giovedì 1 maggio 2008

4 Maggio 2008 - Ascensione del Signore

“Viri Galilei, quid statis aspicientes in coelum?” O uomini di Galilea, perché state fissando il cielo? Perché vi preoccupate tanto? Quel Gesù che stava con voi, che vi parlava, che vi guidava, che vi dava fiducia, ora è stato assunto in cielo, si è ricongiunto con Dio Padre; ma non temete, egli ritornerà ancora tra voi… sic veniet, così ritornerà… ed è vero come è vero che voi ora l’avete visto salire in cielo.
È una promessa. Una promessa che per noi è certezza.
L'Ascensione unisce due momenti determinanti della storia della salvezza: termina l'azione storica del Cristo e inizia il cammino terreno della Chiesa.
Con l'Ascensione finisce un'epoca, un momento, una storia. La storia dell'uomo Gesù, del suo aspetto, del suo sorriso, del suo sguardo profondo. Non potremo più sentire la sua voce che chiama per nome Tommaso e Maria, non ammireremo più la sua pazienza mentre dialoga animatamente con i due testoni di Emmaus. Neppure potremo più, commossi, guardare le passeggiate del Maestro per le strade di Israele, seguito dagli apostoli e dalle folle che credevano in lui.
Gesù, è tornato nella gloria del Padre, non è più da vedere, da toccare, ma da aspettare nella fede; da adorare in silenzio nella sua presenza eucaristica, da annunziare come proposta di una vita nuova, da testimoniare con la forza dello Spirito.
L'Assente dal mondo continua a farsi presente attraverso l'esperienza e la testimonianza di tutti noi, sua Chiesa, costruttori di una nuova storia con prospettive di eternità.
Su di noi grava la missione-dovere di "fare discepoli" di Cristo tutti i popoli. Non si tratta di chiacchiere, di parole, di prediche, di discorsi teologici, ma di vivere uno stile di vita contagioso, che parte dalla nostra esperienza battesimale e si arricchisce via via con il pane della Parola e dell'Eucaristia.
Le conseguenze di questo comportamento sono tante e urgenti: ognuno deve avere il coraggio, per quanto lo riguarda, di individuarle nella loro concretezza.
Su una cosa dobbiamo avere comunque le idee chiare: la salvezza di cui godiamo non è un bene nostro, esclusivo, ma appartiene a tutti. Per questo ognuno ha il dovere di essere in costante osmosi con il proprio fratello, perché, davvero, “ogni cristiano ha il mondo intero a suo carico!". Questo è credere nell’'Ascensione del Signore, Questo deve essere il nostro impegno.
Signore, tu mi lasci oggi, per tornare al Padre. Ma io non resto quaggiù, vengo con te, perché nel tuo cuore di uomo tu porti il mio volto, la mia storia, le mie speranze, tutto di me. Sono certo che tu continuerai a pronunciare il mio nome al Padre, e l’unione del vostro amore, lo Spirito, fortificherà la debolezza del mio cuore. Signore Gesù, per questo i miei occhi sono sempre pieni di te, e posso vederti e incontrarti ovunque, perché tu sei con me, dentro, senza più rischi di perdita. Amen...

Nella misura quindi in cui noi ascendiamo con il Signore, poniamo tutta la nostra vita con Lui nei cieli e questo è un atteggiamento che è perenne, continuo, che possiamo vivere ogni giorno. Cristo glorioso, di cui dobbiamo rivestirci, non ci trae fuori dalla storia, ma come ha fatto con i discepoli ci invita, più che il cielo, a guardare la terra per impegnarci in essa affinché si rivesta di una vita nuova, inaugurata dalla sua ascensione. Così la nostra ascensione non è dal mondo, ma col mondo. È immersione in tutte le realtà umane, fino ad aprirle oltre i limiti che le rinserrano, per vedere in esse quella luce che proviene da Dio che tanta parte del mondo vuole negare. È saper valorizzare tutte le cose, anche quelle che apparentemente non hanno valore o non fanno notizia, quelle piccole e magari dimenticate, per scorgere la presenza di Dio che si è unito all'uomo in maniera indissolubile. È riuscire a vedere che anche nei segni dell'eucaristia che celebriamo, rappresentati da un po' di pane e da un sorso di vino, simboli della vita e del lavoro dell'uomo si realizza quella promessa riportata dal vangelo di oggi: "Ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Una promessa che per noi cristiani diventa il dovere urgente dell'annuncio di cieli e terra nuovi per tutti gli uomini e per il mondo intero.

Ma c'è anche il dubbio di alcuni. Questo insinuarsi del dubbio è la povertà del nostro essere qui dei "viandanti" la cui certezza è riposta solo nella Parola di Chi, amandoci per primo, ci fa passare per la sua stessa strada che è la morte prima della Risurrezione, il buio prima della Luce in pienezza. Proprio qui, dunque, si tratta di afferrare, quasi in risposta a quell'ombra di dubbi, la Parola che salva. "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi". È qui, proprio solo qui, la luce che rassicura e ci strappa alla tristezza dell'"addio" e della depressione di ogni dipartita. Perché Gesù, in modo diverso da quando era in Palestina ma con potenza di Spirito Santo, è con noi. Lungo lo scorrere dei giorni basta "connettersi". Sì, connettersi credendo.

Ma tornerò da voi. Quando, verrebbe da dire? Alla fine dei tempi? E perché non prima, non ora che avverto cocente il bisogno di un abbraccio, di una parola, di un sorriso divino da vedere con gli occhi non solo del cuore, ma anche del volto? Gesù è con noi. Il suo Spirito che invierà dal Padre avrà una nuova carne da abitare, quella dei credenti. Ogni credente, abitato dallo Spirito, sarà il luogo della presenza di Dio nel mondo, un Cristo che mai più morirà perché lì dove tutto sa di miracolo lì è il Figlio fatto carne. I miracoli del mistero che ti sovrasta mentre parli e ti rendi conto che tra le sillabe mentre tu le pronunci passa la Vita, che tu non avevi messo prima... i miracoli dell'amore che ti incanta nei gesti che compi e che ti sembrano firmati da un sempre remoto... i miracoli del domani che sfiorano la tua pelle mentre riposi donandoti la percezione di essere eco dell'inenarrabile sussurro del tuo Signore.

venerdì 25 aprile 2008

27 aprile 2008 - VI DOMENICA DI PASQUA

Abbiamo bisogno di un Consolatore.
Domenica scorsa Gesù annunciava la sua partenza per un'altra vita, per un altro luogo dove non c'è da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, che è suo, unico e insostituibile.
Oggi Gesù annuncia ai discepoli che Lui se va e che il suo volto non lo vedranno mai più, ma che Egli rimane sotto un'altra forma, in un altro modo, in maniera diversa: lo Spirito, lo Spirito Santo. Il brano di oggi e quello di domenica scorsa sono accomunati dalla tristezza dei discepoli, il loro sentirsi soli, orfani, pieni di paura ("Non sia turbato il vostro cuore" Gv 14,1): si sentono smarriti, senza guida e senza riferimento.
Il leader, il capofamiglia, il carismatico se ne va e loro si chiedono se da soli ce la faranno. Tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole chiare e precise. Ma lo scopo di un maestro è di fare dei suoi discepoli degli altri maestri. Chi ama ti vuole fare adulto, indipendente, maturo, anche se questo ti portasse lontano da lui. Un adulto vuole che anche suo figlio diventi adulto: se ti tengo sempre bambino posso gestirti, manipolarti. Se ti faccio intendere che tu avrai sempre bisogno di me, che penderai dalle mie labbra, è come se ti usassi.
Si va a scuola per molti anni, ma viene un momento in cui bisogna lasciare la scuola. Non si può essere sempre discepoli, ciascuno deve diventare maestro della propria vita. Nessuno può dire: "Mi hanno insegnato così! Questo è quello che mi hanno detto! Io ho eseguito gli ordini".
Se Dio non avesse voluto che ragionassimo, che fossimo responsabili, non ci avrebbe dato il cervello. Hai le gambe: cammina. Hai gli occhi: osserva. Hai le orecchie: ascolta. Hai il cervello: usalo. La chiesa dovrebbe formare uomini liberi, veri, dalla grande coscienza critica, uomini che sanno vedere, interpretare la storia, prevederla; uomini alternativi, come Gesù lo è stato. Volare non significa solo muovere le ali, ma restare in aria senza sostegno.
Krishnamurti, un mistico indiano, dice: "Non potete seguire né me né nessun altro. Il giorno in cui seguirete qualcuno, la verità cesserà di esistere". Bisogna guardare la luna, non il dito che la indica. Bisogna essere illuminati, non seguire gli illuminati. Gesù diceva sempre: "Non guardate me, guardate chi sta dietro a me". Se l'occhio non è chiuso, si vede. Se l'udito non è bloccato, si sente, si ascolta. Se la mente non si sclerotizza, il risultato è la verità. Se il cuore non si chiude, si vive l'amore.
La gente crede che lo Spirito sia una televisione in testa. Basta accendere e la tv ci fa vedere quello che ci serve. Basta premere un pulsante e sapremo cosa fare. E' un'idea magica dello Spirito. Siccome nel matrimonio scende lo Spirito Santo allora sappiamo cos'è l'amore. Siccome quando uno viene ordinato prete e scende lo Spirito allora conoscerà chiaramente chi è Dio. Siccome quando prego e c'è lo Spirito allora saprò sempre cosa fare. Ma non funziona così!
La chiesa dovrebbe non tanto darci un Dio già fatto, solo da credere, già confezionato, ma dovrebbe insegnarci a scoprirlo, a cercarlo, a trovarlo, perché chi trova Dio, il vero Dio, non lo lascia più. Il Cristianesimo non ti dà la verità, ma ti insegna a vederla, se lo vuoi. Il Cristianesimo non ti dà Dio, ma ti insegna a cercarlo e per questo delude molti. Il Cristianesimo non ti da le regole di vita, ma ti invita a vivere.
Il maestro non è colui che ti guida, bensì colui che ti aiuta a scoprire te stesso, la realtà e a incontrare Dio. Perché Dio c'è già dentro di noi, nessuno ce lo deve mettere, al massimo possiamo essere aiutati a scoprirlo.
La gente ama le guide che ti dicano cosa fare, come comportarsi, cosa essere e cosa è giusto. La gente ha bisogno di essere bambina, infantile e di trovare dei papà, dei miti, degli idoli da seguire, da imitare, da copiare, qualcuno che gli dica per filo e per segno cosa fare. Per un po' di tempo si può anche rimanere bambini, ma non per sempre. Bisogna crescere! La gente, invece, ha bisogno di affittare il cervello e la vita a qualcuno. E così ci sono molti che si credono Dio, si sentono carismatici, chissà chi, una specie di Vanna Marchi della fede e della vita che dice: "Fai così. Fa' come ti dico io, Io so".
Non dovremo mai dimenticarci il primo e più grande comandamento: "Non avrai nessun altro Dio all'infuori di me". Non avere idoli, non fare di nessuna persona il tuo Dio, lo Spirito ti abita già. Gesù diceva a tutti: "Non chiamate nessuno maestro, nessuno padre perché solo Dio lo è". Gesù ci ha dato lo Spirito Santo perché diventiamo noi maestri, noi responsabili della nostra vita. Dio è già dentro di me. Lo Spirito Santo è il nostro Maestro Interiore. Allora: io imparo da tutti, ascolto, assimilo, mi formo, stimo e apprezzo molte persone, ma poi devo crescere e diventare responsabile della mia vita. Devo saper rispondere e dare ragione di ciò che dico, di ciò che faccio, di ciò che compio e credo. Non posso delegare nessuno per questo o scaricare su nessuno le mie responsabilità. Dio, in me, è Spirito, Maestro Interiore, e se non cresco nella fede lo lascio nel dimenticatoio. Dio oggi non c'è più, ma il suo Spirito vive in noi e attraverso di noi. Posso rianimarlo o lasciarlo morto.
Poi qui Gesù dice: "Fra un poco non mi vedrete più. Cioè: sto per morire, mi stanno venendo a prendere per uccidere". Ma aggiunge: "Ma voi mi vedrete perché io vivo, vivo in voi e voi vivrete" (Gv 14,19). Gesù, cioè, sentiva che gli apostoli gli volevano bene. Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, sclerotizzati e duri a capire a volte, però gli volevano bene, e questo bastava. Gesù sentiva che loro lo amavano, e sentiva che le sue parole facevano breccia nel loro cuore, che la sua vita li affascinava, che erano innamorati, anche se impauriti, del suo messaggio. Gesù sente che quello che i suoi dodici amici hanno visto, fatto, sentito, provato con lui, questo è entrato dentro al loro cuore, fa parte di loro e non potranno più dimenticarselo. Non potranno più perderlo. Ci sono delle cose che sono con noi per sempre. Chi ci ha amato per davvero, rimarrà per sempre con noi, vivrà in noi. Chi ci ha guarito dalle nostre catene, rimarrà per sempre con noi. Chi ci ha aperto gli occhi, chi ci ha fatto vedere la verità, chi ci ha appassionato il cuore, rimarrà per sempre con noi. Ci sono persone il cui calore, passione, forza, esperienze fatte insieme, rimarranno per sempre con noi e più nulla ce li potrà portare via. Queste persone, questi fatti neppure la morte ce li toglierà. Allora: gli apostoli si erano così tanto innamorati di Gesù, si erano appassionati di Lui e del suo messaggio così tanto che Gesù gli "era entrato dentro, fino alle viscere", ce l'avevano nel cuore e nell'anima. Anche se se ne va, in realtà lo vedranno sempre. Poiché Gesù lo hanno assimilato, mangiato, Gesù vive dentro di loro, nei loro pensieri, nelle loro emozioni, nel loro cuore, nella loro anima. Questo è il Consolatore (Gv 14,15): avere Gesù dentro. Lo Spirito Santo è avere, e percepire, Dio dentro.
Poi, qui si parla di comandamenti e noi pensiamo ai dieci comandamenti. (Gv 14,15.21). Gesù, ci ha lasciato un solo comando, se così può essere chiamato: "Ama il prossimo tuo come te stesso". In realtà l'amore non può essere un comando, perché l'amore viene solo dalla libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: "Amami". Lo può sperare, desiderare, può augurarselo. Ma l'amore vive solo dove c'è libertà. Gesù non ha lasciato comandamenti, né ordini. Il comandamento di cui qui si parla è quello di vivere come Gesù, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio. Io ti posso comandare di essere onesto nel lavoro, ma se tu non vivi l'onestà come una forma di rispetto a te stesso, cioè che non hai bisogno di imbrogliare e di accumulare denaro per sentirti qualcuno, non sarà vera onestà, perché sarà frutto di paura (magari di essere scoperto!) e non di amore. Io ti posso comandare di venire a Messa tutte le domeniche, ma se tu non senti che ti fa bene, che nutre la tua anima, che ti scuote per farti più cristiano e più uomo, verrai per paura e non per amore, verrai per comando e non per libertà, per essere un bravo bambino e non un discepolo di Gesù. Io ti posso comandare di venire agli incontri sul vangelo, di formazione, ma se tu non ne senti la bellezza, la verità, se tu non ricerchi, potrai pure venire, ma ti stancherai o avrai sempre da dire sugli incontri o non ti passerà niente. Se vieni per comando, vieni per paura. Se vieni per amore, vivrai di quello. Io ti posso dire/comandare di rischiare, di vivere osando di più, di puntare più in alto nella tua vita, di essere aquila, ma se tu hai paura, se tu non senti il richiamo delle altezze, la bellezza del volo, ti sforzerai ma non arriverai a niente. Perché non si può mai fare di una gallina un'aquila.
Fare le cose a comando, sforzandoci perché qualcuno ce l'ha detto, non ci fa crescere, ci rende solo più impauriti, legati e dipendenti. Ci fa crescere solo se facciamo le cose per amore: magari faticando, soffrendo e sudando, ma per amore, perché sentiamo che ci fanno bene e ci riempiono il cuore. L'educazione avviene nell'amore. E la deformazione, l'intruppamento avviene nel comando e nella paura. Se vuoi fare un buon suddito, dagli regole e fa in modo che ti obbedisca. Ma se vuoi fare un buon uomo, amalo.
Allora. Fa' tutte le cose non perché gli altri te le comandano, se le aspettano da te o per apparire bravo agli occhi di qualcuno, ma, se puoi, fa' tutte le cose per amore, per la passione e la bellezza, per la vita e per la Forza che senti nel tuo cuore. Il comando dell'amore è che non si può fare niente per comando, ma solo per amore, per scelta, perché io lo desidero, lo sento vero, importante per me. E se vivrò così, non avrò recriminazioni.
Poi Gesù parla dello Spirito Consolatore. Consolatore, in greco, è Paraclito. Paraclito significa Avvocato, colui che è chiamato in causa per difenderti, che sta con te quando sei solo. Ma vuol dire anche consolatore, che ti aiuta, che ti protegge, che ti sta vicino, che non ti lascia solo. Spesso anche noi ci ritroviamo soli, persi, in balia di un mondo che vive tutt'altre cose dalle nostre. Allora il consolatore mi invita ad aver fiducia nel mio cuore. Anche se mi sento solo, anche se mi sento non capito, anche se ciò che vivo è contrario a quello che gli altri fanno. Il Paraclito, mi assicura che metterà nella mia strada delle consolazioni, cioè metterà qualcuno che ha la mia stessa sensibilità, qualcuno che mi aiuterà, qualcuno che mi difenderà, qualcuno che mi proteggerà, qualcuno che entrerà nel mio mondo con rispetto e che lo capirà. Io ho visto che è sempre stato così. Dio ci consola mettendo nel nostro cammino dei suoi angeli, persone che ci aiutano, che condividono la strada, la passione, che ci aiutano. Lui non c'è più, ma ci sono i suoi angeli. Se tu ti fidi di questo, in alcuni giorni ti sentirai solo, ma non sarai mai solo. Consolatore vuol dire proprio: stare con chi è solo. Allora: guardati attorno! Dio non c'è, ma si nasconde sotto altri nomi. Lo riconosci? Lo vedi? Chi sono i tuoi angeli? In Eb 13,2 S. Paolo ricorda che "alcuni hanno accolto gli angeli senza saperlo". Accogli i tuoi angeli, perché Dio ti parla e ti si fa vicino attraverso di loro.

Abbiamo dunque bisogno di Qualcuno che, dinnanzi alle difficoltà, ai dubbi, alle angosce, ci sussurri piano che Dio ci ama, che non si è dimenticato di noi.
Non possiamo fare a meno di Qualcuno che ci ricordi le parole del Signore, che le sigilli e le custodisca in noi. Qualcuno che ce le faccia osservare, custodire, compiere. Qualcuno che ci unisca al Signore. Lo Spirito Santo è proprio “ciò che è in comune”, l’unità del Padre con il Figlio, l’Unità in persona. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola nella misura in cui vanno oltre se stessi; sono una cosa sola in quella terza persona, nella fecondità del dono" (Benedetto XVI).
È Lui il Consolatore che ci pone nell'intimità di Dio. Per questo il compimento del Mistero Pasquale del Signore è l'effusione dello Spirito Santo, il dono che, colmando il nostro cuore, non delude la speranza e ci fa partecipi della natura divina. Queste non sono affermazioni da libro di teologia, sono la nostra vita.
Il dimorare in Dio, rimanere nell'amore di Gesù non sono esperienze relegate a momenti particolari, a particolari stati d'animo. La comunione con Dio non è questione di sentimenti. È osservare la Sua Parola, un modo per dire che l'intimità che ci fa uno con Gesù nel Padre si realizza molto concretamente nel compiere la Sua Parola. E sappiamo che ogni Parola di Gesù, ogni suo comando, come ogni parola della Scrittura dell'Antico Testamento che Lui ha portato a compimento si riassume nell'amore, nell'agape. Nel dono di se stessi, sino all'offerta della vita.
Ora è anche vero che noi sperimentiamo giorno per giorno l'impossibilità di compiere la Parola, di permanere nella volontà di Dio. Conosciamo i nostri limiti. Per questo ci è necessario un Consolatore, uno che ci ripeta "Coraggio, non temere, tu sei Figlio, Dio ti ama e compirà in te la Sua opera".
Abbiamo bisogno della vita di Dio, del Suo respiro di vita in noi, del soffio che ci ricrei istante per istante, che compia in noi la Parola che ci fa veri, autentici, vivi. Abbiamo bisogno dello Spirito Santo, più dell'aria che respiriamo.
È Lui l'amore di Dio che plana nei nostri cuori, ed è lo stesso amore con il quale possiamo amare Dio e il Suo Figlio. Lo Spirito Santo è Colui che ci fa uno con Dio, che ci trasporta, per così dire, nella profondità divina per colmarci della Sua natura. Non si tratta così di sforzarci, di impegnarci, di buona volontà. Non basta. L'agape è dono che viene dal Cielo. Oggi è pronto per noi, come ogni giorno. In esso è custodita la memoria della vita di Cristo, per esso ci viene costantemente ritrasmessa, dinnanzi ad ogni evento della nostra vita, con esso possiamo ricordare, credere, sperare, amare. È il Consolatore che il Padre ci dona perchè ci ama e ci ha legati a sé, eternamente. "Solo chi lo porta in sé, lo potrà vedere" (Benedetto XVI). È qui la vera pace. Essa coincide con la volontà di Dio. Con la verità. Con ogni istante della nostra vita.
È la gioia dell'intimità con Dio in Cristo Gesù.
Osservare i comandamenti è già una Grazia, è la vita nuova che si manifesta perchè si è ricevuto un cuore e uno Spirito nuovi. Compiere la volontà di Dio è amare, è una vita donata. "Devi, poi, divenire amore, guardando l’amore di Dio, che ti ha così tanto amata, non per qualche obbligo che avesse con te, ma per puro dono, spinto soltanto dal suo ineffabile amore. Non avrai altro desiderio che quello di seguire Gesù! Come inebriata dall’Amore, non farai più caso se ti troverai sola o in compagnia: non preoccuparti di tante cose, ma solo di trovare Gesù e andargli dietro!". (Santa Caterina da Siena).
La gioia di Gesù ci è donata, non implica alcuno sforzo, è la gioia del suo amore, lo stesso fuoco che mosso la sua vita, la certezza dell'amore di Suo Padre. Di nostro Padre. Non vi è alcun moralismo, solo un amore infinito che brucia dal desiderio di donarsi. In ogni istante. Per questo possiamo goire d'una gioia indicibile, anche se siamo provati in ogni modo, perchè dentro il suo amore ci colma, anche se non ce ne rendiamo conto. Non sono sentimenti, è la più pura realtà. Quando camminiamo crocifissi con Cristo rimaniamo nel suo amore, il cuore è pacificato, anche se la carne e i sentimenti sono agitati. Sotto le onde, anche le più tempestose, al fondo del mare vi è una pace infinita. La gioia piena del suo amore riversato copiosamente in noi.

venerdì 18 aprile 2008

20 aprile 2008 - V DOMENICA DI PASQUA

Non sia turbato il vostro cuore.
Non ho dubbi su questo: l'immagine spontanea, inconscia che abbiamo di Dio è, mediamente, orribile. L'idea di un onnipotente egoista, bastante a se stesso, misterioso e scostante, irritabile e incomprensibile, da tenere buono, un Dio che ignora la sofferenza, che permette la morte degli innocenti, che si sveglia di malumore, batte un pugno sul tavolo e provoca la morte di centinaia di migliaia di persone travolte da un maremoto.
Gesù è venuto a smentire questa tragica visione di Dio che – ahimè – perdura nel cuore degli uomini, nonostante duemila anni di cristianesimo.
Dobbiamo convertirci dal Dio che c'è nella nostra testa al Dio di Gesù Cristo!
Il Dio che Gesù racconta è il Dio d'Israele, che si è svelato progressivamente, rispettando i tempi di comprensione dell'uomo, attento alla fatica di vivere dell'uomo. È il Dio geloso (Es 20,5), che ama sul serio, non di un amore asettico, ma di un amore talmente viscerale da esigere attenzione, e spesso la Bibbia usa immagini umane per descrivere la gelosia e la passione di Dio che sente contorcersi le interiora per i suoi figli (Ger 31,20). Un Dio che svela agli uomini la strada per essere felici, le famose dieci parole (noi abbiamo tradotto "dieci comandamenti") che indicano all'uomo il percorso verso la felicità. Un Dio che conosce la sofferenza del popolo (Nm 20,16) e che vuole liberarlo attraverso l'opera di altri uomini, che sa pazientare (Sap 15,1) e scuotere, intervenire e sostenere, amare e forzare. Un Dio che sa perdonare e dimenticare, che è ostinato nel suo amore, che perseguita Israele con i suoi benefici (Sal 103,2), un Dio bellissimo, che non si riesce a vedere se non di spalle (Es 33,23), e la cui visione provoca la morte, talmente è glorioso. Un Dio che – come dicevamo – stanco di essere frainteso si fa uomo, corpo, sguardo.

Un Dio che suda e impara, si stanca e ride, fa festa e lutto, lavora e gioisce della famiglia e dell'affetto dei suoi. Un Dio che si piega sull'umanità ferita, come un buon samaritano (Lc 10,33ss) versa sulle sue ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza, che si prende in carico l'uomo dolorante e lo conduce alla locanda del regno. Un Dio che, come un padre (Lc 15), accetta che il figlio minore se ne vada di casa con i suoi soldi, rischiando di perderlo, purché egli faccia le sue scelte, che lo accoglie con rispetto, senza chiedere ragione della sua fallimentare esperienza e gli restituisce dignità, che fa festa ed esce a convincere il rancoroso fratello maggiore ad entrare con lui. Un Dio che si commuove fino alle lacrime (Gv 11), che ama l'amicizia e l'accoglienza, che sceglie di donarsi fino in fondo, che non ha paura del rischio, che vuole morire per sigillare le parole "ti amo" rivolte a ciascuno di noi, che piange di paura e chiede qualcuno che lo ascolti, che pende nudo da una croce. La croce svela la misura di un Dio sconfitto per amore, che preferisce morire per dire l'ultima parola. Gesù ci svela il volto di un Dio paziente, silenzioso, timido, rispettoso dell'uomo. Timido, perché egli è come la brezza del mattino (1Re 19) e rispetta (lui almeno!) la libertà dei suoi figli. Un Dio adulto che ci tratta da adulti, che dice a Mosé: "ho visto la sofferenza del mio popolo... và, io ti mando" (Es 3,7-8), quando tutti avremmo preferito sentirci dire: "Ho visto la sofferenza del popolo, ora intervengo". Dio non ti allaccia le scarpe, né ti risolve i problemi: ti aiuta ad affrontarli, ti spiega che non è poi così fondamentale superarli, che la storia ha un tesoro nascosto che sei chiamato a scoprire. Gesù ci svela un Dio discretamente vittorioso nella resurrezione, che ha un piano per l'umanità, che ha un sogno, la Chiesa, i suoi discepoli, chiamati non a salvare il mondo, ma a vivere da salvati, costruendo quel regno che lui è venuto ad inaugurare, regno di giustizia e di pace, di amore e di luce, di sguardo verso l'altrove. Un Dio che viene là dove la sua comunità si raduna e si rende presente nell'amore che si scambiano i discepoli e nei Sacramenti.
Ogni uomo è chiamato a percorrere la via che è Gesù per scoprire il vero volto di Dio. Ci vuole l'intera vita per farlo, e continua conversione. Ci vuole passione ed ostinazione, intelligenza e costanza, umiltà e autenticità. Non seguiamo una regola di vita, non una teoria, ma una persona. Gesù non ci indica la via, si fa lui stesso strada da percorrere, seguendo le sue parole.

Per vivere, però, in comunione col Padre è assolutamente necessaria la relazione con Gesù. In effetti, dopo aver parlato del suo ritorno alla casa del Padre, ora Gesù parla della via che i suoi amici devono percorrere per raggiungerla. I discepoli non soltanto vengono condotti da Gesù al Padre, ma essi stessi devono mettersi in cammino. La via però è di nuovo Gesù stesso. Egli aveva già affermato: "Io sono la porta" ( Gv 10, 7.9: scorsa domenica). "Io sono la via, la verità e la vita".
Come è l'unica porta, Gesù è anche l'unica via verso il Padre: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me".
E' l'unica via al Padre poiché è l'unica verità, l'unica vita. E' "la verità". La "verità" significa la "rivelazione". Gesù non è soltanto colui che rivela Dio come Padre, ma in tutto quello che dice, in tutto quello che fa', in tutto quello che è, è rivelazione di Dio, è manifestazione palpabile di Dio Amore. E non è una rivelazione parziale di Dio, ma la rivelazione completa, totale, definitiva del Padre. Per conoscere Dio non hai bisogno di nessun altro, se non di Gesù soltanto. Gesù è necessario e sufficiente. Il motivo? Gesù è il Figlio unico e in tutto quello che è e dice e fa si rivela come il Figlio in relazione perfetta d'amore col Padre. Ecco la verità, cioè la rivelazione del Padre in Lui.
Gesù è "la vita": la vita divina, cioè la comunione eterna d'amore tra il Padre e il proprio Figlio nello Spirito Santo. Chi può misurare e anche solo immaginare la qualità, l'intensità, la pienezza traboccante di tale vita che il Padre comunica al Figlio? Vita che Gesù fin d'ora dona ai credenti, immettendoli nel circuito della comunione trinitaria. Ecco allora in che senso Gesù è l'unica "via" per giungere al Padre. Egli è la "verità", cioè la rivelazione del Padre. Egli è la "vita", cioè tramite l'unione con Gesù, il Figlio, noi abbiamo l'unione con Dio Padre e quindi la vita eterna, che è la vita stessa del Padre partecipata al Figlio. In quanto soltanto Gesù è il Figlio unigenito pari a Dio, solo Lui è la porta e la via di accesso al Padre, nel quale l'uomo trova la perfetta realizzazione di sé e la felicità suprema.
Lo intuisce oscuramente Filippo quando chiede a Gesù: "Mostraci il Padre e ci basta".
Questa richiesta esprime l'anelito più profondo del cuore umano: poter vedere Dio e soprattutto Dio come Padre. Vedere Dio è, appunto, il massimo che un uomo possa desiderare. Filippo, però, pensa a una manifestazione eclatante di Dio, a una esperienza straordinaria. Non sa invece che la sua attesa e la sua preghiera Dio le ha già esaudite donando Gesù. Per questo Gesù non può nascondere la sua delusione: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre".
Quest'ultima dichiarazione esprime in sintesi tutto il messaggio del IV Vangelo: Colui che vede l'uomo Gesù, cioè non si ferma a ciò che è esterno e corporeo, ma attraverso le opere, le parole e la vita di Gesù - tutta donata al Padre e agli uomini -, arriva a riconoscere in Lui il Figlio di Dio, vedrà, riconoscerà il Padre nel Figlio.
Gesù precisa ulteriormente: "Credetemi: io sono nel Padre e il Padre in me". Vale a dire, il Padre e il Figlio sono legati reciprocamente da una perfetta unione, per noi inimmaginabile. Ciò significa che quando Gesù parla, il Padre parla, quando Gesù compie qualche gesto, il Padre lo compie. Tali opere di Gesù sono i suoi miracoli, le sue azioni, la sua intera esistenza, che manifestano il suo rapporto filiale col Padre e l'amore del Padre che attraverso di Lui salva gli uomini. Perciò chi guarda con fede al Figlio vede, in Lui e per Lui, il Padre. Incontrare Gesù è incontrare semplicemente il Padre.
La conseguenza è anche che chi crede in Gesù "compirà le opere che Gesù compie". Cioè continua ad amare come Gesù ha amato e a operare come Gesù ha operato. Anzi, nell'esistenza e nella attività di coloro che per la fede sono uniti a Cristo, Egli stesso continua a rivelare il Padre e a condurre gli uomini a Lui. Addirittura, Gesù aggiunge che i discepoli faranno opere "più grandi" ancora di quelle compiute da Lui. Cioè il Risorto in loro continuerà la sua opera di manifestare l'amore del Padre in un raggio sempre più vasto.

Che cosa oggi turba il nostro cuore? Che cosa ci sta togliendo la pace e la gioia? Il Vangelo di questa domenica lega il turbamento al non avere un posto dove poter essere. E, in effetti, è proprio così. Quello che ci turba, che mette a soqquadro le nostre esistenze è la precarietà, non avere un posto, un luogo nel cui perimetro essere noi e soltanto noi. Un posto nel cuore degli altri, delle persone più vicine, come la moglie, il marito, l'amico, il fidanzato o la fidanzata, o anche di quelle meno prossime.
E invece è come se sbagliassimo posto, viviamo e cerchiamo di vivere nel luogo sbagliato.
"L'uomo può vivere rivolto verso l'alto, egli è capace dell'altezza. Di più: l'altezza che sola corrisponde alla misura dell'uomo è l'altezza di Dio stesso. A questa altezza l'uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. L'immagine dell'uomo è elevata, ma noi abbiamo la libertà di tirarla verso il basso e strapparla oppure di lasciarci elevare, innalzare verso l'alto. Non si comprende l'uomo se ci si chiede solo da dove viene. Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. E solo quando questa altezza viene percepita, nasce un rispetto incondizionato verso l'uomo, un rispetto che lo considera sacro anche in tutte le sue profonde umiliazioni. Solo partendo da qui si può imparare ad amare l'umanità in sé e negli altri". Queste parole del Cardinal Ratzinger tratte da un'omelia sull'Ascensione ci guidano a comprendere la profondità di quanto oggi il Signore ci dice: l'unico luogo della nostra vita è il Padre, il luogo dove Gesù è andato, ci ha preparato un posto, e dal quale è tornato per prenderci e farci essere dove Lui è. Nel Padre.
Sbagliamo sempre luogo, non siamo mai tranquilli, ci manca sempre qualcosa, partoriamo progetti, aborriamo la precarietà perchè viviamo come orfani, non abbiamo Padre. Ogni luogo che ci costruiamo, spesso con fatica, non è mai il nostro luogo. Tutto alla fine ci va stretto, non possiamo digerire il verso che prende il lavoro, facciamo fatica ad accettare la relazione con i figli, con chi ci è accanto. In fondo non sopportiamo neanche noi stessi. Tutto questo costituisce la nostra esperienza quotidiana perchè il Padre, Dio, non è il luogo della nostra vita.
Il Padre non è dove siamo, per questo cerchiamo l'essere in altri luoghi. Così, ovviamente, anche la via che percorriamo è sballata, quello che prendiamo per verità è pura menzogna, la vita che viviamo sa di corruzione e di morte. Ma, se questa è la nostra realtà giunge a noi oggi il Signore Gesù con il Suo Vangelo, la buona notizia che Lui proprio oggi ritorna a noi, per portarci con Lui.
Lui è la via per il nostro luogo, quello che, nel Padre, ha preparato per noi.
Lui fa in noi la verità, cioè una vita vera, solida, bella, piena, una vita perduta per amore.
Lui ci dona la Sua vita, perchè non siamo più noi a vivere ma Lui in noi.
Via, verità e vita, Cristo in noi, per noi, con noi nel pellegrinaggio di ogni giorno verso l'unico luogo che ci si addice e che da senso e pienezza alle nostre eistenze. Lui ci nasconde nel cuore del Padre, da dove attingiamo tutto quello che fa di noi Suoi figli amati, per vivere da figli amati. Comprendiamo allora con l'allora Cardinal Ratzinger il rispetto che ogni aspetto della nostra vita merita, e che ci fa considerare sacra la nostra vita anche in tutte le sue profonde umiliazioni.
Così, scoperto il nostro luogo in Dio nostro Padre attraverso una profonda intimità con Gesù, ogni altro luogo della nostra vita non ci è più estraneo od ostile, da fuggire con orrore. Anzi, con Gesù ogni luogo diviene il nostro luogo, dove tutto è santo, dove tutto è Grazia, perchè tutto reca il profumo di Cristo, che è quello del Padre.
"La fede ci impedisce di dimenticare; desta in noi l'autentica, sconvolgente memoria dell'origine: del fatto che noi veniamo da Dio; e vi aggiunge la nuova memoria che si esprime nella festa dell'Ascensione di Cristo: la memoria che il luogo autenticamente appropriato della nostra esistenza è Dio stesso e che è da lì che dobbiamo guardare l'uomo. La memoria della fede è in questo senso pienamente positiva: libera la dimensione ultima positiva dell'uomo. Riconoscere questo è una difesa ben più efficace contro ogni riduzione dell'uomo rispetto alla semplice memoria delle negazioni che, alla fine, può lasciare dietro di sé solo il disprezzo per l'uomo. L'antidoto più efficace contro la rovina dell'uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L'Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull'uomo. Essa ci insegna il rispetto per l'umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini" (Card. J. Ratzinger, ibid.)

Così possiamo scoprire come è profondamente reale e vicina alla nostra vita quotidiana la richiesta di Filippo, che esprime il desiderio più profondo di ciascuno di noi, di ogni uomo: "Mostraci il Padre e ci basta".
Sì, poter vedere nostro Padre, vedere, che secondo il Vangelo di Giovanni significa credere, appoggiare la nostra vita in Dio nostro Padre, questo ci basta. Sapere con certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall'amore di Dio, vivere da figli sussurrando in ogni istante "Abbà, Papà", vivere stretti a Lui. Ecco, questo è tutto.
Non si tratta di ucciderlo il padre, come ci hanno insegnato per decenni in ogni modo, si tratta piuttosto di conoscerlo, e di amarlo. Per questo proprio il Padre ha inviato Suo Figlio, immagine perfetta e nitidissima di Lui, impronta della sua sostanza. E' Cristo che dobbiamo cercare, Lui dobbiamo implorare, a Lui dobbiamo stringerci senza paura. Da Lui lasciarci amare, perdonare, consolare.
Lui, Gesù, unica nostra vita. In Lui ogni nodo irrisolto della nostra vita trova la mano pronta a scioglierlo, a riconsegnare ad ogni grumo della nostra storia dignità e luce. Tutto in Cristo acquista senso, valore, gioia e gratitudine. Non un secondo della nostra vita è assente dal cuore di Cristo. Di più, ogni istante della nostra storia reca impresse le stimmate del Suo amore. La nostra vita è opera sua, ogni incontro, i genitori, la famiglia, la scuola, il lavoro, i figli, gli amici. Il nostro corpo, gli acciacchi, gli stessi spigoli del carattere, tutto è modellato perchè Lui splenda in noi.
Noi siamo opera sua, opera del Padre. Perchè Lui è nel Padre, le sue opere d'amore compiute per noi, il perdono e la misericordia che ci rigenera testimoniano fin dentro le nostre ore più grigie la tenerezza di nostro Padre. Siamo figli, amatissimi figli. Allora ogni attività non è più nostra, non ci appartiene perchè noi apparteniamo a Dio. Le opere per le quali siamo nati, per le quali oggi ci siamo svegliati sono le opere di Dio, grandi, più grandi di quanto neanche riusciamo ad immaginare. Amare, perdonare, giustificare. Comprendere il collega di lavoro, avere misericordia con il vicino di casa, non resistere di fronte alle ingiustizie sul lavoro, umiliarci e chiedere perdono ai genitori, alla moglie, al marito, al figlio. Queste sono le opere di vita eterna che Dio ha predisposto per noi, queste sono le grazie da chiedere a nostro Padre nel nome di Suo Figlio e nostro fratello Gesù.
Vivere oggi e ogni giorno la vita di Dio, scorgendo in ogni luogo e persona su cui posiamo lo sguardo la traccia inconfondibile di nostro Padre. Tutto è per noi un'eco di Dio, la Sua volontà ove, solo, è nostra pace. Cristo vivo in noi compirà ogni opera, senza alcun dubbio. E questo è il grande mistero dell'Incarnazione che si rinnova in ciascun cristiano, nel battesimo e nei sacramenti.
L'Incarnazione nella Chiesa corpo vivente e visibile del Signore. Così chiunque fissi e guardi la Chiesa può vedere Gesù, e, in Lui, il Padre, l'approdo di ogni vita, il destino di ogni uomo. La missione della Chiesa, e di ciascuno di noi, non è dunque altro che essere quello che già siamo, per incendiare il mondo con la luce di Cristo. Essere suoi. Essere uno con Lui. Rimanere nel suo amore.
Che Dio ce lo conceda, è questa davvero la Grazia più grande da implorare al Padre nel nome di Cristo: lo Spirito Santo che ci faccia intimi a Gesù, una sola carne e un solo spirito con Lui. Per noi, per il mondo. Perchè i figli, i genitori, gli amici, chiunque abbiamo a cuore possa vedere Dio, e credere in Lui. Quante volte soffriamo, ci scoraggiamo, perchè gli altri non si accorgono di Dio, non ne vogliono sapere.
Certo, ognuno è libero, ma per esserlo davvero una volta almeno nella vita deve poter vedere Dio, toccare il suo amore. Poi potrà rifiutarlo.
Per questo siamo stati chiamati nella Chiesa. Per questo prima di tutto, prima ancora che pregare per i figli, o per chiunque, è fondamentale chiedere a Dio d'essere suoi sino in fondo. E' l'evidenza di Dio in noi che aprirà al mondo lo sguardo su Dio. E' questo il fondamento della missione della Chiesa, dell'educazione, della testimonianza, della nostra stessa esistenza.
Esistiamo perchè Gesù possa prendere dimora in noi. Lui il nostro luogo, e con Lui nel Padre, nostra eterna dimora. E noi sua dimora, qui ed ora, nella nostra carne, ed eternamente, in un vincolo d'amore che nulla e nessuno potrà mai distruggere. Anche oggi, e in ogni istante. Che Dio ce lo conceda, al di là di ogni ostacolo frapposto dalla nostra debolezza.

giovedì 10 aprile 2008

13 aprile 2008 - IV DOMENICA DI PASQUA

Io sono il buon pastore...
Gesù Signore e salvatore è raffigurato come il Buon Pastore, il guardiano delle pecore, la porta che dà la possibilità di entrare al sicuro del recinto e di uscire nelle strade della vita, contando sul suo aiuto. Sono molto belle le espressioni che dice Gesù: "Il guardiano, il buon pastore, apre il recinto e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori, cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce": Poi continua: "Io sono la porta, se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo, perché io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza".
Queste parole vanno solo assaporate e vissute nel profondo del cuore, in un rapporto personale con Gesù risorto e vivente. È importante sentirci amati e salvati da Gesù, buon pastore, che ha dato la sua vita per noi, perché avessimo la vera vita e l'avessimo in abbondanza. Gesù non toglie nulla, Gesù dà tutto in abbondanza, dà la vita, il senso e i valori importanti dell'esistenza, la serenità, la gioia profonda del cuore, la vera salvezza di tutto noi stessi sulla terra e per l'eternità.
Allora ciascuno di noi può chiedersi: come vivo il mio rapporto con Gesù? Mi affido a lui, mi lascio guidare dalle sue parole, mi lascio salvare dalla sua forza e dalla sua grazia, ascolto la sua voce, lo seguo, torno a lui dopo i miei errori? Cerco di seguire il suo esempio, cammino sulle orme di lui, che ha sopportato con pazienza la sofferenza, che ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce. Così ci dice ancora Pietro nella sua lettera: "Nelle sue piaghe noi siamo stati guariti. Eravamo erranti come pecore, ora siamo tornati al pastore e guardiano delle nostre anime".

Oggi Gesù ci raggiunge e vuole comunicarci una certezza di fede: Egli è l'unico "Pastore", l'unica "Porta", l'unico che ci dà la vita vera e piena, l'unico che ci salva, l'unico che ci ama.
L'iniziativa parte da Lui: "Chiama le sue pecore una per una".
Mai dobbiamo pensare di essere ai suoi occhi degli sconosciuti, come numeri di una folla anonima. “Ognuno di voi è prezioso per Cristo, è conosciuto personalmente, è amato teneramente, anche quando non se ne rende conto" (Giovanni Paolo II ai giovani). Lui veramente ci libera e ci "conduce" alla vita piena. Ci trascina con sé nel seno del Padre. Egli è la "Porta del Padre" (Sant'Ignazio di Antiochia).
"Le sue pecore ascoltano...conoscono la sua voce". Sono felici di appartenergli, hanno un'intesa profonda con Lui. "Lo seguono". Questo verbo esprime la relazione essenziale del discepolo col proprio maestro. Significa riconoscenza lieta e colma di stupore. Il motivo: "Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al Pastore e guardiano delle vostre anime" (1Pt 2,20-25: II lettura). Quale sicurezza maggiore di questa? Posso ripetere di Gesù: "Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla!". Significa attenzione a Lui, dialogo con Lui, prontezza a vivere la sua parola, testimonianza gioiosa e coraggiosa, disponibilità a soffrire per Lui e con Lui, impegno ad accettare e a svolgere responsabilmente quei servizi nella Chiesa e nella società che Egli ci affida.
Tante volte ci domandiamo quale decisione prendere, che comportamento adottare in situazioni difficili e complicate. Oggi il nostro cuore si apre alla speranza: abbiamo Chi cammina davanti a noi e ci apre la strada. Fare come Lui significa lasciarsi infiammare del suo stesso amore, lasciarsi guidare dal suo esempio, oltrepassare, con Lui, e come Lui, le barriere oscure del male, il tunnel buio della morte...

In questa domenica del Buon Pastore la Chiesa ci invita a vivere l'invito di Gesù che ci ha detto "La messe è molta ma gli operai sono pochi: pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe".
È la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Al Signore, che è Pastore e pastore buono di tutta l'umanità, chiediamo il dono di persone disponibili e generose che sull'esempio di Gesù possano accogliere la vocazione e diventare pastori nella Chiesa e nell'umanità, per portare avanti la missione stessa di Gesù: annunciare la parola di Dio e aiutare nella fede, celebrare i misteri di Dio e offrire la grazia del Signore alle anime, vivere e aiutare a vivere il comandamento dell'amore, per essere veri figli di Dio e veri fratelli con tutti gli uomini, per una civiltà dell'amore che sia speranza e vita per l'umanità.

giovedì 3 aprile 2008

6 aprile 2008 - III DOMENICA DI PASQUA

Lo riconobbero allo spezzar del pane
Sono due, due suoi discepoli, due persone che hanno seguito Gesù nella sua vita pubblica, hanno vissuto l'esperienza dolorosissima del Maestro, morto in croce come un brigante. Il dolore così forte li ha sconvolti, ha fatto sì che non si ricordassero più della promessa della risurrezione, delusi decidono di riprendere il cammino di ritorno a casa, tutto è finito.
Pur in quel dolore incomprensibile, stanno insieme perché discepoli, ecco il primo aspetto che vorrei sottolineare: per loro si avvera la parola di Gesù: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sarò in mezzo a loro". Gesù si fa presente tra loro e spiega le Scritture, apre la loro mente alla verità. Se vogliamo capire la Parola è fondamentale stare insieme nel nome di Gesù, cioè, nell'amore reciproco, nel volersi bene, nel perdonarsi e chiedere perdono, nel ricominciare ogni volta che ci accorgiamo di esserne usciti. La presenza di Gesù vivo in mezzo ai discepoli è discreta, semplice, per questo se siamo presi ancora dai nostri ragionamenti, dal nostro dolore, essa ci sfugge, ma se abbiamo retta intenzione, appena ci fermiamo e guardiamo dentro possiamo accorgerci come i discepoli di Emmaus che il nostro cuore ardeva, era sazio, pieno, i segni della sua presenza erano già in noi. Però, soltanto quando riusciamo a unificare cuore e mente, tutto si illumina e la verità della risurrezione splende in noi.
Pur nel dolore, pur nel cammino della vita verso la notte, la presenza di Gesù risorto tra noi comincia a infondere fiducia, apertura, siamo capaci di invitare di entrare in casa nostra, di dare ospitalità a chi si è messo accanto a noi nel nostro difficile cammino. Se non lasciamo che il dolore, pur forte e profondo, ci domini, siamo capaci ancora di vedere le necessità dei fratelli e di fare la nostra parte.
Gesù entra con loro, in una casa di famiglia: a tavola, nello spezzare il pane, si rivela pienamente ai loro occhi.
La frazione del pane, la fractio panis – gesto umile, fraterno, di condivisione… era il nome che i primi cristiani davano all'Eucaristia; il greco descrive solennemente questi tre gesti: labòn tòn àrton [prese il pane] eulòghesen kài klasas [lo benedisse e lo spezzò] epedìdou autòis [lo diede loro].
Ecco, questo è il percorso che siamo invitati a vivere nella nostra vita di fede: anzitutto restare alla presenza di Gesù risorto, vivo in mezzo a noi. Non lasciarsi mai chiudere dal dolore, anche se immenso, straziante. Restiamo fermi nel volerci bene, nello scambiarci l'amore fraterno; solo allora pian piano o immediatamente capiamo le Scritture, capiamo la volontà di Dio per noi, per i fratelli. Cresce il desiderio di rimanere con Dio, di dirgli "resta con noi perché si fa sera", di farlo entrare a casa nostra, nella nostra famiglia.
Il Signore accetta l'invito, entra e si rivela pienamente ai suoi.
Accogliere la Parola per entrare in comunione con Dio si realizza pienamente nella comunione eucaristica. Gesù risorto si dona a noi nell'Eucaristia.
Quando la comunione eucaristica è il sigillo della tensione di ogni momento della nostra vita protesa alla condivisione fraterna, allora si realizza in noi ciò che hanno vissuto i discepoli di Emmaus: il dolore non è più un ostacolo per rimanere nella sequela di Gesù; allora devono riprendere con coraggio ed entusiasmo il cammino di ritorno, a quella vita di comunità che avevano abbandonato a Gerusalemme; allora corrono di notte, diventano annunciatori dell'incontro con Gesù vivo ai fratelli di fede, non hanno più timore né vergogna di testimoniare.
Possiamo chiedere come grazia specifica di questa domenica pasquale il coraggio e la gioia di annunciare anche ai nostri compagni di fede l'esperienza di un Dio vivo nella nostra vita, di Colui che abbiamo lasciato entrare e che ha trasformato il nostro dolore, dando un nuovo senso alla nostra vita. Dio è vivo!
Tanti cristiani vivono ancora come se questo non fosse vero; e stanno aspettando la nostra testimonianza di vita, il nostro annuncio.
È vero, anche tra i discepoli c'erano quelli che non credevano. Forse anche noi troveremo qualcuno un po' incredulo, ma non ci fermeremo, anzi, queste fatiche fortificheranno ancor più il nostro impegno di testimoni e annunciatori del Cristo risorto.
Parola chiave: Gesù Cristo è veramente vivo, l'abbiamo sperimentato nella nostra vita.
È questa la risposta chiarificatrice e rappacificante che ci viene dal vangelo di oggi: ogni cristiano infatti può fare esperienza del Signore risorto, nella luce della Scrittura e nella grazia dell'Eucaristia. Un'Eucaristia che non conclude, ma apre la strada della testimonianza e dell'impegno.

martedì 18 marzo 2008

23 Marzo 2008 - PASQUA DI RISURREZIONE DI NOSTRO SIGNORE


È vivo
È vivo, fratelli, è risorto, è il “per sempre presente”!
Lo abbiamo accompagnato tra gli ulivi del Getsemani, quando ci siamo assopiti, vinti dal sonno, senza sapere che, accanto a noi, si stava consumando lo scontro titanico fra le tenebre e l’Amore.
Lo abbiamo seguito da lontano, come Pietro, dopo l'arresto al Getsemani, storditi ed impauriti vedendo tanta violenza su un uomo buono e mite.
Lo abbiamo visto, appeso, sfigurato, sconvolto, stracciato, perdonare i suoi assassini fino all'ultimo soffio di vita.
Poi, assieme agli altri, ci siamo chiusi nella stanza alta, quella della cena. Come se le pareti avessero conservato qualcosa di lui. Per farci coraggio, senza neppure avere il diritto di piangere, divorati dalla paura.
Sembrava tutto finito nel peggiore dei modi, come accade spesso nella nostra vita.
Disfatta totale, partita persa, fine dei sogni.
Pensiamo: Abbiamo inseguito un sogno troppo bello per essere vero!.
E invece, sul fare del mattino, il giorno dopo lo shabbat di Pesah, Maria di Magdala è venuta a dirci di correre alla tomba.
Sì, Gesù è risorto, fratelli.
La resurrezione di Gesù, che Giovanni evita accuratamente di descrivere, è tutta una corsa.
L'inizio, ad essere onesti, è davvero sconfortante: Maria di Magdala si muove ancora nel buio (buio del cuore, come il buio in cui si viene a trovare Giuda quando esce dal Cenacolo – Gv 13,30) e sente vicina la presenza del crocifisso; quando arriva alla tomba vede la pietra ribaltata e – stranamente – non entra, non verifica. Corre dai discepoli e trae delle conclusioni affrettate: qualcuno ha rubato il corpo di Gesù.
Grande Maria! Vede dei segni ma non li sa interpretare. Di più: quando – più avanti – entrerà nel sepolcro, non resterà turbata e piena di fede come Giovanni e Pietro ma, imperterrita, continuerà a piangere, anche davanti al Risorto!
Com'è difficile uscire dal dolore!
Maria trae conclusioni affrettate, è tutta presa dalla sua percezione, non si ferma, non entra, non capisce, non approfondisce.
Piange e basta. E questo pianto le impedisce di riconoscere le fattezze del Maestro.
Ci sono lacrime e lacrime.
Quelle splendide, di conversione, di pentimento, di dolore, che lavano l'anima di Pietro, quando incrocia lo sguardo di Gesù nel cortile del Sinedrio (Lc 22,61); quelle purificatrici della prostituta che si mette a lavare i piedi di Gesù (Lc 7,38); le lacrime stesse di Gesù che si commuove alla vista del dolore per la morte di Lazzaro (Gv 11,35).
E vi sono anche lacrime inutili, come quelle già citate delle donne di Gerusalemme, e ora quelle di Maria, inconsolabili. Il limite del suo pianto, segno di un profondo dolore che merita tutto il nostro rispetto, è quello che le impedisce di accorgersi della verità.
La conversione al Risorto è difficile, difficilissima. Occorre allontanarsi dal proprio dolore.
Condividere la gioia cristiana significa superare il dolore che ci rende tristi. Non c'è che un modo per superare il dolore: non amarlo, non affezionarvisi. La gioia cristiana infatti è una tristezza superata.
Ma resistenze, dubbi, mancanza di fede pesano sul nostro cuore.
Un'esperienza dolorosa nell'infanzia, una serie di eventi che ci hanno deluso possono davvero impedirci di entrare nella gioia cristiana, che non è un'emozione, ma una scelta consapevole.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Una corsa affannosa, mentre Gerusalemme è ancora avvolta nel sonno, e il sole ha cominciato a scaldare le pietre color ocra con cui sono costruite le abitazioni e le mura che avvolgono la città.
Ma, sapete, l'età (Pietro è sicuramente più vecchio di Giovanni) e la teologia (Pietro, l'autorità, il ruolo, deve sempre star dietro a Giovanni, l'amore e la creatività) fanno sì che Giovanni giunga per primo al sepolcro e poi aspetti Pietro che arriva ansimando, senza fiato.
È questa l'esperienza delle Chiesa: correre al sepolcro e sapersi aspettare gli uni gli altri. Abbiamo ritmi diversi, siamo splendidamente diversi, fratelli. Ma siamo tutti Chiesa.

Il nostro Salvatore, che era morto, è risorto. Si è fatto uomo per morire. È morto per risorgere.
È risorto ed è vivo e glorioso per sempre. Ha vinto la morte ed è vittorioso per sempre.
Così ci ha amati del suo amore infinito fino a farsi come noi in tutto, fino a morire come tutti e per tutti: “non c'è amore più grande di chi dà la vita per la persona amata”.
Potevamo avere un Salvatore più grande? Una vocazione più alta? Una prospettiva più luminosa e santa?
Viviamo allora la Pasqua, fratelli.
Cos'è la Pasqua? Che cosa sa della Pasqua il mondo che ci circonda? La festa della primavera? La festa della natura che si risveglia, dell'uovo nel suo simbolo di vita? Un'altra occasione di schiavitù nella nostra società dei consumi? Una tradizione religiosa – certamente importante - ma di cui non si conosce il contenuto e di cui non interessano le conseguenze perché ci sembra più opportuno continuare a vivere solamente per i soldi, per gli affari, per i piaceri in una concezione materialistica della vita?
Occorre ridare alla Pasqua la sua autenticità, il suo respiro, la sua verità cristiana.
Pasqua è un termine che significa: passaggio, liberazione.
La Pasqua del popolo ebraico è stato il grande passaggio dalla schiavitù dell'Egitto alla libertà e alla gioia della terra promessa.
La Pasqua di Cristo è il passaggio dalla sua morte di croce alla sua resurrezione.
Gesù di Nazaret, condannato a morte, chiuso in un sepolcro, risorge, è vivo ed è vivo per sempre. Condannato per la novità che proclamava, suggella e conferma il suo messaggio con la risurrezione. Aveva affermato di essere il Figlio di Dio: la resurrezione ne è la prova più grande.
La pasqua del cristiano, inserito nel movimento di liberazione del Cristo, è il passaggio dal male al bene, la liberazione da ogni forma di schiavitù, di male, di limite e la realizzazione delle opere stesse di Dio in una vita rinnovata e diversa. “Se siete risorti con Cristo, scrive S. Paolo, cercate le cose di lassù, non quelle della terra, pensate alle cose di lassù”.
Il cristiano è chiamato ad essere il testimone della resurrezione, della resurrezione di Cristo e della resurrezione degli uomini.
Ci crede e porta questa fede agli altri. Crede a Cristo vivo per sempre, crede che tutti gli uomini, vivranno - al di là della morte - per sempre.
Il cristiano è chiamato a credere alla resurrezione già su questa terra, impegnandosi per la liberazione totale dell'uomo, per la costruzione di una vita completamente nuova, diversa, impostata su rapporti nuovi. “Questo è il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”.
Il mondo è vecchio perché è nel peccato, perché vive secondo l'egoismo. La novità è l'amore. Dio è novità assoluta e perenne, Cristo è novità, la Chiesa è novità, il cristiano è novità. Perché tutto è amore.
Questa novità si esprime in un comportamento e uno stile di vita che è radicalmente rivoluzionario: la rivoluzione dei consigli evangelici, la rivoluzione delle beatitudini:
«beati i poveri, i miti, i puri, i costruttori di pace, i perseguitati...».
Il cristiano trova la forza di costruire la novità, cioè la pasqua di Cristo nella sua vita, attraverso i Sacramenti pasquali che Cristo ha offerto agli uomini: l'Eucarestia, il sacerdozio, il perdono nella confessione.
Siamo invitati a vivere i sacramenti pasquali, a vivere le beatitudini evangeliche, vivere la risurrezione, cioè a costruire la nostra esistenza in pienezza.
E Cristo Gesù, risorto e vivente per sempre, è il nostro salvatore, la nostra forza e il nostro sostegno ogni momento. In particolare Cristo è nostra forza e nostra salvezza nell'Eucarestia.
“Rimani con noi Signore”, “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
Cristo Risorto è vivo e presente con noi, in mezzo a noi nel sacramento dell'Eucarestia.

giovedì 6 marzo 2008

9 Marzo 2008 - V DOMENICA DI QUARESIMA

Io sono la risurrezione e la vita…
L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo.
L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una «macchina di immortalità»; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. E una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando.
Gesù ci salva non «dalla» morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece «nella» morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore.
Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita.
Siamo all’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio.
Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il «comando» ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello.
Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. E quella gloria che apparirà sulla croce:
la gloria dell’Unigenito dal Padre (1,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figlio di Dio (1,12).
Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. E il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la «sua gloria», amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

Betania:
Ci si arriva uscendo da Gerusalemme, scendendo nell'avvallamento del Cedron per poi risalire sulla collina, attraverso i polverosi sentieri che solcano i poderi coltivati del Monte degli Ulivi.
Tre chilometri che Gesù percorre spesso per incontrare Lazzaro, Marta e Maria.
Betania, per chi ama Cristo, è un nome fortemente evocativo.
A Betania, dai suoi tre amici, Gesù si rifugiava quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i profeti per trovare un angolo di serenità. Betania svela il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato, che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Betania è il segno di un approccio diverso, nuovo, al volto di Dio.
E, proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro si ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù, di dirgli: "Il tuo amico è malato".
Gesù ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio. Che assordante silenzio, quello di Dio. Gesù non guarisce Lazzaro, ma scende a vedere, si fa presente.

Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno a Marta e Maria, le nostre amiche sono conosciute e stimate. Sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto, Gesù era lontano.
Succede anche nelle nostre povere vite: qualcuno muore, e Gesù è lontano.
Qualcosa muore (la fede, la speranza, la fiducia) e Gesù è lontano.
Le sorelle non disperano. Amano.
Non capiscono, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione. Attendono, fiduciose. Lazzaro è morto, il loro amato fratello è morto. Ma ora l'amico è qui.
Marta e Maria piangono, la folla lo spinge a vedere, Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte, quanto dolore suscita il dolore.
Gesù vede la disperazione di Maria e il dolore dei giudei e ne è turbato. Chiede di vedere Lazzaro e la risposta è: "Vieni e vedi".
"Vieni e vedi". È la stessa frase che egli aveva rivolto, tre anni prima, ai suoi primi due discepoli, Giovanni e Andrea, che gli avevano chiesto dove abitasse: "Venite e vedrete" (Gv 1,39).
I discepoli (e noi) erano invitati a mettersi in gioco, a partecipare: la fede è un "andare a vedere", un'esperienza di fuoco.
Ora è Gesù che si fa discepolo. Ora è lui che è chiamato ad andare a vedere.
A vedere quanto dolore suscita il dolore.
A vedere nel volto dei suoi amici più cari la disperazione che suscita in noi la morte.
E Dio piange. È come se Gesù, fino ad allora, non avesse ancora visto la casa del dolore, come se solo in quel momento Gesù prendesse consapevolezza della devastazione della morte.
Certo: Gesù aveva incontrato ammalati e aveva anche risuscitato dei morti, come la figlia di Giairo o il figlio unico della madre vedova. Ma erano degli sconosciuti.
Qui, ora, per la prima volta Dio vede il dolore che il dolore suscita nel cuore di persone che egli ama.
Dio impara il dolore, diventa discepolo. Divenendo uomo, lui che è l'assoluta perfezione, l'immensa totalità, impara la fragilità. Dio piange, fratelli.
Davanti a quel pianto possiamo, come la folla, lamentarci del fatto che, invece di piangere, poteva fare qualcosa prima. O restare stupiti di tanto amore.
Il cristianesimo, di fronte al dolore, si pone, impotente, davanti a questa sconcertante notizia: Dio condivide il dolore e, assumendolo, lo redime. Non lo evita, né per sé, né per noi.
Non so se preferisco un Dio che condivide il dolore con me o un Dio che mi eviti la sofferenza.
Come uno dei due ladri appesi alla croce, sento dentro di me la lacerazione di volere, da chi può tutto, che mi tolga dalla croce. Oppure, come l'altro ladro, non so se stupirmi di un Dio che soffre esattamente come me (Lc 23,39-43). Non lo so.
Forse, realisticamente, preferirei un Dio assoluto e onnipotente, che mi eviti la sofferenza, piuttosto che un Dio che muore per amore. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù, l'amico, prende una
decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle.
Una vita per la vita: un episodio che avviene appena prima dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme.
Questo miracolo eclatante sarà la goccia che farà traboccare il vaso, la valanga che si distacca e tutto travolge, portandolo a morire.
La tensione è alle stelle, i suoi nemici si aspettano un solo microscopico passo falso per denunciarlo.
Gesù lo sa (Tommaso glielo ha detto: andremo a morire!) e accetta lo scambio.
Lo stesso scambio che, da lì a qualche giorno, farà dall'altare della croce per ciascuno di noi.
Ora che Dio conosce il dolore che la morte suscita nei cuori di chi si ama, decide di donare la sua vita.
Anche a noi, l'amico Gesù, grida: "Tu e tu e tu… venite fuori!". E allora veniamo fuori, fratelli, dalla nostra tomba, dalle nostre tenebre, dalle nostre piccole sicurezze, veniamo fuori dai nostri pregiudizi, dai nostri schemi, dai nostri egoismi. Veniamo fuori dalle nostre oscurità, veniamo fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in noi, e… lasciamoci rivivere.
Crediamo, finalmente, lasciamoci raggiungere, infine.