giovedì 5 novembre 2020

8 Novembre 2020 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

 

“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo...” (Mt 25,1-13).

 La parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a meditare sulle ultime ore della nostra vita, sulle realtà ultime veramente importanti, su quei doveri che sistematicamente tralasciamo. Dovremmo invece pensare più spesso e più seriamente che la vita presente un giorno finirà, che non viviamo su questa terra in pianta stabile, che la nostra è soltanto una presenza provvisoria.

Abbiamo ricordato, alcuni giorni fa, i nostri defunti, che ci hanno già preceduto là dove anche noi prima o poi dovremo andare. Sì, perché la vita è un passaggio: è il percorso da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita alla morte; una realtà che vale indistintamente per tutti, nessuno escluso: giorno dopo giorno, il nostro nome sale inesorabilmente al primo posto sulla lista di quelli che vengono chiamati; siamo tutti in attesa del nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.

“Attesa” e “Passaggio”: sono proprio queste due parole importanti che ci vengono proposte alla meditazione dal Vangelo di oggi.

“Vigilate, tenetevi pronti, perché non sapete quando il vostro Signore verrà”.

La nostra vita è dunque prima di tutto “attesa”. Una dichiarazione che apre a diversi interrogativi: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo dobbiamo condizionarci la vita nell’attesa di qualcuno che arriva quando vuole lui? Certo, tra le tante nostre preoccupazioni quotidiane, quella di aspettare l’incontro finale con Dio non rientra certo tra le più urgenti. Anche se “attendere”, “aspettare”, rientra tra le categorie mentali più frequenti e comuni della nostra vita: tutti, in qualche modo, siamo in costante “attesa” che prima o poi si realizzi qualcosa che ci riguarda: un buon lavoro, una famiglia, la sistemazione dei figli, una vita serena. Per questo elaboriamo sempre nuove possibilità, ricaviamo esperienze, proviamo emozioni, superiamo difficoltà, addirittura ci struggiamo, pur di ottenere sempre il massimo, in vista di un domani migliore. Tutti ci aspettiamo un futuro in cui essere finalmente felici, soddisfatti, ricompensati per tutti i nostri sacrifici. È una cosa naturale, normalissima per chiunque.

Salvo poi, arrivati ad un certo punto, dover ammettere a noi stessi di aver fallito, di non aver ottenuto la completa realizzazione dei nostri sogni.

La delusione più amara arriva in particolare per chi ha investito la propria “attesa” soprattutto sull’apparire, sulla realizzazione della propria immagine, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Ci accorgiamo di aver miseramente mancato il nostro obiettivo, di essere rimasti vittime delle gaudenti prospettive del mondo, delle sue continue trovate consumistiche, che con le loro lusinghe, ci hanno spinto in una obnubilante follia. E il rimorso per tale fallimento ci angoscia l’anima.

Noi cercatori di Dio, ancorché tiepidi, conosciamo bene la vera natura di quel malessere: sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita dell’uomo che la constatazione di essere rimasti sempre sordi alla “voce” di Dio, di aver tradito la sua fiducia, il suo amore, di aver trasformato l’attesa della sua venuta in totale “disattesa”. Per non aver saputo o voluto “aspettare”, come meritava, l’arrivo dello Sposo.

Abbiamo sbagliato, ce ne rendiamo conto: forse continueremo ancora a sbagliare, perché dimentichiamo facilmente che non è il “fuori”, il transitorio, il volubile, che può riempire la nostra anima, che può appagarla, saziarla. È il “dentro” che conta, è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con la carità, con le opere buone, che possiamo riempire di “olio” il vaso di scorta del nostro cuore, assicurandoci un incontro con Dio luminoso e sereno.

Certo, la morte è per molti un pensiero lugubre e fastidioso. “Gli uomini, non potendo evitare la morte, hanno deciso di non pensarci. Ma è un rimedio ben misero!”, scriveva Pascal.

Per il pensiero edonistico moderno, infatti, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è.

E invece no; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e ci ha inviati nel mondo per contribuire a perfezionare questa sua meravigliosa creazione, con l’impegno di tornare, ultimato il nostro mandato, nella nostra Casa d’origine. L’importante è non farsi cogliere impreparati, ma in vigile attesa, indossando la “veste nuziale”, muniti di una buona scorta di “olio”, prodotto lungo il nostro “percorso” terreno.

Non consideriamo una sciagura l’arrivo dello Sposo! Prendiamolo invece con la gioia di un evento importante e decisivo, di un ritorno tra le braccia del Padre, sempre amorose e spalancate, consapevoli in cuor nostro di non aver sprecato questa “attesa” con un “percorso” scellerato.

A volte, purtroppo, pensiamo scioccamente di essere immortali: siamo convinti che, dopo i 60-70 anni, raggiunta la famosa e sudata “pensione”, saremo finalmente liberi di starcene tranquilli, di dare una svolta significativa alla nostra esistenza, di iniziare cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. E in cuor nostro ci perdiamo in mille progetti. Ma siamo degli illusi! Per quante persone, purtroppo, questi progetti rimangono soltanto un miraggio, una fantasia! Null’altro che un sogno, cancellato dall’arrivo imprevisto e imprevedibile dello “Sposo”.

Non dobbiamo mai abbassare la guardia: perché il lavoro, le responsabilità, l’impegno, per raggiungere il Regno dei cieli non finiscono mai; in questo non c’è “pensione” che tenga!

Anzi, più gli anni passano, più dobbiamo impegnare seriamente il nostro tempo, consapevoli che l’arrivo dello Sposo si fa ogni ora più vicino.

Non serve più produrre per questo mondo, dobbiamo invece raccogliere per l’altro, per il Cielo; dobbiamo approfittare di questi giorni che il Signore ancora ci concede, per fare qualcosa di più importante, più decisivo perché il nostro incontro con Lui sia veramente meritorio. È vietato scommettere sul domani! Potrebbe non esserci un domani.

Ricordate come sono i giorni che precedono una partenza importante, un avvenimento da lungo atteso? L’eccitazione che cresce, la mente impegnata a ricordare le ultime cose da fare, le ore che scorrono freneticamente. Ecco, la nostra vita dovrebbe essere sempre così, carica di tensione, perché la nostra “partenza” finale da questo mondo, arriva improvvisamente, quando meno ce l’aspettiamo: “raptim”, scrive sant’Agostino, rapidamente, precipitosamente.

Non a caso il vangelo di oggi termina con la raccomandazione: “Vegliate”, “State svegli!”; a cui fa eco Luca, nel suo brano parallelo: “Estote parati!”, “Siate pronti!”.

Prestiamo allora la massima attenzione a questi inviti, non sottovalutiamoli, per non trovarci all’improvviso, proprio per la nostra superficialità, nella condizione di trovare la porta chiusa, di non venire riconosciuti dallo Sposo, e di rimanere chiusi fuori, lontani dallo splendore delle nozze e dalla calda Luce dell’Amore divino: una possibilità purtroppo concreta e reale. Amen.

 

 

giovedì 29 ottobre 2020

1° Novembre 2020 – Tutti i Santi

“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli” (Mt 5,1-12).

 Gesù non allontana le folle; Egli le ama, le richiama, e, in questo caso, addirittura le attira sul “monte” perché possano ascoltare, tranquillamente sedute, il suo messaggio.

Matteo non ci dice quale fosse questo monte: di certo non era un monte qualsiasi, ma “quel” monte, il Sinai, che tutti conoscevano anche senza nominarlo, perché su di esso Mosè aveva incontrato Dio ed aveva ricevuto da Lui il patto di Alleanza per il “suo” popolo.

Anche Gesù, come Mosè, sale su questo monte per dare a tutti i popoli la sua Nuova Alleanza.

Per gli antichi, i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): luogo sacro, luogo di terrore, di rispetto, di paura; con Gesù, al contrario, i “monti” diventano motivo di vita, di gioia, di trasfigurazione, luogo riservato all’incontro col Padre.

Gesù dunque sale su questo monte, e si siede: in greco è “kathìsantos”: più che sedersi, Gesù si “installa”, cioè si “mette nel suo posto esclusivo”, “prende possesso” della postazione riservata a Dio: Gesù, suo figlio, si siede quindi sul quel “trono divino” che gli compete, che gli spetta di diritto: è il suo “ambone” da cui proclamare la Parola, è la “cattedra” da cui impartire la sua lezione di “Maestro” divino.

“Gli si avvicinarono i suoi discepoli”: dopo averli “attirati”, perché è Gesù che “attira” anche loro, come fa con la folla. Il Dio di Gesù non è più un Dio scontroso, terribile e temibile, ma un Dio affabile che “attrae” tutti. Non è più un Dio da evitare, da allontanare, ma un Dio da incontrare, da avvicinare. Non un Dio vendicativo che punisce, ma un Dio che come una madre, ama tutte le sue creature. È un Dio che non pretende nulla di impossibile da noi, un Dio che al contrario è sempre pronto a dare Lui qualcosa a noi. Se pensiamo ad un Dio diverso, non stiamo seguendo il Dio del Vangelo!

Nella religione ebraica, prima della venuta di Gesù, le cose non stavano affatto così: per incontrare Jahweh nel suo Tempio, gli uomini potevano arrivare soltanto fino ad un certo punto: solo il sommo sacerdote poteva avvicinarlo, entrando, una volta all’anno, nella “sancta sanctorum”, la zona più interna e sacra vietata al popolo, in cui oltre a venir conservata l’Arca dell’alleanza, si riteneva che Dio fosse presente. Quindi tra Dio e il suo popolo c’era un “muro”, una netta separazione. Con Gesù, invece, tutto cambia, tutti possono avvicinarsi a Dio, confrontarsi con Lui, intrattenere con Lui un rapporto diretto. Per incontrarlo non esistono più impedimenti, non ci sono più prescrizioni o particolari condizioni (meriti; purità; peccato; sacralità, ecc.), non esistono più barriere.  

“Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo”.

Una volta sistemati i presenti, Gesù prende la parola e proclama otto “beatitudini”: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo, il numero otto indicava la “risurrezione” (“l’ottavo giorno”): Gesù infatti è resuscitato il “primo giorno dopo la settimana” (una settimana di 7 giorni + 1-il giorno dopo = 8). Matteo, che scrive per la gente di origine ebraica, molto attenta alla simbologia, vuol far capire che chi vive le “otto” beatitudini, vivrà da “risorto”, vivrà per sempre col “Risorto”, vivrà cioè una vita che non potrà mai essere interrotta dalla “morte”; a differenza di coloro che, osservando fedelmente i comandamenti di Mosè, avevano sì assicurata in premio una “lunga vita” su questa terra, ma anch’essi dovevano poi morire come tutti, e scendere nello Sheol. La pratica delle beatitudini di Gesù assicura pertanto, a quanti la seguono, una vita che va oltre la morte: quella vita nuova e gloriosa dei “risorti” in Gesù, che vivranno eternamente nell’amore del Padre.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.

È la prima beatitudine, e fa da premessa a tutte le altre: è la “conditio sine qua non” per poter concretizzare tutte le altre.

“Beati”, in ebraico “ascer”: sono coloro che vivono nella felicità Divina, quella felicità che è impossibile raggiungere su questa terra. Eppure, dice Gesù, Io vi dimostro che anche quaggiù, da subito, è possibile vivere decisamente felici, gioiosi, con la pace nel cuore, da “riconciliati”.

Dobbiamo essere però dei “poveri in spirito”; dobbiamo cioè vivere liberi da fini egoistici, da ogni condizionante preconcetto, da ogni egocentrismo; dobbiamo cioè possedere una mentalità aperta all’amore.

Gesù in sostanza pone come condizione prioritaria la nostra disponibilità a “riversare” concretamente sui fratelli quell’amore divinizzante che riceviamo dal Padre. Non si tratta quindi di limitarci ad una semplice elemosina materiale, ma di aprire completamente il nostro cuore e la mente a beneficio dei fratelli.

“Di essi è il regno dei cieli”. A tutti coloro che spendono il loro “spirito” per il prossimo, fino a diventare essi stessi “poveri”, è assicurato il regno di Dio. Da notare che Gesù usa qui un verbo al presente: non dice “sarà” ma “è”; in altre parole, siamo già “santi”, da subito; il regno dei cieli, l’amore del Padre, la nostra “vita” santificata” per l’eternità, sono già possibili da ora, a condizione che il nostro stile di vita rispecchi fedelmente le beatitudini.

Oggi è la solennità di tutti i Santi del Cielo: ma è la festa anche di coloro che sono “beati” già qui su questa terra, perché vivono la loro vita donando sé stessi. È la festa di quei beati che, sull’esempio di Gesù, vivono per amare, per far del bene al prossimo, per confortarlo nelle difficoltà, per guarirlo nelle ferite dell’anima, per sostenerlo nelle contrarietà della vita. Sono insomma “beati” perché amano.

“Amare” è un po’ come “creare” una nuova vita: è dare agli altri un qualcosa di noi stessi; un qualcosa che li faccia “rinascere”, un qualcosa per cui possano riconoscere quanto è grande l’amore di Dio per ognuno di noi.

È così che i “beati” della terra sono diventati i “Santi del cielo”; è così che anche noi possiamo diventarlo sul serio, creando, nel prossimo, nuovi motivi di vita, di gioia, di riconoscenza a Dio.

“Vuoi essere eternamente felice? Vivi così”, ci ripete oggi Gesù con la sua proposta evangelica: sta solo a noi accettarla, e riempire questo nostro “passaggio” terreno, di pace, di gioia, di amore, di serenità: in una parola, di Dio. Amen.

 

  

giovedì 22 ottobre 2020

25 Ottobre 2020 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

“Uno dei farisei, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”              (Mt 22,34-40).

 Solita domanda provocatoria del “sapientone” di turno. Al tempo di Gesù erano 613 i precetti della Torah, la Legge mosaica: 365 negativi e 248 positivi. Stabilire quale fosse il più importante era praticamente impossibile, poiché per gli scribi ebrei, tutti indistintamente, erano importanti e obbligatori.

La risposta di Gesù anche questa volta è molto semplice e risolutiva: Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Ama il prossimo tuo come te stesso”. Punto. Gli bastano questi due “consigli” per rendere superflue le innumerevoli prescrizioni dell’antica legge: uno sfoltimento veloce e radicale! Per lui l’amore è il solo, grande, unico, comandamento: uno stesso  amore, esclusivo, per due entità: Dio e il prossimo.

Qualcuno lo identifica come il “comandamento dell’amore”. Ma è una definizione inesatta, perché l’amore non si “comanda”. Nessuna legge potrà mai costringere qualcuno ad amare, perché l’amore ha una vita sua, è indipendente, libero, autonomo, spontaneo; non si impone, non si può pretendere: un particolare, questo, che automaticamente ci mette in crisi, ci rende deboli, vulnerabili, impotenti; perché ci fa capire che non esistono soldi, lusinghe, armi, punizioni, con cui poterci assicurare l’amore, con cui poter costringere qualcuno ad amarci; poiché è impossibile pretendere che qualcuno nutra per noi un sentimento che non ha, che non sente, che non prova: o ci ama spontaneamente, perché ci considera persone degne e meritevoli, oppure dobbiamo arrenderci, dobbiamo accettare questo nostro limite senza recriminare, anche se la cosa ci disturba, anche se ci ferisce in profondità, nella nostra autostima.

Chi nella vita non è entrato in crisi almeno una volta di fronte a qualcuno che si è rifiutato di ricambiare il nostro amore, la nostra amicizia, di fronte ad un “no” esplicito e irrevocabile? Sicuramente la maggior parte di noi!

Ma non demoralizziamoci per questo; non consideriamoci gli unici incompresi della terra, gli unici “rifiutati”, disprezzati, abbandonati del mondo! Non facciamo le vittime. Nel vissuto non possiamo pretendere sempre un “si”, negando la possibilità anche di un “no”. Entrambi i casi sono l’espressione della libertà altrui, del diritto di ciascuno di assecondare i propri sentimenti.

Se vogliamo essere veramente amati, se vogliamo che gli altri ci dicano un gioioso “si”, dobbiamo essere noi a meritarlo, con la nostra vita, con il nostro comportamento, con la nostra sincerità.

Gesù, con la sua risposta, non intende “lanciare” un nuovo comandamento: semmai vuol chiarire le antiche prescrizioni del Deuteronomio: “Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5), e del Levitico: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Regole che ogni ebreo conosceva perfettamente, dovendole recitare puntualmente mattino e sera.

Gesù non modifica nulla, dice semplicemente: “Fate attenzione perché ora vi spiego per bene cosa comporta amare: che chi ama Dio, ama anche l’uomo. E chi ama veramente l’uomo, non può non amare Dio”. Tutto qui, poche parole ma importanti: è lo stesso amore che va riservato ad entrambi: “Chi ama Dio ama il prossimo, e chi ama il prossimo ama Dio”. Sembra un gioco di parole: in realtà esprime due aspetti di un identico concetto, strettamente connessi tra loro. Due concetti che Gesù con la sua vita, con le sue parole, con i suoi gesti, ce ne ha confermato tutto il valore e la portata.

Noi purtroppo non siamo ancora riusciti a capirli fino in fondo questi concetti.

Noi, cristiani della strada, siamo ancora convinti che il nostro amore abbia due valori ben distinti: continuiamo a tenerlo ancora ben diviso, convinti che l’amore per Dio, in verticale, sia più importante, valga molto di più di quello in orizzontale, per il prossimo: “Monaci, preti, frati, suore - quelli santi - quelli sì che amano come si deve, in maniera giusta: quelli sì amano Dio!”, pensiamo noi: per loro esiste solo Lui, tutto il resto, compreso “il prossimo”, non può competere con Lui; la loro è l’unica scelta di vita valida, altamente meritoria, poiché l'amore per gli altri, per i propri fratelli, l’amore “umano”, è un sentimento inferiore, meno ascetico, meno nobile, più “terreno”, un sentimento che deve essere necessariamente “purificato”, spiritualizzato, sublimato.

Ma Gesù non condivide la nostra idea e dice no! Non ci sono diverse categorie di amore, l’amore è uno solo, uguale per tutti: se diciamo di amare Dio, dobbiamo dimostrarlo con i fatti amando i fratelli. Altrimenti possiamo anche essere preti, frati, suore, ma se nei confronti del prossimo siamo dei manipolatori, dei falsi, dei profittatori, è inconcepibile pensare che amiamo Dio. Possiamo raccontare tutte le più belle storie del mondo, ma se trattiamo male gli altri, se li mortifichiamo, se li calpestiamo, se li possediamo, mai, in nessun caso, noi amiamo Dio, non c’è scampo. Siamo degli imbroglioni.

Ovviamente, per poter amare gli altri come chiede Gesù, dobbiamo prima immedesimarci completamente nell’amore che è in noi. Perché siamo “noi” il segno tangibile dell’amore di Dio; siamo noi, per definizione, l’immagine dell’Amore; un amore che non è “altro” da noi, ma siamo noi, è Dio che vive in noi da quando siamo nati, nella nostra anima. Noi infatti esistiamo primariamente per essere amati e per amare: per essere amati da Lui, e per amare Lui e i nostri fratelli.

L’amore quindi non è un sentimento da “conquistare”, ma semplicemente da “liberare” dal nostro cuore, dalla nostra anima, dalla nostra mente. Per cui amare significa appunto far esplodere all’esterno tutta la nostra vita interiore, liberare tutta la passione e la forza che portiamo dentro; significa adeguarsi a quel Dio creatore che abita in noi, nel nostro cuore; significa essere “spalancati” all’amore dello Spirito e alla forza della Vita, inspirarli a pieni polmoni, e riversarli sugli altri, in un flusso carismatico continuo.

L’amore per Dio e per il prossimo, se è solo predicato e raccomandato, se è sola esibizione, se non è vissuto, è squallida manipolazione, scadente surrogato, vana infatuazione.

Non lasciamo spegnere allora il nostro amore. Non permettiamo che altri spezzino le nostre ali. Dio ci ha fatti per librarci in alto, nel cielo, non per grufolare nel fango. Se abbiamo perso la fiducia in Lui, se siamo stati feriti dagli altri, se siamo diventati cinici, risentiti, offesi, scuotiamoci! Le ali le abbiamo ancora: sono solo danneggiate, apparentemente inabili…

Lui, il nostro Medico, è sempre pronto a riabilitarci. Paradossalmente sembra dirci: “ama, e se sbagli, se vai fuori strada, pazienza! Nell’amore è meglio sbagliare per eccesso, che per difetto”.

Di fronte a tale prospettiva, tutto il “visibile”, tutta l’esteriorità del nostro essere cristiani: strutture, gruppi, ministeri, devozionismo, carismatismo, celebrazioni, chiesa, tutto passa in second’ordine; tutto è accessorio, tutto viene “dopo”. Perché “prima”, l’unica cosa imprescindibile, assolutamente necessaria, essenziale, è l'Amore: è amare Dio e i fratelli e lasciarsi amare. Da subito. Qui e ora. Amen.

  

giovedì 15 ottobre 2020

18 Ottobre 2020 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

“Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”         (Mt 22,15-21).

Possiamo sintetizzare il testo del vangelo di oggi attraverso poche ma incisive immagini: una riunione tra incapaci, un accordo subdolo e scellerato, l’intervento di discepoli falsi, untuosi e melliflui, una proposta trabocchetto per Gesù.

È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, approfittano della loro posizione per compiere liberamente i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, da lui indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai un nemico acerrimo da combattere: per quella gente Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, arriva a discreditarle apertamente! Si riuniscono pertanto per decidere sul da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta, e riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro progetti perversi, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!

Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con delle lodi chiaramente affettate, esagerate, false: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente a satana, il tentatore: Matteo usa qui infatti la stessa terminologia che ritroviamo nel racconto delle tentazioni.

Finiti i convenevoli, il gruppetto scopre immediatamente le carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento spinoso, controverso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente equivale a dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; dicendo “sì”, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse e quindi, riconoscendo l’invasore come “il signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); dicendo invece “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, scegliendo da solo la propria morte, veloce e sicura.

Vista la situazione, Gesù la capovolge immediatamente. E lo fa magistralmente, ignorando la loro provocazione e spostando i termini del discorso su un altro piano: “Mostratemi la moneta del tributo”.

Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio del “divino” imperatore.

Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa significa? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma la risposta continua: “Rendete a Dio quello che è di Dio”.

I doveri quindi sono due: uno nei confronti dello Stato, del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio.

Gesù non perde occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In altre parole, con un tono piuttosto irritato, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, che vi ritenete i depositari dell’alleanza di Jahweh con il suo popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi invece cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi, predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo; vostro unico dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.

Il racconto ci offre infatti due spunti di meditazione, uno sulla domanda e l’altro sulla risposta di Gesù. Vediamoli nel particolare.

Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine incisa sulla moneta richiama la persona che l’ha fatta coniare, decide quindi chi ne è il proprietario: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui, gli appartiene e a lui deve tornare.

Un discorso ovvio, che implica però considerazioni paritetiche: sappiamo infatti che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare! Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile dipendenza da Dio, significa tradire la vita che lui ci ha donato, significa vivere una non vita, cadere in un falso vivere, in una finzione esistenziale: per cui qualunque nostro legame ad altre realtà che non siano Dio, qualunque attaccamento a persone, a cose, al mondo intero, svilirebbe, deturperebbe la nostra somiglianza divina, ci renderebbe schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremmo mai più completamente liberi, assolutamente liberi, come prima.

Ci capita mai, guardando il cielo stellato, ammirando la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci “parte” di tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, una nostalgia di cose grandi, immense? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, a chi apparteniamo, chi è la nostra vera madre, il nostro vero padre (Dio l’Altissimo).

Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare, dello Stato”: è quindi nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi ci arricchiamo e gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere.

Ma la risposta di Gesù si presta anche ad un’altra considerazione: non basta restituire il dovuto a Cesare, non basta riconsegnare la nostra anima a Dio; c’è un altro dono essenziale, di proprietà divina, che Dio concede in uso all’uomo, e che gli deve essere restituito: la vita! Ogni giorno, infatti, Dio ci offre gratuitamente la meravigliosa possibilità di poter dire: “Sono vivo!”.

Purtroppo la vita per molti è un fatto scontato: non lo apprezzano, non sanno che farsene del tempo: giornate, mesi, anni che hanno a loro disposizione; continuano a lamentarsi con Dio per qualunque banalità, piuttosto che ringraziarlo umilmente per questo suo incalcolabile dono.

La vita è un dono che va custodito, onorato, amato: non ci è “dovuta”, non ci appartiene, un giorno infatti dovremo riconsegnarla nelle mani di Colui che ne è il padrone assoluto. Finita la vita presente, non ne abbiamo un’altra di scorta con cui poter rimediare al tempo sprecato in questa: quello che non facciamo oggi non potremo farlo mai più.

Viviamola allora seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo solamente di questa per amare, agire, provare, sentire, per realizzare i nostri ideali, per diventare insomma ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.

Non lasciamoci condizionare dal timore di sbagliare, dal giudizio della gente, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere pienamente. Rimaniamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ascoltiamo ciò che il nostro corpo ci grida: “Voglio vivere: voglio sentire la fragranza dei prati, della natura in fiore, il profumo del mare; voglio provare la gustosità del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi per i miei progressi, correre, ridere spensieratamente, svagarmi, accarezzare, abbracciare, amare; voglio piangere quando sto male, condividere il dolore degli altri, commuovermi per la loro gioia; voglio inseguire i miei sogni, lottare per un mondo migliore e sentire che il tempo che mi è stato concesso non sta fuggendo invano, ma ha un senso profondo e meraviglioso per me e per il mondo intero. Sì, voglio vivere!”.

Se arriveremo a tanto, quando moriremo saremo in grado di restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: ci troveremo ancora, cioè, nel pieno della vita. A Dio che ce l’ha consegnata, riconsegneremo allora una vita palpitante, con tutto il suo entusiasmo, con tutto il suo fascino: certamente non nella immobilità mortale dei rinunciatari, dei falliti, di quanti si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.

L’uomo si lamenta, impreca, quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare, non sa viverle adeguatamente quando sono nella sua disponibilità; non capisce che all’amore si risponde con amore: che per amore ha ricevuto la sua vita, e con amore deve restituirla al suo donatore. Amen.

 

giovedì 8 ottobre 2020

11 Ottobre 2020 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

 

“Il regno dei cieli è simile ad un re, che fece una festa di nozze per suo figlio…” (Mt 22,1-14).

 La parabola di oggi paragona il Regno di Dio ad un banchetto nuziale: una immagine molto accattivante, molto conosciuta e comprensibile a tutti. Quale occasione infatti è più aggregante e gioiosa per parenti e amici di un matrimonio da favola, con un sontuoso pranzo di nozze?

Le nozze celebrano l’unione di due persone, sanciscono l’amore, la comunione di due cuori; sono l’apertura di una finestra sul mondo della speranza, della novità di vita, della intensità di sentimenti.

Non a caso i contemplativi parlano di nozze dell’anima con Dio, per indicare l’incontro intimo, il matrimonio celestiale, l’unione mistica dell’anima col suo Sposo divino.

Ai nostri giorni, essere invitati al matrimonio di una personalità molto importante, è una circostanza impegnativa, di grande rilievo, molto ambita e apprezzata, un segno di particolare stima, di amicizia, di considerazione.

E lo era anche ai tempi di Gesù: le nozze erano considerate un evento importantissimo, duravano una settimana, il banchetto era fornitissimo, straricco, e per chi riusciva a malapena a mangiare una volta al giorno, era un’occasione imperdibile; il non andarci era impensabile, perché rifiutare l’invito significava, sì perdere un lauto pranzo gratuito, ma soprattutto offendere gravemente gli sposi: era un affronto, cui spesso potevano seguire spiacevoli conseguenze. Tant’è che il re della parabola, indispettito per il rifiuto degli invitati, non capacitandosi di tanta stupidità, manda per ripicca i suoi servi nelle piazze, nei crocicchi, per le strade, per invitare a nozze chiunque incontrino.

Cosa vuol dirci Gesù con questa parabola? Il significato più semplice, quello evidente, è che uomini e donne, vecchi e bambini, saremo un giorno tutti invitati all’eterno banchetto celeste: tutti; anche quelli più umili, quelli più poveri (gli straccioni), quelli, in una parola, che sono considerati il rifiuto della società. Ad un’unica condizione però: che tutti ci presentiamo indossando la veste nuziale: ossia tutti dobbiamo indossare la veste della “grazia di Dio, nuova, immacolata, o quantomeno lavata e stirata dal Sacramento della Penitenza e dalle “opere buone”.

Ma non basta: questa parabola ci offre, per l’immediato, anche un’altra interessante spiegazione: quel banchetto nuziale, cui tutti siamo invitati a partecipare, si tiene nell’anima di ciascuno: Dio invita tutti ugualmente ad entrare in quella personalissima esperienza di amore, di felicità, di intimità con cui il Figlio celebra le sue nozze perenni col nostro cuore, con la nostra anima.

Entrarvi, significa entrare nell’intimità con Dio, rapportarsi con Lui nella nostra coscienza, e conseguentemente, dare un senso alla nostra vita.

Quando il cuore e l’anima dell’uomo entrano in simbiosi con Dio, l’unione mistica che si instaura tra di loro, altro non è che una pallida anticipazione dello stato di perenne beatitudine che proveremo nel banchetto paradisiaco.

Gesù ci invita caldamente quindi a “partecipare” a questo banchetto, a saziarci di Lui, a “vivere” la nostra anima, e questo fin da subito, immediatamente. Viviamola allora la nostra anima, viviamola intensamente, non abbandoniamola, non ignoriamola, non oltraggiamola.

Se oggi la gente è depressa, esaurita, non ha più voglia di vivere, è perché ha dimenticato di avere un’anima, ha dimenticato completamente di rifugiarsi in essa, di trovare in essa la soluzione di tanti nostri problemi, instaurando un colloquio intimo, umile, sincero, con lo Spirito di Gesù, che l’ha scelta a sua stabile dimora.

Un quarto degli italiani prende farmaci contro l’ansia e la depressione: c’è chi li prende per dormire, chi per alzarsi la mattina, chi per non deprimersi, chi per controllare l’aggressività, chi per sopportare le contrarietà della vita. In una parola per “sopportare” la vita. Ciò che dovrebbe essere fonte di felicità, è diventato un peso da sopportare: perché tutto appare vuoto, inutile, tutto è vertiginosamente proiettato all’esterno; l’introspezione, la meditazione, la moderazione, sono categorie sconosciute all’uomo d’oggi, sono “out”. Adesso tutto è proiezione “estrema” della persona: attività estreme, sport estremi, viaggi estremi, esperienze estreme, vacanze estreme, sesso estremo. Il vivere “ordinario” non offre più niente, non emoziona più, non ha più stimoli apprezzabili.

Purtroppo però non ci accorgiamo che dopo lo “sballo estremo”, segue il collasso psichico, la depressione, la disperazione: guardandoci alle spalle ci rendiamo conto di aver ignorato e calpestato i limiti di un sano equilibrio, di aver sperperato ogni possibilità di ascoltarci nel profondo, di seguire quei suggerimenti che Dio, pazientemente, continua ad inviare al nostro cuore, all’anima, alla mente. Abbiamo, in poche parole, soffocato stoltamente la nostra anima.

Ma cosa vuole esattamente da noi quest’anima? Semplice. Vuole la nostra salvezza, il nostro star bene, il nostro andare incontro a Dio, lo Sposo; l’anima vuole il meglio per noi, per la nostra vita spirituale, vuole suggerirci i motivi veri per cui valga la pena di vivere.

Ci siamo mai chiesto “perché” viviamo? Quale sia lo “scopo” ultimo della vita? Proviamo a chiederlo alle persone che ci stanno intorno, a quelle che incontriamo: “Perché vivi?”; vi assicuro che le risposte saranno tutte di una banalità spiazzante, perché nessuno conosce più la ragione unica, importante, vera, profonda, trascendente per vivere: c’è chi vive per il lavoro, chi per il denaro, chi per fare carriera, chi per i figli, chi perché “questa è la vita che fanno tutti”! Nessuno si sognerebbe più di rispondere: “Per amare e servire Dio fedelmente”.

Ma se ignoriamo questo motivo fondamentale, vuol dire che alla nostra vita manca autenticità, vuol dire che tiriamo a campare, trascinando i giorni, senza alcun mordente; vuol dire che siamo pronti a cogliere al volo qualunque occasione, anche quelle più astruse e inconcludenti, pur di dare una parvenza di senso alla nostra vita.

Non penso di esagerare: è sufficiente guardare le “moderne” trasmissioni televisione: un concentrato di nullità, che ogni giorno esibisce una miriade di deficienti (nel senso che hanno un deficit di anima) orgogliosi di fare sfoggio nei loro interventi di una preoccupante insipienza; gente che si cimenta in comparsate insulse, che paga un prezzo esoso in termini di dignità, pur di “esserci”, di essere ammirati, notati, imitati: “influencer” è l’etichetta ambita cui aspirano tutti i nullafacenti professionali di oggi!. Tutta gente che pur di provare un soffio di notorietà, ancorché insignificante, si abbassa a fare di tutto.

Ma cos’è che fondamentalmente manca a questa società? Manca la percezione della presenza di Dio, manca la percezione dell’anima. Non la sentono più, non sanno neppure cosa sia. Non a caso le discoteche, sempre zeppe di giovani, stordiscono con una musica che collassa, che copre e annienta tutto: con migliaia di watt sparati nelle orecchie, in uno stato confusionale e catatonico per alcool e droga, non c’è discorso, non c’è emozione, non c’è ispirazione dell’anima che tenga: ci si immerge tragicamente nel nulla.

Purtroppo i risultati di tali alienazioni sono quotidianamente trasmessi dai telegiornali.

È una difficile e drammatica situazione: ma l’invito di partecipare alle nozze regali vale anche per loro, per questi “storpi”, questi “zoppi”, questi “ciechi”.

Spetta a noi il compito di aiutarli nella ricerca della veste nuziale appropriata da indossare: con il buon esempio, con l’umiltà, con la carità: anche se sappiamo, in cuor nostro, di non essere proprio dei santi. Perché anche noi talvolta ci “perdiamo” per strada, viviamo da “frastornati”, in sbandamenti spiritualmente preoccupanti; capita purtroppo anche a noi di buttarci allo sbaraglio, di “fuggire” dalla “prigione” della nostra anima. Come facciamo allora a sentire Dio, i suoi suggerimenti, la sua voce? Come possiamo entrare nel banchetto nuziale della nostra anima, se ci lasciamo risucchiare dal vortice dei “piaceri” esteriori?

Dobbiamo fermarci: tiriamo i freni, usciamo dall’autostrada invitante e comoda di questo mondo provvisorio, facciamo uno stop, imbocchiamo a piedi quel sentiero solitario e silenzioso che porta al nostro cuore e ascoltiamoci! Facciamolo, perché il vero coraggio, quello autentico, non sta nel combattere contro i mulini a vento, contro gli specchietti per le allodole, ma nell’ascoltare la propria anima, nell’obbedire alla propria coscienza, al proprio cuore.

Fermiamoci e ascoltiamoci: e se sentiamo dentro di noi qualcosa che ci tormenta, qualcosa che ci rende insoddisfatti, se sentiamo un senso di vuoto, un senso di tristezza, di depressione diffusa; se proviamo disagio a vivere la nostra chiamata, la nostra vocazione cristiana; se siamo insofferenti delle nostre scelte di vita: del matrimonio, della famiglia, della vita religiosa, del vivere impegnato; se ci sentiamo ingabbiati in qualcosa che non riusciamo a capire, allora vuol dire che stiamo vivendo male la nostra anima; vuol dire che stiamo vivendo “il male” che è dentro la nostra anima; in una parola stiamo provando tutto il disagio di un’anima che si è allontanata da Dio.

Un disagio che soffoca la nostra vita, che ci impedisce di accedere al nostro banchetto di nozze, di vivere la festa, la gioia, l’amore con Dio, lo Sposo.

Oggi purtroppo sono poche le persone che conoscono il piacere che viene dall’anima. Tutti cercano il piacere, nessuno cerca l’anima. Ci accontentiamo dei surrogati di felicità: ci copriamo di “giocattoli” costosi (auto, gioielli, telefonini, vestiti, ecc); cerchiamo esperienze inebrianti ai limiti dell’assurdo, ci tuffiamo nel virtuale (internet) isolandoci dal reale; cerchiamo ogni tipo di piacere: del sesso, della tavola, della gloria, della notorietà.

Ma in profondità percepiamo la mancanza di un qualcosa di “vitale”. Sentiamo l’assenza proprio di ciò che nessuno può comprare, che nessuno può regalare, se non Dio stesso: la nostra anima, il soffio di Dio, la carezza dello Spirito.

E allora: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che serve?! Amen.



giovedì 1 ottobre 2020

4 Ottobre 2020 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

"Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano…" (Mt 21,33-43).

 Per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci ripropone il tema della vigna del Signore. Prima abbiamo visto la parabola degli operai dell'ultima ora e del padrone buono, poi quella del comportamento contraddittorio dei due figli; oggi abbiamo quella dei vignaioli assassini che vogliono impossessarsi della vigna e finiscono per uccidere, oltre agli incaricati alla riscossione, anche il figlio del padrone.

Da notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Il padrone di oggi, poi, va addirittura oltre ogni aspettativa, rasenta addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene ucciso.

L’allusione è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo ebreo. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servitori sono i profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato nella sua “vigna” per richiamare il popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. Alla fine Dio ha inviato anche suo Figlio, e di fronte alla sua crocifissione e morte, ha trasferito altrove il suo Regno, fondandone uno nuovo con altri popoli. È il primo grande esempio, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio si ferma dove viene accolto, altrimenti, in punta di piedi, se ne va.

La vigna è il segno dell’amore infinito di Dio, è la proposta di felicità completa, di vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli si rivolge automaticamente ad altri popoli, ad altri contadini.

Storia del popolo ebreo dunque: un popolo che inizialmente accolse il Dio Vivo con grande entusiasmo; ma poi lo respinse, lo uccise. Il Regno fu allora destinato ai seguaci di suo Figlio, ai discepoli di Cristo, a quanti, col battesimo, abbracciarono la fede cristiana. Sorsero allora comunità cristiane fiorentissime: Filippi, Tessalonica, Corinto, Cartagine, Efeso. Servitori mandati da Dio, come Paolo, Cipriano, Agostino, vi dedicarono anni di duro lavoro conseguendo grandi affermazioni. Ma anche queste colonie pian piano sono capitolate.

Oggi, in quelle terre, non c’è più traccia del primitivo cristianesimo fervente; col tempo la fede si è spenta e Dio se ne è migrato altrove, in altre nazioni. Un fenomeno che puntualmente si ripete lungo i secoli: quando la fede di un popolo si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quella fede muore, e la Vigna di Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce altrove.

Questo dovrebbe preoccuparci seriamente, perché oggi anche i nostri paesi occidentali sono giunti al limite: non è detto che in Europa, come pure nella nostra cattolicissima Italia, in un domani ormai già in atto, non possa succedere altrettanto.

Anche da noi la fede sta purtroppo perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo entusiasmo, la sua vitalità; di questo passo, tra breve, non ci sarà più traccia di quel cristianesimo profondamente vissuto e amato dai nostri padri. Esattamente come prospettatoci dal vangelo di oggi.

Gesù, il figlio del Dio creatore e organizzatore della “vigna”, è stato mandato tra gli uomini, i contadini, nel nome dell’amore, della bontà, della guarigione, della non-violenza; è venuto per dare a tutti una vita piena e sensata. Ma poi, quei vignaioli perversi, lo hanno rifiutato.

E anche noi, attuali lavoratori, continuiamo come loro a rifiutare Gesù. Perché? Forse non è abbastanza buono? Non dimostra di amarci abbastanza? Ci sentiamo ingannati? No, al contrario! Egli ci guarisce, ci fa risorgere, ci sfama, ci perdona, ci illumina; ci fa sentire in tutti i modi che ci ama perdutamente. Allora lo rifiutiamo perché ci dice la verità? Perché non asseconda i nostri giochetti sporchi?

Conosciamo tutti la sua vita, i suoi insegnamenti, ma non adeguiamo la nostra di vita, non ci convertiamo. Ascoltiamo le sue parole, ma il nostro cuore non si lascia contagiare. Possiamo sperimentare quotidianamente le sue meraviglie, ma la nostra mente è ormai chiusa in discussioni teologiche, in distinguo improponibili, con lo scopo di crearci un alibi per continuare ad ucciderlo impunemente e vanificare la sua presenza sulla terra. Ci fa troppa paura.

Ma siamo dei poveri illusi: come al solito non capiamo nulla!

Cosa dovrebbe fare Gesù più di quanto ha fatto? Cosa dovrebbe promettere a noi vignaioli più di quanto ha già concretamente promesso? Cosa dovrebbe dimostrare ancora, per essere accettato, amato, accolto nel nostro cuore?

Cosa dovrebbero fare di più per convincerci le migliaia di suoi incaricati, tutti quei suoi ministri, umili e santi preti, che vivono coerentemente e convintamente la sua Parola? Cosa potrebbero dirci o dimostrarci di più quelle innumerevoli prediche, pubblicazioni, trasmissioni mediatiche, fatte in nome del Vangelo? Assolutamente nulla!

Abbiamo avuto e sentito tutto; tutta questa “grazia”, dovrebbe esserci più che sufficiente, come scriveva Paolo ai Corinzi (2Cor 12,9): solo che purtroppo, nella nostra “infermità”, rimaniamo impenetrabili, non assorbiamo nulla: siamo fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno; non vogliamo vedere la bontà che c’è attorno a noi, di chi ci aiuta, di chi ci sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i loro difetti, le loro lacune, le loro debolezze, senza mai riuscire ad apprezzare il bene, la cortesia, la gentilezza, la premura, con cui essi ci circondano.

A volte ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno di essi viene a mancare. Soltanto quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse importante, di quanto ci amasse. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore, finalmente, si aprono: ma è ormai troppo tardi.

Allora, perché non farlo prima? Perché rimanere talmente incentrati nel nostro ego da lasciare che un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, basti a distruggere migliaia di gesti d’amore?

Siamo la copia esatta dei vignaioli: come loro dimostriamo solo egoismo: vogliamo possedere, possedere, possedere tutto anche l’impossibile: ma la “vigna” non è nostra. Noi dobbiamo solo renderla fertile e fruttuosa: dobbiamo lavorarla, amarla, custodirla, senza poterla possedere. Non ci appartiene! La vigna è la nostra vita. Non è nostra! Non ne siamo i padroni, non possiamo campare alcun diritto su di essa, prima o poi dovremo lasciarla, anche se in realtà ci comportiamo come se fossimo immortali. Illusi! Non ci rendiamo conto che possiamo al massimo decidere come vivere, mai di vivere “per sempre”!

Tutto è dono, tutto ci è gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo dobbiamo fidarci di Lui, abbandonarci a Lui, alla Vita; perché noi tutti siamo nelle sue mani: esistiamo, siamo vivi, ma non siamo “nostri”!

Quanta pazienza ha Dio con noi! Anche quando, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, quando cerchiamo di sovvertire l’ordine, quando non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio non ci abbandona; anzi ci manda continui “messaggi”, degli avvertimenti importanti: “Stai attento perché le cose così non vanno!”. Ma noi molto spesso non ce ne curiamo, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di nulla. Come possiamo allora pretendere che Dio ci parli, si faccia sentire, se siamo noi a non volerlo ascoltare?

Eppure, quando leggiamo questa parabola, non possiamo ignorare la correttezza del messaggio, e dire in cuor nostro: “Che mascalzoni quei contadini! Come hanno fatto a non capire? a comportarsi così? Pensavano forse di farla franca?”.

Già, loro sono stati stupidi, mascalzoni, assassini, ma noi? Noi li accettiamo i “messaggi” che Gesù ci manda?

Eppure sono tanti e frequenti: quando siamo insoddisfatti, quando siamo nervosi, irritabili, quando non proviamo più stupore, né gioia, quando non ci entusiasmiamo più per nulla; quando la vita religiosa è un peso, la Chiesa è un peso, la famiglia è un peso; ecco, sono tutti segnali della nostra anima che langue, che sta morendo. Sono messaggi importanti. Non illudiamoci attribuendoli al super lavoro, ad un periodo critico, pensando che prima o poi tutto si sistemerà. Non è così, purtroppo. I segnali che Dio ci manda vanno ascoltati. Non comportiamoci come i vignaioli omicidi.

Quella di oggi è una parabola tragica, che ci deve veramente far riflettere: è la storia di Dio e dell’umanità, la nostra storia, la storia di Dio e noi, delle nostre incomprensioni; è la storia di un dolore, il dolore di Dio, che noi alimentiamo con i nostri continui rifiuti.

È la storia di Dio, questo Dio sconsiderato, che insiste, si ripete, che continua a mettere a repentaglio la vita del Figlio, inviandocelo vivo ogni giorno nell’Eucaristia: pensando, così, di suscitare in noi quel rispetto, quell’adesione, dovuti al suo infinito Amore, al gesto estremo di un Padre, come sovrumana e impensabile prova d’amore, meritevole di essere finalmente da noi compresa e ricambiata! Amen.

 

 

venerdì 25 settembre 2020

27 Settembre 2020 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

 “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò!” (Mt 21, 28-32).

 Non dobbiamo stupirci se Gesù oggi insiste nel proseguire la lezione di domenica scorsa, impartendoci un ulteriore insegnamento, altrettanto provocatorio, altrettanto indigeribile, ma altrettanto essenziale.

Il nostro Dio, cioè, non gradisce l’esteriorità, il manierismo, i giochetti politici; non ama il doppio gioco, il nostro far vedere una cosa e pensarne un’altra, esibire in chiesa una grande devozione, come espressione di una fede profonda, e poi, appena fuori, far finta di nulla e rivestirci disinvoltamente di tutte le nostre misere furbizie: sono cose che conosciamo già molto bene. Ma conoscerle non basta!

Perché se c’è una cosa, una soltanto in particolare, che manda su tutte le furie il nostro Padre misericordioso, una cosa che lo irrita profondamente, non è tanto il peccato, il mancargli di rispetto, ma l’ipocrisia sistematica: cioè quel continuo volergli presentare per buone, sincere e convinte le nostre intenzioni, le nostre azioni, la nostra vita, quando invece, noi per primi, sappiamo bene che non lo sono. Diversità

Potremmo dire che la parabola di oggi stabilisce la fondamentale differenza tra il “dire” e il “fare”: è in pratica il racconto di due figli che di fronte all’ordine del padre di andare a lavorare nella vigna, rispondono in maniera opposta: il primo dice “sì” ma “non ci va”, l’altro dice “no” ma poi, ripensandoci, obbedisce all’ordine del padre. Ebbene: è esattamente questa inaffidabilità, questo comportamento irrispettoso, inconcludente, menefreghista, che Gesù stigmatizza.

Entrambi i figli reagiscono negativamente: tuttavia Gesù dimostra di preferire tra i due il ribelle, il contestatore, quello che impulsivamente dice “no”, quello che ha il coraggio di esprimere con franchezza il proprio pensiero, senza temere di esporsi, di mettersi in discussione; quello che poi, ragionando con calma in cuor suo, decide di obbedire al padre e va a lavorare; per Gesù questi è decisamente più rispettabile dell’altro che, preoccupato di mantenere la sua immagine di figlio educato, rispettoso, perfetto, gli risponde “sì”, ma in realtà non muove un dito.  

In altre parole, Gesù fa qui capire di non gradire da parte dei suoi figli, della sua Chiesa, una risposta inconcludente, una religiosità di facciata, epidermica, senza senso, che si ferma superficialmente al rito, all’esibizione canora, all’omelia reboante, ad una fede ostentata, infruttuosa: espressioni indicative di una religiosità deformata, arida, asservita all’umano, assolutamente inefficace per poter vivere fedelmente in Lui, per approfondire, amare e diffondere nel mondo la sua Parola.

Purtroppo oggi, nella progressiva scristianizzazione della società, sono sempre più numerose le persone che irridono il Figlio di Dio, alla stregua dei pagani del Suo tempo, vivendo nel disinteresse e nell’ignoranza religiosa! Persone che si comportano in totale contraddizione con quel che professano di credere; cristiani che hanno adottato uno stile di vita accomodante, in contrasto con quel “Credo” che a voce alta professano ogni domenica davanti alla comunità; cristiani che esternamente rispondono sempre con un “sì”, che poi puntualmente nella realtà si rivela un “no”! Persone sorde alla chiamata di Dio, insensibili alle vibrazioni spirituali dell’anima, indifferenti alla passione e all’amore divino che infiamma i cuori.

Sono tante, tantissime, troppe.

Purtroppo siamo tutti assimilabili un po’ a quel pagliaccio di figlio che risponde “si” senza concludere nulla, deludente icona della nostra cristianità parolaia!

Succede però talvolta di immedesimarci anche con l’altro figlio: quando infatti Dio ci affida un compito, reagiamo con un rifiuto: “No, non lo faccio, non ci vado!”. E perché mai? Semplice: non capiamo, nella nostra ottusa umanità, quello che Dio vuole da noi; siamo diffidenti; siamo convinti che ciò che ci propone sia qualcosa di impossibile, richieda una costante volontà, una seria applicazione, tantissimo sacrificio. No, meglio evitare; ci riduciamo a starcene immobili dietro la nostra facciata, bloccati dalle paure, dagli scrupoli, dall’egoismo, dalla vergogna di apparire “troppo credenti” di fronte agli altri: insomma non vogliamo correre rischi.

Per fortuna poi, rientrati dentro di noi, riusciamo a capire l’enorme importanza di essere stati scelti da Dio, di essere delle creature speciali, personalmente “amate” da Lui; capiamo finalmente che dobbiamo andare, che dobbiamo reagire, scuoterci dal nostro inutile immobilismo, dirgli di “sì” con ritrovata sincerità, con il cuore aperto, anche se tutto ciò continua a sembrarci innaturale, pazzesco, folle.

Evitiamo allora di fare troppi calcoli, dobbiamo deciderci: dobbiamo semplicemente andare, dobbiamo fidarci, buttarci; non possiamo aspettare oltre, non possiamo perdere altro tempo. Appena intuiamo quello che Dio vuole da noi, non possiamo continuare a tergiversare, far finta di nulla, rifiutare di uscire dal nostro guscio, dalle nostre false sicurezze: le Sue preziose chiamate rimarrebbero tutte, unicamente per colpa nostra, delle occasioni mancate, incompiute, mai fiorite, mai sbocciate. Un vero peccato!

Forse qualche volta abbiamo anche detto subito di “sì”, trascinati dall’emozione di udire la Sua voce dentro di noi; ma passato il momento magico della chiamata - di qualunque genere essa sia: religiosa, sacerdotale, matrimoniale - il nostro “sì” si è bloccato, si è fermato, non l’abbiamo più curato, approfondito, non ha messo radici, non ha trovato consistenza e terreno fecondo nel nostro cuore. Nel tempo è diventato un “no”: la nostra entusiastica adesione iniziale si è totalmente spenta. Per la nostra aridità.

Ebbene, è tempo allora di riprendere in mano la nostra vita. Abbiamo bisogno di grande onestà, è vero: dobbiamo armarci di grande rispetto per la volontà di Dio; un profondo rispetto morale, umile, sincero, risolutivo. Lasciamo che siano le canne al vento a fare chiasso. Noi, lavoriamo sodo nel silenzio.

Guardiamo Gesù, guardiamo l’uomo che Lui è stato: vero, trasparente, coraggioso fino in fondo, senza le nostre piccole e grandi bugie, senza le nostre meschinità: seguiamo le sue orme, cerchiamo di essere anche noi uomini “del sì” come Lui.

Essere veri, sinceri, trasparenti, non ci garantisce certamente una vita tranquilla, lo sappiamo; ma ci farà sentire uomini e donne completi, realizzati, soddisfatti. Non ci farà guadagnare tanti soldi e forse neppure tante amicizie, ma ci riconoscerà una dignità che nessuno potrà mai offrirci: quella di sentirci cristiani, autentici di figli di Dio.

Ecco, questa in sintesi, è la correttezza che Gesù pretende dalle nostre risposte, l’onestà della nostra vita.

Evitiamo allora di indossare davanti a Dio il nostro vestito bello, del perfetto devoto, del perfetto cristiano evoluto; indossiamo invece quello modesto del sincero cercatore di Dio, del discepolo che con la propria esistenza cerca di rispondere positivamente alla sua chiamata. Senza questa integrità, senza questa consapevole adesione, finiremo col perdere la strada, col tradire la fiducia che Egli ha riposto in noi; finiremo col costruirci un altro Dio da adorare, uno che ci assomiglia troppo; una religione fine a sé stessa, che si esaurisce nella esteriorità della preghiera e del culto, nella menzogna e nel disinteresse! Non celebriamo il Dio della vita con azioni di morte! Siamo autentici con Lui. Non lo blandiamo: soprattutto non temiamo di presentarci a Lui nella imbarazzante nudità dell’essere come siamo: figli umili, fragili, peccatori ma, consapevoli del suo aiuto e del suo amore, armati di tanta buona volontà. Amen.