mercoledì 26 gennaio 2011

30 Gennaio 2011 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Beati...»: ossia felici, gioiosi. Tutti noi siamo affamati di gioia e puntualmente, ogni giorno, sperimentiamo che la gioia offertaci dalla logica del mondo non ci rende felici, ci lascia l’amaro in bocca. Certo ci può capitare di vivere anche dei momenti intensi, particolarmente belli e memorabili, ma anche questi non sono sufficienti a colmare il profondo desiderio di assoluto, di Dio, che portiamo scolpito nel cuore. Se ci guardiamo intorno, anche per poco, veniamo travolti da una baraonda di richiami che ci promettono gioia vera, felicità piena, a buon mercato, a portata di mano, velocemente, immediatamente: basta possedere, apparire, esagerare: cercare il dio denaro ad ogni costo, imporsi senza scrupoli, non fare “sconti” a nessuno, vivere sempre al massimo, in presa diretta, arraffando tutto quello ci capita a tiro. Ma è sufficiente sbattere la faccia anche una sola volta contro le reali difficoltà della vita, per capire quanto queste promesse siano false e illusorie. Ogni volta, regolarmente, ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano, più infelici e disgraziati di prima. E nello sconforto più totale ci viene da chiederci: "ma esiste davvero la strada che conduce alla felicità?" Ebbene fratelli: la Parola di oggi ce la indica con estrema precisione.
Gesù, dalle colline sovrastanti il lago di Tiberiade, ci consegna oggi la soluzione autentica al nostro dilemma: una soluzione inverosimile per il mondo, ma in assoluto la più valida e sicura per noi cristiani. Una soluzione, come al solito, sconcertante, come tutte quelle di Gesù; ma una soluzione semplice che ci lascia senza parole.
«Beati i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati, gli insultati...». Ci troviamo di fronte al capovolgimento totale di ogni logica umana.
Il discorso di Gesù è un discorso rivoluzionario: è l'unica vera rivoluzione della storia umana che stravolge radicalmente il cuore dell'uomo. Le altre "rivoluzioni", quelle sociali, sono riuscite semmai a cambiare le leggi, i governi, le strutture esterne della società, ma hanno lasciato l’uomo, e continuano a lasciarlo, così com'è: infelice, perché egoista, razzista, violento, ingordo.
Ma cosa dice esattamente Gesù? Esalta forse una visione di cattolicesimo rassegnato e perdente? Ci offre forse un modello di vita triste e segnato dalle sofferenze? Ci dice forse che, se le cose vanno male, se siamo poveri (nel testo greco letteralmente "straccioni"), se subiamo violenza, se proviamo dolore e piangiamo, solo allora siamo immensamente fortunati?
No fratelli, non diciamo stupidaggini! Dio non ama il dolore, e lo stesso Gesù, per quanto gli è stato possibile, ha cercato di evitare la sofferenza (“Padre, allontana da me questo calice…”).
Le beatitudini ci mostrano invece cosa possiamo essere. Non insegnano a non aver contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica, ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: "Ci sono io".
È infatti un'illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, senza conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo fragili, poiché non ci sentiamo così forti da poter reggere tutti gli scossoni, le tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben radicate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose, in modo da non fuggire. E dicono: "Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c'è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!".
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al piismo, alla tristezza o al subire. Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria! La povertà non è un bene, ma questa è la realtà della nostra condizione umana.
Le beatitudini non dicono che essere perseguitati è una cosa buona: no, è sempre terribile e crudele, e chi lo cerca è un masochista. Ma non si può vivere neppure pretendendo che tutti ci accettino per come siamo. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l'adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che dobbiamo subire tutto. Quando c'è da dire "no" lo dobbiamo dire con tutta la forza che abbiamo. Ma dentro di noi dobbiamo anche guardare quella persona e dirci: "Poveraccio, quanto deve soffrire! Chissà che lotte avrà dentro il suo cuore!" E non giudichiamo, perché non conosciamo le sue tensioni interne.
Dobbiamo capire che Gesù, nel darci queste regole di vita, ci rivela esattamente la sua di vita, sono la sua fedele autobiografia, ci rivelano esattamente il suo volto e il volto del Padre. Il Padre, il vero Dio, è un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore, è pronto a soffrire. Un Dio così diverso da come ce lo immaginiamo, un Dio così straordinario e armonioso, che solo Gesù ce lo può veramente svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Le sue parole non sono legge, ma Vangelo; non sono prescrizioni nobili e difficili, ma il dono bello e sublime che ci offre facendosi nostro fratello. Senza il dono di sé stesso e del Suo Spirito, le beatitudini sono una ideologia, sublime quanto si voglia, ma pur sempre una ideologia. Ma Gesù non solo dice, non solo parla, ma si offre a noi esattamente in ciò che dice, in ciò che parla, e ci consegna la sua legge scritta nel cuore.
Per capire questa legge però bisogna diventare discepoli e ascoltare con fiducia; bisogna “convertirsi”, cambiare mentalità. Siamo disposti a farlo? Dobbiamo esserlo, fratelli, perché dipende anche da noi fare in modo che questa legge della felicità arrivi proprio là dove vivono gli uomini, quelle “folle” che Gesù ci ha messo accanto come fratelli.
Dobbiamo spiegare loro perché Dio non tratta tutti allo stesso modo, perché non dona a tutti lo stesso aiuto, ma dà a ciascuno quel tanto che gli serve, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto infatti riceve molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
Dobbiamo spiegarlo bene a chi vive nel dolore, nella malattia, a chi si sente solo e abbandonato. Dirgli che la beatitudine non consiste nel dolore, nella miseria, ma nel fatto che l'intervento di Dio colma soprattutto il cuore di chi è affranto, di chi è povero, di chi è sofferente. Gesù in pratica dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto, tu sei sereno, gioioso, in una parola "beato", significa che hai trovato Dio, significa che hai capito che lui è l’unico tuo sostegno; significa che niente può toglierti la felicità, perché essa è la risposta intima, concreta, alla totale fiducia che tu hai posto in Lui.
Anche le gioie che viviamo sono un suo dono, e vanno sicuramente vissute; perché alla fine Dio ci chiederà conto anche di tutte quelle gioie che non abbiamo vissuto. Ma, fratelli, quanta più gioia c'è nel nostro cuore se, nel dolore, noi resteremo saldi in Lui, unico bene che non ci può essere tolto!
Conoscere Dio, sapere che in lui soltanto riposa il nostro cuore, sconvolge l'ordine delle cose. Il mondo è aggressivo e abbiamo bisogno di grinta per sfondare? Siamo sempre costretti a dimostrare ciò che valiamo? Al lavoro siamo esaminati, misurati e pesati continuamente? Niente paura fratelli: restiamo miti, costruiamo la pace, viviamo nella giustizia; perché così saremo sempre dalla parte di Dio.
Del resto, due sole sono le possibilità, non c'è scampo: o ha ragione il mondo, o ha ragione Dio.
Le Beatitudini sono appunto la promessa di un mondo nuovo, diverso, con una logica nuova, una logica che siamo chiamati a imprimere nella nostra vita, nella vita di chi ci sta vicino, nella vita delle nostre piccole comunità radunate intorno al pane di Dio.
È difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile vivere nella storia il sogno di Dio che è la Chiesa. Ma la fatica che facciamo nel restare incollati al Vangelo, lo sforzo eroico che compiamo nel convertirci alla logica del Regno, anticipa e realizza le Beatitudini.
Ciò non toglie, tuttavia, che questa pagina del Vangelo, fratelli miei, continui ad essere particolarmente indigesta: una pagina improponibile, utopica. Gradevole come sogno, assurda come modello di vita; anche se dobbiamo poi riconoscere che è l’esempio cristallino di come dobbiamo relazionarci con i fratelli, di come concepire i nostri rapporti con gli altri...
È difficile? Bene: ma non lasciamoci per questo scoraggiare. Pensiamo forse di rinunciare a combattere? Preferiamo tornare ai nostri affari, al nostro egoismo, alla nostra indifferenza? Quanta poca fede abbiamo! Certo è più semplice guardare la nostra televisione, leggere nostri giornali, le nostre riviste scandalistiche, andare alle nostre partite di calcio, abbandonarci all’effimero, ai divertimenti, al frastuono del mondo che ci dice che Gesù, in fin dei conti, è un idealista, un sognatore incallito, che non va preso a dosi massicce, ma centellinato un po’ alla volta, quando ne abbiamo tempo e voglia! Va bene così?
Fratelli miei, quanto sarebbe invece più bello se ascoltassimo seriamente la voce suadente di Dio che ci sussurra: «Figlioli miei, puntate in alto, osate, volate ad alta quota perché per questo siete fatti. Questo io voglio per voi e questa è la vostra unica felicità. Se ascoltate la mia Parola, non avete idea di quali gioie potrete vivere! Non avete idea di come potrete sentirvi appagati e soddisfatti! Perché non avete nemmeno idea di quanto grande sia il vostro cuore: in esso c'è davvero spazio per un sacco di volti, forza per amarli tutti; non avete idea di quanti sentimenti potrete sentire, percepire e vivere. Non avete idea di quanto potrete sentirvi ricchi (anche se avete ben poco) e ricolmi di vita. E non avete nemmeno idea di quanto potrà essere bello, meraviglioso e immenso vivere con me». Se ascoltassimo attentamente queste parole di Dio, fratelli, non avremmo altro spazio nel nostro cuore per i richiami e le lusinghe del mondo: perché tutta la nostra attenzione, tutte le nostre preoccupazioni, tutta la nostra vita, sarebbero pienamente riempite del suo Amore gioioso. E saremmo veramente beati. Amen.

mercoledì 19 gennaio 2011

23 Gennaio 2011 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»
Venuto a conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth e il deserto di Giuda, e si rifugia più a nord della Galilea, precisamente nel territorio di Zàbulon e Nèftali, abitato dalle omonime tribù di Israele. Un territorio di frontiera che i puri di Gerusalemme a quei tempi guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e che dare del "Galileo" a qualcuno equivaleva definirlo "terrorista".
È proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della storia. Dio è sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che vivono tranquillamente, senza grossi problemi. Gesù sceglie di abitare, di condividere tutto, con questi abitanti, porta la luce, dona testimonianza.
È un primo segno molto importante per noi, fratelli: anche noi, con la nostra fede, dobbiamo uscire dalle nostre case, dalle nostre chiese; Dio è stanco di rimanere solo, abbandonato nei tabernacoli, e di non riuscire ad entrare nella nostra società, nella vita quotidiana di tutti; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti e nei luoghi "sacri" e di essere estromesso dai luoghi dell'economia, della politica, del divertimento, della cultura. Ecco allora che il motivo per cui noi discepoli ci raduniamo ogni domenica per gioire nel Signore, deve essere quello – una volta usciti di chiesa – di trovare la forza per annunciare e testimoniare Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nel “vero” di ciascuno! Come fare?
«Convertitevi!» è l'invito bruciante che ci raggiunge oggi: «Convertitevi perché il Regno si è fatto vicino». Sì, Matteo scrive proprio così: che vuol dire? Che è il Regno ad essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; quindi ora tocca finalmente a noi di accorgercene, di girare lo sguardo (di convertirci, appunto). Dio non esordisce con qualche reprimenda morale, con qualche paternale bonaria, con qualche discorso indorato e mellifluo, teso a suscitare in noi il pentimento e il cambiamento di condotta. Nossignori: Lui agisce, lui per primo si offre, si dona, rischia tutto. Ci dice: "Io ti sono vicino, non te ne accorgi? Tu che fai?" Dove “accorgersi” significa mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose inutili che ci affannano, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano – finalmente – pescatori di uomini, consapevoli del loro ruolo, della loro missione.
«Convertitevi!»: è un ordine secco, immediato; Gesù ci invita, ora e subito, a metterci in discussione, a cambiare mentalità, a buttare via le speranze ingannevoli e a cercare la Speranza che non inganna. In questo non dobbiamo temere di affrontare prove, sconfitte, delusioni: perché nel momento stesso in cui ci crollano addosso le nostre aspirazioni, in cui i nostri progetti umani vanno in frantumi, è proprio in quel momento che Dio trova in noi il terreno ideale. Quando cadono le sicurezze umane, è l'ora della sicurezza di Dio, perché Dio ci aspetta proprio là, sulla strada della contestazione di noi stessi: fratelli miei, non è al termine dei bei ragionamenti, delle auto incensazioni (“ma come sono bravo, come sono furbo, come sono intelligente!”) che incontriamo Dio; ma quando viviamo nell’umiltà il nostro essere niente, attenti, aperti e disponibili, all'incontro con Lui, che è il solo Signore della nostra vita. Checché ne pensiamo!
Purtroppo, oggi più che mai, non tutti arriviamo a capire la vera portata di questo «convertitevi»: una realtà che invece è molto evidente e chiara per quanti l'hanno già sperimentata. È proprio così, fratelli: perché se noi accettiamo l’invito di Gesù, se noi ci fidiamo ciecamente di Lui, se veramente “cambiamo strada”, allora scopriremo una vita davvero meravigliosa, una vita completamente diversa, ricca, intensa, profonda (il Regno, appunto). E ci diremo: "Ma dove abbiamo vissuto finora? Come abbiamo fatto a vivere così miseramente fino ad oggi? Eppure Dio era così vicino!”. Capiremo allora che quel «convertitevi» non ha nulla a che fare con impegni moralistici di facciata, nulla a che vedere con pii esercizi ascetici e con preghiere a ruota libera. «Convertirsi» vuol dire semplicemente: "Accorgiamoci che dobbiamo cambiare radicalmente vita!”; “rendiamoci conto seriamente che Dio, nella sua bontà, ci vuole vicini a Sé": che aspettiamo?; chi è convinto di questo, non potrà mai più essere lo stesso. Per questo i monaci, abbracciando la vita monastica cambiavano il loro nome: perché dopo aver incontrato Cristo, non potevano essere più quelli di prima!
Ovviamente ciò richiede un nostro impegno iniziale: ciascuno deve fare una scelta personale, una scelta che è soltanto sua. Di nessun altro.
Invece capita anche a noi di non pensarci neppure di cambiare, di metterci in gioco; ci sentiamo già a posto. Per questo diventiamo intransigenti, duri, rigidi, aggressivi, maldicenti: verso gli altri ma soprattutto verso chi, come Gesù, ci invita a spostarci dalle nostre posizioni. Perché cambiare ci fa paura. Sempre. È un andare verso l’ignoto, verso ciò che non conosciamo e che ancora non siamo. Per farlo bisogna fidarsi, ciecamente. Invece siamo ancora dei “malfidati”. E continuiamo per la nostra strada.
Se ci guardiamo intorno vediamo che molti vanno in chiesa da tanti anni e sono sempre uguali: anzi, “siamo” sempre uguali! Magari fingiamo di essere buoni e bravi ma, in fondo in fondo, siamo sempre i soliti calcolatori! Dovremo chiederci allora: “A che mi serve frequentare tutti i gruppi di spiritualità, da don x a don y, dai neocatecumenali ai movimenti carismatici o di rinnovamento dello Spirito, se poi in pratica non cambio mai?. Quand'è che crescerò?” Siamo convinti di cambiare, ma al contrario razionalizziamo, intellettualizziamo il messaggio di Gesù. Sappiamo un sacco di cose, partecipiamo a corsi di approfondimento teologico, a settimane di spiritualità, siamo dotti e assidui frequentatori della Parrocchia, siamo attivi, sempre interessati, ma… lo siamo solo di facciata. In verità ci adattiamo, dissimuliamo, perché cambiare è difficile, è doloroso e fa paura. Preferiamo darci sempre “con riserva” (il che equivale a non darsi). Facciamo “qualcosa” ma mai “troppo” per non lasciarci coinvolgere del tutto. Cerchiamo di mostrare che ci proviamo, e se non ci riusciamo, beh, non è colpa nostra, ci abbiamo almeno provato! In una parola ce la stiamo raccontando! Ci rifugiamo nelle scuse del lavoro, degli impegni di casa, dell’ufficio, dei figli ecc. per crearci un alibi; tutto serve per giustificarci, per sottrarci al compito fondamentale di interessarci della nostra vita interiore, di noi, del nostro spirito, della nostra anima, di diventare ciò che dovremmo diventare.
«Convertitevi». Altro che essere – come spesso siamo – semplici consumatori di culto: dobbiamo essere persone vive che hanno sentito la chiamata; non gente mossa da abitudini religiose, ma annunciatori vivi, entusiasti del Regno di Dio, cioè di Gesù Cristo. In una parola dobbiamo “convertirci” nelle “convinzioni”.
«Convertitevi» infatti – in greco metanoèite, da metànoia – implica un “cambiamento di pensiero” (noeo): quindi non si tratta tanto di cambiare l'atteggiamento esterno: di sorridere di più o di essere più bravi o più servizievoli; di pregare di più o di sforzarsi di più ad essere dei bravi cristiani. Questo è senz’altro tutto ok, ma non è fondamentale! Bisogna cambiare dentro, nell'anima, nel modo di pensare, di sentire e di vivere. Esserne convinti!
Non bisogna essere “di più”, ma “diversi”. Altrimenti, fratelli, non c'è nessun cambiamento: non si tratta di dare una verniciatura nuova ad un muro vecchio, ma di cambiare totalmente il muro, dalle fondamenta. L'apostolato cristiano non è una gara vanitosa a chi fa di più: ad avere la Chiesa più piena, le cerimonie più belle, il coro più intonato, ma è soprattutto una “vita” nuova: la vita della carità, nell’apertura e nell’ascolto di tutti; è la vita di Dio in noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. Se la nostra vita pastorale, le nostre opere, non nascono dalla carità vissuta, sono fatiche a vuoto, non servono a niente: sono gesti sterili che non porteranno mai dei frutti perché sono staccati da Dio. Soltanto su queste premesse potremo far parte dei “chiamati”. Si, perché c'è un altro particolare molto interessante: Gesù a tutti chiede di “convertirsi” ma solo ad alcuni chiede di “seguirlo”. Perché? Semplice: perché soltanto chi è entrato veramente nell’ottica del “cambiare” Gesù lo ritiene idoneo alla chiamata e quindi a “seguirlo” tra i suoi collaboratori più stretti.
Ecco, questo è il Regno di Dio, fratelli! Questo è seguire Dio, questo è seguire Gesù.
E concludo: noi, che - penso - ci riteniamo dei “chiamati”, siamo pronti a seguire Gesù? ad essere suoi autentici collaboratori, sudditi convinti e impegnati del suo Regno? Lo seguiamo con tutto il nostro entusiasmo? Abbiamo piena coscienza di questa responsabilità? Pensiamo seriamente a quello che Paolo ci dice nella seconda lettura, riferendosi alla comunità cristiana di Corinto: “una Chiesa divisa non annuncia Cristo, ma è una smentita di Cristo”? La nostra prima risposta alla “chiamata” deve essere dunque un “si”, incondizionato e generoso, costi quel che costi; dobbiamo essere all’altezza di questo popolo “nuovo”, un popolo “cambiato” che vive l'amore, la misericordia, il perdono. Ripeto: ogni altra nostra esperienza – sia essa movimento, parrocchia, spiritualità, comunità – è semplicemente “strumento”, un mezzo, e non esaurisce assolutamente il Regno. Il Regno è oltre! Molto oltre.
Ringraziamo Dio allora, fratelli, di farne almeno parte, nel nostro piccolo! Viviamo soprattutto l’amore: perché Cristo vuole questo da noi: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gi altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». Amen.

martedì 11 gennaio 2011

16 Gennaio 2011 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo».
Siamo all’inizio del “tempo ordinario”, tempo liturgico che è un invito forte a costruire la nostra “ferialità”, non nella banalità, ma nella novità introdotta col Natale. È infatti nello scorrere quotidiano e feriale dei nostri giorni che dobbiamo vivere lo stupore dell’Emanuele, del Dio-con-noi; che dobbiamo vivere la novità e la bellezza del Volto di Dio: un tempo in cui costruire e adeguare la nostra “somiglianza” a quella “immagine” di Dio, che Egli stesso ha impresso nell’uomo creandolo, e che Gesù, umanizzandosi, ci ha rivelato.
Il Vangelo di oggi ci ripropone ancora una volta la figura di Giovanni, il battezzatore: non il solito burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un Battista vinto dall’evidenza, più dolce, più umile che, in veste di testimone oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della umana redenzione, rivelandone pubblicamente la vera identità: l'«agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Una definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, senza tanti preamboli, mette subito in chiaro davanti ai nostri occhi. A differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l'uomo che si deve offrire a Dio attraverso varie forme di sacrifici, il Battista ci presenta qui un Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio – l’Agnello, la vittima che si immola per noi, che si dona e si consegna. Una autentica rivoluzione, fratelli, uno stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la mano tesa di Dio come dono, un dono destinato a cambiargli la vita; un potente antibiotico contro l’innata piccineria umana che pretende l’aiuto e l’amicizia di Dio come contropartita di iniziative puramente esteriori, senza alcun coinvolgimento del cuore, e per questo sterili e inutili; si, sterili e inutili perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere. Dio, fratelli, non è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani! Soprattutto se fatti senza vero amore. C’è un novum fondamentale, un novum che sta proprio qui: Gesù è la vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte "per noi"; è attraverso la sua vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità che Egli è Amore assoluto; un Amore ben più grande di tutti i nostri peccati, anche di quelli più tremendi.
È proprio così, fratelli: Dio è l’Amore fedele nei secoli; e di Lui ci si può completamente fidare.
Quando guardiamo la croce, noi vediamo la vittima immolata e ostesa: l'Agnello di Dio crocifisso, Colui che ci libera da ogni schiavitù, da ogni peccato, da ogni colpa. Per quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male: perché Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore che riempie e consola il nostro cuore. Scriveva Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: "Io non ho bisogno di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno soltanto di amore". Verità sacrosanta: Dio soddisfa in pieno questo nostro bisogno. Nella nostra vita umana siamo soggetti a sofferenze, angosce, malesseri di qualunque tipo; ma se permettiamo a Lui di entrare nel nostro cuore, di stare con noi in noi, allora sentiremo di avere un amico, un sostegno, una nuova forza, prorompente; sentiremo il conforto di avere uno che ci ascolta, che ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre aperto in cui sentirci sicuri e amati. Completamente. E, fratelli miei, quanto bisogno abbiamo veramente tutti di sentirci amati!
Gesù è l'agnello che toglie il “peccato”: il “peccato”? di che peccato parliamo? Cosa è oggi ancora peccato? Che importanza diamo al peccato? Che percezione ne abbiamo? Poca, fratelli miei. Anzi pochissima, quasi nessuna. Del resto noi oggi sentiamo ripetere continuamente che Dio è misericordioso, che ci ama incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che ci rincorre: allora perché preoccuparci? Anche se tutto questo è vero, non dobbiamo in alcun modo abbassare la guardia, sottovalutando l’entità delle nostre debolezze. Sbagliamo di brutto quando giustifichiamo qualunque nostra decisione pensando: “Tanto Lui è buono, se pecchiamo ci perdona!” Sbagliamo quando non pensiamo affatto allo sconquasso che la nostra ingratitudine provoca nel cuore innamorato di Dio. Continuiamo a sbagliare quando diciamo: “ma che peccati posso mai fare?”. Se esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le nostre elemosine, non bestemmiamo… ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri modi possiamo peccare contro l’infinita bontà di Dio? Pensiamoci attentamente fratelli miei: perché noi purtroppo pecchiamo, e pecchiamo sul serio, ogni volta che non vogliamo maturare nel cuore, quando non vogliamo crescere spiritualmente, quando preferiamo restare così come siamo, tiepidi e indifferenti, senza crearci alcun problema. Pecchiamo quando non vogliamo guardare in faccia la realtà e chiudiamo gli occhi facendo finta di niente: quando non ci accorgiamo dei nostri fratelli che timidamente ci mandano richieste di aiuto, talvolta anche disperate; quando non vediamo (e come ci sta bene non vederle!) le esigenze, gli stati d’animo, le sofferenze di chi ci sta vicino: di nostra moglie, di nostro marito, dei figli, dei nostri confratelli, delle nostre consorelle; quando non ci accorgiamo che dovremmo prendere quella particolare decisione importante che rinviamo sempre; quando sappiamo che c'è un problema col nostro prossimo e facciamo finta che non ci sia, che tutto vada bene. Siamo inoltre nel peccato quando la vita spirituale non circola più in noi ed è come se fossimo morti: non siamo più toccati da nulla, siamo insensibili, niente ci commuove, niente ci emoziona, ci appassiona o ci fa piangere; quando non siamo più disposti a metterci in gioco, ad osare, per nessun ideale o sogno; oppure quando, stupidamente iperattivi, non vogliamo fermarci per riflettere sulle conseguenze della nostra condotta donchisciottesca. Peccato è voler rimanere ignoranti, non voler conoscere le cose "per non crearci troppi problemi", preferire il buio mentale alla luce. Peccato è il vittimismo con cui ci chiudiamo in noi stessi: "Nessuno mi ama; tutti ce l'hanno con me; nessuno mi regala niente; non ci si può fidare di nessuno; io faccio tanto per gli altri, ma poi...". Peccato infine è credersi senza difetti, senza macchia, l’essere convinti che "Sì, le solite piccole debolezze, ma niente di grave". E non ci accorgiamo delle tante ferite, anche se piccole, e non mettiamo anche quelle nelle mani di Dio: ma le lasciamo marcire in fondo al nostro cuore, fino ad infettare la nostra anima e il nostro spirito, fino a corroderla e ad ucciderla.
Peccato, male, morte, è – dunque – non esprimere pienamente la vita che ognuno ha dentro. Perché dove c'è vita non c'è morte; dove c'è espressione non c'è depressione; dove c'è amore non c'è chiusura; dove c'è il bene non c'è il male. Nella nostra vita non possiamo scegliere di non fare il male. L'unica scelta possibile è invece quella di fare soltanto il bene. Di farlo sempre, impegnandoci su tutto il fronte.
Ogni domenica, quando andiamo in chiesa, sentiamo il sacerdote ripeterci: "Ecco l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo". E Gesù, il Liberatore, ci sussurra: "Se vuoi, io vengo per portarti un po' di pace, un po' d'amore, di speranza, di perdono e di positività. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?". Noi che rispondiamo? “Agnello di Dio vieni nel mio peccato e liberami dal mio male” oppure “No grazie, non mi interessa”?
La comunione, fratelli, non è un dovere, non è un precetto, non è un obbligo: ma è un riconoscere umilmente di aver bisogno di Dio, di aver bisogno di coraggio e di forza. La comunione è la possibilità che abbiamo di far entrare nel buio del nostro cuore un po' di luce; di portare nel mondo conflittuale della nostra anima un po' di pace e di perdono. È una possibilità concreta che ci viene offerta. Ma allora perché tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente da non porsi neppure il problema? Non vuole farsi coinvolgere troppo? Crede di non meritare l'amore di Dio? È proprio difficile capirlo, fratelli. Perché è come andare dalla propria amata e non darle un bacio, entrare in casa di un amico e non salutarlo. È come andare ad un pranzo e non mangiare. Perché? Perché rinunciare alla cosa più buona, a quella che fa più bene, a quella più dolce? Eppure quando siamo innamorati di una persona, siamo pronti a far di tutto per incontrarla, vogliamo stare soli con lei ad ogni costo!
Per concludere: evitiamo tassativamente di pensare che tanto Dio fa tutto Lui. “È talmente buono… capirà”. No fratelli: nel cammino della fede e della conversione del cuore non esiste la gratuità assoluta: non ci sono bacchette magiche, né anestesie mistiche. L'azione di Dio in noi richiede sempre la nostra diretta collaborazione, l'investimento di tutta la nostra libera volontà. Siamo noi che dobbiamo muoverci: dobbiamo scegliere di stare con Lui, di lasciarci salvare, di farci raggiungere nel nostro cuore. In una parola siamo noi che dobbiamo mettere tutto nelle sue mani. Si fratelli, perché questa è l'unica scelta che non ha mai deluso nessuno. Ripeto: mai!. Amen.

lunedì 3 gennaio 2011

6 Gennaio 2011 – Epifania del Signore

I Re Magi. Ricordate? Per noi bambini di una volta – totalmente digiuni di robots, transformers, gormiti e quant’altro – erano troppo belle quelle statuine, troppo belle per la loro “diversità”: in genere più grandi, imponenti, regali, fantasiose. Personaggi di colore, con cavalli e cammelli, che in noi assumevano un fascino particolare. Personaggi che non potevano assolutamente mancare, già da subito, nei nostri presepi: magari lontani dalla grotta, su una strada che spuntava dal nulla, ai margini della composizione scenica: ma che soddisfazione poi, il mattino dell’Epifania, poterli finalmente posizionare al loro posto, di fronte alla culla del divino Bambino, rivalutando così la loro dignità regale, riconoscendone ufficialmente il ruolo di protagonisti. Era un rito questo dei magi: una liturgia “ante litteram” quella di collocare sulla tragica povertà di una grotta, frequentata dai soli pastori di Betlemme, il fascino prorompente di personaggi stranieri e potenti che, avvolti nel fantastico, misterioso e prodigioso, si rivelavano invece i concreti annunciatori del valore universale del natale di Gesù. La storicità dell’evento e dei personaggi, allora, non ci interessava: e neppure oggi ci deve condizionare più di tanto.
Quello che dobbiamo cogliere è invece il vero messaggio del Natale che Matteo, attraverso queste immagini, vuole oggi farci capire: Dio, l'Altissimo, scende da lassù e viene sulla terra, perché tutte le creature che vi abitano sono degne di vita e di amore, perché tutte portano impresso in sé un raggio della stessa Luce divina. Un messaggio incredibile, fratelli, che solo Dio, incarnandosi, poteva portare.
Ecco perché per noi credenti il Natale, oltre a celebrare Dio che nasce uomo, ci ricorda un impegno vitale: l’uomo che rinasce “Dio”: in altre parole significa che ciascuno di noi è chiamato a far nascere dentro di sé quel Bambino Divino, quel Gesù che purtroppo in noi troppo spesso è nascosto, sepolto, abbandonato, ignorato: è compito nostro, compito di tutti, compito principale di tutta la nostra vita, quello di farlo emergere, di tirarlo fuori, di farlo appunto “nascere”.
Come? La Parola di oggi ci prospetta due possibilità; possiamo percorrere due strade opposte, possiamo prendere due posizioni nette e distinte: quella di Erode o quella dei Magi, i nostri simpatici personaggi.
La prima si disinteressa di Gesù, anzi lo vede come un nemico, un pericolo, lo vuole "uccidere". La seconda è disposta a mettersi in gioco, "lo cerca", perché trovandolo sa di raggiungere vita e felicità.
A questo punto dobbiamo scegliere, fratelli: entrambe le vie presentano pro e contro. La prima è sicuramente più facile ma alla fine porta alla tragedia interiore; la seconda, difficile e tortuosa, finirà invece nella gioia e nella pace.
Possiamo stare con Erode o con i Magi, fratelli miei: dipende soltanto da noi; ma dobbiamo assolutamente fare una scelta! L’indifferenza è la morte dell’anima. Il Bambino c'è per tutti. Tutti hanno qualcosa di sacro e di divino da far nascere in loro, perché Dio è in tutti; tutti, indistintamente, abbiamo scolpita nell’anima la sua immagine. E Dio aspetta la nostra decisione.
Su quale via? Guardiamo Erode: lui non si mette in cerca, lui rimane a Gerusalemme. Lui non fa nessuna fatica; lui non si muove, lui non è disposto a compiere nessun viaggio e per questo non troverà proprio nulla. Perché chi non viaggia non trova niente. Eppure, come non riconoscere, fratelli, che anche noi, sotto sotto, ci illudiamo di trovare Dio, di vivere nel regno della felicità e dell'amore, di obbedire alla nostra vocazione così, senza far nulla, sopravvivendo tranquillamente, senza problemi e senza alcuna fatica. Abbandonati mollemente alla deriva, pensiamo che un bel giorno, improvvisamente, ci arriverà dal cielo l'illuminazione che aspettavamo, un raggio divino ci cadrà addosso e allora tutto sarà chiaro, tutto si risolverà e capiremo su due piedi il da farsi. Ma non è così, fratelli, lo sappiamo perfettamente. È pura follia, questa, che non può nemmeno sfiorarci.
Vogliamo invece trovare Dio? Trovare il “nostro” Bambino Divino? Cerchiamolo! E cerchiamolo con tutte le nostre forze, con il massimo impegno. I Magi partono da lontano. E non a caso partono dall'Oriente: perché è dall'Oriente che sorge il sole, la luce, l'illuminazione. Per trovare la luce, l'illuminazione bisogna quindi fare un lungo viaggio, un viaggio faticoso, un viaggio che risponde all’esigenza intima del cuore, al desiderio che ogni anima ha di trovare Dio. Un viaggio che è ricerca, ansia, speranza, continuità, fede, fermezza. Un viaggio che è ricerca di ciò che sazia pienamente l'anima, di ciò che rende autenticamente felici, di ciò per cui vale la pena di vivere e di morire.
Come affrontare questo viaggio? Vi sono altre motivazioni o indicazioni per farlo?
È sempre la Parola che ci corre in aiuto.
1. Guardarsi dentro. I magi erano maghi, erano coloro che consultavano le stelle. Erano astrologi. Gli astrologi guardavano le stelle del cielo. Era la psicologia del tempo. Guardare “fuori” era a quel tempo il modo per guardarsi “dentro”. Per arrivare al Bambino bisogna pertanto guardarsi dentro e scrutare i propri cieli e le proprie stelle. Non c'è altra possibilità! Ma che succede quando un uomo fa questo? Cosa succede quando si inizia la ricerca dentro di sé? Perché molti farebbero di tutto pur di non guardarsi dentro? È semplice: perché quando ci guardiamo dentro scopriamo che non siamo come pensavamo di essere, che ciò che chiamavamo amore non è affatto amore, anzi; scopriamo dolori, pianti e grida che non vorremmo né sentire né affrontare; scopriamo che la realtà non è quella che vediamo, perché c'è tutto un mondo che non vogliamo vedere e che, nascosto in qualche armadio ben chiuso a chiave, c'è tutto un mondo sconosciuto, lunare, sotterraneo. E che facciamo? Già, che facciamo? È molto più facile dire parole religiose, preghiere, rosari, fare pellegrinaggi, piuttosto che mettersi sinceramente a nudo e guardarsi per quello che realmente si è… sì, fratelli, questo è proprio difficile. Ma una cosa è certa: non si può fare il viaggio verso Dio se non facciamo il viaggio verso noi stessi.
Diciamo: "Io la amo", ma non è vero. La vogliamo per noi, per possederla. Siamo gelosi e abbiamo paura di perderla.
Diciamo: "Io non faccio niente di male", ma non è vero. È che non scaviamo dentro di noi. Non vediamo niente perché non abbiamo il coraggio di tirare su la coperta e di vedere cosa c'è sotto.
Diciamo: "Io voglio bene alle persone", ma non è vero. È che abbiamo paura di rimanere soli; vogliamo bene solo se gli altri pensano e fanno come noi; il nostro voler "bene" è "paura di stare da soli".
Diciamo: "Io mi conosco". Ah sì? e perché allora siamo sempre così nervosi? Perché siamo così aggressivi? Perché non siamo mai soddisfatti? Perché pretendiamo sempre l'approvazione indiscussa degli altri? Perché non sappiamo stare in silenzio?
Guardiamo Erode: lui non si guarda dentro; lui chiede agli altri: ai Magi, ai sommi sacerdoti, agli scribi. Lui non ha il coraggio di guardarsi dentro, perché lui ha paura di ciò che vedrà.
2. È un viaggio personale. Nessuno cioè può farlo al posto nostro. O lo facciamo noi o nessun altro potrà farlo per noi. Possiamo leggere libri, sapere un sacco di cose su di noi, sullo spirito e su Dio. Tutto questo ci aiuta, ma non serve. La cosa decisiva è prendere ed uscire. Questo dobbiamo farlo noi. Gli altri ci possono incoraggiare, gli altri possono dirci un sacco di cose: "Ma guarda che ne vale la pena!; guarda che si soffre un po', ma poi si sta benissimo; dai provaci!; dai, che ce la fai!; osa!; hai un sacco di doni dentro di te: tirali fuori, ecc". Ma alla fin fine sta a noi decidere se partire o se rimanere. Solo a noi.
I Magi sono partiti da lontano, sono montati sui loro cammelli e hanno intrapreso il loro viaggio. Erode? Erode non è uscito da Gerusalemme. Troppa paura!
Ma qual è il beneficio del viaggio? È scoprire i propri doni. I Magi portano al Bambino oro, incenso e mirra e sappiamo il loro valore simbolico: ma i nostri, i nostri doni, quali sono? Quali sono i doni che abbiamo in dote? Quali sono le risorse della nostra vita? Su che cosa possiamo contare? Quali sono le nostre ricchezze? Invece di invidiare gli altri, sviluppiamo i nostri doni e offriamoli alla Vita. La grande povertà è quella di credere di non avere nulla: ma tutti abbiamo qualcosa che nessuno può dare per noi. Tutti abbiamo qualcosa che è solo nostro. Tutti abbiamo dei doni che possiamo far vivere. La vita è un dono: cioè, ciò che ci rende utili, significativi, importanti, è vedere, scoprire, che qualcosa di noi (i nostri doni) servono agli altri e al mondo. Allora ha senso il nostro esserci! Allora scopriamo i nostri doni, e offriamoli!.
3. Mettersi in gioco. Sarà un viaggio liscio? Sarà semplice? Sarà come ce lo siamo programmato? Neanche per sogno! I Magi non sapevano cosa sarebbe successo, non sapevano dove sarebbero andati e cosa avrebbero trovato. Si sono fidati della loro stella e sono andati. Abbiamo un'intuizione? C'è qualcosa che ci "prende", che ci appassiona? Seguiamola! Maria ha seguito una illuminazione (Un sogno? Una visione interiore?): l'annuncio dell'angelo. Giuseppe ha seguito un sogno. I Magi hanno seguito una stella (e di certo non era solamente al di fuori, astronomica!). Diamo fiducia a ciò che sentiamo dentro; fidiamoci dei nostri sogni interiori e diamo spazio ai nostri sogni. Tutti questi personaggi hanno fatto ciò che hanno fatto perché hanno avuto il coraggio di seguire l'impulso interiore. In noi c'è tutta la saggezza che ci basta e che ci serve: crediamo a ciò che c'è dentro di noi!
Hanno dovuto lasciare le loro certezze. I Magi erano gli esperti, gli scienziati, gli studiosi del tempo. Hanno dovuto perdere le loro certezze per seguire l'ignoto. Se vogliamo trovare "Dio", quante idee dovremo cambiare; e quante cose, che prima dicevamo "verità", dovremo scoprire che sono illusione, falsità; e a quante cose che dicevamo "io", dovremo dire: "Non ero io, ma la mia maschera"!; e da quante persone dovremo distaccarci per non essere più dipendenti!. Perché questo è un viaggio che vuole trasformarci, farci diventare figli di Dio, farci diventare ciò che possiamo essere.
È un viaggio in cui ci si può anche perdere. Per i Magi è stato così: hanno perso la loro stella e non sapevano più dove andare. In certi giorni ci verrà da dire: "Non serve a niente; ma chi me lo fa fare?; basta, è tutto un bluff!, ecc". Dobbiamo convincerci che bisogna perdere per trovare: bisogna lasciare le proprie idee di partenza per trovarne di più profonde. Bisogna perdere le proprie credenze per trovare la verità. Bisogna perdere gli amici di un tempo per trovare gli amici del cuore. Bisogna perdere la propria immagine di sé per trovare il proprio vero Sé. Bisogna perdere il controllo sulla propria vita per sperimentare che solo Lui è il Maestro. Chi non si perde non si può trovare. Prima di ritrovarsi bisogna perdersi.
La paura uccide. Sempre. Erode o i Magi sono ciò che noi possiamo essere: ma per strade completamente diverse. Quant’è desolante quella di Erode! Egli cercherà di uccidere quel Bambino, che altro non è che la parte divina di se stesso; i Magi, invece, troveranno il Bambino e lo adoreranno. Dov’è la differenza? Erode ha paura e si lascia vincere da essa. Anche i Magi ce l'hanno, anche per loro è un partire verso l'ignoto, ma non si lasciano bloccare e vanno avanti lo stesso. Psicologicamente, spiritualmente, Erode "non ha fatto nessun viaggio" verso di sé, non si è sviluppato. Quello che fa e quello che si vede non è lui è la sua maschera. Erode non si è mai raggiunto, non ha mai iniziato il cammino verso di sé e verso la Vita. Erode è il terrore incarnato. Uccide ogni possibile avversario reale o immaginario che sia. Sentita la voce della nascita del Messia, la strage degli innocenti è una soluzione ovvia per lui. È un uomo pieno di paura: e la paura diventa diffidenza, manipolazione, giudizio, perfidia, falsità. Lui non fa un passo per cercare: e quando uno è più preoccupato di quello che fanno gli altri che di sé stesso, vuol dire che ha rinunciato a compiere il proprio viaggio; ha rinunciato al proprio cammino di vita. La differenza fra Erode e i Magi? Nessuna; se non un "viaggio".
Ma è quel viaggio che fa di ogni uomo un Erode infido o un sapiente Mago, un figlio delle tenebre o un figlio della luce, una creatura ignorante e primitiva oppure evoluta, un diavolo o un santo.
Il libro del Siracide (15,16-17) dice: "Il Signore ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua; là dove vuoi, stenderai la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà".
Ecco, fratelli: possiamo scegliere Erode (nessun viaggio) o i Magi (il viaggio), la morte o la vita. Ma ricordiamo: siamo sempre e solo noi che scegliamo, siamo sempre e solo noi gli artefici della nostra felicità o dei nostri guai! Amen.

martedì 28 dicembre 2010

1 Gennaio 2011 – Maria SS. Madre di Dio

È il capodanno, oggi; un cambio d'anno, un evento tutto sommato banale, che il disperato bisogno di speranza degli uomini ha riempito di una ritualità laica, fatta di fuochi d'artificio, di tavole opulente, di bevute e di brindisi anestetizzanti, nel tentativo pagano di esorcizzare il tempo, prenotando per i giorni futuri solo benessere, gioia e spensieratezza. Ubriacatura del non senso, dimenticanza voluta del vero senso del tempo e della vita. Anche se in fondo rimane positivo il fatto che ancora si avverta il bisogno di sperare, di aspettarsi per il domani qualcosa di migliore, qualunque cosa purché serva a colmare il vuoto dell’assenza di valori.
Per noi cristiani invece il tempo è sacro; da quando Dio lo abita.
Il tempo, la storia, la mia storia, non è una serie di avvenimenti che si susseguono senza senso ma, al contrario, è lo spazio che mi è dato per realizzare il progetto che Dio ha su di me, un ritaglio di infinito in cui diventare uomo. Nella nostra vita ci sono anni più belli, fatti di soddisfazioni lavorative, di gioie immense come la nascita di un figlio, ed altri più difficili e dolorosi, anni in cui in cui sperimentiamo il fallimento affettivo o il lutto di una persona cara. Entrambi in ogni caso sono abitati dalla tenerezza di Dio. Certo, salute, pace, benessere, amore, sono tutte cose importantissime, ma non sono dovute, non sono assolutamente scontate.
E allora quale miglior augurio potrei farvi per il nuovo anno se non quello formulato nella Parola di oggi: “Dio faccia splendere il suo volto su di voi”? “Far splendere il volto”, uno splendido semitismo che indica il sorriso di una persona. Quando sorridiamo, il nostro volto si illumina.
E questo vi auguro, fratelli, sorelle, amici lettori: qualunque cosa vi accada in questo nuovo anno, il vostro volto sia sempre luminoso, ad immagine speculare del volto sorridente di Dio, Si, fratelli, il nostro Dio è un Dio che sorride. E chi lo ama, anche nelle avversità, nei dolori, nelle contrarietà, riesce sempre a sorridere specchiandosi nel suo volto. Questo è consolante, fratelli: Dio sorride, non è imbronciato, non é impenetrabile, non é scostante, non é innervosito: Dio sorride, sempre. Anche il volto del neonato Gesù, immerso da poco nella fragilità umana, ci svela questo volto del Dio sorridente. Il problema, invece, siamo noi, solo noi: tu ed io. Nei momenti di fatica e di dolore non riusciamo ad alzare lo sguardo fiducioso verso Dio, ma veniamo travolti dall'emozione, dalla rabbia, dalla disperazione; non riconosciamo in Dio nessun sorriso.
Fratelli miei: non aspettiamoci che Dio ci risolva i problemi, né che ci appiani la vita o ce la semplifichi. La vita è un mistero e come tale va accolta e rispettata. Ma se Dio ci sorride, sempre, significa che un motivo ci deve pur essere - un motivo che magari non vediamo, una ragione che ignoriamo - se Lui è lì, sempre sorridente: se per Lui i nostri problemi non sono problemi, vuol dire che dobbiamo abbandonarci a Lui. Dobbiamo fidarci di Lui! Ecco, fratelli e sorelle: qualunque cosa succeda quest'anno nella nostra vita, abbandoniamoci al suo sorriso, sempre!
Cosa fare per poter cogliere più facilmente e nitidamente il sorriso di Dio? Dobbiamo imitare Maria, la sua madre adolescente. Maria, che oggi appunto onoriamo con il titolo di "Madre di Dio", è turbata dai troppi eventi che le sono capitati nell’ultima settimana: il parto da sola, l'essere lontana dalla sua casa, la sistemazione più che provvisoria, la visita dei rozzi e poco raccomandabili pastori. Che fa, Maria? Si dispera? No: raccoglie tutte queste preoccupazioni nel suo cuore e le medita nel silenzio. Meglio, come dice letteralmente il greco di Luca, "prendeva i vari pezzi e cercava di ricomporli". È proprio vero, fratelli: nella nostra vita spesso manca proprio questo: un rifugio vitale, un entrare in noi stessi (introire secum) per ricomporre la nostra vita travolta dagli eventi, dal vissuto: un luogo dove appendere un filo su cui stendere tutte le nostre miserie, perché si asciughino al sole dell'amore di Dio. Ci serve, in altre parole, la fede, una fede convinta, che sia il nostro filo conduttore, il nostro prezioso centro unificatore, assolutamente insostituibile. Soltanto con la fede, nell'ascolto e nella meditazione giornaliera della Parola, ci accorgeremo che Dio ci sorride.
Dio ha scelto Maria tra milioni di donne sicuramente più idonee di Lei: lei, una donna bambina, totalmente impreparata. Maria se ne rende perfettamente conto. Nessuno mai le avrebbe dato credito. Ma i criteri di Dio sono diversi dai nostri. Dio sceglie sempre per le sue imprese coloro che gli uomini sottovalutano: la pietra scartata nelle sue mani diviene testata d'angolo; perché Egli, da sempre e per sempre, usa altri criteri. Dio, fratelli miei, ha in mente per ciascuno di noi un viaggio strepitoso, in-credibile, eccezionale, ma è condizionato da noi: non può farlo, non può realizzare questo suo sogno se noi non ci fidiamo di Lui, se gli resistiamo, se continuiamo ad opporci, a voler dirigere da soli la nostra vita. Dio sceglie e ama in maniera particolare chi è disponibile, chi si fida di Lui, chi può dire, come Maria: “Va bene, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Ti seguo ciecamente, andiamo!”. Non è meraviglioso fare così? Questa è la fede, fratelli miei!
Guardiamo allora a Maria, all’inizio di questo nuovo anno, e fidiamoci di Dio: smettiamo di chiedergli perché succede quel che succede, di recriminare perché certe cose vanno storte e succedono sempre e proprio a noi! Smettiamola di frapporgli ostacoli e di tirarci indietro quando ci chiama. Qualunque cosa accada dobbiamo accettare la sua volontà. Dobbiamo capire che Egli vuol farci passare proprio di là. Punto e basta. "Io mi fido di Te. Se l’hai permesso, è perché devo imparare qualcosa; cercherò di farlo con il tuo aiuto. Guidami e ti seguirò; tu davanti e io dietro”.
Vi assicuro che in questo modo tutte le nostre ansie svaniranno e troveremo dentro di noi una una forza irresistibile: col nostro "si" esalteremo non solo in noi il sorriso di Dio ma lo irradieremo al mondo intero; e avremo la pace.
E allora la Pace del sorriso di Dio sia in te, fratello e sorella: sia in casa tua, nella tua comunità; sia dove lavori, e dove ti diverti. Sia nella tua città dove vivi, sia nel mondo. Che tutti la possano incontrare, non solo nelle Liturgie delle Chiese o nelle preghiere di Sinagoghe e Moschee, ma anche nell’altro, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto di chi è in difficoltà, nel perdono dopo lo scontro, nell’amore che si può e si deve dare sempre, in ogni occasione!
E concludo: Buon anno, amici lettori, fratelli carissimi. Dio, che fa nuove tutte le cose, vuole rinnovare anche noi; ci vuole, convinti, tra i suoi discepoli più cari: vuole amarci ad ogni costo! Lasciamolo fare, lasciamoci raggiungere una buona volta, tutti. Ve ne prego. Amen.

mercoledì 22 dicembre 2010

25 Dicembre 2010 – NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

Il bimbo vagisce con voce flebile, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno. La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra. Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore. Ecco Dio, ecco l'uomo: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano, di accarezzarlo.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, cercano di scaldarsi dalla gelida notte della Giudea. Nei loro cuori rabbia, rassegnazione, disincanto, come sono i sentimenti di coloro che hanno speso tutte le energie per sopravvivere. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce.
Ma ecco che un angelo appare loro. “Andate a vedere – dice – vedrete come segno una mangiatoia. Per voi, non per gli altri, è nato il Salvatore. Proprio per voi che non sapete nemmeno cos'è, la salvezza”.
È grande Dio: una mangiatoia! Il segno che l'angelo dona ai pastori è ciò che essi conoscono meglio. Non cose irraggiungibili, complicate ed elitarie: essi possono incontrare Dio esattamente con ciò che sono, con ciò che conoscono. È Dio che si è fatto loro incontro, senza porre condizioni. E loro vanno, e vedono, e capiscono. Spiegano alla ragazzina provata dal parto e al suo fidanzato dell’annuncio degli angeli.
Maria sorride debolmente, Giuseppe non sa che pensare. Che storia meravigliosa!.
Dio nasce in un paese lontano, in condizioni disperate e gli unici che se ne accorgono sono i più poveri, quelli che mangiano solo una volta al giorno, poco pane e tanti disagi.
Tornano pieni di gioia al loro alienante lavoro, i pastori; nessun bel finale: l'odore delle pecore e delle capre è sempre lo stesso, il freddo è sempre pungente come prima.
Solo il loro cuore è cambiato.
Dio si è fatto uomo.
Ecco dunque Dio, voi che lo aspettate. Ecco Dio, voi che non ne sentite il bisogno. Ecco Dio, professionisti del sacro. Eccolo, inatteso, sconvolgente, stordente, folle.
Ecco Dio, fratelli: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l'acerbo seno della madre.
Ecco Dio, fratelli: è un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, e viene tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l'emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione difficile.
Ecco Dio, fratelli: non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità, non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.
Ecco Dio, fratelli: un parto sconosciuto in mezzo alle decine di migliaia di parti di bambini derelitti destinati alla miseria e alla morte. Dio è così: prendere o lasciare, accogliere o rifiutare o, peggio, mistificare, come troppo spesso siamo capaci di fare noi, stravolgendo la cruda realtà del Natale, la disarmante fragilità di Dio e la sua follia d'amore, con la nostra frenesia mondana fatta di emozioni buoniste (sempre le solite e sempre più consumate), scordandoci completamente della fede.
Ecco Dio: un Dio che si annuncia a chi non se lo merita, a chi non lo prega, a chi maledice la vita tre volte al giorno. Un Dio che si fa riconoscere dai segni quotidiani, che si nasconde nelle piccole cose. Un Dio che cambia la vita che se anche resta la stessa, assume una luce diversa.
Ecco Dio, discepoli del Nazareno, che ancora non vi stancate di essere cristiani e di seguirlo e di pregarlo. Ecco Dio, diverso da come lo vorremmo.
Un Dio bambino, che non risolve i problemi, ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non punisce i malvagi ma che dai malvagi è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge a noi poveri, a noi perdenti, a noi inquieti, Lui per primo povero, perdente, inquieto per amore.
Se Dio è così significa che ama l'umanità al punto da diventare uomo.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso; significa che l'idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, perché Dio ama, ancor prima di essere amato.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
Significa che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato; che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita.
Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, compagni di viaggio. Centinaia di volti, di storie, di messaggi, di pianti e di sorrisi ricevuti come un dono prezioso durante il mio pellegrinaggio di speranza in quest’anno. Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, comunicandovi la speranza che riempie ancora il mio pavido cuore e la mia debole fede. Vorrei mostrarvi quanta grazia, quanta gioia, quanta pace Dio continua a suscitare. Un augurio speciale a tutti e a ciascuno. Buon Natale. Amen.

mercoledì 15 dicembre 2010

19 Dicembre 2010 – IV Domenica di Avvento

Per Giuseppe non fu sicuramente un gran Natale, quel Natale! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi a Sefforis. Le cose andavano bene: da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, progettare una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore era fonte di gioia incontenibile. Ma, improvvisamente, questo sogno di Giuseppe viene "rovinato" dall'intervento di Dio. L’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è responsabile, lo getta nell’angoscia e lo costringe a rivedere tutto.
Ma come: Maria? Proprio lei? Come è potuto succedere? Lui era l'unico a sapere che quel figlio non era frutto del suo seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa avrebbe dovuto fare?
Non era il tempo della rabbia, quello, né del piangersi addosso; era il tempo di agire. Consegnarla alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sapeva bene che il destino delle donne adultere era la pubblica lapidazione. No, non poteva. La notte in cui apprese la tragica notizia dovette essere terribile per lui: l’ansia che lo teneva sveglio, il rigirarsi continuamente nel pagliericcio, le orribili visioni del domani che spietatamente lo gettavano nella disperazione più cupa. Aveva sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riusciva a credere alla realtà, non voleva arrendersi all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio ferito cedeva però il posto alla tenerezza e alle lacrime dell’innamorato. Il suo cuore si placò quando gli venne in mente un'altra soluzione: al rabbino avrebbe detto che si era stufato di Maria, e che pertanto scioglieva il contratto. Maria avrebbe avuto l'onore compromesso, ma la vita salva. Ecco, sì, buona idea. Lui, nonostante e al di là di tutto, la amava immensamente.
Il racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci con tutti i sogni, nella nostra vita personale, infranti da un abbandono della persona amata, da una malattia, da un incidente, da una ingiustizia sul posto di lavoro, dai tanti fattori che ci fanno sentire ingiustamente frenati nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi progetti di vita nell'amore e nella realizzazione a livello vocazionale, professionale e di lavoro. Anche nel sogno spirituale di fede possiamo a volte sperimentarne la morte, quando sentiamo Dio lontano e la comunità dei credenti come ostacolo; e allora quello che credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina nemmeno con il suo proposito di bontà e di giustizia personale.
Finalmente, quella notte, il sonno arrivò: lo prese sul fare del mattino. E lì accadde. Un angelo dialogava con lui, nel sogno, e gli parlava di una missione da compiere, e di un figlio che avrebbe salvato il mondo e di non preoccuparsi. Un sogno strano, dolce, quasi vero. Maria era sua, di Giuseppe, ma a Dio piaceva e le aveva chiesto il grembo in prestito. Nel sogno Giuseppe taceva, stupito, attonito, pacificato. Poi si svegliò, sereno. I pensieri bui erano lontani, fuggiti con le tenebre, si decise di andare a comperare un dolce e di portarlo a Maria. Aveva bisogno di forza, ora che aspettava un figlio. “Suo” figlio. Se Maria aveva imprestato il grembo a Dio, lui, Giuseppe, poteva anche fargli da padre, a Dio. E fa bene a mettere da parte il suo dolore: perché non c’è nessun altro uomo a Nazareth che ami la sua Maria. È semplicemente Dio che gliel’ha rubata.
E la storia continua, con un nuovo sogno che appare nella mente e nel cuore di Giuseppe. È un nuovo progetto che prende forma proprio dalle macerie di quello che credeva distrutto: Dio lo coinvolge in una storia che ovviamente è molto al di la delle sue capacità, ma che ha già coinvolto un'altra piccola donna, che è proprio la sua sposa, Maria. Dio vuole realizzare il suo sogno di entrare nella storia umana e in questo progetto difficilissimo non può fare a meno di Giuseppe, anche se infinitamente più piccolo di Dio. In questo incontro "impossibile" di collaborazione con Dio, Giuseppe trova il nuovo progetto di vita sul quale punta tutto e dal quale ritrova nuovo slancio. La sua quindi non è una obbedienza cieca e sottomessa, ma è una obbedienza a Dio insieme all'obbedienza al suo cuore. Giuseppe cerca la felicità e, aiutato dalle parole che l'angelo gli depone nel cuore, comprende che questa felicità si realizza proprio là dove credeva fosse morto tutto.
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe era “giusto”: cioè irreprensibile, autentico, onesto, un uomo di alto profilo, pieno di dignità e di compassione, non vendicativo, non rancoroso; uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito a morte, capisce, sa superare il suo orgoglio e usa misericordia verso la donna che ama profondamente. È “giusto”, Giuseppe: come i giusti dell'antico testamento, come i pii davanti a Dio, come i retti di cuore, tanto lodati dalla Scrittura. “Giusto”, perché si mette dalla parte del pensiero di Dio, perché contrasta la follia dominante e il pensiero comune, perché guarda in profondità e lascia prevalere la tenerezza. Infine, “giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo lasciassimo Dio nascere nei nostri cuori.
Ma noi, fratelli e sorelle, lo vogliamo veramente che Dio nasca nei nostri cuori? Si? Allora mettiamo da parte le apparenze, viviamo nell'onestà con noi stessi, siamo irreprensibili di fronte agli uomini, coltiviamo in noi i sentimenti e le qualità che ancora sono considerate dei valori: la mitezza, l'assenza di critica, la bonomia, la pazienza, la mitezza, l'umiltà. Un mondo di arroganti e spocchiosi è diventato il nostro mondo, un mondo fatto di gente che urla per far sentire il nulla che ha da dire. Di quanti Giuseppe avremmo bisogno in famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose, negli uffici, in politica! Uomini e donne “giusti”, di cui Dio si può fidare per realizzare il suo progetto!
Ma non basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei grandi sognatori, dobbiamo credere ancora nei sogni, negli ideali. Giuseppe c'insegna ad avere il coraggio del sogno, in questo nostro mondo disincantato e cinico; lui, grande sognatore, vive la sua vita intera dietro ad un sogno, piega la sua volontà e il suo destino alla volontà sorniona ed impudente di Dio che gli chiede di mettersi da parte, per lasciare spazio al Suo inaudito progetto di incarnazione.
Un uomo che non sa più sognare, che non insegue i suoi sogni, che non li ascolta, è un uomo morto. E uccide Dio.
Giuseppe accetta, si mette da parte, rinuncia al suo sogno, per realizzare il sogno di Dio e dell'umanità. È deciso, Giuseppe: si prepara perché deve tornare alla sua Betlemme con Maria. Non le ha chiesto nulla, lei sa, lui sa. Si mettono in strada, lei, acerba adolescente con il pancione che la fa donna; lui, con tutte le premure di uno sposo innamorato. Un Imperatore idiota ha deciso di contare i suoi sudditi per autodeliziarsi, stupidamente, del suo inutile potere...
Fratelli miei, cosa ci dice questa svolta decisa nella storia di Giuseppe? Cosa dice a noi che spesso ci fermiamo a contemplare le macerie dei nostri sogni distrutti e che spesso ci fermiamo a prendercela con Dio, con noi stessi e con gli altri in una comprensibile ma a volte inutile autocommiserazione? Nel sogno di Dio ci stanno anche i nostri sogni. Sembra impossibile, sembra appunto un sogno... Forse per questo abbiamo a volte bisogno di ritrovare il sogno spirituale, che in altri termini si chiama preghiera.
È infatti nella preghiera che possiamo intuire come la nostra legittima aspirazione alla felicità non sia mai compromessa del tutto da quel che ci capita di negativo; come anzi dietro alle presunte sconfitte si possa nascondere qualcosa di più grande che ci chiama. Ecco perché di fronte alle nostre debolezze dobbiamo ricorrere alla potenza del Signore, occorre invocarlo umilmente, affinché nella Sua luce divina si sciolgano tutte le nostre incertezze, tutti i nostri dubbi. Anche l’imminente Natale richiede tutta la nostra fede, umile ed attenta: viviamolo così, fratelli e sorelle, questo Natale, coinvolti nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci vuole inerti, pusillanimi, rinunciatari, ma in continua tensione verso il compimento della Sua volontà: né più né meno di come è successo con Giuseppe. Amen.