venerdì 15 maggio 2020

17 Maggio 2020 – VI Domenica di Pasqua


“Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14,15-21).

Giovanni continua anche oggi a riferirci il discorso di addio di Gesù iniziato domenica scorsa: i particolari da chiarire sono ancora molti e importanti, perché devono essere capiti bene. Siamo dunque ancora nel cenacolo.
Gesù aveva appena annunciato la sua partenza per tornare al Padre, in un luogo dove non c'è più nulla da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, unico e insostituibile, un posto che lui andava a prepararci. Oggi Egli conferma questo suo distacco: ma nello stesso tempo assicura che il Padre non li avrebbe lasciati soli, avrebbe assicurato la presenza di un “Paraclito” che sarebbe rimasto per sempre accanto a loro, a noi, alla Chiesa di ogni tempo: anche se materialmente nessuno potrà più vedere il suo volto, Egli continuerà a rimanere con noi, ma in maniera diversa, in maniera spirituale, in noi, con il suo Spirito.
“Il Padre vi darà un altro Paraclito”. In greco, “Paraclito” significa “Avvocato”: avremo cioè un incaricato che ci difenderà contro le insidie del male, che ci assisterà quando siamo in pericolo, quando ci sentiremo soli, deboli, impotenti; uno che ci suggerirà sempre cosa dobbiamo fare, come comportarci al meglio. Ma significa anche “Consolatore”: avremo sempre cioè uno che ci capisce, che condivide i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre paure; uno che ci consola quando pensiamo di non farcela, che lenisce il dolore delle nostre ferite, che sa entrare nel nostro mondo interiore, nella nostra anima, che sa parlare al nostro cuore.
Gesù sa perfettamente che senza la sua costante presenza, i discepoli, e in futuro anche noi, avrebbero facilmente dimenticato la sua immagine e le sue parole. Per questo ha assicurato la presenza di “un protettore”, un avvocato, un “chiarificatore”: di uno insomma alla cui scuola i discepoli di ogni tempo avrebbero imparato a fondo cosa significhi fare “esperienza di Dio”.
Una prima considerazione: tutti dobbiamo entrare in familiarità con questo “Paraclito”; dobbiamo cioè conoscere lo “Spirito” di Dio, incontrare il Gesù dentro di noi, entrare in Lui, amarlo, vivere di Lui.
Parole facili da dire, ma non altrettanto da mettere in pratica, anche se, in realtà, le occasioni per poter concretamente incontrare Gesù nei vari momenti delle nostre giornate, della nostra vita, sono tantissime: dobbiamo solo aprire bene gli occhi, indossare gli occhiali della nostra fede, della nostra anima, del nostro cuore; dobbiamo insomma calarci in quella dimensione del nostro io occupata dallo Spirito: una dimensione “spirituale” di cui dovremmo avere la massima cura, e che invece noi con grande disinvoltura mortifichiamo in continuazione, riducendo il nostro cristianesimo a una inutile religione di facciata.
Abbiamo visto che anche il vangelo di oggi ritorna sul tema del “distacco”, motivo di smarrimento interiore nei discepoli; una separazione che provoca in loro tristezza, preoccupazione, un senso di solitudine, di impreparazione per i domani.
Gesù, il loro leader, il capofamiglia, il carismatico, se ne va e loro si chiedono se da soli potranno mai farcela. Come non capirli?
Da qui una seconda considerazione: tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di regole e leggi chiare, precise.
Tutti abbiamo bisogno di una guida che ci istruisca, che ci introduca nella vita, che ci faccia crescere, maturare, diventare adulti, e, a nostra volta, dei maestri.
Il desiderio di un padre è quello di vedere i propri figli diventare indipendenti, emancipati; è questo che lui vuole ardentemente: perché se li mantenesse sempre bambini, se li costringesse ad avere sempre bisogno di lui, a dover pendere sempre dalle sue labbra, dimostrerebbe di non amare i propri figli, sarebbe come se li usasse, li manipolasse.
Non è possibile rimanere sempre studenti; ciascuno ad un certo punto deve diventare maestro della propria vita. Nessuno può continuare a giustificarsi dicendo: “faccio solo quello che mi hanno insegnato!”. Se Dio avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo persone responsabili, non ci avrebbe dotati di un cervello. Al contrario ci dice: “hai le gambe, cammina; hai gli occhi, osserva; hai le orecchie, ascolta; hai il cervello, usalo”.
Di fronte a Lui dobbiamo essere completi, autonomi, non mezze calzette, non dei piagnucoloni!
Ecco perché, oggi soprattutto, la Chiesa nostra maestra, deve formare uomini liberi, uomini veri, dalla grande personalità; uomini forti, integerrimi nei costumi; uomini lungimiranti che sappiano interpretare la storia, che sappiano prevederla; uomini “alternativi”, come lo è stato Cristo Gesù; devono, in una parola, volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno. Devono saper guardare la luna, non il dito che la indica.
Oggi in particolare, i “pastori”, i “maestri” del Vangelo, gli inviati, che sono i primi depositari del Paraclito, lo Spirito della Verità, dovrebbero dimostrare di essere veramente dei “posseduti” da Dio, dovrebbero pensare, agire, insegnare sempre, come degli autentici “illuminati” dal Suo Spirito: perché solo così arriveranno a trasmettere il messaggio di Cristo ai fratelli, insegnando loro a conquistare, coltivare, accrescere, custodire la fede in Lui, a vivere nel Suo amore: soprattutto insegnando a meritarla, la fede, a difenderla, a perseverare in essa. “Perseverare nella fede”: un’espressione che è sparita completamente da catechesi, prediche, pubblicazioni cattoliche: un verbo – “perseverare” – che implica fatica, lotta, fedeltà e amore per un ideale, che mal si coniuga con l’idea oggi predominante di un Dio bonaccione, che passa sopra a qualunque offesa, che lascia correre, che perdona comunque tutto a tutti.
Purtroppo, la società contemporanea è fagocitata dal relativismo, l’anticristo imperante: la gente si sente affascinata, piuttosto che dalla Verità del Vangelo, da una congerie di insulsaggini, propagandate da preti, maghi, santoni e indovini che, lautamente retribuiti, sproloquiano dalle loro cattedre televisive.
È diventata ormai una moda rinunciare alla propria autonomia intellettuale, e affittare il cervello e la propria vita a questi falsi profeti, a questi squallidi buffoni, che pretendono di ergersi a Divinità infallibili, ad altrettanti Dei.
In questa situazione drammatica la Chiesa fallirebbe in pieno il suo mandato divino, se pensasse di trasmettere ai fedeli un Dio immagine, in formato “regalo”, semplicemente da ammirare, da pregare, da esporre, da esibire. Il Dio di Cristo non è così! Gesù non ci ha trasmesso un Dio statico, immobile, un Padre buonista, facilmente manipolabile dal nostro scaltro “savoir faire”: ci ha insegnato invece un Dio attento, onnipresente, che va cercato, seguito e amato tra mille difficoltà, tra mille dubbi, tra infinite sconfitte e piccoli progressi: la nostra è una fede seria, impegnativa, che non “impone” nulla, che non ha “regole” capestro, ma offre semplici “consigli” di vita, che esigono però concretezza, onestà intellettuale, amore sincero, fedeltà! Non offre una vita soprannaturale “tout court”, ma ci dice al contrario di costruirla, perfezionarla, alimentarla quotidianamente con i suggerimenti dello Spirito di Dio che abita in noi. La strada da percorrere è ovviamente in salita, lunga e difficile: è un percorso che esige da ciascuno serietà, maturità, convinzione, costanza.
Non basta infatti “vivere”, ma bisogna “saper vivere”, saper capire, saper giustificare, saper amare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che professiamo, a ciò che confessiamo, a come e perché lo traduciamo in vita vissuta.
Per questo il “credo” cristiano, quando è coerente e fedele allo Spirito, va sempre contro corrente, è in perenne disaccordo con gli schemi individualistici dell’uomo, è sempre motivo di rottura e di abbandono da parte dei pusillanimi, oggetto di critica atroce da parte del “mondo”: poiché, come dice Gesù, il “mondo” non può relazionarsi con lo Spirito, non lo vede, non lo sente, non lo conosce: opera in tutt’altra dimensione!
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”, dice Gesù.
Qui Giovanni parla di “comandamenti”: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma a pensarci bene, Gesù ci ha lasciato un solo “comandamento”: “Ama il Signore tuo Dio e il prossimo tuo come te stesso”.
È il “comandamento” dell’amore: ma definirlo tale, non è esatto, perché, in realtà, l'amore non si può imporre a nessuno. Non si può comandare di amare: l'amore è libero, nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo. L'amore vive solo dove c'è libertà.
Gesù quindi non ha “comandato” di amare, non l’ha mai “ordinato”; lo ha invece caldamente consigliato. L’unico comandamento vincolante, per chi vuole seguirlo, è quello di “vivere come Lui”, di “seguire i suoi passi”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio.
Se siamo costretti a fare le cose, se le facciamo a comando, in genere le facciamo per non deludere chi ce le ordina, le facciamo cioè per “rispetto umano”. Soltanto se le facciamo per amore, spontaneamente, vivremo nella Pace, nell’Amore, sentiremo crescere nell’anima quella soddisfazione intima che ci riempie il cuore.
Per raggiungere qualunque obiettivo è necessario “volerlo” veramente, sentire nel cuore quell’intimo impulso che ci spinge all’azione. Infatti i “maestri”, gli educatori, possono ben pretendere dai loro allievi che si impegnino seriamente nella vita, che osino, che puntino sempre più in alto, in una parola che siano “aquile”: ma se questi in cuor loro non sono convinti, se hanno paura di volare, se non sentono alcuna attrazione per l’altezza, per la bellezza, se non sentono il fascino del volo, poveretti! si sforzeranno anche, ma non arriveranno mai a nulla: una gallina, per quanto si sforzi, non potrà mai diventare un'aquila!
Gesù, anche per questo, ci ha assicurato la presenza del suo Spirito: proprio perché, grazie a Lui, trasformati da Lui, potessimo abbandonare la nostra naturale “pesantezza umana” per librarci fin lassù, in alto, tra le braccia del Padre: guidati dai suoi consigli potremo infatti diventare veri “esseri spirituali”. Lui può: perché è il nostro Maestro, la nostra forza, la nostra guida, il nostro avvocato, il nostro Consigliere, il Dio in noi. Con Lui nulla ci sarà impossibile. Gesù ce l’ha promesso!
Accogliamolo, allora, questo Paraclito Consolatore; apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando. Semplicemente amando. Perché questo è lo Spirito: Amore! È Lui che alimenta questo nostro cuore, creato dal Padre per ricevere e dare Amore: lo presuppone, lo suscita, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene compatta la nostra vita, nonostante le fratture, le contraddizioni, i fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva, la indirizza, la rinvigorisce. Tutto in noi, di noi, viene continuamente nobilitato dallo Spirito Amore: è questa la “buona notizia” di oggi. Amen.



venerdì 8 maggio 2020

10 Maggio 2020 – V Domenica di Pasqua


“Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”.
(Gv 14,1-12). 
Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: Egli sta per andarsene, e affida loro il suo testamento spirituale, parla delle cose più intime, più profonde, che più gli stanno a cuore.
Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi poco dopo le guardie sarebbero arrivate per arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale: lo spettro della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota.
Gesù ha ancora molte cose da dire ai suoi; soprattutto vuol far capire bene lo scopo della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. “Quando sarò andato da Lui e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me”. 
Parole piuttosto oscure, difficilmente comprensibili in quel momento dai discepoli: essi annaspano, non capiscono: “Te ne vai? Come, dove, quando, perché?”. Un turbinio di domande agita infatti il loro cuore: “Che ne sarà di noi? Cosa ci accadrà? Che fine faremo? Abbiamo sbagliato a credere in Lui?”. Poveri discepoli! Sono confusi, hanno capito che qualcosa di molto grave sta per accadere, ma non sanno immaginare quando; sentono però la minaccia di un pericolo incombente, sono spaventati, sconvolti: il verbo greco 
"tarassesko" (sia turbato), indica appunto una profonda agitazione: “Gesù tu eri tutto per noi, abbiamo investito tutta la nostra vita in te, ci avevi infiammato il cuore; ora che ne sarà di noi?”.
E Gesù: “Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma state tranquilli, non temete: vado a prepararvi un posto. Non scappo via. Vado, ma poi torno a prendervi! Ora siete impauriti perché tutte le vostre previsioni, le vostre certezze, sembrano crollare. Questa è la vostra impressione: ma non è così! Perché nulla andrà perduto di quanto vi ho promesso. Guardate il tempo: dopo ogni notte, dopo il buio, dopo la solitudine, puntualmente la nuova luce del mattino risorge sempre a tranquillizzare, a rischiarare la vita”.
Questo, espresso in altre parole, è quanto Gesù promette ai suoi: ed è esattamente quanto, ogni giorno, Egli continua a ripetere anche a tutti noi. 
Le sue sono parole importanti, parole che ci devono tranquillizzare contro le tante incognite del domani, contro le difficoltà, le sconfitte, le paure, tutte nostre puntuali compagne di viaggio. In ogni momento difficile della nostra vita, dobbiamo ricordarci sempre “chi siamo” e “chi è nostro Padre”. Anche se gli altri ci discriminano, ci ignorano, ci evitano, Lui è sempre presente, Lui ci capisce sempre perfettamente! 
Quando un giorno ci renderemo conto delle nostre continue infedeltà, dei nostri tradimenti, non perdiamo la speranza del perdono, affrontiamo umilmente ma con fermezza il nostro riscatto, perché Lui, da sempre, ci sta aspettando a braccia aperte.
Se nella nostra fragilità ci dovesse capitare un evento talmente grave, tragico, da stravolgere completamente la nostra vita, ripetiamo a noi stessi: “Sono figlio di Dio: Egli mi ama, è mio Padre, niente può distruggermi, mi fido di Lui”. 
Se ci troviamo con il cuore straziato dal dolore e dall’angoscia, e non sappiamo dove andare o cosa fare, rassicuriamoci, perché Gesù, è sempre lì al nostro fianco: fedelmente, amorevolmente. 
E quando la notte della vita si presenterà a bussare alla nostra porta, sarà sempre Lui che ci prenderà per mano e ci condurrà nella casa del Padre, ad occupare quel “posto”, che Lui ha preparato per ciascuno noi. Una prospettiva decisamente incoraggiante che, quantunque incerti, quantunque provati dalla vita, sconsolati, demotivati, riuscirà ad infondere nel nostro cuore nuovo entusiasmo, pace, serenità.
Da qui, allora, l’importanza di gridare non una, ma due, dieci, cento volte la nostra fiducia in Dio, di metterci nelle sue mani: non importa se lo faremo nel dolore o nella gioia, nella calma o nei battiti affannosi del nostro cuore, perché, in ogni caso, questo è pregare, questa è una preghiera. Probabilmente non risolveremo immediatamente i nostri problemi, ma sicuramente ritroveremo la fiducia, riavremo la certezza che se anche tutto dovesse crollare, anche se tutto dovesse fallire, Lui c'è sempre; e con Lui, abbiamo sempre disponibile il nostro posto “nella casa del Padre”.
Lì ognuno ha il suo posto, un posto personalissimo; nessun altro può averne uno uguale, perché tutti noi siamo unici. Spesso molte persone si sentono soddisfatte, in perfetta regola, nel giusto, solo perché si vedono uguali agli altri, perché si comportano esattamente come loro. Dovrebbero al contrario sentirsi in difetto, perché Dio non crea doppioni, non ama duplicati; non pretende un comportamento standard, uguale per tutti: ogni vita “copiata” è un falso, una vita sbagliata, non realizzata, non vissuta, mai osata.
Certo dare il buon esempio è importante: tutti abbiamo bisogno di guardare gli altri, di studiarli per imparare, per capire; ma il Dio che nasce in ciascuno di noi, che si adatta alla nostra persona, che noi manifestiamo agli altri attraverso la nostra vita, ci rende diversi,  altri: è la nostra esclusiva fisionomia. Egli fin dall’inizio ci ha creati tutti a sua “immagine e somiglianza”: mentre però l’essere sua “immagine” dipende da Lui, dal suo “tocco creatore”, identico per tutti gli uomini, il “somigliare a Lui” è di nostra competenza, spetta singolarmente a ciascuno di noi. Il risultato che ne otterremo dipenderà esclusivamente da come risponderemo alla sua chiamata, da come investiremo i “carismi” di cui egli ci ha dotati: da qui la nostra “somiglianza” unica, originale, personalissima.
Lo slogan di Dio è: “Ognuno ha il “suo” posto, perché per occuparlo deve percorrere la “sua” strada: ogni vocazione, ogni cammino, ogni esperienza, sono tutti elementi unici di una vita, induplicabili, e come tali vanno costruiti, vissuti. A Dio non interessa la forma, ma il contenuto di ogni singola esistenza.
Gesù si identifica con “la via, la verità, la vita!”; osserviamo bene l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù è la “Via” che conduce alla “Verità”, perché solo nella verità la “Vita” sarà piena, sensata, realizzata, degna di essere vissuta.
Non dice: “Io vi indico una via”, ma: “Io sono la via!”.
Gesù non ha bisogno di darci altre regole, altri codici, altre indicazioni da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui; Egli è tutto; è il cammino, l'unico cammino che ciascuno deve percorrere. A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, per essere felici, per andare al Padre, Egli ha sempre detto a tutti: “Seguimi!”. Un cammino che compendia l’intero Vangelo.
Non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la Verità”.
In proposito, di fronte alla domanda di Pilato: “Quid est veritas?”, (che cos’è la verità?), sant’Agostino, anagrammandola magistralmente, ipotizza questa risposta di Gesù: “Est vir qui adest” (è l’uomo che ti sta davanti): “La Verità sono Io”, punto! Non sono ammessi fraintendimenti!
Ci sono invece molte sedicenti “chiese”, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni, molti guru, veggenti e ciarlatani di ogni genere, che si arrogano il diritto di affermare: “Io ho la verità, io ho Dio, seguimi e ti farò diventare un avatar, incarnazione virtuale di Dio”. Siamo seri, non perdiamo tempo con tali idiozie! La Verità non si possiede, si vive, è vita. Essi confondono la “verità” con delle vaghe “conoscenze” personali che applicano ai loro discorsi, quasi sempre a sproposito. Per Gesù, la Verità (aletheia, togliere il velo) è scoprire quello che Dio vuole da noi, significa aprire la nostra mente a ciò che lo Spirito di Dio ci suggerisce nell’anima.
Gesù non dice: “Io ho la vita”, dice: “Io sono la vita”. Non è un’assicurazione da stipulare per campare tranquillamente, a scanso di preoccupazioni e problemi. Gesù è “la” Vita, quella che dobbiamo fare nostra, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Eccomi: Vivi!”.
Sbaglia chi pensa che “vivere” coincida con il fare tante esperienze, con il possedere molte ricchezze, con il godere al massimo i piaceri di questo mondo: “vivere” non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita, con chi capita: ma è sentire, percepire la “Vita” divina che vive in noi, per realizzarla esteriormente nel quotidiano.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”. Facciamo nostra questa preghiera. Facciamo nostro questo accorato invito rivolto a Gesù perché ci renda partecipi dell’abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta. Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo e la nostra accidia: un Dio qualunque, un Dio imprecisato e vago, un Dio indifferente.
Non confondiamoci col credere, come bambini, in divinità misteriose e inquietanti, sempre pronte a condizionare negativamente la nostra esistenza. Siamo adulti! Il Dio Padre di Gesù è un Dio adulto che ci tratta da adulti; un Dio che non ci considera degli sprovveduti, degli incapaci, da dover correre continuamente a risolvere i nostri problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: magari facendoci capire che spesso è inutile ostinarsi contro situazioni irrilevanti e senza senso; che faremmo molto meglio ad occuparci costruttivamente degli aspetti belli e positivi della vita, rendendola più gradevole e appagante.
Il Dio di Gesù è un Dio splendido, affascinante, innamorato delle sue creature, lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero, che svela a ciascuno di noi, nel profondo, chi siamo, cos’è la Via, cos'è la Verità, cos'è la Vita.
Cerchiamo allora di conoscerlo questo Dio che ci conosce uno ad uno, che ci ama da sempre; cerchiamo di non sfuggire al suo amore, di essere il più possibile attenti alle sottili sfumature del suo Spirito, alle meravigliose percezioni che ci trasmette nell'anima, ai suoi paterni suggerimenti per vivere serenamente questa nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, e chiediamogli se il Dio in cui crediamo, il Dio che professiamo, che celebriamo, è veramente il Dio, Padre vivificante, che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, misurandoci con essa, affinché ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.


venerdì 1 maggio 2020

3 Maggio 2020 – IV Domenica di Pasqua


“Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,1-10)

Le parole di Gesù proposte oggi dal vangelo ci sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, al contrario, si riferiscono ad una dura realtà, sono critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di tensione, di aperta ostilità nei suoi confronti.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”: un particolare che sicuramente offre a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, ultras della fede, puri e duri.
E Gesù, con voce ferma, si rivolge ad essi con un discorso sostanzialmente del seguente tenore: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione”.
Questo in pratica afferma Gesù, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, con passione, con la forza della verità: le sue parole, appunto. 
Le persone vogliono ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”, il suo annuncio "bello", positivo. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le sue pecore dal recinto in cui sono rinchiuse, e di portarle al Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è il pastore “é kalçv”, come dice il testo greco: “quello bello”, quello integro, quello capace di amare, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo. 
Gesù è il pastore che conduce le sue pecore verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che le difende, le protegge dagli attacchi esterni, le aiuta nei momenti di difficoltà; è per esse il riferimento, la guida che sa dove andare, quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del chiamare per nome ciascuno di noi. Per Lui non contano i grandi numeri, le folte assemblee; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma comportano l’anonimato, la reciproca estraneità.
Con Gesù, invece, ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquistando con Lui una profonda familiarità, una confidenza tale da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo in grado di riconoscere la sua “voce”.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente alla “voce” suadente di un pastore; forse perché si rende conto che una terminologia più impegnativa può confonderci; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un Gesù comprensibile, un Gesù alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è pertanto fondamentale incontrare il Signore, frequentarlo assiduamente, riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, ascoltare la sua Parola, instaurare con Lui un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore, fino a sentire il nostro “cuore ardere, bruciare d’amore”, come è successo ai due di Emmaus.
Gesù è venuto nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, per seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui noi tutti dobbiamo passare: è il nostro “varco” attraverso cui uscire dal nostro “io” e seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi lo riconosciamo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta; una voce che ci porta all’unica Verità.
“Attraversare” Gesù, significa però passare per una porta stretta, e noi lo sappiamo bene; perché per farlo, dobbiamo essere autentici, essere come agnelli fiduciosi nel loro pastore. Egli ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori da noi stessi. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che ci imprigiona dentro; è il Pastore che ci fa entrare nell’intimo, nell’anima, ma è anche e soprattutto il Maestro che ci fa uscire, che ci indica la strada da percorrere. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra chiusura protettiva, dal nostro ermetismo, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Dobbiamo però essere sempre prudenti, guardinghi; è Gesù stesso che ci mette in guardia dai ladri, dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: chi tenta di rubarci l'anima è un ladro; chi tenta di rubarci ciò che custodiamo nel nostro cuore è un brigante, chi ci attrae con facili e suadenti prospettive è un impostore. Non facciamoli entrare! Difendiamoci!”.
Il pastore vero, autentico (sia esso genitore, coniuge, prete, consigliere o amico) entra nel nostro “recinto” solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo non è un pastore ma un ladro che viene per prendere, per sottrarre, per legarci a sé. Il pastore invita, ma non impone nulla, non usa mai la forza, è sempre presente nel momento del bisogno, non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, lega a sé e ruba la vita che abbiamo dentro. Chi non pratica con noi la carità e la bontà è un brigante; chi ci fa sentire cattivi, sbagliati, idioti, stupidi, cretini, è sicuramente un brigante, perché intende usarci per suo piacere fisico o per i suoi interessi; soprattutto è un ladro chi cerca di rubarci la gioia di vivere, la nostra personalità, la nostra vitalità.
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, non ci proteggiamo, non lottiamo per noi stessi, non combattiamo per la nostra vita permettendo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto manipolabile a piacimento.
Come facciamo a vedere se abbiamo incontrato Gesù, la nostra Porta, e se l’abbiamo veramente attraversata? Semplice: se uno rimane sempre identico nella sua mediocrità, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non l’ha incontrato; se uno è di vedute ristrette, egoistiche, non va mai oltre sé stesso, significa che non ha incontrato Cristo; se uno va regolarmente a Messa, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è in grado di perdonare il fratello, il coniuge, i figli, il collega, l’amico, vuol dire che non ha ancora incontrato Cristo, non ha fatto un passo verso di Lui. Quelli che si comportano in questo modo pensano di entrare nell'ovile passando da un'altra porta che non è Gesù, e di loro il Signore dice: “Sono ladri, briganti!”: anche se di fronte alla gente sono “pastori” famosi, dottori della Legge, teologi, preti, frati, suore, laici impegnati nella Chiesa, in realtà sono tutti “ladri e briganti!”.
Ci vuole molto coraggio per varcare la nostra soglia per entrare nel tempo presente: incalcolabili avversità insidiano il nostro percorso! Ma se entriamo attraverso Cristo, unica Porta sicura, tutto diventerà più semplice, ogni nuova prospettiva verrà superata più agevolmente.
E saremo felici: sì, perché allora ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Saremo cristiani felici, perché ci sentiremo veramente Chiesa, sogno del Risorto, passione dell'Incarnato. E diventeremo anche noi pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare sui fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi amorosi, guide ansiose di indicare Cristo, la Porta, a quanti cercano di entrare nella Vita e nell’Amore assoluto. Amen.


venerdì 24 aprile 2020

26 Aprile 2020 – III Domenica di Pasqua


“Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,13-35).

Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, dopo aver tranquillizzato i suoi e aver donato loro la pace, in quello stesso giorno dopo il sabato, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge due discepoli, che lo avevano seguito fino a Gerusalemme, in cammino verso Emmaus.
Tornano a casa loro, scappano da quella città “maledetta” che uccide i profeti. Sono tristi, pensierosi, commentano a bassa voce le ultime tragiche vicende, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l’amarezza sono profonde, insostenibili, terribili, arrivando a mettere in discussione l’operato di Dio.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non si rialzano da loro stessi, dalla loro sofferenza, e non possono quindi incrociare lo sguardo amoroso del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che non c’è più alcun motivo per essere tristi. Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel nulla in cui sono precipitati dopo la scomparsa del loro maestro, da non accorgersi che Egli è lì, al loro fianco.
Uno stato d’animo che anche noi sperimentiamo molto spesso: quante volte ci sentiamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchierate tra amici, lo scambio delle proprie impressioni, l’amabile conversare del nulla, la vacuità del dire: tutte cose che ci irritano; nulla ci soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, irriverenti, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia, al nostro vuoto assordante, tace paziente. Tace suo malgrado, perché Dio ama discutere con noi; egli è il moderatore, vuole che riflettiamo, che cerchiamo, che ci documentiamo. Egli, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell’interrogarci. Non vuole dei cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, della pandemia, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica, e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per sé stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito, mia moglie mi ha lasciato...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento, ci esibiamo nel nostro “dolore”, vogliamo che ci riconoscano così, compiacendoci scioccamente di inutili cenni di benevolenza, di compassione, di condivisione. Ma siamo degli illusi. Il dolore non deve ridursi ad un fenomeno da baraccone, non è una maschera da indossare per ottenere ammirazione e consensi: il dolore vero nasce dalla constatazione della nostra precarietà, della nostra fragilità, dall’esperienza di essere un nulla. È la via per arrivare a capire che Uno solo può consolarci veramente, Uno solo può offrirci motivi validi per risorgere dalla nostra depressione, dalla nostra fragilità di creature: è il nostro Creatore, Colui che conosce perfettamente il nostro cuore, la nostra anima, Colui che fin dal primo istante di vita ci ha amati fino all’inverosimile.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto ai due. “È mai possibile – essi pensano - che questo intruso sia tanto svanito da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono frastornati, offesi; e ne hanno veramente motivo, essendo rimasti improvvisamente orfani della loro guida, della loro unica speranza di miglioramento. E gli rispondono parlando della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla. Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha affrontato personalmente tutto questo, sembra non sapere nulla. 
“Noi speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele”: rispondono. Parole che rivelano la loro profonda frustrazione! “Noi speravamo”: solo che la speranza si riferisce sempre ad un futuro, mai declinarla al passato come fanno loro, perché così significa ammettere un totale fallimento. Nella vita è sempre difficile accettare la fine di qualcosa: ma il fallimento della speranza è addirittura tragico, perché con la delusione, causa inevitabilmente la morte interiore. La delusione è la punta estrema del fallimento di ogni prospettiva: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza il sospetto di essere stati ingannati; un dolore che ci destabilizza, che mette in dubbio l’efficacia di ogni nuovo progetto, che ci impedisce di riprendere coraggio, confinati tra cocenti delusioni, speranze abbandonate, sofferenze dell’anima insopportabili. Eppure lì, proprio nel più profondo all’anima, alla soglia dello smarrimento finale, Dio ci aspetta con tutto il suo amore: è lì per ascoltarci, per soccorrerci, per rimetterci in piedi e camminare insieme a noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: “ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui!”. “Noi speravamo: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro”.
Ebbene: quanti ne abbiamo conosciuti di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
I due si aspettano comprensione da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece un sonoro schiaffone: “Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro Gesù: “Stupidi, ignoranti!”. La sua è una evidente provocazione: vuole scuoterli, costringerli ad alzare lo sguardo, a guardare avanti. Dobbiamo infatti capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene, e non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte nella vita un energico scossone ci distoglie dalla sofferenza, dall’autocommiserazione, e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa, in una prospettiva nuova, più costruttiva.
Essi si scuotono, è vero, ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”. “Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della Sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, il problema vero, non è l’assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando ci cammina accanto, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso. Egli è costantemente con noi; cammina sempre al nostro fianco: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l’immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, per questo si è messo in viaggio, un viaggio lunghissimo: dall’eterno al finito, dall’essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all’incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un macigno granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l’amore è sempre in movimento; e l’amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l’intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo...
È un momento di grande tensione, questo: i due pur essendo stati amabilmente insultati ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo sicuramente anche noi questo fenomeno: la Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri incrollabili pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
È così che Gesù ci educa; è così che ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d’amore. Egli allude proprio a questo quando, alla nostra richiesta di restare con noi, ci mette in condizione di superare ogni tristezza, ogni solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, resta con loro. Si ferma e resta con noi: Egli non ci abbandona, si ferma eccome! Perché è Lui che vuole “fermarsi”, è Lui che vuole “restare con noi”: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. 
E Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. “Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!”. No, Signore, non così, non andartene! Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto ora, quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
Ed è qui, all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! Ma egli sparì dalla loro vista.
Ed è qui, all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! Ma egli sparì dalla loro vista.
Ma il Signore non se ne va: non lo vediamo, ma Lui è sempre qui, non può abbandonarci, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo(Mt 28,20). Cristo risorto, vivo, continua pazientemente a camminare a fianco di ogni uomo, gli parla con la sua Parola, si dona a lui nell’Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più “tramonti”, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l’unica luce che non scomparirà mai. Amen.


venerdì 17 aprile 2020

19 Aprile 2020 – II Domenica di Pasqua


“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi!” (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e a rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare tutti noi, suoi discepoli di oggi: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavandone quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito di annunciare nel mondo la sua Parola e di dare vita alla sua Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per continuare nella Chiesa la stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che ci succede ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: riviviamo cioè, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto; egli è presente in mezzo a noi: non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di cui anche noi abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo distintamente la sua voce salutarci, dentro di noi, con “Pace a voi!”, il saluto rivolto ai discepoli radunati nel cenacolo; lo stesso identico saluto che tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, rivolgono ai fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione Eucaristica.
È dunque con la Santa Eucaristia che possiamo rinnovare ogni settimana il nostro appuntamento con Gesù, e rivivere intensamente quei momenti che sono per noi insieme forza e perdono.
Sono prima di tutto “forza”: quando, soffocati dalle nostre paure, dai nostri segreti, dalle nostre “chiusure”, dai nostri contorti “distinguo”, incontriamo il Risorto, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore, percepiamo che i battiti irresistibili del Suo cuore ci catturano e sciolgono la nostra aridità, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà: e in quel preciso istante sentiamo il nostro cuore ricaricarsi di generosità, di entusiasmo, ritrovando la voglia di vivere, di ripartire, di cambiare vita; la voglia insomma di essere migliori. È solo nell'Eucarestia, insieme a Lui, che possiamo quindi ritrovare il coraggio e l'energia che avevamo perduto, e affrontare serenamente tutto quello che ci sembrava impossibile.
Quei momenti sono anche “perdono”: sappiamo dai Vangeli che Gesù, nella sua vita terrena, ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare.
Ebbene: quando ci presentiamo alla sua Cena, sentiamo di rappresentare un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Per questo ci presentiamo a Lui confidando nella sua misericordia, nel suo perdono.
Prima però di “ricevere”, dobbiamo imparare a “dare”, a perdonare, cioè, sia i nostri fratelli che noi stessi: noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri, proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista, ma esso c’è, e corrode il nostro cuore, la nostra anima, ci incattivisce, e nei momenti più impensati, egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare quell’Amore vero che potremo rivolgere ai nostri fratelli.
È necessario quindi che in ogni santa Messa, la nostra anima raggiunga questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, siamo noi i peccatori, i “pubblicani”, la prostituta, i farisei del Vangelo: e come loro, ci prostriamo davanti a Gesù per chiedere e ricevere il suo perdono, e potergli esprimere di cuore, come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. È la nostra intima e sincera esclamazione d’amore, avendo sperimentato, anche noi come lui, la meravigliosa e rassicurante esperienza del Cenacolo.
A questo punto non serve più ascoltare le esperienze degli altri, perché l’incontro con Dio è un evento diretto, personale, esclusivo: tutti lo devono personalmente “toccare”, tutti lo devono incontrare e ammirare con i propri occhi; non ci si può accontentare dei racconti, delle idee, delle intuizioni altrui, impossibile provare quelli che sono i “loro” momenti esclusivi: saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, senza averne mai sperimentato un buon bicchiere, senza aver provato quanto esso sia inebriante ed eccitante; unicamente l'esperienza diretta delle cose può produrre la vera conoscenza, soprattutto quella intima, del cuore.
Non c’è bisogno quindi che le nostre liturgie eucaristiche ci “parlino” di Dio, non devono abbondare in parole e spiegazioni, spesso eccessive e inopportune; esse devono al contrario farci “sentire” Dio che ci parla, devono farcelo sperimentare personalmente; devono trasmettere passione, il sentirsi “toccati” da Dio, dalla sua presenza: i canti, i riti, la partecipazione dell’assemblea, le acclamazioni, i gesti, diventano “efficaci” solo se ci mettono in intimo contatto con Dio; perché se non ce lo fanno “sentire”, se non ce lo fanno “toccare”, se non lo fanno “risorgere” nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono assolutamente a nulla, sono inutili: possono essere al massimo piacevoli evasioni dalla quotidianità, momenti di aggregazione fraterna, ma non realizzano il nostro incontro personale con il Dio della Vita, non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui fa vibrare la nostra anima, la nostra sete di Infinito. Noi abbiamo bisogno di queste emozioni, perché sono esse che ci costringono a fare i conti con la nostra realtà, a verificare le nostre risorse, le nostre potenzialità, a toccare con mano tutte le “ferite”, le miserie, le debolezze che ci affliggono, e chiedere umilmente alla sua misericordia di aiutarci a guarire e a risorgere. Se ciò non avviene, purtroppo le nostre belle cerimonie, le nostre belle celebrazioni eucaristiche non raggiungono il loro scopo!
La Messa è incontro, è colloquio, è guarigione. Chi non ha ferite nella vita? Chi non ha bisogno allora di incontrare Gesù nell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere gravemente ferito, non fa di tutto per andare dall’unico medico che può guarirlo? La Comunione della domenica, fatta in grazia di Dio, è esattamente quel balsamo, quella crema, quell’unguento, in grado di guarire le nostre ferite. Andare a Messa allora non è più un “dovere”, un’abitudine da mantenere; ma è il “bisogno” profondo, la necessità improrogabile di incontrare Gesù, di ricongiungerci con Lui, di trarre da Lui Vita e Amore. Provando ogni volta gioia e serenità! Amen.


venerdì 10 aprile 2020

12 Aprile 2020 – Domenica di Pasqua


“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”
(Gv 20,1-9). 

Maria di Magdala, che aveva amato così tanto Gesù da non poter accettare l’idea della sua morte, la domenica di prima mattina, quando era ancora buio, si reca al sepolcro.
È completamente frastornata: nella sua mente rivive ancora le immagini strazianti degli ultimi istanti di vita del suo Gesù. Arrivata al sepolcro, ancora assorta nei suoi pensieri, nota da lontano che la pesante pietra posta a chiusura del sepolcro non c’è più: qualcuno l’ha rimossa.
Rimane sconcertata: non pensa, non controlla, non ragiona; la sua reazione è immediata: deve avvisare subito i discepoli: il suo cuore batte all’impazzata, ma corre, corre veloce, trafelata e piangente, da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quel Giovanni che Gesù prediligeva.
Singhiozza, urla che qualcuno ha rubato il corpo di Gesù, ma tra i singulti del pianto, non si fa capire molto. Di fronte a tanta disperazione, i discepoli si rendono conto che qualcosa di grave deve essere successo, e corrono; corrono anch’essi affannosamente, seguiti da Maria, nel silenzio di una città ancora immersa nel sonno.
Il sole inizia pigramente a fare capolino sull’orizzonte, rischiarando appena le pietre color ocra dei fabbricati. I mercanti più mattinieri stanno iniziando pigramente ad esporre le loro merci sui banchi: è il giorno successivo al riposo del sabato. I tre non se ne curano e continuano a correre: lasciano al loro fianco la cava di pietra in disuso, quel Golgota che i romani avevano destinato come luogo per le esecuzioni capitali e le crocifissioni; i pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano ancora sinistramente in alto, aspettando nuovi condannati.
Nulla li distrae, corrono sempre, senza sosta; ormai il fiato manca; la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, in debito di ossigeno, rallenta un po’, mentre gli altri scendono velocemente verso il sepolcro. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba ceduta da Giuseppe di Arimatea, è realmente aperta: la pesante pietra che ne bloccava l’ingresso è rovesciata, rotolata di lato.
Giovanni, giunto per primo, si ferma e aspetta; le tempie gli pulsano, ansima rumorosamente, mentre si china per guardare all’interno; arriva anche Pietro e, in segno di rispetto, gli cede il passo: abbassando la testa, entrano entrambi. Nulla. Non c’è nulla. Gesù è veramente scomparso. Il lenzuolo, afflosciato, e il “sudario”, il telo che fasciava la testa, giacciono entrambi abbandonati, esattamente al loro posto, come se il corpo di Gesù si fosse dissolto. Nient’altro. Gesù è scomparso e nessuno sa che fine abbia fatto! Ma loro, i discepoli, lo sanno bene: è risorto come aveva annunciato.
Ecco: Questa è la Pasqua cristiana: Cristo è veramente risorto. La lunga corsa di Pietro e Giovanni e il sepolcro inesorabilmente vuoto, sono le icone della giornata di oggi.
Quella tomba che Maria di Magdala e i due discepoli quel mattino trovarono vuota, è ancora lì, a Gerusalemme, muta testimone della risurrezione di Cristo. La corsa dei discepoli è la nostra corsa, verso colui che ci aspetta sempre a braccia aperte.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”: è la domanda che Gesù rivolge ai suoi che lo piangono: parole che ci toccano, che devono farci riflettere profondamente, perché anche noi, troppo spesso, ci ostiniamo a cercarlo tra i morti.
Se veramente vogliamo trovarlo, dobbiamo cercarlo dove Lui è vivo, dove lui è presente! Sicuramente non tra i creatori di morte, tra coloro che con i loro pregiudizi uccidono ogni speranza, tra coloro che inquinano la vita e le relazioni umane, tra gli indifferenti, gli egoisti, i pessimisti; certamente non lo troveremo tra coloro che vivono con l’unica preoccupazione di arricchirsi, che si nutrono solamente di crudo individualismo e non di carità e amore fraterni; non lo troveremo tra chi non vuole perdonare, tra chi cerca la vendetta e la ritorsione; non lo troveremo tra coloro che non nutrono alcuna speranza e non credono in una vita futura di pace per tutti i giusti.
Non riusciremo mai a trovarlo tra queste situazioni di morte, perché Egli è vivo, è libertà, è immortalità, è amore! È nel pane spezzato insieme, è nella Parola amica che dona coraggio a chi si sente rifiutato: è in un semplice gesto di carità, in un cenno sincero di perdono, nella richiesta di amore di un emarginato, nella mano di un bambino innocente che cerca la nostra guida; è nei nostri fratelli, nelle nostre sorelle che promuovono silenziosamente, giorno dopo giorno, la sua Parola e il Suo Regno di Pace.  
Lui, il Dio nudo, appeso, osteso, il Dio umanamente sconfitto, straziato, crocifisso, è morto: deposto sulla fredda pietra di una tomba, non c’è più, è risorto: perché Lui è il vincitore assoluto della morte, della Sua morte, della nostra morte, di qualunque morte! Perché Lui è Vita immortale.
È “risorto”, non rianimato, non ripresosi, non vivo nel nostro ricordo. Gesù è veramente vivo, è presente per sempre in carne ed ossa.
Non è facile credere a questa notizia, lo so bene: avremo modo, nei prossimi cinquanta giorni, di verificare la fatica che gli stessi apostoli hanno fatto per convertire il loro cuore a questa sconcertante verità.
Nell’attesa di poterlo anche noi un giorno incontrare, dopo questo nostro difficile cammino, apriamoci oggi alla gioia della risurrezione. Facciamolo con i nostri fratelli, con i nostri cari, gioiamo con loro, soprattutto “crediamo” con loro: perché è la fede che, superata qualunque difficoltà, ci aiuterà a gioire fin d’ora, nella prospettiva di quella gioia autentica, unica, immortale; una gioia che va conquistata attraverso la croce, attraverso la risurrezione; una gioia che va costruita da vivi, tra i vivi, con i vivi. Perché è qui, tra i vivi, che Cristo ci sta aspettando.
Smettiamo allora di cercarlo tra i morti: non isoliamoci nella tomba del nostro egoismo, non trasmettiamo tristezza ai fratelli che condividono le nostre liturgie, le nostre preghiere, le nostre devozioni, trascinandole e consumandole per abitudine, senza amore, spesso con la morte nel cuore! Coraggio, diamo nuovo entusiasmo, nuova vita alla nostra fede, torniamo ad essere discepoli di un Dio vivo, di un Dio che ha fatto esplodere d’amore il suo sepolcro! 
Non siamo più schiavi della morte, non siamo più dei prigionieri senza scampo: Gesù è risorto! Gesù è vivo: gioiamo! Facciamo che la nostra vita diventi offerta di serenità per chi soffre.
Il Signore è risorto per tutti: per coloro che vivono la Pasqua in solitudine nel triste ricordo di una persona cara che è mancata; per quanti si consumano per un figlio che lotta tra la vita e la morte; per quanti sono confinati dalle loro malattie invalidanti su un letto o su una carrozzella; per quanti non hanno più una famiglia, o non l’hanno mai avuta. È risorto anche per chi in tutta la sua vita non l’ha mai cercato: possa oggi, magari per caso, trovarsi davanti a Lui, e pur non sapendo che Egli è risorto, lo senta vivo e palpitante d’amore accanto a sé.
Cristo è risorto perché tutti potessimo risorgere con Lui. Lui, lAgnello senza colpa, ha redento le sue pecore, ha riscattato i peccatori riunendoli al Padre.
Se siamo convinti di questo, capiremo allora che la Pasqua al di là delle uova di cioccolato e delle campane a festa è la vittoria dell’amore, è la pienezza della vita immortale, è il terribile duello con la morte che il Figlio di Dio, vittima sacrificale per la redenzione delle sue creature, ha definitivamente superato e vinto.
Tutto dunque è compiuto! Tocca ora a noi credere veramente, tocca a noi vivere da risorti, testimoniando il Risorto lungo le strade della vita, della nostra “Galilea”.
Noi, discepoli affannati per il correre, discepoli sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, dobbiamo accettare la sfida della fede; dobbiamo smetterla di cercare Cristo tra i morti, dobbiamo smettere di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente: Gesù è risorto, è qui, al nostro fianco! Gioiamo, viviamo, cantiamo, preghiamo: soprattutto dimostriamo a tutto il mondo che Cristo è la nostra Pasqua! Amen.

IL MIO AUGURIO
·         Buona Pasqua a tutti gli amici, che hanno la pazienza e la costanza di leggere i miei post, in qualsiasi parte del mondo si trovino. 
·         Buona Pasqua a tutti quelli che cercano di incontrare Dio, toccati dalle sue Parole che trasformano l’anima. 
·         Buona Pasqua a chi si ostina ad amare comunque gli altri, anche se non ottiene nulla in cambio. 
·         Buona Pasqua a chi sente di avere sbagliato tutto nella vita: ricominciare non è mai troppo tardi.
·         Buona Pasqua a quanti riescono a conservare la fede in questa nostra orribile società moderna che divora e omologa tutto e tutti.
·         Buona Pasqua ai tanti consacrati e consacrate che hanno scelto di servire Dio: non siate calcolatori, non risparmiatevi, non accontentatevi di fare solo il dovuto: tuffatevi nell’amore infinito e gratuito del Risorto, attingetene a piene mani e riversatelo sui cuori aridi di chi non capisce o non vuol capire…
·         Buona Pasqua a chi lotta contro qualche malattia incurabile, sapendo che, forse, questa è l’ultima che gli è consentito di vivere.
·         Buona Pasqua e chi è in lutto, a chi gli è mancata in quest’anno una persona speciale, senza la quale nulla sembra avere più alcun senso.
·         Buona Pasqua a tutti voi, che, come me, siete cristiani fragili e un po’ distratti: coraggio, Gesù è davvero risorto. Ascoltiamolo! Seguiamolo! Amiamolo!

È questo il mio augurio per tutti voi.
Mario