seri!
Crediamo, osiamo, voliamo in alto! Non trinceriamoci dietro al “ma ciò richiede eroismi impossibili”. Tentiamo, semplicemente tentiamo con tutta la nostra volontà: sforziamoci sinceramente e, soprattutto, ascoltiamo la presenza di Dio dentro di noi; lasciamoci consumare dalla sua presenza, perché questo, e questo soltanto, ci cambia nel profondo. Totalmente.
Si, fratelli: questa è la grandezza di Dio, qui c’è Gesù in persona; un Gesù che da anni, pazientemente, vuol farci entrare in zucca un fatto elementare: Lui ci ama, ci ama sempre, ci ha sempre amati. Tutti, uno per uno. E non si dà pace nel vederci andare alla deriva, allo sbando. Facciamogli un cenno, che ci costa? Basta anche un piccolo cenno, un primo passo, dimostrargli, anche con poco ma con animo sincero e determinato, che sì, noi siamo là, che finalmente abbiamo capito e siamo là, che apprezziamo quanto egli fa per noi. Proviamoci: così, tanto per cominciare.
Perché è così che imbocchiamo la strada che conduce alla santità. La santità passa da qui!
Che aspettiamo? Animo, osiamo, buttiamoci! Amen!

mercoledì 9 febbraio 2011

13 Febbraio 2011 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Così fu detto agli antichi: ma io dico a voi…».
Un brano duro, quello di oggi: schietto, senza fronzoli. Un brano che puntualizza punto per punto la rivoluzione che Gesù ha portato con il suo comandamento nuovo.
Non che la Legge fosse una cosa cattiva, anzi: era il vademecum per chi voleva essere fedele all’alleanza che Dio aveva stabilito con l’uomo. E i profeti? Erano i giudici di percorso, quelli che alzavano la bandierina gialla di pericolo, quando qualcuno tagliava la curva, pensando di fare il furbo e di guadagnarci sopra. Gesù non è venuto a sconfessare nulla di tutto ciò. Quello che Gesù attacca senza mezzi termini è il freddo “legalismo”, la degenerazione della vera osservanza, l’osservanza sterile, formale, quell’osservanza che lungo i secoli aveva perso per strada la fede viva e l’amore sincero.
L’uomo dell’Antico Testamento, nato dalla polvere del deserto, aveva ricevuto dal soffio divino l’autocoscienza, la possibilità di gestirsi liberamente nelle sue scelte. Un po’ alla volta però, il suo rapporto con Dio perdeva ogni spontaneità, la sua visione delle cose si cristallizzava; perdeva ogni impulso vitale suggerito dall’amore. Gli bastava essere un osservante esteriore della Parola, senza troppi coinvolgimenti interiori. Paradossalmente era proprio la legge, con i suoi divieti, i suoi comandi, le sue limitazioni, che permetteva al peccato di esprimere in lui tutta la sua potenzialità negativa; serviva in qualche modo a stuzzicargli la voglia di peccare e a far uscire il veleno che c’era nella sua anima. L’uomo, la creta primordiale dell’Eden, pur se vivente, era come morto. Si, perché aveva perso l’Amore.
Gesù è venuto proprio per colmare questo vuoto; con il nuovo soffio dello Spirito, l’uomo ora è rinato a vita nuova; la Pasqua di Cristo gli ha restituito l’antica dignità; non più legge antica dunque, ma legge nuova, quella dell’Amore. Una legge che è sinonimo di dono, di libertà, di accoglienza, di perdono, di interiorità, di purezza, di fedeltà, di fratellanza. Una legge che va oltre l’esteriorità, l’apparenza, l’egoismo, l’odio: una legge amministrata dal cuore, che prescrive definitivamente la vendetta, l’occhio per occhio del taglione.
Non esiste infatti solo l'omicidio a procurare la morte: esiste anche l'odio, l'ira, la vendetta, il giudizio maligno, la maldicenza che, screditando, uccide; esiste il sospetto, la diffamazione; esiste il disprezzo e tutto quanto l'inimicizia e la mancanza d'amore generano nell’uomo, inquinando pesantemente i suoi rapporti umani. E Gesù è inesorabile nei confronti di chi agisce contro l'amicizia e l'amore, quell'amore che ci rende somiglianti a Dio, e che cresce nel nostro cuore fino a renderci capaci di misericordia e perdono.
È una legge che non ammette deroghe quella di cui Cristo parla, e che ha come fondamento l’amore. Nessuna offerta, infatti, è gradita a Dio se chi presenta il suo dono non è capace di amare il suo prossimo.
«Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare, ammonisce Gesù, e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi torna a offrire il tuo dono».
Meditiamole queste parole di fuoco, fratelli miei. Meditiamole, perché sono quelle su cui troppo spesso, e ormai inconsciamente, andiamo ad inciampare.
La nostra lingua è spada tagliente, i nostri giudizi sono macigni dirompenti: contro chi probabilmente ha la sola colpa di starci vicino, di condividere lo stesso nostro percorso, i nostri stessi interessi. Colpiamo con estrema precisione, elegantemente, senza alzare la voce: ma forse seminiamo morte e disperazione nei cuori.
È questo che Dio non sopporta. A che serve tutto il nostro buonismo? A che serve il nostro impegno in mille iniziative caritative, il nostro recitare rosari, il nostro non mancare un giorno a messa, se poi, in un attimo solo, con disinvoltura, facciamo terra bruciata attorno a noi?
Credetemi: siamo talmente bravi ed esperti in questo, che quasi ormai non ci accorgiamo più di quanto sia grave il nostro comportamento. È diventato parte di noi, quasi una forma lacerante per la sopravvivenza.
“Lascia lì il tuo dono davanti all'altare! Non so cosa farmene del tuo dono, offerto pubblicamente a beneficio di chi ti guarda. Sana prima le ferite occulte; asciuga le lacrime che hai fatto versare. E solo allora torna, col cuore contrito e rinnovato, per fare la tua offerta…”
Si, fratelli, perché è sempre il cuore quello che deve esser risanato dalla capacità di amare veramente; e amare significa donazione di sé, una donazione incondizionata, sincera profonda e fedele. Amare è donarsi senza limiti, senza pretendere nulla in cambio.
Qualunque sia il comandamento di Dio, in qualunque modo si esprima, esso è sempre fondato sull'amore ed ha come fine l'amore: è questo il compimento che Gesù è venuto a portare. È questo il comandamento che deve fare luce ai nostri passi.
Invochiamo allora lo Spirito della Sapienza, come ci suggerisce san Paolo, per accogliere nella nostra vita questa pagina, apportatrice di amore e di gioia interiore. Amen.


mercoledì 2 febbraio 2011

6 Febbraio 2011 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo…»
Anche se le Beatitudini restano una proposta folle, eccessiva, paradossale, orientarsi verso quella direzione significa voler cambiare quel mondo che non vive la beatitudine, ma si dibatte in una felicità effimera e traumatizzante. Incontrare il volto beato di Dio vivendo le beatitudini converte i nostri cuori. Per questo Gesù insiste: "voi pescatori pescati, pescatori di umanità, che avete conosciuto il volto di Dio e ne siete stati colmati, siete chiamati ad essere sale della terra, per insaporire con la vostra testimonianza la vita di chi vi è accanto, siete chiamati a lasciar brillare la luce che l'incontro con Gesù ha acceso nella vostra vita". L'incontro con Dio non può restare nascosto, la conversione del cuore deve diventare evidente e la luce che si è accesa nei nostri cuori deve brillare nella quotidianità.
"Voi siete" dice il Signore alla sua comunità, alla Chiesa. Si, perché il discorso della montagna è rivolto prima di tutto ad una comunità; non lo si può vivere da soli, siamo chiamati a viverlo insieme, in funzione dell’altro. La comunità cristiana è una famiglia di fratelli: al suo interno si vive un rapporto forte con Dio che è Padre e quindi si realizza un rapporto forte con i fratelli. Solo così la comunità cristiana diventa fermento e speranza per l'intera umanità, perché di questo ha bisogno il mondo.
E continua Gesù: "Voi siete il sale della terra", il sale che dà sapore. "Voi siete la luce del mondo", la luce che dà il senso della vita, la saggezza.
Essere luce ed essere sale significa essere elementi essenziali per la vita, significa dare significato e speranza, aiutare le persone a rispondere alle grandi domande che tutti ci poniamo: che senso ha la vita? Dove va il mondo?
Una ricca trama simbolica è sottesa alle parole di Gesù. È necessario rendersene conto, perché esse ottengano pienamente il loro effetto. Le parabole di Gesù hanno sempre la capacità di dire grandi cose con parole semplici, facendo riferimento alla concretezza della vita.
Alla fine ci rendiamo conto che non c’è grande distanza tra il mistero del Regno e i piccoli eventi quotidiani della nostra vita: perché ogni cosa può parlarci del mistero di Dio. Anche nei momenti più difficili. Anche quando ci accorgiamo di essere incamminati verso la strada del non ritorno.
Inutile ignorarlo: la nostra società sta toccando il fondo. Il dramma del nostro tempo è quello di un cristianesimo senza Cristo, di una religione senza fede, di un culto senza celebrazione.
Le drammatiche realtà che viviamo ci devono scuotere: ci devono obbligare ad una riflessione seria sul senso della vita umana e sul compito che, come cristiani, dobbiamo svolgere in questo nostro mondo. C’è molta conflittualità: il positivo desiderio naturale dell'uomo di conoscere, seppur vagamente, il senso della propria vita, del proprio operare e della propria morte, deve purtroppo fare i conti con la minacciosa e incombente prospettiva di una insanabile sconfitta della civiltà cristiana, di una caparbia negazione del trascendente, di una insensata indifferenza ai valori umani e religiosi.
L’uomo tuttavia cerca disperatamente un appoggio che dia sicurezza alla sua esistenza. In questo momento drammatico della storia, il mondo attende inconsciamente una chiara e concreta risposta dai noi cristiani, un'indicazione, una testimonianza che dia speranza e ragioni per continuare a vivere.
Essere luce e sale, in questo contesto, è un compito che ci fa trepidare, soprattutto se guardiamo alla nostra debolezza, alle nostre infedeltà che ci rendono tanto spesso opachi, pieni di ombre, assolutamente insipidi.
Si, perché essere luce del mondo e sale della terra equivale a far dono di sé agli altri; decisamente. Equivale a dimostrare che il nostro cristianesimo non è affatto sterile e passivo, ma al contrario dinamico, entusiasta, intraprendente: in una parola è vita vissuta in Cristo, intrisa di gioia e di esultanza.
Grazie a Dio ne abbiamo tanti di questi esempi: ci sono persone che per la propria carità, per il proprio altruismo senza limiti si conquistano la nostra stima. Sono sacerdoti, religiosi, uomini e donne consacrati, laici... che vivono in atteggiamento di servizio disinteressato per gli altri. Sono persone che troviamo negli ospedali, nelle case, nelle scuole e nell'industria, insegnanti e operai. La loro carità, nonostante i loro limiti personali, è illimitata.
Ecco: se da un lato, dobbiamo aprire i nostri occhi a questa realtà e scoprire quanto di buono e bello c'è davvero nel mondo, dall’altro, coscienti del male e del peccato che insidia il cuore umano, ciascuno di noi deve sentirsi interpellato, deve sentirsi impegnato, in quanto nominalmente chiamato. Deve chiedersi: sono io luce per i miei fratelli, per le persone che vivono con me? Sono io sale che dà una ragione per vivere? La mia vita è realmente un dono per gli altri? Mi rendo conto che la mia vocazione innata è l'amore e che, quando non amo resto nell'oscurità, nella tristezza e nella disperazione?
Il grande pericolo che ci insidia è dentro di noi, fratelli, e ha un nome: egoismo, indifferenza.
Ognuno di noi, davanti a siffatte minacce del mondo moderno, dovrebbe rinvigorire questa intima convinzione: "ho una missione inalienabile da compiere in questa vita, una missione che si chiama amore". Non altrove, in terre lontane, ma attorno a noi, nella famiglia, nel lavoro, nelle nostre comunità, nella costruzione della società civile in cui viviamo: è qui che noi dobbiamo essere fermento di vita cristiana e di amore cristiano. Ogni giorno, ogni minuto che lasciamo passare per egoismo o pigrizia, è un giorno perso, un'occasione mancata. Al contrario, ogni atto di amore e carità che facciamo, è un gran dono per il mondo, perché rivela un riflesso del volto di Dio.
La Parola di oggi deve farci riflettere: siamo convinti fratelli di questa nostra chiamata? Siamo convinti che la carità è una dimensione ineluttabile che dobbiamo vivere tutti i giorni, anche nelle circostanze più piccole e insignificanti, e che qualsiasi cosa facciamo, anche per noi stessi, non deve mai perdere di vista il bene degli altri? Siamo disposti a donare noi stessi agli altri nel nostro atteggiamento quotidiano (un sorriso, una parola, un buon consiglio) prima di tutto verso il nostro prossimo più vicino (familiari, confratelli, amici, vicini di casa) per poi estenderci anche ai più lontani, a quelli che riteniamo estranei, a quelli che consideriamo nostri “nemici”? Siamo convinti che l'amore al prossimo è l'unica caratteristica che convincerà gli altri del nostro cristianesimo e che soltanto l’amore ci renderà luce del mondo e sale della terra?
Bene, fratelli. Questo ci chiede oggi il Signore. Non perdiamo tempo, crediamoci fortemente e agiamo di conseguenza. Amen.

mercoledì 26 gennaio 2011

30 Gennaio 2011 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Beati...»: ossia felici, gioiosi. Tutti noi siamo affamati di gioia e puntualmente, ogni giorno, sperimentiamo che la gioia offertaci dalla logica del mondo non ci rende felici, ci lascia l’amaro in bocca. Certo ci può capitare di vivere anche dei momenti intensi, particolarmente belli e memorabili, ma anche questi non sono sufficienti a colmare il profondo desiderio di assoluto, di Dio, che portiamo scolpito nel cuore. Se ci guardiamo intorno, anche per poco, veniamo travolti da una baraonda di richiami che ci promettono gioia vera, felicità piena, a buon mercato, a portata di mano, velocemente, immediatamente: basta possedere, apparire, esagerare: cercare il dio denaro ad ogni costo, imporsi senza scrupoli, non fare “sconti” a nessuno, vivere sempre al massimo, in presa diretta, arraffando tutto quello ci capita a tiro. Ma è sufficiente sbattere la faccia anche una sola volta contro le reali difficoltà della vita, per capire quanto queste promesse siano false e illusorie. Ogni volta, regolarmente, ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano, più infelici e disgraziati di prima. E nello sconforto più totale ci viene da chiederci: "ma esiste davvero la strada che conduce alla felicità?" Ebbene fratelli: la Parola di oggi ce la indica con estrema precisione.
Gesù, dalle colline sovrastanti il lago di Tiberiade, ci consegna oggi la soluzione autentica al nostro dilemma: una soluzione inverosimile per il mondo, ma in assoluto la più valida e sicura per noi cristiani. Una soluzione, come al solito, sconcertante, come tutte quelle di Gesù; ma una soluzione semplice che ci lascia senza parole.
«Beati i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati, gli insultati...». Ci troviamo di fronte al capovolgimento totale di ogni logica umana.
Il discorso di Gesù è un discorso rivoluzionario: è l'unica vera rivoluzione della storia umana che stravolge radicalmente il cuore dell'uomo. Le altre "rivoluzioni", quelle sociali, sono riuscite semmai a cambiare le leggi, i governi, le strutture esterne della società, ma hanno lasciato l’uomo, e continuano a lasciarlo, così com'è: infelice, perché egoista, razzista, violento, ingordo.
Ma cosa dice esattamente Gesù? Esalta forse una visione di cattolicesimo rassegnato e perdente? Ci offre forse un modello di vita triste e segnato dalle sofferenze? Ci dice forse che, se le cose vanno male, se siamo poveri (nel testo greco letteralmente "straccioni"), se subiamo violenza, se proviamo dolore e piangiamo, solo allora siamo immensamente fortunati?
No fratelli, non diciamo stupidaggini! Dio non ama il dolore, e lo stesso Gesù, per quanto gli è stato possibile, ha cercato di evitare la sofferenza (“Padre, allontana da me questo calice…”).
Le beatitudini ci mostrano invece cosa possiamo essere. Non insegnano a non aver contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica, ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: "Ci sono io".
È infatti un'illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, senza conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo fragili, poiché non ci sentiamo così forti da poter reggere tutti gli scossoni, le tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben radicate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose, in modo da non fuggire. E dicono: "Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c'è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!".
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al piismo, alla tristezza o al subire. Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria! La povertà non è un bene, ma questa è la realtà della nostra condizione umana.
Le beatitudini non dicono che essere perseguitati è una cosa buona: no, è sempre terribile e crudele, e chi lo cerca è un masochista. Ma non si può vivere neppure pretendendo che tutti ci accettino per come siamo. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l'adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che dobbiamo subire tutto. Quando c'è da dire "no" lo dobbiamo dire con tutta la forza che abbiamo. Ma dentro di noi dobbiamo anche guardare quella persona e dirci: "Poveraccio, quanto deve soffrire! Chissà che lotte avrà dentro il suo cuore!" E non giudichiamo, perché non conosciamo le sue tensioni interne.
Dobbiamo capire che Gesù, nel darci queste regole di vita, ci rivela esattamente la sua di vita, sono la sua fedele autobiografia, ci rivelano esattamente il suo volto e il volto del Padre. Il Padre, il vero Dio, è un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore, è pronto a soffrire. Un Dio così diverso da come ce lo immaginiamo, un Dio così straordinario e armonioso, che solo Gesù ce lo può veramente svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Le sue parole non sono legge, ma Vangelo; non sono prescrizioni nobili e difficili, ma il dono bello e sublime che ci offre facendosi nostro fratello. Senza il dono di sé stesso e del Suo Spirito, le beatitudini sono una ideologia, sublime quanto si voglia, ma pur sempre una ideologia. Ma Gesù non solo dice, non solo parla, ma si offre a noi esattamente in ciò che dice, in ciò che parla, e ci consegna la sua legge scritta nel cuore.
Per capire questa legge però bisogna diventare discepoli e ascoltare con fiducia; bisogna “convertirsi”, cambiare mentalità. Siamo disposti a farlo? Dobbiamo esserlo, fratelli, perché dipende anche da noi fare in modo che questa legge della felicità arrivi proprio là dove vivono gli uomini, quelle “folle” che Gesù ci ha messo accanto come fratelli.
Dobbiamo spiegare loro perché Dio non tratta tutti allo stesso modo, perché non dona a tutti lo stesso aiuto, ma dà a ciascuno quel tanto che gli serve, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto infatti riceve molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
Dobbiamo spiegarlo bene a chi vive nel dolore, nella malattia, a chi si sente solo e abbandonato. Dirgli che la beatitudine non consiste nel dolore, nella miseria, ma nel fatto che l'intervento di Dio colma soprattutto il cuore di chi è affranto, di chi è povero, di chi è sofferente. Gesù in pratica dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto, tu sei sereno, gioioso, in una parola "beato", significa che hai trovato Dio, significa che hai capito che lui è l’unico tuo sostegno; significa che niente può toglierti la felicità, perché essa è la risposta intima, concreta, alla totale fiducia che tu hai posto in Lui.
Anche le gioie che viviamo sono un suo dono, e vanno sicuramente vissute; perché alla fine Dio ci chiederà conto anche di tutte quelle gioie che non abbiamo vissuto. Ma, fratelli, quanta più gioia c'è nel nostro cuore se, nel dolore, noi resteremo saldi in Lui, unico bene che non ci può essere tolto!
Conoscere Dio, sapere che in lui soltanto riposa il nostro cuore, sconvolge l'ordine delle cose. Il mondo è aggressivo e abbiamo bisogno di grinta per sfondare? Siamo sempre costretti a dimostrare ciò che valiamo? Al lavoro siamo esaminati, misurati e pesati continuamente? Niente paura fratelli: restiamo miti, costruiamo la pace, viviamo nella giustizia; perché così saremo sempre dalla parte di Dio.
Del resto, due sole sono le possibilità, non c'è scampo: o ha ragione il mondo, o ha ragione Dio.
Le Beatitudini sono appunto la promessa di un mondo nuovo, diverso, con una logica nuova, una logica che siamo chiamati a imprimere nella nostra vita, nella vita di chi ci sta vicino, nella vita delle nostre piccole comunità radunate intorno al pane di Dio.
È difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile vivere nella storia il sogno di Dio che è la Chiesa. Ma la fatica che facciamo nel restare incollati al Vangelo, lo sforzo eroico che compiamo nel convertirci alla logica del Regno, anticipa e realizza le Beatitudini.
Ciò non toglie, tuttavia, che questa pagina del Vangelo, fratelli miei, continui ad essere particolarmente indigesta: una pagina improponibile, utopica. Gradevole come sogno, assurda come modello di vita; anche se dobbiamo poi riconoscere che è l’esempio cristallino di come dobbiamo relazionarci con i fratelli, di come concepire i nostri rapporti con gli altri...
È difficile? Bene: ma non lasciamoci per questo scoraggiare. Pensiamo forse di rinunciare a combattere? Preferiamo tornare ai nostri affari, al nostro egoismo, alla nostra indifferenza? Quanta poca fede abbiamo! Certo è più semplice guardare la nostra televisione, leggere nostri giornali, le nostre riviste scandalistiche, andare alle nostre partite di calcio, abbandonarci all’effimero, ai divertimenti, al frastuono del mondo che ci dice che Gesù, in fin dei conti, è un idealista, un sognatore incallito, che non va preso a dosi massicce, ma centellinato un po’ alla volta, quando ne abbiamo tempo e voglia! Va bene così?
Fratelli miei, quanto sarebbe invece più bello se ascoltassimo seriamente la voce suadente di Dio che ci sussurra: «Figlioli miei, puntate in alto, osate, volate ad alta quota perché per questo siete fatti. Questo io voglio per voi e questa è la vostra unica felicità. Se ascoltate la mia Parola, non avete idea di quali gioie potrete vivere! Non avete idea di come potrete sentirvi appagati e soddisfatti! Perché non avete nemmeno idea di quanto grande sia il vostro cuore: in esso c'è davvero spazio per un sacco di volti, forza per amarli tutti; non avete idea di quanti sentimenti potrete sentire, percepire e vivere. Non avete idea di quanto potrete sentirvi ricchi (anche se avete ben poco) e ricolmi di vita. E non avete nemmeno idea di quanto potrà essere bello, meraviglioso e immenso vivere con me». Se ascoltassimo attentamente queste parole di Dio, fratelli, non avremmo altro spazio nel nostro cuore per i richiami e le lusinghe del mondo: perché tutta la nostra attenzione, tutte le nostre preoccupazioni, tutta la nostra vita, sarebbero pienamente riempite del suo Amore gioioso. E saremmo veramente beati. Amen.

mercoledì 19 gennaio 2011

23 Gennaio 2011 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»
Venuto a conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth e il deserto di Giuda, e si rifugia più a nord della Galilea, precisamente nel territorio di Zàbulon e Nèftali, abitato dalle omonime tribù di Israele. Un territorio di frontiera che i puri di Gerusalemme a quei tempi guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e che dare del "Galileo" a qualcuno equivaleva definirlo "terrorista".
È proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della storia. Dio è sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che vivono tranquillamente, senza grossi problemi. Gesù sceglie di abitare, di condividere tutto, con questi abitanti, porta la luce, dona testimonianza.
È un primo segno molto importante per noi, fratelli: anche noi, con la nostra fede, dobbiamo uscire dalle nostre case, dalle nostre chiese; Dio è stanco di rimanere solo, abbandonato nei tabernacoli, e di non riuscire ad entrare nella nostra società, nella vita quotidiana di tutti; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti e nei luoghi "sacri" e di essere estromesso dai luoghi dell'economia, della politica, del divertimento, della cultura. Ecco allora che il motivo per cui noi discepoli ci raduniamo ogni domenica per gioire nel Signore, deve essere quello – una volta usciti di chiesa – di trovare la forza per annunciare e testimoniare Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nel “vero” di ciascuno! Come fare?
«Convertitevi!» è l'invito bruciante che ci raggiunge oggi: «Convertitevi perché il Regno si è fatto vicino». Sì, Matteo scrive proprio così: che vuol dire? Che è il Regno ad essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; quindi ora tocca finalmente a noi di accorgercene, di girare lo sguardo (di convertirci, appunto). Dio non esordisce con qualche reprimenda morale, con qualche paternale bonaria, con qualche discorso indorato e mellifluo, teso a suscitare in noi il pentimento e il cambiamento di condotta. Nossignori: Lui agisce, lui per primo si offre, si dona, rischia tutto. Ci dice: "Io ti sono vicino, non te ne accorgi? Tu che fai?" Dove “accorgersi” significa mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose inutili che ci affannano, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano – finalmente – pescatori di uomini, consapevoli del loro ruolo, della loro missione.
«Convertitevi!»: è un ordine secco, immediato; Gesù ci invita, ora e subito, a metterci in discussione, a cambiare mentalità, a buttare via le speranze ingannevoli e a cercare la Speranza che non inganna. In questo non dobbiamo temere di affrontare prove, sconfitte, delusioni: perché nel momento stesso in cui ci crollano addosso le nostre aspirazioni, in cui i nostri progetti umani vanno in frantumi, è proprio in quel momento che Dio trova in noi il terreno ideale. Quando cadono le sicurezze umane, è l'ora della sicurezza di Dio, perché Dio ci aspetta proprio là, sulla strada della contestazione di noi stessi: fratelli miei, non è al termine dei bei ragionamenti, delle auto incensazioni (“ma come sono bravo, come sono furbo, come sono intelligente!”) che incontriamo Dio; ma quando viviamo nell’umiltà il nostro essere niente, attenti, aperti e disponibili, all'incontro con Lui, che è il solo Signore della nostra vita. Checché ne pensiamo!
Purtroppo, oggi più che mai, non tutti arriviamo a capire la vera portata di questo «convertitevi»: una realtà che invece è molto evidente e chiara per quanti l'hanno già sperimentata. È proprio così, fratelli: perché se noi accettiamo l’invito di Gesù, se noi ci fidiamo ciecamente di Lui, se veramente “cambiamo strada”, allora scopriremo una vita davvero meravigliosa, una vita completamente diversa, ricca, intensa, profonda (il Regno, appunto). E ci diremo: "Ma dove abbiamo vissuto finora? Come abbiamo fatto a vivere così miseramente fino ad oggi? Eppure Dio era così vicino!”. Capiremo allora che quel «convertitevi» non ha nulla a che fare con impegni moralistici di facciata, nulla a che vedere con pii esercizi ascetici e con preghiere a ruota libera. «Convertirsi» vuol dire semplicemente: "Accorgiamoci che dobbiamo cambiare radicalmente vita!”; “rendiamoci conto seriamente che Dio, nella sua bontà, ci vuole vicini a Sé": che aspettiamo?; chi è convinto di questo, non potrà mai più essere lo stesso. Per questo i monaci, abbracciando la vita monastica cambiavano il loro nome: perché dopo aver incontrato Cristo, non potevano essere più quelli di prima!
Ovviamente ciò richiede un nostro impegno iniziale: ciascuno deve fare una scelta personale, una scelta che è soltanto sua. Di nessun altro.
Invece capita anche a noi di non pensarci neppure di cambiare, di metterci in gioco; ci sentiamo già a posto. Per questo diventiamo intransigenti, duri, rigidi, aggressivi, maldicenti: verso gli altri ma soprattutto verso chi, come Gesù, ci invita a spostarci dalle nostre posizioni. Perché cambiare ci fa paura. Sempre. È un andare verso l’ignoto, verso ciò che non conosciamo e che ancora non siamo. Per farlo bisogna fidarsi, ciecamente. Invece siamo ancora dei “malfidati”. E continuiamo per la nostra strada.
Se ci guardiamo intorno vediamo che molti vanno in chiesa da tanti anni e sono sempre uguali: anzi, “siamo” sempre uguali! Magari fingiamo di essere buoni e bravi ma, in fondo in fondo, siamo sempre i soliti calcolatori! Dovremo chiederci allora: “A che mi serve frequentare tutti i gruppi di spiritualità, da don x a don y, dai neocatecumenali ai movimenti carismatici o di rinnovamento dello Spirito, se poi in pratica non cambio mai?. Quand'è che crescerò?” Siamo convinti di cambiare, ma al contrario razionalizziamo, intellettualizziamo il messaggio di Gesù. Sappiamo un sacco di cose, partecipiamo a corsi di approfondimento teologico, a settimane di spiritualità, siamo dotti e assidui frequentatori della Parrocchia, siamo attivi, sempre interessati, ma… lo siamo solo di facciata. In verità ci adattiamo, dissimuliamo, perché cambiare è difficile, è doloroso e fa paura. Preferiamo darci sempre “con riserva” (il che equivale a non darsi). Facciamo “qualcosa” ma mai “troppo” per non lasciarci coinvolgere del tutto. Cerchiamo di mostrare che ci proviamo, e se non ci riusciamo, beh, non è colpa nostra, ci abbiamo almeno provato! In una parola ce la stiamo raccontando! Ci rifugiamo nelle scuse del lavoro, degli impegni di casa, dell’ufficio, dei figli ecc. per crearci un alibi; tutto serve per giustificarci, per sottrarci al compito fondamentale di interessarci della nostra vita interiore, di noi, del nostro spirito, della nostra anima, di diventare ciò che dovremmo diventare.
«Convertitevi». Altro che essere – come spesso siamo – semplici consumatori di culto: dobbiamo essere persone vive che hanno sentito la chiamata; non gente mossa da abitudini religiose, ma annunciatori vivi, entusiasti del Regno di Dio, cioè di Gesù Cristo. In una parola dobbiamo “convertirci” nelle “convinzioni”.
«Convertitevi» infatti – in greco metanoèite, da metànoia – implica un “cambiamento di pensiero” (noeo): quindi non si tratta tanto di cambiare l'atteggiamento esterno: di sorridere di più o di essere più bravi o più servizievoli; di pregare di più o di sforzarsi di più ad essere dei bravi cristiani. Questo è senz’altro tutto ok, ma non è fondamentale! Bisogna cambiare dentro, nell'anima, nel modo di pensare, di sentire e di vivere. Esserne convinti!
Non bisogna essere “di più”, ma “diversi”. Altrimenti, fratelli, non c'è nessun cambiamento: non si tratta di dare una verniciatura nuova ad un muro vecchio, ma di cambiare totalmente il muro, dalle fondamenta. L'apostolato cristiano non è una gara vanitosa a chi fa di più: ad avere la Chiesa più piena, le cerimonie più belle, il coro più intonato, ma è soprattutto una “vita” nuova: la vita della carità, nell’apertura e nell’ascolto di tutti; è la vita di Dio in noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. Se la nostra vita pastorale, le nostre opere, non nascono dalla carità vissuta, sono fatiche a vuoto, non servono a niente: sono gesti sterili che non porteranno mai dei frutti perché sono staccati da Dio. Soltanto su queste premesse potremo far parte dei “chiamati”. Si, perché c'è un altro particolare molto interessante: Gesù a tutti chiede di “convertirsi” ma solo ad alcuni chiede di “seguirlo”. Perché? Semplice: perché soltanto chi è entrato veramente nell’ottica del “cambiare” Gesù lo ritiene idoneo alla chiamata e quindi a “seguirlo” tra i suoi collaboratori più stretti.
Ecco, questo è il Regno di Dio, fratelli! Questo è seguire Dio, questo è seguire Gesù.
E concludo: noi, che - penso - ci riteniamo dei “chiamati”, siamo pronti a seguire Gesù? ad essere suoi autentici collaboratori, sudditi convinti e impegnati del suo Regno? Lo seguiamo con tutto il nostro entusiasmo? Abbiamo piena coscienza di questa responsabilità? Pensiamo seriamente a quello che Paolo ci dice nella seconda lettura, riferendosi alla comunità cristiana di Corinto: “una Chiesa divisa non annuncia Cristo, ma è una smentita di Cristo”? La nostra prima risposta alla “chiamata” deve essere dunque un “si”, incondizionato e generoso, costi quel che costi; dobbiamo essere all’altezza di questo popolo “nuovo”, un popolo “cambiato” che vive l'amore, la misericordia, il perdono. Ripeto: ogni altra nostra esperienza – sia essa movimento, parrocchia, spiritualità, comunità – è semplicemente “strumento”, un mezzo, e non esaurisce assolutamente il Regno. Il Regno è oltre! Molto oltre.
Ringraziamo Dio allora, fratelli, di farne almeno parte, nel nostro piccolo! Viviamo soprattutto l’amore: perché Cristo vuole questo da noi: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gi altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». Amen.

martedì 11 gennaio 2011

16 Gennaio 2011 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo».
Siamo all’inizio del “tempo ordinario”, tempo liturgico che è un invito forte a costruire la nostra “ferialità”, non nella banalità, ma nella novità introdotta col Natale. È infatti nello scorrere quotidiano e feriale dei nostri giorni che dobbiamo vivere lo stupore dell’Emanuele, del Dio-con-noi; che dobbiamo vivere la novità e la bellezza del Volto di Dio: un tempo in cui costruire e adeguare la nostra “somiglianza” a quella “immagine” di Dio, che Egli stesso ha impresso nell’uomo creandolo, e che Gesù, umanizzandosi, ci ha rivelato.
Il Vangelo di oggi ci ripropone ancora una volta la figura di Giovanni, il battezzatore: non il solito burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un Battista vinto dall’evidenza, più dolce, più umile che, in veste di testimone oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della umana redenzione, rivelandone pubblicamente la vera identità: l'«agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Una definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, senza tanti preamboli, mette subito in chiaro davanti ai nostri occhi. A differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l'uomo che si deve offrire a Dio attraverso varie forme di sacrifici, il Battista ci presenta qui un Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio – l’Agnello, la vittima che si immola per noi, che si dona e si consegna. Una autentica rivoluzione, fratelli, uno stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la mano tesa di Dio come dono, un dono destinato a cambiargli la vita; un potente antibiotico contro l’innata piccineria umana che pretende l’aiuto e l’amicizia di Dio come contropartita di iniziative puramente esteriori, senza alcun coinvolgimento del cuore, e per questo sterili e inutili; si, sterili e inutili perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere. Dio, fratelli, non è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani! Soprattutto se fatti senza vero amore. C’è un novum fondamentale, un novum che sta proprio qui: Gesù è la vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte "per noi"; è attraverso la sua vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità che Egli è Amore assoluto; un Amore ben più grande di tutti i nostri peccati, anche di quelli più tremendi.
È proprio così, fratelli: Dio è l’Amore fedele nei secoli; e di Lui ci si può completamente fidare.
Quando guardiamo la croce, noi vediamo la vittima immolata e ostesa: l'Agnello di Dio crocifisso, Colui che ci libera da ogni schiavitù, da ogni peccato, da ogni colpa. Per quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male: perché Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore che riempie e consola il nostro cuore. Scriveva Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: "Io non ho bisogno di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno soltanto di amore". Verità sacrosanta: Dio soddisfa in pieno questo nostro bisogno. Nella nostra vita umana siamo soggetti a sofferenze, angosce, malesseri di qualunque tipo; ma se permettiamo a Lui di entrare nel nostro cuore, di stare con noi in noi, allora sentiremo di avere un amico, un sostegno, una nuova forza, prorompente; sentiremo il conforto di avere uno che ci ascolta, che ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre aperto in cui sentirci sicuri e amati. Completamente. E, fratelli miei, quanto bisogno abbiamo veramente tutti di sentirci amati!
Gesù è l'agnello che toglie il “peccato”: il “peccato”? di che peccato parliamo? Cosa è oggi ancora peccato? Che importanza diamo al peccato? Che percezione ne abbiamo? Poca, fratelli miei. Anzi pochissima, quasi nessuna. Del resto noi oggi sentiamo ripetere continuamente che Dio è misericordioso, che ci ama incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che ci rincorre: allora perché preoccuparci? Anche se tutto questo è vero, non dobbiamo in alcun modo abbassare la guardia, sottovalutando l’entità delle nostre debolezze. Sbagliamo di brutto quando giustifichiamo qualunque nostra decisione pensando: “Tanto Lui è buono, se pecchiamo ci perdona!” Sbagliamo quando non pensiamo affatto allo sconquasso che la nostra ingratitudine provoca nel cuore innamorato di Dio. Continuiamo a sbagliare quando diciamo: “ma che peccati posso mai fare?”. Se esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le nostre elemosine, non bestemmiamo… ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri modi possiamo peccare contro l’infinita bontà di Dio? Pensiamoci attentamente fratelli miei: perché noi purtroppo pecchiamo, e pecchiamo sul serio, ogni volta che non vogliamo maturare nel cuore, quando non vogliamo crescere spiritualmente, quando preferiamo restare così come siamo, tiepidi e indifferenti, senza crearci alcun problema. Pecchiamo quando non vogliamo guardare in faccia la realtà e chiudiamo gli occhi facendo finta di niente: quando non ci accorgiamo dei nostri fratelli che timidamente ci mandano richieste di aiuto, talvolta anche disperate; quando non vediamo (e come ci sta bene non vederle!) le esigenze, gli stati d’animo, le sofferenze di chi ci sta vicino: di nostra moglie, di nostro marito, dei figli, dei nostri confratelli, delle nostre consorelle; quando non ci accorgiamo che dovremmo prendere quella particolare decisione importante che rinviamo sempre; quando sappiamo che c'è un problema col nostro prossimo e facciamo finta che non ci sia, che tutto vada bene. Siamo inoltre nel peccato quando la vita spirituale non circola più in noi ed è come se fossimo morti: non siamo più toccati da nulla, siamo insensibili, niente ci commuove, niente ci emoziona, ci appassiona o ci fa piangere; quando non siamo più disposti a metterci in gioco, ad osare, per nessun ideale o sogno; oppure quando, stupidamente iperattivi, non vogliamo fermarci per riflettere sulle conseguenze della nostra condotta donchisciottesca. Peccato è voler rimanere ignoranti, non voler conoscere le cose "per non crearci troppi problemi", preferire il buio mentale alla luce. Peccato è il vittimismo con cui ci chiudiamo in noi stessi: "Nessuno mi ama; tutti ce l'hanno con me; nessuno mi regala niente; non ci si può fidare di nessuno; io faccio tanto per gli altri, ma poi...". Peccato infine è credersi senza difetti, senza macchia, l’essere convinti che "Sì, le solite piccole debolezze, ma niente di grave". E non ci accorgiamo delle tante ferite, anche se piccole, e non mettiamo anche quelle nelle mani di Dio: ma le lasciamo marcire in fondo al nostro cuore, fino ad infettare la nostra anima e il nostro spirito, fino a corroderla e ad ucciderla.
Peccato, male, morte, è – dunque – non esprimere pienamente la vita che ognuno ha dentro. Perché dove c'è vita non c'è morte; dove c'è espressione non c'è depressione; dove c'è amore non c'è chiusura; dove c'è il bene non c'è il male. Nella nostra vita non possiamo scegliere di non fare il male. L'unica scelta possibile è invece quella di fare soltanto il bene. Di farlo sempre, impegnandoci su tutto il fronte.
Ogni domenica, quando andiamo in chiesa, sentiamo il sacerdote ripeterci: "Ecco l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo". E Gesù, il Liberatore, ci sussurra: "Se vuoi, io vengo per portarti un po' di pace, un po' d'amore, di speranza, di perdono e di positività. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?". Noi che rispondiamo? “Agnello di Dio vieni nel mio peccato e liberami dal mio male” oppure “No grazie, non mi interessa”?
La comunione, fratelli, non è un dovere, non è un precetto, non è un obbligo: ma è un riconoscere umilmente di aver bisogno di Dio, di aver bisogno di coraggio e di forza. La comunione è la possibilità che abbiamo di far entrare nel buio del nostro cuore un po' di luce; di portare nel mondo conflittuale della nostra anima un po' di pace e di perdono. È una possibilità concreta che ci viene offerta. Ma allora perché tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente da non porsi neppure il problema? Non vuole farsi coinvolgere troppo? Crede di non meritare l'amore di Dio? È proprio difficile capirlo, fratelli. Perché è come andare dalla propria amata e non darle un bacio, entrare in casa di un amico e non salutarlo. È come andare ad un pranzo e non mangiare. Perché? Perché rinunciare alla cosa più buona, a quella che fa più bene, a quella più dolce? Eppure quando siamo innamorati di una persona, siamo pronti a far di tutto per incontrarla, vogliamo stare soli con lei ad ogni costo!
Per concludere: evitiamo tassativamente di pensare che tanto Dio fa tutto Lui. “È talmente buono… capirà”. No fratelli: nel cammino della fede e della conversione del cuore non esiste la gratuità assoluta: non ci sono bacchette magiche, né anestesie mistiche. L'azione di Dio in noi richiede sempre la nostra diretta collaborazione, l'investimento di tutta la nostra libera volontà. Siamo noi che dobbiamo muoverci: dobbiamo scegliere di stare con Lui, di lasciarci salvare, di farci raggiungere nel nostro cuore. In una parola siamo noi che dobbiamo mettere tutto nelle sue mani. Si fratelli, perché questa è l'unica scelta che non ha mai deluso nessuno. Ripeto: mai!. Amen.