sabato 20 dicembre 2008

25 Dicembre 2008 - Natale del Signore

«Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce. Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1).
Il nostro mondo è avvolto dalle tenebre e noi siamo stanchi di vivere così! Noi abbiamo bisogno di voltare pagina e di iniziare una storia nuova, una stagione nuova della vita, in cui solo Cristo, la Luce del mondo, può essere la nostra bussola!
Siamo stanchi di sottoporci alle strutture di peccato e di morte che annientano quella dignità umana che oggi Cristo Gesù ha assunto.
Il Bambino di Betlemme ci spalanca le sue braccia, attende la nostra sincera adorazione! Egli è la luce che brilla in mezzo a noi, in mezzo al nostro mondo senza pace! Per questo, ciascuno di noi può sentirsi irradiato dallo splendore della Luce di Dio.
«Un bambino è nato per noi» (Is 9,5).
Ai nostri giorni, con tutta la buona volontà, credo sia difficile cogliere il Natale: quanti problemi accompagnano le nostre famiglie e l'intera società: malattie, guerre, terrorismo, i poveri che diventano sempre più poveri e i ricchi che diventano sempre più ricchi... Non possiamo pensare di celebrare il Natale con le luci, i pranzi, le cene, i regali...
La pagina di Isaia che abbiamo citato è un grande annuncio di gioia per il mondo: se Dio rinnova per noi il suo Natale è segno che Egli non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della salvezza!
Ai nostri giorni Dio non si è stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra accoglienza sincera e definitiva.
Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i valori sembrano cancellati dalla memoria, dove l'uomo uccide ancora e brama vendetta, dove aumentano gli abusi sulle donne e sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...
«E' apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11).
Il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe!
L'atmosfera del Natale è sempre bella, perché è capace di diffondere davvero tanta bontà, tanta felicità, tanti sorrisi... doni semplici che nulla hanno a che vedere con il consumismo di questi giorni!
Ma Natale può essere anche ogni giorno, se il nostro cuore pulsa d'amore per il fratello che ci sta accanto, con cui condividiamo la strada, la scuola, il lavoro, l'impegno in Parrocchia... La nostra salvezza è l'Amore, l'Amore di Dio che accogliamo e che siamo capaci di condividere con i fratelli, soprattutto con quelli afflitti da antiche e nuove povertà.
«... lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7).
In quest'ora in cui i nostri cuori sono a Betlemme per contemplare la nascita del Salvatore, non possiamo non guardare a Maria e Giuseppe nella difficoltà: non c'è un luogo stabile per accogliere il Figlio di Dio, oggi come allora!
Dio nasce ancora oggi in luoghi peggiori della mangiatoia e spesso viene anche ucciso, perché scomodo! Pensiamo alle tante vite, che oggi non hanno più dignità, che vengono uccise perché considerate un "errore" di giovinezza o un "prodotto" non desiderato di laboratorio...
Ancora oggi non vogliamo fare posto a Dio che si fa' uomo per noi, perché – lo sappiamo bene – Lui ci è troppo scomodo, è troppo esigente, dovremmo fare troppe rinunzie...
Fratelli, non c'è posto per il Figlio di Dio in questo mondo se non c'è posto per la vita, se non c'è posto per l'Amore! «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
È l'annuncio dell'angelo ai pastori che vegliavano il gregge nella gelida notte. Ma è anche l'annuncio che giunge a noi e che noi dobbiamo portare al mondo, se vogliamo davvero dare un senso alla nostra presenza qui, adesso!
Per tanti, probabilmente, non sarà Natale, perché hanno perso un loro congiunto in tenera età, o perché il dolore ha bussato alla loro porta con un male incurabile, o perché non sanno con chi condividere la gioia di questo giorno... Certo, è difficile poter pensare alla gioia ed alla festa di questo giorno che è spuntato.
Ma, come cristiani autentici, dobbiamo compiere il gesto di contagiare il mondo di gioia e, specialmente, tutte quelle persone che ora sono in difficoltà per i motivi sopra accennati e per altri ancora!
È Natale se sappiamo dire a tutti che Dio è con noi, è dalla nostra parte sempre, è sempre pronto a nascere ed immolarsi per noi!
«Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97).
Vogliamo uscire dalla chiesa, in questa notte santa, davvero rinnovati, raggianti della luce di Betlemme, non più camminatori stanchi "in questa valle di lacrime", ma viandanti pieni di speranza verso il Cielo, quel Cielo che oggi tocca la terra e la inonda d'Amore senza fine.
Vogliamo, in questa notte, dare lode a Dio con Maria, la Madre di Dio e la Mamma nostra celeste. Diciamo "Grazie!" a Lei per averci donato Gesù! E vogliamo pregarla di tenerci tutti tra le sue braccia come tenne il Figlio di Dio fatto uomo: il suo Amore materno possa raggiungere il nostro cuore e consolarci di quella speranza che è novità di vita.
Sia questo l'augurio che vicendevolmente ci scambiamo in questo giorno di luce, auguri colmi di speranza e di gioia, dove ogni rancore e odio sono spenti dalla pace del Bambino di Betlemme! Buon Natale!

21 Dicembre 2008 - IV Domenica di Avvento

C'è una progressione nella liturgia dell'Avvento. Nella prima settimana, la figura dominante è Isaia, il profeta che annunciò la venuta del Messia da lontano; nella seconda e terza settimana, è Giovanni Batista, il precursore che addita il Messia presente; nella quarta settimana, la figura centrale, la guida spirituale è Maria, la Madre che dà alla luce il Messia.
Sull'esempio di Maria Santissima, il messaggio conclusivo dell'Avvento è: "Accogliete!"
Accogliete il Signore! Sarebbe inutile preparargli la strada se non lo si accoglie. Ma cosa significa accogliere il Signore? La parola di Dio ce lo spiega con i personaggi di Davide e Maria.
Davide vuole costruire una casa al Signore. È un desiderio molto buono. Ma rischia di instaurare un rapporto con Dio di sufficienza e di distanza.
Sufficienza: Davide si sente di fare una cosa grande per Dio; invece è sempre il Signore che ci dà ogni cosa, ogni bene, ogni possibilità. Distanza: perché la presenza di Dio nel tempio è una sicurezza, perché abita in mezzo ai suoi; a Lui si va ogni tanto, per i sacrifici e le preghiere, perché faccia quello che gli viene chiesto, ma fuori si svolge tutta la vita ordinaria, dei singoli e del popolo.
Per Maria è il contrario. Accetta di fare entrare Dio nella sua casa, nella sua vita, anche se sconvolge tutti i suoi progetti, anche se è difficile capire cosa voglia, dove desideri portarla.
Accogliere il Signore significa fare come Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare, fidarsi. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione.
Accogliere Dio significa accettare di diventare la sua casa, avere questo ospite unico, infinito nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
Questo è avvenuto in maniera unica in Maria. In lei si realizza il progetto di Dio sull'umanità. Maria, questa umile ragazza dice il suo "Sì". Maria, nella sua delicatezza, nella semplicità di quel piccolo paese, Nazareth, accoglie la sua Parola.
"Non temere, Maria".
Non era facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha tolto le difficoltà della scelta, perché la sua fosse una scelta libera.
Tanta gente ha dei dubbi. I dubbi non sono peccati, ma una occasione per dare una risposta cosciente, consapevole, per crescere nella fede. La fede non è un sentimento, ma una certezza, in qualunque situazione bella o triste: Dio, il suo amore, il valore della nostra vita nel suo progetto di salvezza!
Maria è un esempio per tutti noi cristiani. Ci insegna come accogliere la Parola di Dio, nella vita ordinaria, nella libertà e nella generosità delle nostre scelte.
Come è possibile?
Lo Spirito del Signore scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra.
Lo Spirito Santo può compiere sempre cose grandi in chi si apre a Lui nella fedeltà e nella generosità del cuore, come ha fatto Maria.
Niente è impossibile davanti a Dio. Tutto è possibile a chi crede, ha scritto un maestro di vita spirituale.
Ed è così che ci si apre a Dio e ai suoi progetti di salvezza che ama realizzare con la collaborazione degli uomini.
"Eccomi, sono la serva del Signore.", con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui. Questo significa credere.
E' importante penare alla fede di Maria, perché ci stiamo avvicinando al Natale e la fede è il segreto per fare un vero Natale. Si potrebbe pensare che quella di Maria fosse una fede facile. Invece è stato l'atto di fede più difficile della storia. A chi potrà spiegare Maria ciò che è avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà che il bimbo che porta in grembo è opera dello Spirito Santo? Questa cosa non è mai successa prima di lei e non succederà mai dopo di lei.
La fede di Maria non è consistita tanto nel fatto di credere a un certo numero di verità. E' conistita nel fatto che si è fidata di Dio, si è completamente rimessa a Lui. H accolto Dio nella sua vita. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi. Ha creduto che "nulla è impossibile a Dio". Ha detto il suo sì totale e gioioso.
S. Agostino ha detto che Maria ha concepito per fede e ha partorito per fede, anzi che concepì Cristo prima nel cuore che nel corpo. Noi non possiamo imitare Maria nel concepire e dare alla luce fisicamente Gesù; possiamo e dobbiamo imitarla nel concepirlo e darlo alla luce spiritualmente, mediante la fede.
"Che giova a me - hanno scritto Origene e S. Bernardo - che Gesù sia nato una volta a Betlemme di Giudea, se poi non nasce di nuovo, per fede, nel mio cuore?"
Si tratta così di accoglierlo veramente nella fede, nella vita, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo così come Lui l'ha insegnato e vissuto fin dalla sua tenerezza di piccolo appena nato a Betlemme.

venerdì 12 dicembre 2008

14 Dicembre 2008 - III Domenica di Avvento

C'è uno che grida a squarciagola che c'è una via da preparare perché Gesù viene fra noi:
"Preparate la via del signore!". Altro che preparare l'albero natalizio, regali e cene esuberanti... Si tratta di una cosa ben più importante e impegnativa. Dio ci prende sul serio. Di certo lui passerà, sappiamo con certezza che lui viene, a noi il compito di preparargli la strada.
A volte il compito non è facile, come non lo fu per Giovanni Battista!
Lo scenario che ci presenta questo brano è, infatti, quello di un interrogatorio in cui ci sono da una parte i protagonisti, Giovanni e Gesù, ossia il testimone della Parola e la Parola e dall'altra gli antagonisti, i giudei, sacerdoti e leviti, che si presentano come gli avversari della Parola. Qui le possibilità sono due: chi sta con i protagonisti sceglie la verità, la libertà, la giustizia e la vita e chi sta con gli antagonisti sceglie la menzogna, la schiavitù, l'ingiustizia e la morte, per sé e per gli altri.
Amico, tu da che parte vuoi stare?
Chi sceglie di testimoniare la Parola, ossia preparare la via di Gesù di Nazareth, ha delle caratteristiche ben precise: non si accontenta del suo cercare, ma trova ciò che desidera e lo comunica agli altri con gioia; ha uno spirito libero, in contraddizione con la mentalità dominante.
Anche gli avversari sono testimoni. Certo! Testimoniano violenza, schiavitù, incoerenze.
Tra l'uno e l'altro non c'è una via di mezzo perché o si testimonia la verità o la menzogna, o si è luce o si è tenebre.
Ma cosa vuol dire essere testimone? Il termine greco significa "martire". Il testimone è uno che ha visto con i suoi occhi, udito con le sue orecchie e toccato con le sue mani e quindi racconta. Perciò la testimonianza è una esperienza di vita che si trasmette.
Ora, questo brano del Vangelo ci dice che il testimone non e' la parola, ma la voce che lo trasmette. Hai mai provato a dire una parola senza voce? Gli esperti della comunicazione ci dicono che non c'è parola udibile senza voce e che non c'è voce sensata senza parola. Per dirla in breve il messaggio di questo Natale non sono io, non sei tu, ma Gesù che entra in azione. Per farlo ha però bisogno della tua voce.
Il testimone non è neanche la “luce”, ma colui che la porta; non è neanche la “strada”, ma colui che la prepara. Ebbene: come cristiani abbiamo il compito di preparare con serietà e radicalità quelle strade in cui Gesù passerà per raggiungere ogni uomo, anche quelle dell'amico che sembra distante anni luce dalla scoperta di un Dio vivo e vero che cammina anche con lui.

venerdì 5 dicembre 2008

7 Dicembre 2008 - II Domenica di Avvento

"Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri" grida Giovanni.
Non sono certo le vie del Signore ad essere storte o non giuste ma piuttosto le nostre vie, i nostri cammini, i nostri pensieri, le nostre scelte.
A cominciare dalle piccole scelte quotidiane che determinano la nostra vita, le nostre abitudini, che condizionano il nostro cuore.
Il Signore non viene con potenza e gloria umana ma nella logica dell'incarnazione, della povertà, della sofferenza.
Una logica piccola e umile. Ma in questa logica che crea e sostiene il creato, Egli viene con potenza.
"Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio."
Ma che potenza è mai questa, di un Dio che si fa fragile neonato?
Che potenza è mai questa di un Dio che desidera dipendere dal si di una fanciulla?
Come può il nostro cuore comprenderla?
È un mistero che ci sfugge e tuttavia è un mistero senza il quale la ragione non riesce cogliere il senso della vita, delle cose e dell'esistenza.
Senza questo mistero della potenza di Dio nascosta a Betlemme e nella logica dell'incarnazione, noi non riusciremo mai a capire nulla della nostra vita.
Ogni nostro ragionare è inutile, ogni scienza è vuota.
Noi, senza questa sapienza divina, siamo ciechi, figli di ciechi che guidano altri ciechi.
Ma se il nostro cuore si umilia e finalmente ascolta, se il nostro cuore si commuove radicalmente e si mette all'opera nella carità, a partire dal sì! di Maria e dalla grotta di Betlemme..., allora inizieremo a comprendere tutto ciò che fino ad ora ci era sfuggito.
Ogni valle della solitudine sarà colmata e ogni monte della superbia, abbassato.
Fuggiamo dunque ogni distrazione del mondo con tutte le nostre forze.
Non perdiamoci in altre cose, inutili ed effimere.
Fissiamo il nostro sguardo in questo mistero.
Facciamone l’oggetto del nostro respiro, della nostra vita.
Taccia tutto e si faccia silenzio dentro e fuori di noi, perché Dio viene, non tarderà e porterà con sé il premio di se stesso che tutto riempie di gioia incontenibile.
Operiamo nella penitenza e nella carità guardando incessantemente all'incarnazione.
Il mistero ci avvolga e ci sommerga, ci riempia e ci dia nutrimento.
Il tempo si è fatto breve. Ora è il tempo della conversione, ora è il tempo della sua venuta.
Ora è il tempo del silenzio e dell'obbedienza.
Ora il tempo dell'umiltà, il tempo della gioia...
Facciamo attenzione, perché come dice Isaia, "Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?" (Is 43,19)

venerdì 28 novembre 2008

30 Novembre 2008 - I Domenica di Avvento

Avvento, l’attesa che apre all’amore
Avvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.

giovedì 20 novembre 2008

23 Novembre 2008 - Festa di Cristo Re dell'universo

L’amore è il fondamento della regalità di Cristo; l’amore, che non è un attributo, una qualità aggiunta, ma la sostanza stessa di Dio e, perciò, del Figlio; un amore effusivo, in quanto dono incessante per il bene dell’altro; un dono infinito, libero, gratuito, che in Gesù si fa servizio.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.

giovedì 13 novembre 2008

16 novembre 2008 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Nella prospettiva del rendiconto
La parabola dei talenti, oggetto del vangelo di oggi, è tra le più note. Un uomo, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai dipendenti: a uno cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, “secondo le capacità di ciascuno”. Al ritorno chiede loro conto di come li hanno amministrati, e loda i primi due che si sono dati da fare e li hanno raddoppiati, mentre rimprovera il terzo che non ha fatto nulla e si limita a restituirgli quanto aveva ricevuto. Il significato è chiaro: Dio affida a ciascun uomo un tesoro, con l’incarico di farlo fruttare perché un giorno vorrà sapere come è stato impiegato. All’epoca di Gesù i talenti erano monete, le monete in oro di maggior valore; in seguito, proprio in base a questa parabola il termine ha assunto il significato che gli si dà oggi. Per talenti di una persona oggi si intendono le sue doti naturali, di mente o di cuore; per estensione vi si possono comprendere le capacità acquisite con l’impegno nello studio, con la costanza nell’applicazione, o anche per dono della sorte. Insomma, le capacità positive a disposizione di ciascuno, le possibilità di bene che ciascun uomo è in grado di gestire.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.

giovedì 6 novembre 2008

9 Novembre 2008 - Dedicazione della Basilica Lateranense

Curiosa, la festa di oggi: in tutto il mondo i cristiani romani celebrano la dedicazione della Cattedrale di Roma, come se fosse la propria Chiesa e la domenica assume un contorno di riflessione particolare. La ragione di questa festa è semplice: la liturgia ci richiama al ruolo centrale della Chiesa di Roma nella nostra esperienza e al ruolo del luogo di culto per i cristiani. Per alcune chiese italiane la prossima settimana sarà, tra l'altro, l'occasione di riflettere sul proprio essere chiesa locale. Cos'è "chiesa"? Ci viene spontaneo pensare ad un luogo, vero? D'altronde la storia dell'arte ci consegna scenari straordinari, gare di bellezza, Cattedrali che sfidano il tempo per dare lode al Signore. Nel cristianesimo come in ogni cultura e civiltà, l'arte esprime il proprio meglio quando cerca di raggiungere Dio, quando cerca di esprimere il concetto assoluto di bellezza. Ma, amici, la chiesa ha senso solo se contiene una Chiesa, cioè una comunità. La visione cristiana del tempio è piuttosto dissacrante: non esistono luoghi che contengono Dio, ma luoghi che contengono comunità che lodano Dio. Perciò le nostre chiese sono un riferimento continuo alla Chiesa fatta da persone vive. Anzi: il rischio di ridurre a museo i nostri luoghi di culto è reale e questo ci deve spronare a costruire comunità. Cos'è la Chiesa? E' il sogno di Dio, fratelli e sorelle radunati dalla sua Parola che, mettendo al servizio del Regno i propri doni, costruiscono il luogo che rende presente l'amore di Dio. Detta così è poetica e bella, concretamente, poi, ci scontriamo con la nostra fragile esperienza di comunità... Comunità stanche gestite semi-dispoticamente da sacerdoti troppo legati al proprio ruolo, comunità-alloggio che vengono vissute come un'istituzione distributrice di servizi, comunità-fantasma nella nostre grandi città in cui chi partecipa chiede solo di essere lasciato in pace ad assolvere le proprie devozioni. No, amici, realizziamo il sogno di Dio, diventiamo – finalmente – Chiesa: radunati intorno alla Parola, vivendo il proprio ministero e la propria vocazione, lasciando da parte guru e santoni, consapevoli di essere stati scelti, facciamo diventare i nostri templi dei luoghi di incontro e di accoglienza, luoghi di stile e di vangelo, luoghi che custodiscono il pane del cammino e la parola. Conserviamo le nostre chiese, valorizziamole, ma soprattutto il restauro del fuori sia sempre secondo o contemporaneo al restauro dentro la comunità. Celebrare la Cattedrale di Roma significa prendere a cuore il destino di quel pezzo di Chiesa che abita il mio quartiere, la mia città, significa rendere presente nella realtà povera che è la Parrocchia un pezzo di Regno. Ma la dedicazione della Basilica Lateranense ci spinge ad una seconda riflessione sulla cattolicità romana, cioè sulla chiesa universale (senza confini, questo significa "cattolica"!) in comunione con la chiesa madre di Roma. La Cattedrale, luogo in cui si custodisce la cattedra, il luogo da cui il Vescovo annuncia la parola, è segno di unità per tutte le parrocchie di una Chiesa locale. Nell'esperienza della Chiesa cattolica Roma, sede dell'apostolo Pietro e luogo di martirio suo e di Paolo, riveste una centralità spirituale e una vocazione particolare, la vocazione alla custodia del deposito della fede. Di cosa si tratta? Un compito difficile affidato a Pietro e alla sua comunità: custodire la fede. In parole semplici: amico che ascolti, chi ti garantisce che la mia interpretazione della Parola sia quella vissuta da duemila anni di cristianesimo? Che io non sia uno dei tanti mullah con una mia carismatica e personale interpretazione del Vangelo? Chi garantisce a me di essere nel solco scavato dall'esperienza delle comunità illuminate dallo Spirito dono del Risorto? Semplice: la comunione con Pietro e la sua Chiesa, il guardare a quella cattedra, a quell'insegnamento che diventa tutela e custode della Parola, non la Parola influenzata dalle correnti di pensiero, interpretata a proprio comodo dall'ultima moda di turno, no: la Parola vera quella pronunciata da Gesù e riecheggiata dai testimoni. Oggi è la festa della cattolicità della Chiesa e della sua unità, della bellezza della diversità e della ricchezza dell'unione intorno al carisma di Pietro, rude pescatore chiamato ad essere roccia irremovibile nella custodia delle parole del Maestro.

venerdì 31 ottobre 2008

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno

"Non vogliamo, fratelli, che ignoriate la condizione di quelli che dormono nel Signore, affinché non siate tristi come quelli che non hanno speranza” (l Ts 4,13). Così l’apostolo Paolo scrive alla comunità cristiana di Tessalonica. Con questa memoria liturgica oggi la Chiesa vuole sostenere la nostra speranza. Non è a caso che la festa di Tutti i Santi sia così strettamente unita alla memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto. Per certi versi direi che è la stessa festa che continua. Se pensiamo a coloro che sono morti, particolarmente a quelli che sono più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione. Tuttavia l’apostolo Paolo ci invita a non dimenticare il futuro che è riservato ai figli di Dio. “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli... E se siamo figli, siamo anche eredi”, scrive Paolo ai Romani. Aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,15.18). Oggi, la santa liturgia schiude ai nostri occhi uno spiraglio di questa “gloria futura”. Per noi è futura; per i nostri cari è svelata. Essi abitano su quel monte alto ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli. Il velo “che copre la faccia” e che fa ripiegare su se stessi è stato definitivamente strappato; i loro occhi contemplano il volto di Dio, nessuno più versa lacrime di tristezza, semmai sono di commozione senza fine. La liturgia ci dona oggi questa visione, perché sappiamo dove essi sono e dove noi andremo. La morte ci separa, è vero, e ne sentiamo tutta la tristezza; eppure non ci allontana gli uni dagli altri, non rompe i vincoli di amore che abbiamo legato sulla terra, non ci fa uscire dalla famiglia di Dio alla quale siamo stati chiamati. È quanto il Signore Gesù ci dice nel brano evangelico che abbiamo ascoltato (Mt 25,31-46). Sì, l’unica cosa che conta nella vita è l’amore: l’unica cosa che resta di tutto quel che abbiamo detto e fatto, pensato e programmato, è l’amore. L’amore è sempre grande: sebbene si manifesti in gesti piccoli come un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane, una visita, una parola di conforto, una mano che stringe. L’amore è grande perché è sempre una scintilla di Dio che infuoca e salva la terra. Quell’abside d’oro, care sorelle e fratelli. ove vivono i santi e i nostri cari, quel mosaico infuocato possiamo costruirlo già da ora con le piccole tessere dell’amore per tutti e particolarmente per i poveri. Beati noi, se seguiremo poveramente ma decisamente il Vangelo. Ci sentiremo dire al termine dei nostri giorni: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Allora la nostra gioia sarà piena.

Chi sono i santi

Da tempo gli scienziati mandano segnali nel cosmo in attesa di risposte da parte di esseri intelligenti esistenti in qualche pianeta sperduto. La Chiesa da sempre intrattiene un dialogo con abitanti di un altro mondo, i santi. Questo è ciò che proclamiamo dicendo: "Credo nella comunione dei santi". Se anche esistessero abitanti al di fuori del sistema solare, la comunicazione con essi sarebbe impossibile perché tra la domanda e la risposta dovrebbero passare milioni di anni. Qui invece la risposta è immediata perché c'è un centro di comunicazione e di incontro comune che è il Cristo risorto. Forse anche per il momento dell'anno in cui cade, la festa di Tutti i santi, ha qualcosa di particolare che spiega la sua popolarità e le numerose tradizioni ad essa legate in alcuni settori della cristianità. Il motivo è in ciò che dice Giovanni nella seconda lettura. In questa vita, "noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo ancora non appare"; siamo come l'embrione nel senso della madre che anela a nascere. I santi sono quelli che sono "nati" (la liturgia chiama "giorno natalizio", dies natalis, il giorno della loro morte); contemplarli è contemplare il nostro destino. Mentre intorno a noi la natura si spoglia e cadono le foglie, la festa di Tutti i santi ci invita a guardare in alto; ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra per sempre come le foglie. Il brano evangelico è quello delle Beatitudini. Una beatitudine in particolare ha ispirato la scelta del brano: "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati". I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Ci aiuta a capire chi sono i santi la prima lettura della festa. Essi sono "coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello". La santità si riceve da Cristo; non è di produzione propria. Nell'Antico Testamento essere santi voleva dire "essere separati" da tutto ciò che è impuro; nell'accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè "essere uniti", s'intende a Cristo. I santi, cioè i salvati, non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell'albo dei santi. Vi sono anche i "santi ignoti": quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i "santi laici", come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell'Agnello, se hanno hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli. Una domanda viene spontanea: "Cosa fanno i santi in paradiso? La risposta è, anche qui, nella prima lettura: i salvati adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: "Lode, onore, benedizione, azione di grazia...". Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere "lode della gloria di Dio" (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: "L'anima mia magnifica il Signore". È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: "Il mio spirito esulta in Dio". L'uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità. Un giorno un santo, S. Simeone il Nuovo Teologo, ebbe una esperienza mistica di Dio così forte che esclamò tra sé: "Se il paradiso non è che questo, mi basta!". Ma la voce di Cristo gli disse: "Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La gioia che hai provato in confronto a quella del paradiso è come un cielo dipinto sulla carta rispetto al cielo vero" (padre Raniero Cantalamessa).

sabato 25 ottobre 2008

Amerai il prossimo tuo come te stesso

"Amerai il prossimo tuo come te stesso". Aggiungendo le parole "come te stesso!", Gesù ci ha messi davanti uno specchio al quale non possiamo mentire; ci ha dato un metro infallibile per scoprire se amiamo o no il prossimo. Noi sappiamo benissimo, in ogni circostanza, cosa significa amare noi stessi e cosa vorremmo che gli altri facessero per noi. Gesù non dice, si badi bene: "Quello che l'altro fa a te, tu fallo a lui". Questo sarebbe ancora la legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente". Dice: quello che tu vorresti che l'altro facesse a te, tu fallo a lui (cf. Mt 7,12), che è ben diverso.
Gesù considerava l'amore del prossimo come il "suo comandamento", quello in cui si riassume tutta la Legge. "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi" (Gv 15, 12). Molti identificano l'intero cristianesimo con il precetto dell'amore del prossimo, e non hanno del tutto torto. Dobbiamo però cercare di andare un po' oltre la superficie delle cose. Quando si parla di amore del prossimo il pensiero va subito alle "opere" di carità, alle cose che bisogna fare per il prossimo: dargli da mangiare, da bere, visitarlo; insomma aiutare il prossimo. Ma questo è un effetto dell'amore, non è ancora l'amore. Prima della beneficenza viene la benevolenza; prima che fare il bene, viene il volere bene.
La carità deve essere "senza finzioni", cioè sincera (alla lettera, "senza ipocrisia") (Rom 12, 9); si deve amare "di vero cuore" (1 Pt 1,22). Si può infatti fare la carità e l'elemosina per molti motivi che non hanno nulla a che vedere con l'amore: per farsi belli, per passare da benefattori, per guadagnarsi il paradiso, perfino per rimorso di coscienza. Molta carità che facciamo ai paesi del terzo mondo, non è dettata da amore, ma da rimorso. Ci rendiamo infatti conto della differenza scandalosa che esiste tra noi e loro e ci sentiamo in parte responsabili della loro miseria. Si può mancare di carità, anche nel "fare la carità"!
È chiaro che sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro l'amore del cuore e la carità dei fatti, o rifugiarsi nelle buone disposizioni interiori verso gli altri, per trovare in ciò una scusa alla propria mancanza di carità fattiva e concreta. Se tu incontri un povero affamato e intirizzito dal freddo, diceva san Giacomo, a che gli giova se gli dici: "Poveretto, va', scaldati, mangia qualcosa!", ma non gli dai nulla di ciò di cui ha bisogno? "Figlioli, aggiunge l'evangelista Giovanni, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3,18). Non si tratta dunque di svalutare le opere esteriori di carità, ma di far sì che esse abbiamo il loro fondamento in un genuino sentimento di amore e benevolenza.
Questa carità del cuore o interiore è la carità che tutti e sempre possiamo esercitare, è universale. Non è una carità che alcuni -i ricchi e i sani- possono solo dare e gli altri -i poveri e i malati- solo ricevere. Tutti possono farla e riceverla. Inoltre è concretissima. Si tratta di cominciare a guardare con occhio nuovo le situazioni e le persone con cui ci troviamo a vivere. Quale occhio? Ma è semplice: l'occhio con cui vorremmo che Dio guardasse noi! Occhio di scusa, di benevolenza, di comprensione, di perdono... Quando questo avviene, tutti i rapporti cambiano. Cadono, come per miracolo, tutti i motivi di prevenzione e di ostilità che impedivano di amare una certa persona e questa comincia ad apparirci per quello che è nella realtà: una povera creatura umana che soffre per le sue debolezze e i suoi limiti, come te, come tutti. È come se la maschera che gli uomini e le cose hanno posto sul suo volto venisse a cadere e la persona ci apparisse per quello che è veramente. (Padre Raniero Cantalamessa)

giovedì 23 ottobre 2008

26 Ottobre 2008 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio? E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? In altre parole, l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta? Ognuna di queste domande ha ricevuto da Gesù una risposta essenziale: il primo comandamento è di amare Dio, e il secondo, che gli è simile, è di amare gli uomini. Non si può, dunque, pensare che l’entrata di Dio in una coscienza provochi l’esclusione dell’uomo (Vangelo). Anzi, i testi più sicuri del messaggio dell’Antico Testamento e di Gesù ci portano a credere con certezza che l’incontro con Dio rinnova e perfeziona l’attenzione e la sollecitudine verso gli uomini (Prima Lettura). «Dio quando si rivela personalmente lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito di amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio» (RdC 122b). Ma occorre approfondire alcuni problemi che sono imposti dagli stessi testi evangelici. Bisogna amare gli uomini, ma bisogna anche guardarsi dal mondo, saper lasciare il padre e la madre... Come accordare tra loro proposizioni che, a tutta prima, sembrano andare in direzione opposta? Dovendo assolutamente scegliere tra l’uomo e Dio, come fare? L’amore degli uomini non minaccia, a volte, l’amore di Dio? Mai la Scrittura e la tradizione cristiana hanno permesso al cri­stiano di disinteressarsi dell’uomo, sotto il pretesto di interessarsi unicamente di Dio. Mai hanno lasciato di indicare nel servizio dell’uomo un modo di servire Dio.
L’attenzione a Dio e l’attenzione all’uomo non sono così facilmente separabili. Il coltivare la «vita interiore» è un valore cristiano, un valore permanente, come il bisogno di raccoglimento. Però la “vita interiore”, quando è cristiana, non solamente non è monologo, ma neppure un parlare con Dio solo. Incontrando Dio nell’orazione il cristiano, più o meno presto, incontra inevitabilmente gli uomini che Dio crea e vuol salvare. Egli non può non sottoscrivere queste righe del p. Ricoeur: «La mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori. All’opposto delle sapienze meditative e contemplative della fine del paganesimo greco o dell’Oriente al di là dell’Indo, la predicazione cristiana non ha mai opposto l’essere al fare, l’interiore all’esteriore, la teoria alla prassi, la preghiera alla vita, la fede alle opere, Dio al prossimo. E’ sempre nel momento in cui la Comunità cristiana si disfa o la fede decade, che la si vede abbandonare il mondo e le sue responsabilità e ricostruire il mito dell’interiorità. Allora il Cristo non è più riconosciuto nella persona del povero, dell’esiliato, del prigioniero».
Il cristiano può allontanarsi momentaneamente dagli uomini, per pregare, per non pensare che a Dio. Può fare un’ora di meditazione senza ritrovare, espressamente, nella contemplazione di un mistero divino, il pensiero dei bisogni degli uomini... Questo, anzi, diventa, in certi momenti, una sentita necessità. Nella vita cristiana come nella vita umana in genere, esistono normalmente dei ritmi; si va dalla contemplazione all’azione, e dall’azione alla contemplazione. Ma l’allontanamento dagli uomini è sempre e solo provvisorio. Così, come accade all’interno della nostra esistenza nella quale si succedono momenti di ritiro a momenti di intensa attività; anche all’interno della Chiesa vediamo contemplativi e attivi. Il mistero di Cristo è vissuto nella Chiesa dal suo complesso, nell’insieme dei suoi membri e in quello dei secoli. Il contemplativo serve gli uomini servendo Dio, l’attivo serve Dio servendo gli uomini. I due esprimono, specializzandosi nell’imitazione dei Cristo, uno stesso e unico mistero: quello della vita religiosa del Verbo incarnato. Così è capitato e capita ancora nella storia della Chiesa. Il santo Curato d’Ars sospirava il convento e la solitudine mentre si prodigava fino in fondo a favore degli uomini; e il convento ha dato alla Chiesa grandi papi, grandi vescovi, grandi riformatori e missionari che sono passati dalla contemplazione e dalla solitudine all’azione più indefessa e senza soste.
«Amerai...». Come ricorda anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, questo verbo pone un vero dilemma. Da una parte il termine “amore” oggi è diventato una delle parole più usate e anche abusate (n. 2), alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Dall’altro, «Dio è amore» esprime la centralità della fede cristiana, che ha accolto il nucleo della fede di Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità in Cristo. Il divario tra il linguaggio comune e il linguaggio della fede obbliga il credente a non accontentarsi di generali e ambigue affermazioni sull’amore. E’ fondamentale che egli assuma tale termine nella ricca accezione biblica, scoprendo il cuore di Dio entro le azioni e le parole della Storia della Salvezza. L’amore cristiano ha nell’amore di Dio la propria origine, forza e riferimento, e questo è lontano da ogni retorica sentimentale e mal sopporta generiche esortazioni. Al centro ha, infatti, l’evento sconvolgente della morte di Cristo, sacrificio di perenne valore e totale donazione, croce che dice amore salvifico e di perdono, amore creatore e libero.

giovedì 16 ottobre 2008

19 Ottobre 2008 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Diverse e talora divergenti sono le interpretazioni date alla celebre frase-risposta di Gesù a coloro che volevano tendergli una trappola: una frase ad effetto, quasi una “scappatoia” con la quale Gesù risponde senza sbilanciarsi; una risposta ironica, come se Gesù volesse dire: solo quando c’è da pagare le tasse tirate fuori il problema della coscienza; una precisa definizione dei limiti di campo e dei rapporti reciproci fra Stato e Chiesa. Emerge comunque chiaro che ciò che importa è il regno di Dio. Questo è l’unico assoluto da ricercarsi. Gesù è venuto a predicare il regno: questa è la realtà fondamentale e discriminante. Di fronte a questo annuncio tutto passa in secondo piano. Con questo, Gesù non vuol negare la funzione di Cesare, ma vuol colpire i suoi avversari che non hanno compreso la sua missione e dimenticano la questione decisiva.
Spesso il brano odierno viene usato per riaffermare e per dare un fondamento biblico, rivelato, alla distinzione e reciproca autonomia tra la Chiesa e lo Stato. Molto probabilmente la risposta di Gesù non aveva questa intenzione: sia per il contesto del racconto, che non esigeva un pronunciamento su questo problema; sia per il contesto storico dei suoi tempi, nei quali non si distingueva ancora tra potere politico e religioso. Ma la risposta di Gesù è ugualmente illuminante perché indica una direzione. Gli Ebrei del tempo di Gesù erano abituati a concepire il regno inaugurato dal futuro Messia nella forma di una teocrazia, cioè come dominio diretto di Dio, tramite il suo popolo, su tutta la terra. La parola di Gesù rivela l’esistenza di un regno di Dio nella storia, nel quale è possi­bile ad ognuno, e non solo all’ebreo, entrare fin d’ora, senza attendere che si inauguri un ipotetico regno politico di Dio su tutta la terra. Il regno di Dio, infatti, è possibile all’interno di un regno pagano, non meno che nel quadro di una teocrazia, poiché non si identifica né con l’uno né con l’altra. Si rivelano così due modi qualitativamente diversi di dominazione e di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la signoria temporale che egli esercita indirettamente, mediante il libero gioco delle cause seconde.
La parola di Gesù richiama la nostra riflessione su uno dei problemi più importanti e cruciali dei cristiani oggi. L’uomo moderno ha la profonda convinzione di avere un compito storico da svolgere sulla terra, un compito che è proporzionato alle sue possibilità sempre maggiori e che implica un reale dominio sull’universo. Il fine è questo: la promozione della comunità umana nel seno di una “città” sempre più fraterna. Questa presa di coscienza si accompagna talvolta a una critica amara nei confronti della religione, che viene considerata la responsabile della secolare alienazione degli uomini. Molti assumono nei confronti della religione un atteggiamento di non considerazione, come se essa non avesse alcun apporto positivo da offrire. La fede cristiana, vissuta integralmente, lungi dal suggerire rassegnazione ed evasione nei confronti dei compiti terreni dell’uomo, aiuta il credente ad assumere le proprie responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi che si impongono alla coscienza moderna. Gli appelli del mondo attuale trovano una eco sempre più profonda in vasti strati del popolo cristiano, e fortunatamente non sono scarsi i cristiani coerenti che si assumono i ruoli della promozione, della liberazione e della costruzione di una città terrena più giusta ed umana. Il Concilio Vaticano II ha dedicato una parte importante dei suoi lavori all’analisi delle preoccupazioni dell’uomo del XX secolo, problemi in apparenza più profani che religiosi, sicché le reticenze o le assenze del cristiano di ieri in rapporto al suo impegno nel mondo, dovrebbero essere superate. Rimane, tuttavia, una domanda: la costruzione della città terrena è un compito importante, ma non è essa caduca? Costruendo la città degli uomini si contribuisce o no all’edificazione del regno di Dio? Non sono due regni diversi?
La speranza cristiana, certo, non si compie pienamente se non nel mondo futuro. Tuttavia, essa mostra fin d’ora la sua efficacia: è una forza immensa nel mondo, è un fermento che lo fa lievitare, è un sale che dà senso e sapore allo sforzo umano di liberazione, all’impegno temporale. Non è alienazione, non è alibi. Non esistono due speranze: una terrena e l’altra celeste, la speranza è una sola: guarda alla realtà futura, ma, attraverso l’impegno cristiano, l’anticipa nella realtà terrestre.
Nella risposta di Gesù alla domanda insidiosa dei suoi interlocutori, non c’è condanna per il potere politico. Gesù distingue, istruisce e illumina su una grande realtà: la moneta coniata da Cesare ha la sua immagine e gli appartiene, l’uomo è creato e porta l’immagine di Dio e appartiene a Dio; egli non può essere usato e schiavizzato da nessun potere, al quale è comunque riconosciuta una sua propria sfera d’azione, purché non sia contro l’uomo.

sabato 11 ottobre 2008

12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

L'importante e l'urgente
È istruttivo osservare quali sono i motivi per cui gli invitati della parabola rifiutano di venire al banchetto. Matteo dice che essi "non si curarono" dell'invito e "andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari". Il Vangelo di Luca, su questo punto, è più dettagliato e presenta così le motivazioni del rifiuto: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo… Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli… Ho preso moglie e perciò non posso venire" (Lc 14,18ss). Cos'hanno in comune questi diversi personaggi? Tutti e tre hanno qualcosa di urgente da fare, qualcosa che non può aspettare, che reclama subito la loro presenza. E cosa rappresenta invece il banchetto nuziale? Esso indica i beni messianici, la partecipazione alla salvezza recata da Cristo, quindi la possibilità di vivere in eterno. Il banchetto rappresenta dunque la cosa importante nella vita, anzi l'unica cosa importante. È chiaro allora in che consiste l'errore commesso dagli invitati; consiste nel tralasciare l'importante per l'urgente, l'essenziale per il contingente! Ora questo è un rischio così diffuso e così insidioso, non solo sul piano religioso, ma anche su quello puramente umano, che vale la pena riflettervi sopra un poco.
Anzitutto, appunto, sul piano religioso. Tralasciare l'importante per l'urgente, sul piano spirituale, significa rimandare continuamente il compimento dei doveri religiosi, perché ogni volta si presenta qualcosa di urgente da fare. È Domenica ed è ora di andare alla Messa, ma c'è da fare quella visita, quel lavoretto in giardino, il pranzo da preparare. La Messa può aspettare, il pranzo no; allora si rimanda la Messa e ci si mette intorno ai fornelli.
Ho detto che il pericolo di tralasciare l'importante per l'urgente è presente anche nell'ambito umano, nella vita di tutti i giorni, e vorrei accennare anche a questo. Per un uomo è certamente importantissimo dedicare del tempo alla famiglia, a stare con i figli, dialogare con essi se sono grandi, giocarci se sono piccoli. Ma ecco che all'ultimo momento si presentano sempre cose urgenti da sbrigare in ufficio, straordinari da fare sul lavoro, e si rimanda a un'altra volta, finendo per tornare a casa troppo tardi e troppo stanchi per pensare ad altro.
Per un uomo o una donna è cosa importantissima andare ogni tanto a far visita all'anziano genitore che vive solo in casa o in qualche ospizio. Per chiunque è cosa importantissima far visita a un conoscente malato per mostragli il proprio sostegno e rendergli forse qualche servizio pratico. Ma non è urgente, se rimandi, apparentemente non casca il mondo, forse nessuno se ne accorge. E così si rinvia.
La stessa cosa si realizza anche nella cura della propria salute che è anch'essa tra le cose importanti. Il medico, o semplicemente il fisico, avverte che ci si deve riguardare, prendere un periodo di riposo, evitare quel tipo di stress...Si risponde: sì, sì, lo farò senz'altro, appena avrò portato termine quel lavoro, quando avrò sistemato la casa, quando avrò estinto tutti i debiti...Finché ci si accorge che è troppo tardi. Ecco dove sta l'insidia: si passa la vita a rincorrere le mille piccole faccende da sbrigare e non si trova mai tempo per le cose che incidono davvero sui rapporti umani e possono fare la vera gioia (e, trascurate, la vera tristezza) nella vita. Così vediamo come il Vangelo, indirettamente, è anche scuola di vita; ci insegna a stabilire delle priorità, a tendere all'essenziale. In una parola, a non perdere l'importante per l'urgente, come successe agli invitati della nostra parabola. (P. Raniero Cantalamessa)

giovedì 9 ottobre 2008

12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Venite alle nozze!»
Il tema della “convocazione” e del “raduno” universali percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Jahwè. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno escatologico universale. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Jahwè radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra.
Il disegno di riunire tutte le nazioni si realizza in Cristo. Dio vuole operare questo raduno attraverso il popolo eletto, già precedentemente destinato nei piani di Dio ad essere lo strumento privilegiato del raduno universale. Ma il rifiuto di Israele lo priva del suo privilegio e la riunione universale si farà attorno al Cristo crocifisso che risuscita dai morti. Alcuni elementi caratterizzano questo raduno e lo distinguono da quello descritto dall’Antico Testamento. E’ Dio, attraverso Gesù, che “convoca” questo raduno, ma il suo disegno di riunificazione non potrà riuscire senza l’attiva partecipazione e collaborazione dell’uomo. Il disegno di Dio costituisce un compito per l’uomo. Il regno di Dio non discende dal cielo come un lampo. Se è vero che Cristo costituisce la pietra d’angolo della costruzione, gli uomini non possono esimersi dal collaborare all’innalzamento dell’edificio. Più nessun privilegio è riconosciuto ad Israele in questa riunione universale. E’ l’atto di nascita di un nuovo universalismo, del resto già previsto nell’Antico Testamento. Il convito sul monte il Signore lo preparerà per tutti i popoli (Prima Lettura).
Dal giorno della Pentecoste il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio sono la Chiesa. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno. La Chiesa non è fedele a se stessa se non si pone come ponte che unisce gli uomini non solo con Dio, ma anche fra di loro. Essa ha per compito quello di andare incontro agli uomini e di raggiungerli là dove si trovano.
Nel mondo moderno, secolarizzato, la situazione e la presenza della Chiesa tra gli uomini è molto cambiata. In tempi di “cristianità” la Chiesa radunava non solo attorno all’Eucaristia, ma anche in molti altri settori della vita e dell’attività umana, sui quali esercitava una vera tutela; oggi questo compito è molto diverso per le mutate condizioni. Potremmo dire che la vera unità, il vero raduno degli uomini avviene, oggi, al di fuori della sfera d’influsso della Chiesa, quando non in opposizione ad essa. La convocazione e il raduno degli uomini avviene oggi attorno agli ideali di giustizia, di liberazione, di presa di coscienza della propria dignità, che raccolgono le masse in partiti, in sindacati. Gli uomini si ritrovano uniti nella lotta contro le malattie, la fame, nel tentativo titanico di liberarsi dalle schiavitù e dai limiti delle forze della natura; si raccolgono attorno alla scienza e alla tecnica alla quale credono come in una nuova e terrena speranza; si raccolgono e si uniscono compatti nella lotta di classe, contro l’oppressione e il potere di un sistema. Questa raccolta e questa riunione è favorita e resa possibile dai grandi mezzi di comunicazione sociale di massa: radio-TV, giornali, sport...Questo è il terreno dove gli uomini, oggi, si incontrano e dove l’uomo moderno ha sempre più coscienza di portare a termine un destino storico che sembra estraneo alle preoccupazioni religiose. In questa situazione il cristiano prova la sensazione di sentirsi “disperso” in mezzo agli altri uomini, ma il cristiano non è mai un “isolato” perché resta membro vivo della Chiesa. Per portare nel pieno della vita la testimonianza della risurrezione di Cristo, come lievito nella pasta, il cristiano disperso ha bisogno di “segni” ecclesiali che sono gli altri membri vivi della Chiesa, sacerdoti e laici, come lui immersi nelle realtà quotidiane. La “convocazione” della Chiesa, in questi ambienti, non avviene tanto attraverso la Parola proclamata come nel passato, ma passa attraverso la testimonianza dei credenti che è davvero un appello per tutti alla salvezza e a una “riunione” molto più totale e profonda di quella che l’uomo riesce a costruire con le sue sole mani.
Tutti invitati alle nozze! Per questo la Chiesa evangelizza, essa va sollecita, sulle vie del mondo, per chiamare con urgenza tutti al banchetto preparato dal Padre, sul monte del Signore. Egli manterrà le sue promesse. L’ospite divino che ci accoglie nella sua tenda prepara per noi una mensa divina, succulenta, raffinata; nessuno ci può toccare e fare del male, chi infatti tocca l’ospitato, tocca l’ospite a danno suo. I servi, vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, oranti, invitano al banchetto! La mensa è ricca, è la Parola e i divini Misteri, capaci di saziare la nostra fame e sete di vita piena.

giovedì 2 ottobre 2008

5 ottobre 2008 - XXVII Domenica del Tempo ordinario

Lasciamoci coltivare dal Signore
Gesù ha scelto, nel suo ministero, un messianismo fatto di tenerezza e di toni pacati, rifiutando il miracolo e preferendo il dialogo all'atto di forza. Ora, a distanza di tre anni, Gesù sa di avere fallito la sua missione.
La gente lo ha seguito, prima attratta dalla sua mitezza, poi dal suo innovativo modo di parlare di Dio; i miracoli, compiuti con parsimonia, senza mai violare la libertà di chi vi assiste, hanno accresciuto al sua fama. Deluso e amareggiato, il Signore si ritira in una sfera più intima, ma anche dai suoi apostoli riceve una cocente delusione: non hanno capito il suo progetto, litigano (e ti pareva!) sul loro ruolo nel futuro governo di Israele.
La folla, dopo un primo momento di euforia, cambia idea sul Nazareno: il Regno di Dio non è arrivato, i romani sono ancora lì, con la loro arroganza; Gesù è solo un clamoroso bluff.
Totalmente Dio, totalmente di Dio, l'uomo Gesù di Nazareth, si accorge di avere sopravvalutato gli uomini, cede alla sensazione (terribile), di avere completamente fallito il bersaglio.
Una sensazione tragica, che ho visto sul volto di molti fratelli adulti, di molte sorelle, al tramonto della loro vita. La sensazione di chi non può più tornare sui propri passi.
Cosa fare, ora?
Gesù parla, gli occhi bassi, seduto, quasi pensando tra sé e sé.
Racconta di una vigna, una bella vigna, data in gestione a dei vignaioli assassini.
É la tragica storia di Dio e dell'umanità, di una incomprensione che fatica a risolversi, di un dolore, il dolore di Dio, che spiazza e interroga.
Il dolore di Dio, palpabile in questa tragica parabola, mi zittisce.
Gesù parla (me lo vedo), la voce rotta dall'emozione: che fare? Che farò?
La storia dell'umanità è la storia di un amore in crisi, di un innamorato passionale, Dio, e di una sposa tiepida e opportunista: l'umanità.
Leggete bene, ve ne prego: quanta dignità in questo padrone che prepara con cura e amore la vigna da dare in affitto, quanta idiota arroganza in questi fittavoli che pensano, uccidendo il figlio del padrone, di diventare eredi!
Immagine dell'umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l'umanità. L'uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell'uomo, credere di essere autosufficiente, senza dover rendere conto, misconoscere il proprio limite.
Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l'umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l'evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l'origine della vita, il cosmo, la natura.
Che fare? Mi commuove questo Dio onnipotente fermato dal nostro rifiuto, come un amante scosso, un genitore ferito, un amico che si scopre improvvisamente tradito.
Che fare? Questo Dio sconsiderato rischia la vita del figlio, pensando, così facendo, di suscitare rispetto nell'uomo, se non giustizia. E invece no, anche questo gesto è stravolto, incompreso.
Che fare? Gesù non sa più cosa dire, aspetta una risposta dai fittavoli che, ingenuamente, nell'ottusità del loro cuore, non capiscono che proprio di loro si sta parlando. E inveiscono: morte, punizione, vendetta, maniere forti!
Il vangelo dunque ci presenta la situazione disperata di una vigna, che dopo essere stata accuratamente fatta fruttificare dal suo padrone, ora che è affidata a dei vignaioli profittatori, sta andando in rovina.
Tutti i richiami del padrone e i suoi messaggeri sono rifiutati, annientati.
Ma sulle rovine di questa vigna il padrone ricostruisce la sua casa. I vignaioli omicidi saranno allontanati, e altri faranno fruttificare la vigna.
Il richiamo è per noi, carissimi fratelli. Anzi, proprio per me.
Perché anche dentro di me c'è sempre la tentazione del vignaiolo omicida: annullare l'altro, profittare delle cose e delle occasioni, rifiutare tutto ciò che non viene costruito e ideato da me.
Il mondo e il presente sono due grandi occasioni dove io posso mostrare la mia potenza e giocare le mie carte vincenti, per il mio successo materiale o per il mio potere personale.
Anche dal punto di vista spirituale, sono un divoratore di situazioni che mi si confanno, e mi riempiono moralmente, a tal punto da farmi parere a me stesso e agli altri un padreterno.
In questa autostrada che percorro a velocità sempre più crescente e in modo sempre più spericolato, non mi curo più delle regole del buon senso, delle leggi vigenti, del buon senso e del rispetto, della presenza dell'altro.
Tutto quanto, nel mio agire spericolato della mia vita, mentre appare sempre più piacevole e travolgente per me, travolge sempre più le cose e le persone che incontro su questa strada.
Tutto accresce la mia utilità, la mia convenienza, la mia bella figura, la mia intoccabilità di buon credente nella vita, accresce la quantità delle mie pratiche e delle mie partecipazioni alla collettività, tutto mi fa essere uno proiettato a razzo nella socialità, nella spiritualità, nella vitalità.
Tutto a scapito dell'altro e del mondo.
L'altro e il mondo diventano la mia spazzatura, il luogo dove riporre il resto di tutto ciò che faccio, il luogo dove lasciare tutto quello che ho appena vissuto, sperimentato, gustato, assaporato per me.
Ma ciò che noi scartiamo ogni giorno, non è altro che la primizia della vigna rinnovata.
Ma come è possibile questo?
La potenza della verità è superiore a noi: quello che scartiamo, essa lo recupera, lo trasforma; quelli che noi eliminiamo, ce li rimette in piedi e in prima fila, a costruire la nuova umanità, quella vera, e non la nostra.

Dice Gesù: Che cosa dovevo fare di più che non ho fatto?
Egli, con immagini, esempi e parabole, ci ricorda il suo amore provvidente, rigenerante e creativo.
"Dio è amore". Meraviglioso il cantico della vigna di Isaia, propostoci nella prima lettura. È un poema che esprime il grande amore di Dio verso il suo popolo, ma la gente è ingrata, non vuole o non può apprezzare tutta questa cura che il Signore ha. Gesù torna su questo argomento, ripetendo quasi il profeta Isaia. Gesù, nuovo profeta, è venuto a ricordare e portare a compimento l'amore grande di Dio, ma ancora una volta il popolo non corrisponde.
Gesù non sarà accolto, sarà ucciso.
Dio non si stanca di continuare il suo dialogo d'amore: uccidono i profeti, uno, poi l'altro, poi l'altro. Ma Dio manda suo Figlio. Gesù parla di se stesso. Sottolinea che non ci può essere un amore più grande di questo: dare la vita.
Dio non vuole perdere la speranza che ha verso gli uomini.
Dio non ha paura di dare il suo Figlio, per dimostrare che con lo stesso amore ama anche ciascuno di noi. Per Dio, l'uomo ha lo stesso valore di suo Figlio.
Nella nostra vita deve essere presente questo ringraziamento al Signore: è il dono più grande: abbiamo capito quanto Dio ama il suo popolo. Questo dono è Gesù Crocifisso. Ringraziamento non solo per le cose belle, ma per tutta la potenza di grazia che c'è anche nel sacrificio e nella sofferenza della vita.
Dio per salvare il suo popolo, l'intera umanità, ha dato ciò che aveva di più caro.
Noi siamo come questi vignaioli: abbiamo ricevuto tante cose.
I vignaioli hanno dimenticato chi è il padrone; hanno voluto farsi essi padroni della loro vita, della vita del mondo.
Il cantico della vigna possiamo dunque applicarlo a noi e contemplare quanta cura il Signore ha per la sua vigna, cioè per il suo popolo, per l'umanità, per ciascuno di noi.
"Che cosa dovevo fare di più, che non ho fatto?" Non avremmo mai voluto sentire questo lamento di Dio. Eppure esprime tutta l'intensità dell'amore di Dio e tutta la tragedia del peccato dell'uomo.
Un giorno, in una rivelazione a S. Margherita Gesù dirà: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e che non riceve che ingratitudini e oltraggi!".
Oggi ci è richiesta una forte revisione di vita. Sappiamo contemplare e percepire tutto quello che il Signore ha fatto e fa per ciascuno di noi, per la Chiesa, per l'umanità, per l'universo intero? "La sua bontà è grande come il cielo", possiamo dire anche noi con il salmo. Avvertiamo veramente e concretamente la paternità di Dio sulla nostra vita?
Ci accorgiamo di essere amati, desiderati, voluti dal Padre o Lui è per noi una figura lontana? Siamo figli grati, riconoscenti, pieni di amore?
Chiediamoci: perché nella nostra società c'è tanto rifiuto di Dio? Perché tanta indifferenza o lotta contro i valori e i segni della fede? Qual è la nostra riflessione e il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo?
Ma anche quando non corrispondiamo, anche quando rifiutiamo il Signore Gesù, Lui, il Cristo, rimane sempre la pietra angolare, il Salvatore, la roccia.
Quel Figlio, morto sulla croce, "pietra scartata dai costruttori" diventa "testata d'angolo", il fondamento di tutto. Che altro poteva fare il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio che verrà consegnato alla morte di croce. Gesù, sulla croce, come dice S. Paolo, "mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria dell'amore. Ma "il regno di Dio sarà tolto a quelli che lo hanno rifiutato e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare".
Invece, che cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere ciò che non si può possedere: la vigna non è loro. La vigna va curata, fatta fruttificare, lavorata, ma non è loro. E questo è il loro problema. Il grande problema dell’uomo è che la morte esiste. Per cui l’uomo non ha potere su nulla. Non c’è nessuna cosa a cui tu possa dire: “Tu sei mia”. L’uomo, se ci pensa bene, non è proprietario di nulla. Non abbiamo diritto a niente e nessuno ci deve qualcosa perché non possediamo nulla. Questo ci fa sentire vulnerabili, spogli, nudi e impotenti. Per questo ci illudiamo possedendo e accumulando.
L’amore non si può possedere. L’amore va espresso, condiviso, manifestato, ma non lo puoi possedere. L’altro non puoi farlo tuo. L’altro rimarrà sempre un dono. “Tu sei mio! Mi devi amare! Con tutto quello che io faccio per te!”. “No, caro! Non ti devo niente!”.
La vita non si può possedere. Può essere vissuta, intensa, realizzata, gustata, ma non si può possederla. La vita non si possiede: si vive. Non dare anni alla tua vita, ma dà vita ai tuoi anni. C’è della gente che si comporta come se dovesse vivere per sempre. Non la capisco. Puoi decidere come vivere, ma non puoi decidere sulla vita.
La vigna è la mia vita. La mia vita è stata creata perché porti frutti, perché sia feconda e si espanda.
La Vita, Dio, ha fatto ciò che doveva fare: poi ha affidato a me la mia esistenza. La mia vita non è mia, mi è stata donata, come la vigna del vangelo, perché porti frutto, perché sia gustosa come il vino.
Dio non mi abbandona e quando si accorge che ho sovvertito l’ordine, quando mi allontano dal portare frutto, dall’essere ciò che posso essere, quando mi allontano dalla mia essenza, allora mi manda dei messaggi: “Stai attento perché qui le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”.
Ma l’uomo spesso se ne infischia di questi messaggi, ride e fa finta di niente.
Invece ascoltiamoli questi messaggi, ascoltiamoli nel nostro cuore, dove Dio ci parla silenzioso.
Altrimenti saremo proprio come quei vignaioli: degli stolti! Come pensavano infatti di farla franca?
La vita è così: alcuni messaggi si capiscono subito, altri nel tempo. Ma ciò che è importante è accogliere tutto, ascoltare ciò che ci succede, le malattie del nostro corpo, i sentimenti della nostra anima, i fatti che ci succedono. Tutto parla (o niente parla). Ciò che conta è rimanere aperti e anche se qualcosa non si capisce subito non buttarla in cantina, in soffitta, dimenticarla, ma tenerla lì. A suo modo e a suo tempo parlerà.
Io sono io, ma non sono mio.
Continuerò a combattere, ad accumulare, a protestare, a volere, a possedere, a gestire; continuerò a voler conquistare qualcosa che non si può conquistare; continuerò a rincorrere qualcosa che non si può rincorrere. E mi attaccherò alle cose, alle persone, al raggiungere traguardi, successi e fama…
Ma così non mi potrò mai abbandonare sereno nelle braccia della vita perché vivo ancora nell’illusione di possedere qualcosa, che qualcosa sia mio, di aver potere di vita e di morte su qualcuno. Ma non è così!
Pensiamoci!

venerdì 26 settembre 2008

28 Settembre 2008 - XXVI Domenica del Tempo ordinario

La coerenza... onestà nei rapporti con Dio
Due figli, amati, educati, eppure disobbedienti, incapaci di capire il padre. Sembra che la parabola racconti una vicenda di tante nostre famiglie. Ma non è su questo che dobbiamo mettere l'attenzione. La differenza tra il primo e il secondo figlio non sta nella risposta che danno al padre, ma nel loro comportamento.
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».

domenica 29 giugno 2008

29 giugno 2008 - Solennità dei SS. Pietro e Paolo

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, do­mandò ai suoi discepo­li: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uo­mo?» . Risposero: «Alcu­ni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né san­gue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze de­gli in­feri non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e insieme sbagliata: Dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia; una creatura di forza e di vento, come il Battista; profeta, voce di Dio e suo respiro. Ma voi, chi dite che io sia? Gesù è la domanda dentro le nostre risposte facili, è domanda che risveglia, che fa vivere. Dio crea la fede attraverso domande. Ma voi… La domanda è preceduta da una contrapposizione: Ma voi, voi invece, che cosa dite? Voi che mi seguite da anni, voi che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... Come se i Dodici fossero di un altro mondo; come se non dovessero mai omologarsi al sistema. A nome di ogni credente, Cristina Campo testimonia: Ci sono due mondi: io sono dell’altro. Pietro risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Pietro è roccia per la Chiesa, e per l’uomo, nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Cristo, crocifisso, è vivente, che tutti siamo figli nel Figlio. Questa è la fede- roccia, il primato di Pietro che costruisce la Chiesa. Come Pietro, modello del credente, anch’io sono chiamato a diventare roccia e chiave: roccia che dà appoggio, sicurezza, stabilità al fratello che mi è affidato; chiave che apre le porte belle di Dio, di un Regno dove la vita fiorisca. Come Pietro anch’io chiamato a legare e a sciogliere, a creare cioè nella mia storia strutture di riconciliazione, di prossimità. Ma tu, chi dici che io sia? Io capisco di Cristo solo ciò che vivo di Cristo. La vita non sta in ciò che dico della vita, ma in ciò che vivo della vita. Cristo non è uno che devo capire, ma uno che mi attrae; non uno che interpreto, ma uno che mi afferra. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. « Capire » Gesù, definirlo, può essere anche facile, ma « com­prenderlo » nel senso originario di prendere per me, afferrare, stringere, possedere il suo segreto, è possibile solo se la sua vita mi ha « afferrato » . Corro perché conquistato, dice Paolo. Corro perché preso, vinto, prigioniero, sedotto da Cristo. La nostra vita non avanza per decreti, ma per una passione. Non per colpi di volontà, ma per attrazione. Io sono cristiano per divina seduzione: io, prigioniero di Cristo ( Ef 4,1), afferrato da Lui, corro per afferrarlo. ( Letture: Atti degli Apo­stoli 12,1- 11; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6- 8.17- 18; Matteo 16,13- 19). (Ermes Ronchi, Avvenire, 26 giugno 2008)

venerdì 20 giugno 2008

22 Giugno 2008 - XII Domenica del Tempo Ordinario

La persecuzione
Il popolo di Dio ha sperimentato, durante tutta la sua storia, la violenta opposizione dei popoli vicini. Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della sofferenza in genere, ne è distinto. La sofferenza costituisce un tormentoso problema, perché tocca tutti gli uomini anche i giusti e gli innocenti. La persecuzione colpisce i giusti proprio perché giusti; raggiunge specialmente i profeti a causa del loro amore a Dio e della loro fedeltà alla sua parola. Geremia occupa fra i perseguitati un posto speciale: egli ha espresso meglio degli altri lo stretto legame che esiste tra la persecuzione e la missione profetica.Una figura profetica: il Servo sofferenteIl Servo sofferente compie il piano di Dio con l’accettazione dei maltrattamenti che il popolo gli infligge. La ragione profonda che spiega il dramma del giusto perseguitato è messa in luce dal libro della Sapienza: il giusto è diventato per l’empio «insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,14); è «di imbarazzo» (Sap 2,12), un testimone del Dio vivente che si preferisce misconoscere.Condannando Gesù al supplizio della croce, gli Ebrei continuano l’ingiustizia dei loro antenati che hanno perseguitato i profeti, e così tentano di opporsi al piano di Dio. Ma il calcolo dell’uomo peccatore si rivela sbagliato. I «principi di questo mondo», crocifiggendo il «Signore della gloria», diventano, in realtà, gli strumenti della Sapienza divina (1 Cor 2,8), perché la morte di Cristo diventa salvezza del mondo e gloria di Dio.La persecuzione: una beatitudineNell’insegnamento di Gesù, la persecuzione diventa oggetto di beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...» (Mt 5,11). Essa è inevitabile: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». Impegnarsi a vivere seguendo la via di Dio significa incontrare nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre più grandi.In un mondo che è dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi predica l’amore, là povertà e il perdono sarà inevitabilmente perseguitato, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma il perseguitato non teme. Egli ha fiducia nel Signore. I persecutori possono uccidere solo il corpo, ma non hanno il potere di mandare in rovina l’anima.Il cristiano affronta la persecuzione con gioia: gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41); e san Paolo: «Sono pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4).Vera e falsa persecuzioneIl Concilio ha chiesto alla Chiesa di cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo: essa non è più la roccaforte isolata, ma il lievito che vuole animare e permeare con il vangelo la massa. Non dobbiamo pensare che questa riconciliazione sia facile e che dopo di essa gli uomini possano con facilità tendersi la mano. Nella misura in cui alcuni metteranno veramente in pratica le beatitudini evangeliche, per una autentica promozione umana, costoro conosceranno la persecuzione. L’opposizione tra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo è inevitabile e irriducibile.Non tutte le volte, però, che la Chiesa sperimenta la persecuzione, è per la sua fedeltà al vangelo e per l’imitazione di Cristo sulla via della croce; qualche volta è stata perseguitata e osteggiata perché in ritardo sulla storia, per pigrizia o per mancanza di fiducia o di coraggio. E’ doloroso costatare come idee cristiane ed evangeliche quali: libertà, uguaglianza, diritti della persona, democrazia, abbiano trovato in alcuni settori della Chiesa resistenze, sospetti e talora anche opposizione. Talvolta la ostilità contro la Chiesa è nata da un amore deluso verso di essa. I limiti umani della Chiesa cioè dei cristiani, le connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, la mancanza di coraggio... le hanno fatto rivoltare contro persino uomini onesti e di buona volontà.In più di un caso le persecuzioni contro la Chiesa trovano la loro origine in una concezione errata della religione che sembra conculcare la libertà e l’autonomia dell’uomo.Ma c’è infine anche una persecuzione che possiamo chiamare « satanica ». E’ il lievito nero del mondo che si diffonde e ramifica come un cancro che corrode i tessuti dell’umanità; è come un corpo mistico del male, col quale, nonostante ogni gesto di buona volontà, la Chiesa non può entrare in dialogo, perché si tratta del nemico irriducibile, dell’avversario che lotta contro Cristo e il suo regno. E questo, nonostante tanto scetticismo, è un male che esiste ed è molto attivo.

martedì 10 giugno 2008

15 giugno 2008 - XI Domenica del Tempo Ordinario

Pecore senza pastore
Levi il pubblicano è rinato, ora è diventato Matteo apostolo, ha visto nello sguardo del Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, la possibilità di una vita diversa, libera, nuova. La misericordia lo ha convertito, solo la misericordia che ha visto in fondo allo sguardo sereno del Rabbì Gesù lo ha cambiato.
Trent'anni sono passati da quell'incontro, e Matteo ancora indugia nello scrivere, rotto a tratti dall'emozione che serra la gola. La misericordia era il tesoro nascosto nel campo che Levi, infine, ha trovato.
Non è stato il solo a fare questa esperienza: ci racconta che Gesù aveva lo stesso identico sguardo su ogni uomo, sulla folla intera. L'amore che Dio provava per l'umanità era struggente e incontenibile.
Gesù vede nel profondo le persone che gli stanno di fronte, sa dell'infinito bisogno di felicità che ci troviamo piantato nel cuore e della fatica che facciamo a dare una risposta all'inquietudine che offusca il nostro sguardo. Venderemmo l'anima per essere amati, daremmo un braccio per conoscere - infine - cosa davvero può colmare durevolmente il nostro bisogno di pace.
Questa ricerca appassionata di felicità è ciò che ci fa simili, ciò che unisce ogni uomo, in ogni tempo. Gesù vede che siamo sbandati, come pecore senza pastore, perché non abbiamo in noi stessi la risposta a tutte le domande.
Peggio: in questo delirante e fragile tempo in cui siamo chiamati a vivere, la felicità ce la si vende a caro prezzo e noi, spaesati, finiamo col seguire l'idea più seducente, più luccicante, che sembra appagare quel bisogno profondo di bene e di vero che alberga nel nostro cuore.
Gesù si commuove perché ci vede faticare più del dovuto nello sbrogliare la matassa della felicità. Forse anche Dio ha dei ripensamenti.
Non era questo il suo progetto quando ci aveva donato la libertà dono difficile da gestire, superiore alle nostre forze, che volentieri cediamo all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore: così ci vede il Maestro, commuovendosi.
Nel suo amore infinito Gesù decide di agire.
Al solito ci spiazza: la pagina finisce nel modo più inatteso e incredibile.
Tutti ci aspetteremmo: Gesù si commuove e quindi si propone come un Buon pastore.
Macché: Gesù si commuove e inventa la Chiesa.
Lo so, lo so, la stragrande maggioranza di voi ha un'esperienza di Chiesa povera e contraddittoria, si è scontrato duramente col volto incoerente e severo di qualche cattolico più devoto di Dio.
Gesù pensa ad una compagnia, ad una ricerca comune, ad un sogno realizzato: uomini e donne, suoi discepoli, capaci, insieme, di cercare senso e pienezza, misura e gioia.
Lui è il Pastore che ci guida a pascoli erbosi, ma insieme possiamo fare esperienza di gregge, di comunità.
Non è facile capire e amare la Chiesa. troppe le fragilità, troppe le contro-testimonianze, troppe le persone che si dicono credenti e che vivono senza neppure essere uomini, troppe le incoerenze, troppi gli errori nella storia per non essere dubbiosi quando si parla di Chiesa.
Gesù sceglie dodici persone per iniziare a costruire il Regno, dodici che stiano con lui, per diventare poi capaci di condurre ai pascoli erbosi nei quali loro per primi saranno condotti.
Nessuno si sognerebbe di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto! Pescatori abituati alla concretezza e alla rudezza insieme ad intellettuali come Matteo e Giovanni; tradizionalisti come Giacomo insieme a pubblicani, peccatori pubblici, terroristi come Simone del gruppo degli Zeloti, disposti ad uccidere l'invasore romano. C'è l'intero Israele in questo gruppo, l'intera umanità nella sua vivace diversità. La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù, diversi tra loro in tutto se non nell'amore del Maestro, chiamati ad annunciare il vangelo con semplicità e verità.
Questa è, nel sogno di Dio, la Chiesa.
Paradosso di Dio! All'umanità ferita e fragile che necessita di una guida, Gesù propone un pezzo di umanità, altrettanto fragile e ferita, trasfigurata dall'Amore.
La missione dei dodici è sconcertante: rivolgersi alle pecore perdute di Israele.
Un invito attuale e urgente: la Chiesa ha bisogno di testimoni che la riconducano all'ovile del Padre. I primi destinatari dell'annuncio del Vangelo siamo proprio noi cristiani. Troppo cattolici per diventare discepoli, troppo convinti di saperne abbastanza per ascoltare il Vangelo, troppo riempiti di cristianesimo socio-culturale per credere – sul serio! – che la Chiesa abbia a che fare con Dio, siamo proprio noi cristiani del terzo millennio, nelle nostre società che riconoscono un campanile e ignorano le parabole, che apprezzano gli oratori e ignorano l'interiorità, che celebrano le feste dimenticando il festeggiato, siamo noi i chiamati a ricevere – ancora e ancora – la buona notizia di un Dio che si fa vicino.