martedì 28 dicembre 2010

1 Gennaio 2011 – Maria SS. Madre di Dio

È il capodanno, oggi; un cambio d'anno, un evento tutto sommato banale, che il disperato bisogno di speranza degli uomini ha riempito di una ritualità laica, fatta di fuochi d'artificio, di tavole opulente, di bevute e di brindisi anestetizzanti, nel tentativo pagano di esorcizzare il tempo, prenotando per i giorni futuri solo benessere, gioia e spensieratezza. Ubriacatura del non senso, dimenticanza voluta del vero senso del tempo e della vita. Anche se in fondo rimane positivo il fatto che ancora si avverta il bisogno di sperare, di aspettarsi per il domani qualcosa di migliore, qualunque cosa purché serva a colmare il vuoto dell’assenza di valori.
Per noi cristiani invece il tempo è sacro; da quando Dio lo abita.
Il tempo, la storia, la mia storia, non è una serie di avvenimenti che si susseguono senza senso ma, al contrario, è lo spazio che mi è dato per realizzare il progetto che Dio ha su di me, un ritaglio di infinito in cui diventare uomo. Nella nostra vita ci sono anni più belli, fatti di soddisfazioni lavorative, di gioie immense come la nascita di un figlio, ed altri più difficili e dolorosi, anni in cui in cui sperimentiamo il fallimento affettivo o il lutto di una persona cara. Entrambi in ogni caso sono abitati dalla tenerezza di Dio. Certo, salute, pace, benessere, amore, sono tutte cose importantissime, ma non sono dovute, non sono assolutamente scontate.
E allora quale miglior augurio potrei farvi per il nuovo anno se non quello formulato nella Parola di oggi: “Dio faccia splendere il suo volto su di voi”? “Far splendere il volto”, uno splendido semitismo che indica il sorriso di una persona. Quando sorridiamo, il nostro volto si illumina.
E questo vi auguro, fratelli, sorelle, amici lettori: qualunque cosa vi accada in questo nuovo anno, il vostro volto sia sempre luminoso, ad immagine speculare del volto sorridente di Dio, Si, fratelli, il nostro Dio è un Dio che sorride. E chi lo ama, anche nelle avversità, nei dolori, nelle contrarietà, riesce sempre a sorridere specchiandosi nel suo volto. Questo è consolante, fratelli: Dio sorride, non è imbronciato, non é impenetrabile, non é scostante, non é innervosito: Dio sorride, sempre. Anche il volto del neonato Gesù, immerso da poco nella fragilità umana, ci svela questo volto del Dio sorridente. Il problema, invece, siamo noi, solo noi: tu ed io. Nei momenti di fatica e di dolore non riusciamo ad alzare lo sguardo fiducioso verso Dio, ma veniamo travolti dall'emozione, dalla rabbia, dalla disperazione; non riconosciamo in Dio nessun sorriso.
Fratelli miei: non aspettiamoci che Dio ci risolva i problemi, né che ci appiani la vita o ce la semplifichi. La vita è un mistero e come tale va accolta e rispettata. Ma se Dio ci sorride, sempre, significa che un motivo ci deve pur essere - un motivo che magari non vediamo, una ragione che ignoriamo - se Lui è lì, sempre sorridente: se per Lui i nostri problemi non sono problemi, vuol dire che dobbiamo abbandonarci a Lui. Dobbiamo fidarci di Lui! Ecco, fratelli e sorelle: qualunque cosa succeda quest'anno nella nostra vita, abbandoniamoci al suo sorriso, sempre!
Cosa fare per poter cogliere più facilmente e nitidamente il sorriso di Dio? Dobbiamo imitare Maria, la sua madre adolescente. Maria, che oggi appunto onoriamo con il titolo di "Madre di Dio", è turbata dai troppi eventi che le sono capitati nell’ultima settimana: il parto da sola, l'essere lontana dalla sua casa, la sistemazione più che provvisoria, la visita dei rozzi e poco raccomandabili pastori. Che fa, Maria? Si dispera? No: raccoglie tutte queste preoccupazioni nel suo cuore e le medita nel silenzio. Meglio, come dice letteralmente il greco di Luca, "prendeva i vari pezzi e cercava di ricomporli". È proprio vero, fratelli: nella nostra vita spesso manca proprio questo: un rifugio vitale, un entrare in noi stessi (introire secum) per ricomporre la nostra vita travolta dagli eventi, dal vissuto: un luogo dove appendere un filo su cui stendere tutte le nostre miserie, perché si asciughino al sole dell'amore di Dio. Ci serve, in altre parole, la fede, una fede convinta, che sia il nostro filo conduttore, il nostro prezioso centro unificatore, assolutamente insostituibile. Soltanto con la fede, nell'ascolto e nella meditazione giornaliera della Parola, ci accorgeremo che Dio ci sorride.
Dio ha scelto Maria tra milioni di donne sicuramente più idonee di Lei: lei, una donna bambina, totalmente impreparata. Maria se ne rende perfettamente conto. Nessuno mai le avrebbe dato credito. Ma i criteri di Dio sono diversi dai nostri. Dio sceglie sempre per le sue imprese coloro che gli uomini sottovalutano: la pietra scartata nelle sue mani diviene testata d'angolo; perché Egli, da sempre e per sempre, usa altri criteri. Dio, fratelli miei, ha in mente per ciascuno di noi un viaggio strepitoso, in-credibile, eccezionale, ma è condizionato da noi: non può farlo, non può realizzare questo suo sogno se noi non ci fidiamo di Lui, se gli resistiamo, se continuiamo ad opporci, a voler dirigere da soli la nostra vita. Dio sceglie e ama in maniera particolare chi è disponibile, chi si fida di Lui, chi può dire, come Maria: “Va bene, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Ti seguo ciecamente, andiamo!”. Non è meraviglioso fare così? Questa è la fede, fratelli miei!
Guardiamo allora a Maria, all’inizio di questo nuovo anno, e fidiamoci di Dio: smettiamo di chiedergli perché succede quel che succede, di recriminare perché certe cose vanno storte e succedono sempre e proprio a noi! Smettiamola di frapporgli ostacoli e di tirarci indietro quando ci chiama. Qualunque cosa accada dobbiamo accettare la sua volontà. Dobbiamo capire che Egli vuol farci passare proprio di là. Punto e basta. "Io mi fido di Te. Se l’hai permesso, è perché devo imparare qualcosa; cercherò di farlo con il tuo aiuto. Guidami e ti seguirò; tu davanti e io dietro”.
Vi assicuro che in questo modo tutte le nostre ansie svaniranno e troveremo dentro di noi una una forza irresistibile: col nostro "si" esalteremo non solo in noi il sorriso di Dio ma lo irradieremo al mondo intero; e avremo la pace.
E allora la Pace del sorriso di Dio sia in te, fratello e sorella: sia in casa tua, nella tua comunità; sia dove lavori, e dove ti diverti. Sia nella tua città dove vivi, sia nel mondo. Che tutti la possano incontrare, non solo nelle Liturgie delle Chiese o nelle preghiere di Sinagoghe e Moschee, ma anche nell’altro, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto di chi è in difficoltà, nel perdono dopo lo scontro, nell’amore che si può e si deve dare sempre, in ogni occasione!
E concludo: Buon anno, amici lettori, fratelli carissimi. Dio, che fa nuove tutte le cose, vuole rinnovare anche noi; ci vuole, convinti, tra i suoi discepoli più cari: vuole amarci ad ogni costo! Lasciamolo fare, lasciamoci raggiungere una buona volta, tutti. Ve ne prego. Amen.

mercoledì 22 dicembre 2010

25 Dicembre 2010 – NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

Il bimbo vagisce con voce flebile, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno. La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra. Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore. Ecco Dio, ecco l'uomo: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano, di accarezzarlo.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, cercano di scaldarsi dalla gelida notte della Giudea. Nei loro cuori rabbia, rassegnazione, disincanto, come sono i sentimenti di coloro che hanno speso tutte le energie per sopravvivere. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce.
Ma ecco che un angelo appare loro. “Andate a vedere – dice – vedrete come segno una mangiatoia. Per voi, non per gli altri, è nato il Salvatore. Proprio per voi che non sapete nemmeno cos'è, la salvezza”.
È grande Dio: una mangiatoia! Il segno che l'angelo dona ai pastori è ciò che essi conoscono meglio. Non cose irraggiungibili, complicate ed elitarie: essi possono incontrare Dio esattamente con ciò che sono, con ciò che conoscono. È Dio che si è fatto loro incontro, senza porre condizioni. E loro vanno, e vedono, e capiscono. Spiegano alla ragazzina provata dal parto e al suo fidanzato dell’annuncio degli angeli.
Maria sorride debolmente, Giuseppe non sa che pensare. Che storia meravigliosa!.
Dio nasce in un paese lontano, in condizioni disperate e gli unici che se ne accorgono sono i più poveri, quelli che mangiano solo una volta al giorno, poco pane e tanti disagi.
Tornano pieni di gioia al loro alienante lavoro, i pastori; nessun bel finale: l'odore delle pecore e delle capre è sempre lo stesso, il freddo è sempre pungente come prima.
Solo il loro cuore è cambiato.
Dio si è fatto uomo.
Ecco dunque Dio, voi che lo aspettate. Ecco Dio, voi che non ne sentite il bisogno. Ecco Dio, professionisti del sacro. Eccolo, inatteso, sconvolgente, stordente, folle.
Ecco Dio, fratelli: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l'acerbo seno della madre.
Ecco Dio, fratelli: è un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, e viene tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l'emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione difficile.
Ecco Dio, fratelli: non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità, non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.
Ecco Dio, fratelli: un parto sconosciuto in mezzo alle decine di migliaia di parti di bambini derelitti destinati alla miseria e alla morte. Dio è così: prendere o lasciare, accogliere o rifiutare o, peggio, mistificare, come troppo spesso siamo capaci di fare noi, stravolgendo la cruda realtà del Natale, la disarmante fragilità di Dio e la sua follia d'amore, con la nostra frenesia mondana fatta di emozioni buoniste (sempre le solite e sempre più consumate), scordandoci completamente della fede.
Ecco Dio: un Dio che si annuncia a chi non se lo merita, a chi non lo prega, a chi maledice la vita tre volte al giorno. Un Dio che si fa riconoscere dai segni quotidiani, che si nasconde nelle piccole cose. Un Dio che cambia la vita che se anche resta la stessa, assume una luce diversa.
Ecco Dio, discepoli del Nazareno, che ancora non vi stancate di essere cristiani e di seguirlo e di pregarlo. Ecco Dio, diverso da come lo vorremmo.
Un Dio bambino, che non risolve i problemi, ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non punisce i malvagi ma che dai malvagi è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge a noi poveri, a noi perdenti, a noi inquieti, Lui per primo povero, perdente, inquieto per amore.
Se Dio è così significa che ama l'umanità al punto da diventare uomo.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso; significa che l'idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, perché Dio ama, ancor prima di essere amato.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
Significa che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato; che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita.
Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, compagni di viaggio. Centinaia di volti, di storie, di messaggi, di pianti e di sorrisi ricevuti come un dono prezioso durante il mio pellegrinaggio di speranza in quest’anno. Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, comunicandovi la speranza che riempie ancora il mio pavido cuore e la mia debole fede. Vorrei mostrarvi quanta grazia, quanta gioia, quanta pace Dio continua a suscitare. Un augurio speciale a tutti e a ciascuno. Buon Natale. Amen.

mercoledì 15 dicembre 2010

19 Dicembre 2010 – IV Domenica di Avvento

Per Giuseppe non fu sicuramente un gran Natale, quel Natale! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi a Sefforis. Le cose andavano bene: da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, progettare una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore era fonte di gioia incontenibile. Ma, improvvisamente, questo sogno di Giuseppe viene "rovinato" dall'intervento di Dio. L’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è responsabile, lo getta nell’angoscia e lo costringe a rivedere tutto.
Ma come: Maria? Proprio lei? Come è potuto succedere? Lui era l'unico a sapere che quel figlio non era frutto del suo seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa avrebbe dovuto fare?
Non era il tempo della rabbia, quello, né del piangersi addosso; era il tempo di agire. Consegnarla alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sapeva bene che il destino delle donne adultere era la pubblica lapidazione. No, non poteva. La notte in cui apprese la tragica notizia dovette essere terribile per lui: l’ansia che lo teneva sveglio, il rigirarsi continuamente nel pagliericcio, le orribili visioni del domani che spietatamente lo gettavano nella disperazione più cupa. Aveva sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riusciva a credere alla realtà, non voleva arrendersi all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio ferito cedeva però il posto alla tenerezza e alle lacrime dell’innamorato. Il suo cuore si placò quando gli venne in mente un'altra soluzione: al rabbino avrebbe detto che si era stufato di Maria, e che pertanto scioglieva il contratto. Maria avrebbe avuto l'onore compromesso, ma la vita salva. Ecco, sì, buona idea. Lui, nonostante e al di là di tutto, la amava immensamente.
Il racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci con tutti i sogni, nella nostra vita personale, infranti da un abbandono della persona amata, da una malattia, da un incidente, da una ingiustizia sul posto di lavoro, dai tanti fattori che ci fanno sentire ingiustamente frenati nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi progetti di vita nell'amore e nella realizzazione a livello vocazionale, professionale e di lavoro. Anche nel sogno spirituale di fede possiamo a volte sperimentarne la morte, quando sentiamo Dio lontano e la comunità dei credenti come ostacolo; e allora quello che credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina nemmeno con il suo proposito di bontà e di giustizia personale.
Finalmente, quella notte, il sonno arrivò: lo prese sul fare del mattino. E lì accadde. Un angelo dialogava con lui, nel sogno, e gli parlava di una missione da compiere, e di un figlio che avrebbe salvato il mondo e di non preoccuparsi. Un sogno strano, dolce, quasi vero. Maria era sua, di Giuseppe, ma a Dio piaceva e le aveva chiesto il grembo in prestito. Nel sogno Giuseppe taceva, stupito, attonito, pacificato. Poi si svegliò, sereno. I pensieri bui erano lontani, fuggiti con le tenebre, si decise di andare a comperare un dolce e di portarlo a Maria. Aveva bisogno di forza, ora che aspettava un figlio. “Suo” figlio. Se Maria aveva imprestato il grembo a Dio, lui, Giuseppe, poteva anche fargli da padre, a Dio. E fa bene a mettere da parte il suo dolore: perché non c’è nessun altro uomo a Nazareth che ami la sua Maria. È semplicemente Dio che gliel’ha rubata.
E la storia continua, con un nuovo sogno che appare nella mente e nel cuore di Giuseppe. È un nuovo progetto che prende forma proprio dalle macerie di quello che credeva distrutto: Dio lo coinvolge in una storia che ovviamente è molto al di la delle sue capacità, ma che ha già coinvolto un'altra piccola donna, che è proprio la sua sposa, Maria. Dio vuole realizzare il suo sogno di entrare nella storia umana e in questo progetto difficilissimo non può fare a meno di Giuseppe, anche se infinitamente più piccolo di Dio. In questo incontro "impossibile" di collaborazione con Dio, Giuseppe trova il nuovo progetto di vita sul quale punta tutto e dal quale ritrova nuovo slancio. La sua quindi non è una obbedienza cieca e sottomessa, ma è una obbedienza a Dio insieme all'obbedienza al suo cuore. Giuseppe cerca la felicità e, aiutato dalle parole che l'angelo gli depone nel cuore, comprende che questa felicità si realizza proprio là dove credeva fosse morto tutto.
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe era “giusto”: cioè irreprensibile, autentico, onesto, un uomo di alto profilo, pieno di dignità e di compassione, non vendicativo, non rancoroso; uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito a morte, capisce, sa superare il suo orgoglio e usa misericordia verso la donna che ama profondamente. È “giusto”, Giuseppe: come i giusti dell'antico testamento, come i pii davanti a Dio, come i retti di cuore, tanto lodati dalla Scrittura. “Giusto”, perché si mette dalla parte del pensiero di Dio, perché contrasta la follia dominante e il pensiero comune, perché guarda in profondità e lascia prevalere la tenerezza. Infine, “giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo lasciassimo Dio nascere nei nostri cuori.
Ma noi, fratelli e sorelle, lo vogliamo veramente che Dio nasca nei nostri cuori? Si? Allora mettiamo da parte le apparenze, viviamo nell'onestà con noi stessi, siamo irreprensibili di fronte agli uomini, coltiviamo in noi i sentimenti e le qualità che ancora sono considerate dei valori: la mitezza, l'assenza di critica, la bonomia, la pazienza, la mitezza, l'umiltà. Un mondo di arroganti e spocchiosi è diventato il nostro mondo, un mondo fatto di gente che urla per far sentire il nulla che ha da dire. Di quanti Giuseppe avremmo bisogno in famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose, negli uffici, in politica! Uomini e donne “giusti”, di cui Dio si può fidare per realizzare il suo progetto!
Ma non basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei grandi sognatori, dobbiamo credere ancora nei sogni, negli ideali. Giuseppe c'insegna ad avere il coraggio del sogno, in questo nostro mondo disincantato e cinico; lui, grande sognatore, vive la sua vita intera dietro ad un sogno, piega la sua volontà e il suo destino alla volontà sorniona ed impudente di Dio che gli chiede di mettersi da parte, per lasciare spazio al Suo inaudito progetto di incarnazione.
Un uomo che non sa più sognare, che non insegue i suoi sogni, che non li ascolta, è un uomo morto. E uccide Dio.
Giuseppe accetta, si mette da parte, rinuncia al suo sogno, per realizzare il sogno di Dio e dell'umanità. È deciso, Giuseppe: si prepara perché deve tornare alla sua Betlemme con Maria. Non le ha chiesto nulla, lei sa, lui sa. Si mettono in strada, lei, acerba adolescente con il pancione che la fa donna; lui, con tutte le premure di uno sposo innamorato. Un Imperatore idiota ha deciso di contare i suoi sudditi per autodeliziarsi, stupidamente, del suo inutile potere...
Fratelli miei, cosa ci dice questa svolta decisa nella storia di Giuseppe? Cosa dice a noi che spesso ci fermiamo a contemplare le macerie dei nostri sogni distrutti e che spesso ci fermiamo a prendercela con Dio, con noi stessi e con gli altri in una comprensibile ma a volte inutile autocommiserazione? Nel sogno di Dio ci stanno anche i nostri sogni. Sembra impossibile, sembra appunto un sogno... Forse per questo abbiamo a volte bisogno di ritrovare il sogno spirituale, che in altri termini si chiama preghiera.
È infatti nella preghiera che possiamo intuire come la nostra legittima aspirazione alla felicità non sia mai compromessa del tutto da quel che ci capita di negativo; come anzi dietro alle presunte sconfitte si possa nascondere qualcosa di più grande che ci chiama. Ecco perché di fronte alle nostre debolezze dobbiamo ricorrere alla potenza del Signore, occorre invocarlo umilmente, affinché nella Sua luce divina si sciolgano tutte le nostre incertezze, tutti i nostri dubbi. Anche l’imminente Natale richiede tutta la nostra fede, umile ed attenta: viviamolo così, fratelli e sorelle, questo Natale, coinvolti nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci vuole inerti, pusillanimi, rinunciatari, ma in continua tensione verso il compimento della Sua volontà: né più né meno di come è successo con Giuseppe. Amen.

venerdì 10 dicembre 2010

12 Dicembre 2010 – III Domenica di Avvento – “Gaudete”

Domanda delle domande: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»
Siamo ormai a metà del breve percorso che ci porta alla riscoperta del nostro Natale, quello autentico, quello personalissimo, intimo, perché – lo abbiamo già detto – possiamo celebrare cento natali senza che mai Dio nasca nei nostri cuori. Anche questa domenica, fratelli e sorelle, lasciamoci prendere, lasciamoci strappare dal turbinio della nostra quotidianità, per fare come Maria e dimorare nell'ascolto, per riconoscere i tanti profeti che stanno intorno a noi e ci indicano il Cristo.
Oggi, la Parola ci fa incontrare un Giovanni ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore della scorsa settimana: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia di una stizzita e isterica cortigiana che manovra la debolezza di un re-fantoccio. Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo e irritante solo per preparare la strada al Messia; e lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare; lo ha accolto, stupito e frastornato in cuor suo per l'atteggiamento nascosto e umile del Salvatore del mondo.
Ma ora è perplesso, Giovanni; è dubbioso. Le notizie che gli giungono dai suoi discepoli lo lasciano costernato: il Messia non sta seguendo le sue orme, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario e catastrofico, ma ha assunto un profilo basso, mediocre. Egli (ricordate?) minacciava la vendetta di Dio, il fuoco divorante. Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore.
È troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso.
Diverso dal Dio che vorremmo anche noi, che vorrei anch’io, perché Dio ci spiazza sempre, è sempre radicalmente diverso da come ce lo immaginiamo. Anche le persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiano di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta evidente, un irrompere nella storia con fragore assordante e schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: è evidente, sì, ma non banale, pieno di ogni tenerezza e sensibilità.
Anche noi, come Giovanni, siamo abituati a dividere il mondo in buoni e cattivi, i buoni (spesso noi!) da salvare e i cattivi da punire, per rimettere un po' in sesto il palese squilibrio di questo mondo, che premia gli arroganti e bastona i giusti.
Gesù invece ci spiazza, svelandoci che Dio divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no. E l'amore è una possibilità immensa, l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare nella fragilità di ciò che siamo o che vorremmo essere.
Siamo certi di Dio? Riprendiamo in mano il Vangelo e chiediamo nella preghiera, a Dio, di condurci nell'autenticità, sempre. Siamo pieni di dubbi? Anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi. «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…» replica Gesù ai discepoli del Battista, mandati per informarsi sulla sua identità; ovviamente, non da' una risposta esplicita. Devono trarla da soli. La fede non è evidente, Dio non è il risultato di un ragionamento scientifico, niente "prove" nella fede, con buona pace di quei scettici, simpaticoni, che pretendono di trovare l’anima nelle radiografie! Ci sono offerti indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, sono io che devo cambiare ed accorgermi. Gesù elenca i segni messianici profetizzati da Isaia e dice a suo cugino: “Guardati intorno, Giovanni”.
E anche noi, fratelli, guardiamoci intorno e riconosciamo i segni della presenza di Dio: quanti amici hanno incontrato Dio, gente disperata che ha convertito il proprio cuore, persone sfregiate dal dolore che hanno imparato a perdonare, fratelli accecati dall'invidia o dalla cupidigia che hanno messo le ali e ora sono diventati gioia e bene e amore quotidiano, crocifisso, donato! Guarda, Giovanni, guardiamo fratelli, i segni della vittoria silenziosa della venuta del Messia! Segni che certamente abbiamo avuto modo di vedere nel corso della nostra vita. Abbiamo sicuramente avuto modo di constatare, almeno una volta, la forza dirompente del Vangelo, di vedere persone vicine a noi cambiare, guarire, scoprire Dio; di vedere nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in inferni di solitudine ed egoismo. Si, fratelli anche noi abbiamo potuto constatare i tanti segni del Regno. Ma molti, troppi, ancora non li vedono, non se ne rendono conto, non li vogliono vedere, perché il problema principale del nostro tempo è proprio una miopia interiore che impedisce di godere della nascosta e sottile presenza di Dio.
Prepararsi al Natale significa, allora, convertire lo sguardo, far constatare ai tanti distratti, e ovviamente anche a noi stessi, che il Regno avanza, è presente, che tutti, noi per primi, possiamo renderlo presente. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dal nostro dolore per accorgerci della salvezza che si attua nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per i tanti (troppi, sempre di più) che a Natale si sentono soli, e lo sono davvero! Pochi giorni per dire a chi non sa se Dio c'è (e c’è, ed è amore!) e si chiede se anche il Nazareno, in fondo, non sia che un grande bidone: «Dio c'è, guarda come ha cambiato la mia vita, guarda come il dolore non mi ha sfiancato, guarda che bella la neve che cade, guarda come sorride, contento, tuo figlio, guarda quanto ti voglio bene...». Ecco, fratelli, questa sia la nostra prospettiva, in questo mondo che ha solo problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Come singoli credenti, e anche come Chiesa, dobbiamo domandarci continuamente se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone. Risposta, che si deve trasformare in offerta di solidarietà, atteggiamento di ascolto, annuncio di speranza... Amen.

giovedì 2 dicembre 2010

5 Dicembre 2010 - II Domenica di Avvento

"Convertitevi: il regno dei cieli è vicino!". Abbiamo messo in moto la preparazione al Natale 2010, e dobbiamo farla per essere presi, non lasciati. Presi dalla sconcertante notizia di un Dio che si fa uomo, di un Dio che rischia tutto diventando un bambino fragile e inerme. Molti pensano di essere cristiani semplicemente perché credono che il Signore Gesù sia entrato nella storia di questo mondo; ma non c'è bisogno di essere cristiani per crederlo! Siamo invece cristiani se desideriamo, nella semplicità e nella povertà del desiderio, che Cristo nasca nei nostri cuori. E Giovanni il folle, oggi, ci scuote con parole che schiaffeggiano, invece di accarezzare. Il Battista, con la sua vita, proclama il primato di Dio sulla Storia, richiama tutti ad uscire da una visione stereotipata e immobilista della fede, per incontrare l'inaudito di Dio.
Il Vangelo, svuotato della sua forza, mantiene il mondo così com’è. Ma Gesù è venuto per cambiarlo, e lo fa partendo dal cuore di ciascuno di noi. Il Salvatore non è un rivoluzionario politico o sociale. È venuto a trasformare la società non con la violenza o la lotta di classe, ma cambiando il cuore degli uomini. E questo cambiamento il Vangelo lo chiama "conversione".
E questo è il tema di oggi.
A noi capita spesso – quando ci mettiamo davanti alla televisione, vediamo il telegiornale, oppure quando apriamo un giornale e vi troviamo le solite notizie di guerre, violenze, rapine, furti, corruzioni, omicidi – di pensare: «il mondo va male perché ci sono in giro tanti ladri e briganti, disonesti, violenti, corrotti». Noi esprimiamo la nostra sincera indignazione quotidiana, considerandoci fuori da questa massa dannata di malviventi: «i ladri sono gli altri, i banditi sono gli altri, i mascalzoni sono gli altri. Io non ho mai fatto niente di male. Io sono un prete, sono un frate, sono una suora, appartengo già per questo ad uno stato di elezione, mi rapporto con Dio quotidianamente; sono un padre, una madre di famiglia, impegnati nel sociale e nel volontariato; sono un cristiano battezzato, vado in chiesa ed è naturale che in tutta onestà mi ritenga migliore degli altri!». “Razza di vipere” – tuona Giovanni. Non avete ancora capito? Non basta appartenere ad uno “status” superiore, non basta sentirsi migliori, non basta la conversione di un giorno, non basta un Natale carico di sentimenti: la conversione è una cosa seria, è l’impresa di una vita, una strada sempre in salita, un continuo e difficile cammino alla sequela vera e autentica di Cristo. Nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
Questa è la realtà; ed è per questo che tutti noi siamo chiamati ad essere altrettanti profeti!
Vi sembra una battuta? No, fratelli.
La nostra società, noi, abbiamo infatti urgente bisogno di profeti: persone dall'apparenza normale che, però, sanno muoversi in nome di Dio, sanno leggere il presente alla luce della fede. Abbiamo bisogno di profeti, non per predirci e interpretarci il futuro (di questo genere di ciarlatani ne abbiamo fin troppi!) ma per aiutarci a capire il presente, perché ci aiutino a discernere il nostro percorso di fede nella faticosa vita quotidiana! Abbiamo bisogno di uomini di Dio. Si, perché il Dio che il Battista annuncia, il Dio che aspettiamo, è il Dio che brucia dentro, che spazza via con forza i timori, un Dio forte e impetuoso! Un fuoco che divampa bruciando le lentezze, divorando ogni obiezione, ogni tenebra, ogni paura.
Ecco perché Giovanni ammonisce: non basta rifugiarsi dietro alla tradizione, al “fanno tutti così”, accontentarsi di una fede esteriore, di facciata, di una coscienza tiepida. Colui che viene chiede un reale cambiamento, una scelta di vita, uno schieramento deciso. Perché Dio – diventando uomo – separa la luce dalle tenebre, obbliga ad accoglierlo. O a rifiutarlo.
Per questo, fratelli e sorelle, siamo chiamati a diventare profeti. Non c'è bisogno di vestire pelli di cammello, tranquilli, ma di essere a nostra volta trasparenza di Dio; lasciare che il fuoco che Gesù è venuto ad accendere divampi nell'oscurità della nostra vita e dia luce a chi incontreremo in questa settimana. Niente crocifissi al collo o padrepii sui cruscotti della macchina: nulla di tutto questo, ma un'unica notizia, che è il cuore del Vangelo di oggi: "Accorgiti che il Regno si è fatto vicino". La nostra vita deve essere all'opposizione. Non tanto gridando e denunciando, quanto vivendo una vita alternativa a quella consumistica ed edonistica che vediamo quotidianamente intorno a noi.
Il che non è certo facile, diciamocelo! Semplice gridare contro il consumismo e i mali del nostro tempo; difficile liberarci dall'attaccamento ai beni di questa terra, rifiutare un modello e un miraggio di vita borghese che ci rende schiavi delle mode del mondo attuale.
Armiamoci di coraggio, dunque, e con la nostra testimonianza gridiamolo a tutti: Dio si è avvicinato, è incontrabile, conoscibile, presente, evidente. Imitiamo con forza il Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma; rendiamo presente la profezia di Isaia (splendida!) che sogna un bambino che gioca con la vipera, e il leone e il capretto che giocano insieme... diamoci da fare, perché questo è quel tempo, il tempo di compiere gesti di pace e di solidarietà autentica.
Grazie Giovanni, che ci scuoti dalle nostre tiepidezze, che sbricioli le nostre fragili verità, le nostre assonnate parole, le nostre svuotate celebrazioni. Bene, non lasciamolo inascoltato, fratelli. Anche quest'anno abbiamo un tempo dedicato proprio per questo: già, perché questo è davvero il tempo di preparare la strada al Signore che viene; questo è davvero il tempo di schierarsi, di accogliere questo Dio sempre inatteso e sempre diverso. Amen.

venerdì 26 novembre 2010

28 Novembre 2010 - I Domenica di Avvento

«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà».
É che Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci scorre addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
E oggi inizia l'avvento: un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo grande appuntamento: il Natale.
Non amo particolarmente il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso. Anzi, detesto questo Natale. Detesto lo sgorbio che ne abbiamo fatto, la fiera insopportabile dei buoni sentimenti, l'ipocrisia del politicamente corretto che fa del Natale una festa di compleanno senza interessarci per nulla del festeggiato.
Io invece voglio prepararmi al Natale, ho necessità assoluta di costruirmi un'arca, e al diavolo quelli che sghignazzano vedendomi inchiodare le tavole e piallare remi in centro città. Ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci anche quest’anno.
Si, fratelli, perché possiamo celebrare cento natali, senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhöffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sa che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Da oggi iniziamo a leggere Matteo: il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione. Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave ridicola.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.
A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli e sorelle. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. I più impegnati possono prendersi un’ora alla domenica per fare un’ora di silenzio e di preghiera, oppure fare una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto natale della nostra società consumistica. Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta da un falso e solo apparente buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio che si fa presente e di una umanità completamente assente. Sotto questo profilo non c'è proprio nulla da festeggiare, da stare allegri: l’uomo non ha fatto certo una gran bella figura, la prima volta, in quel di Betlemme.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
In questi anni assistiamo puntualmente ad un Natale fatto di immagini stereotipate di una “famiglia” felice intorno ad un albero illuminato, armonie e canti di angeli che i media ci propinano senza sosta; mentre per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, il Natale così superficialmente ostentato, diventa occasione di amarezza, di solitudine, di sofferenza. Troppo spesso infatti il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene da noi sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i vecchi soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace. Esagero? Voglia Dio che sia così. Amen.

venerdì 19 novembre 2010

21 Novembre 2010 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Festa di Cristo Re dell'Universo

«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.