martedì 1 ottobre 2019

13 Ottobre 2019 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


“Gli vennero incontro dieci lebbrosi… Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano” (Lc 17,11-19)

Il vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché “guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale; “guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale trasformazione, una conversione interiore.
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva il compito di esaminare il lebbroso, di dichiararlo “puro”, cioè guarito: ma soltanto dopo essersi sottoposto a tutta una serie di riti, poteva essere reinserito nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa nulla: non li tocca, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro, sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? O la loro guarigione dipendeva proprio dall'andare dai sacerdoti? In effetti è così: questi dieci credono alla parola di Gesù, hanno fede e questa loro fiducia li guarisce.
La fede di questi dieci è che sono convinti di poter guarire, di poter cambiare la loro situazione, e così avviene. Non è semplice per loro presentarsi a quell’autorità che li rifiutava proprio per la loro malattia: ma essi, anche se si vergognano della loro condizione, sfidano il giudizio pubblico e sociale, sfidano il rifiuto di quelle persone e vanno comunque da loro. Il segreto della loro guarigione sta qui: nell’aver recuperato la fiducia in sé e nell’andare incontro proprio a quella situazione che temono di più.
Se noi non crediamo in qualcosa di meglio per noi, non ci potrà mai succedere nulla di meglio. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra condizione, se dubitiamo, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se non crediamo di poter veramente guarire, non guariremo mai!
Molte persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Quando ci sentiamo in colpa, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. È un’azione che egli richiede, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva; la preghiera, la richiesta di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Pregare infatti è agire, altrimenti la preghiera rimane un lamento inutile, una filastrocca arida. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, è fare esattamente ciò che Lui ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo una egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può farci nulla. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano visto. Hanno eseguito materialmente l’invito di Gesù e sono andati dai sacerdoti: hanno obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno visto Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li aveva guariti.
Il ritorno del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Le persone pensano che tutto sia loro dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti degli altri, e di sé stesse: i privilegi non bastano mai. I nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è particolarmente distratto. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa, la nostra “Eucarestia”, (dal greco eÇcar°zw, ringraziare, esprimere gratitudine, riconoscenza) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono infatti dalla stessa parola: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo per i figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa e del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni che abbiamo, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo per noi è gratis. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore.
Chi non ringrazia, dimostra di non conoscere Dio. E non conoscendolo, si auto esclude dal rendergli lode. Al contrario “tornerà indietro” a ringraziare, a “bene-dire”, a lodare Dio, colui che si rende conto di essere una insignificante particella di un immenso, meraviglioso mosaico; di appartenere cioè ad un mistero divino di amore incalcolabile, un mistero che lo trascende, che lo supera vorticosamente, nel quale si sente totalmente immerso.
Fare della nostra vita una lode perenne a Dio: è questo il senso della nostra vita. E ciò non significa esibire costantemente un sorriso beota stampato in faccia (oltretutto indice di grande falsità); ma significa dire sempre di sì a Dio; significa accoglierlo e dargli voce in tutti gli istanti della nostra vita. Una vita di lode è la vita di colui che non si sottrae alla Sua volontà; di colui che continua a “tornare” alla sua presenza; di colui che, dal suo profondo, gli innalza lode per tutto ciò che vive, in segno di umile ringraziamento. Perché egli ha veramente “visto”. Amen.



6 Ottobre 2019 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario


“Gli apostoli dissero al Signore: Aumenta la nostra fede!” (Lc 17,5-10). 

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato e messo a dimora, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma il gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la purezza della fede dipenda dalla visita ai più celebri Santuari mondiali, dal partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo, la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con una tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il “gelso”, oltre che le difficoltà materiali, rappresenta anche i nostri schemi mentali malsani, le nostre abitudini distorte, le nostre convinzioni egoistiche, le nostre fissazioni: i nostri schemi ci danno sicurezza, sono conosciuti, ci fanno agire in maniera automatica, senza fatica, anche se spesso sono inutili, inconcludenti. Aver fede, in tal caso, vuol dire: “Riconosco i miei automatismi; mi credo libero e invece sono un manichino che reagisce meccanicamente. Più vivo di automatismi, di pensieri e di idee altrui, di frasi ricorrenti e preconfezionate, più mi immedesimo negli altri, mi uniformo, mi adeguo, mi adatto al sistema, mi condiziono, sono meno padrone di me stesso, meno libero. Aver fede, vuol dire insomma che posso fare le cose in maniera diversa, vuol dire che ciò che sembra impossibile, è al contrario, con Dio, sempre fattibile.
Luca poi, nel vangelo di oggi, introduce una piccola parabola che non intende tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
Ma cosa vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare atteggiamento di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”; l’atteggiamento di coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà, senza ostentazione o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e che tutto quanto fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla di eclatante, nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire Dio è per sua stessa natura gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8)
In particolare la parabola di oggi colpisce una certa mentalità dell’epoca, che accampava pretese verso Dio: la fedeltà alla sua Legge e ai precetti religiosi, infatti, costituiva per molti credenti un merito acquisito, un titolo di credito che assicurava loro dei diritti nei confronti di Dio. Era una specie di “do ut des”, uno scambio: “Sono stato bravo, rispettoso, non mi sono mai comportato male, e quindi tu mi devi un premio; mi devi amare, perché avendo osservato i tuoi comandamenti, mi spetta di diritto!”.
Una mentalità che talvolta è presente anche tra noi, soprattutto quando preghiamo: l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati sempre caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Dio grazie e benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via dicendo”; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio, a non imporgli la nostra volontà, vantando eventuali nostri “meriti”.
La vera preghiera a Dio, al contrario, serve solo per aprirgli il nostro cuore, per convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei “servi inutili”. Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “iniziati”, così comune e così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati. Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e commiserevoli. Lasciamo, insomma, fare a Dio il suo mestiere: perché, lo ripeto, non abbiamo assolutamente nulla da insegnargli. Amen.


giovedì 26 settembre 2019

29 Settembre 2019 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario


“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”. (Lc 16,19-31).

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi: uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi lautamente e abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male. Decisamente ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. L’unica cosa che gli manca è un nome: il testo lo identifica semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. Avere un nome significa conoscere in proiezione la propria vita, vuol dire conoscere la propria identità, quale sarà il futuro, quale il programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire “essere vivi”. Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere, come ha potuto non vederlo?. Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo ci dice il vangelo di oggi: che anche a noi sarà riservato lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e nessuno ci ha soccorso! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo: fa tanto male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, ascoltandoci, e lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, di apparire, almeno esteriormente, importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in sé stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, fermiamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che proprio chi ci sta più vicino ha bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che ha bisogno di noi, del nostro apprezzamento, delle nostre dimostrazioni di stima? Come facciamo a non vedere in tutti questi Lazzaro che ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che opprimono il loro cuore? Continuiamo a non vederli, a non sentirli, siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili passatempo.
E non ci accorgiamo che, come l’uomo ricco, viviamo già fin d’ora nell’inferno: nell’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte chiuse del nostro cuore, della nostra mente: viviamo in quell’inferno drammatico che è la chiusura a Dio, del non permettergli di entrare con la sua luce dentro di noi, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono, misericordia dove c’è tormento, solitudine, sofferenza.
Ecco perché l’inferno o il paradiso è nelle nostre mani: perché tocca solo a noi decidere se ospitare Lazzaro o lasciarlo fuori.
Tutti del resto abbiamo a nostra disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molto spesso preferiamo vivere a modo nostro, condurre una vita insensata, da sordi; ci tappiamo le orecchie per non udire, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione.
In questa vita abbiamo tutte le possibilità per imparare, per fare esperienze, per crescere spiritualmente, per coltivare la nostra sensibilità, la nostra anima: ma i risultati sono pochi.
Ci serve forse qualcos’altro di speciale per salvarci? Abbiamo bisogno di altri profeti?
Nossignori: è sufficiente la fede che ci indichi il “come”, e la carità con cui “metterlo in pratica”! Ci servono altri miracoli? Neppure: del resto il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: risvegliarci al mattino, aprire gli occhi e vivere, vivere ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il sole, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere nel mondo la nostra dignità umana. Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove.
Purtroppo siamo esseri impastati di luce e di ombra: possiamo cioè essere contemporaneamente i “poveri” come Lazzaro e i “ricchi” come l’epulone gaudente; possiamo essere i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti prediletti da Dio, ma anche, e forse più, quelli che non guardano in faccia a nessuno, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo.
Siamo insomma creature “divine” ma anche e soprattutto terribilmente “umane”, perché preferiamo seguire la soluzione del ricco, quella più semplice di chiudere gli occhi e far finta di nulla. Anche se poi questo nostro brancolare nel buio ci spaventa, ci angoscia, ci crea sgomento, ci destabilizza.
Non appena però una piccolissima scintilla di Luce riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutti i nostri inferni si attenuano, tutto diventa sopportabile, vivibile. Perché, nonostante la nostra inadeguatezza, noi siamo figli della Luce, siamo figli del Dio Amore, creati per vivere nella Luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta la nostra “trasformazione” per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen.


giovedì 19 settembre 2019

22 Settembre 2019 – XXV Domenica del Tempo Ordinario


Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» (Lc 16,1-13).

La parabola di oggi, al primo impatto, potrebbe risultare quanto meno sconcertante, poiché Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. 
C’è dunque un uomo ricco che per amministrare le sue proprietà si serve di un collaboratore che viene accusato di sperperare i suoi averi. Il padrone lo chiama e gli dice: “Rendimi conto della tua amministrazione, perché da adesso sei licenziato” (Lc 16,1-2). L’uomo, consapevole che il suo comportamento disonesto gli avrebbe procurato il licenziamento in tronco, cerca di risolvere al meglio questo problema imprevisto, ricorrendo astutamente ad uno stratagemma, in grado di creargli amicizie e connivenze importanti per il suo domani.
Ma osserviamo più da vicino i fatti: nella parabola l’amministratore non ammette le sue colpe, non si pente e non chiede scusa. Anzi, considerato che non ha più l’età per affrontare un nuovo lavoro manuale, decisamente più pesante, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, che fa? S’inventa una mossa in contropiede molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta a fini “pensionistici”, investendo per il futuro l’utile del suo malaffare. È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, gli paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale delle entrate, ovviamente ad incasso avvenuto; allora convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, e detrae da esso l’importo che egli riteneva destinato a lui. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò incassare più dal mio padrone, ma le investo ora che ho ancora l’autorità, per poterle riavere un giorno dai miei debitori, in termini di amicizia, di aiuto, di collaborazione. Sono certo che essi, a seguito della sostanziale riduzione dei loro debiti da me registrata, mi saranno sicuramente riconoscenti!”.
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver fatto sottoscrivere ai debitori delle “cambiali” con l’importo falsificato, è da furfante, non certo imputabile a motivazioni spirituali, teologiche o caritatevoli.
È in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta infatti la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a rinunciare di punto in bianco alla sua sicurezza economica, allo stipendio, al denaro contante, si crea, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che, sebbene rischioso in termini di denaro e di ricchezza immediata, gli assicurerà comunque un ritorno di riconoscenza, di legami commerciali, di amicizie, di collaborazione negli affari, tutti elementi ottimali per poter ricominciare una nuova attività redditizia.
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8). (Per inciso: non è il padrone che loda, ma è lo stesso Gesù: si tratta di una traduzione inesatta; infatti il termine “κυριος” (signore, padrone) usato da Luca è l’appellativo più ricorrente per indicare Gesù: egli lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti). Un apprezzamento di Gesù, quindi, impossibile per noi da accordare con il suo esempio di vita e i suoi insegnamenti. Ma qui Egli non elogia la disonestà, la malafede, l’ingiustizia, i furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata è la sua furbizia, la sua intraprendenza, la sua intuizione, la sua prontezza di spirito. Doti per nulla negative, ma assolutamente condivisibili e consigliabili a chi si adopera nel fare il bene; doti raramente riscontrabili in chi lo vuol seguire. Tant’è che Gesù conclude la parabola, costatando un po’ amaramente: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Una constatazione che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato: suo malgrado, dopo tanto impegno da parte sua, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre, nei loro comportamenti negativi, sono più scaltri, più furbi, più “svegli” dei “suoi” figli, i figli della luce. Parole, le sue, che contengono un chiaro a pressante invito ai suoi di adottare nel bene una pari scaltrezza, di agire da insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta furbizia e inventiva.
Per avere tuttavia una visione più completa del messaggio di questa pagina del vangelo, dobbiamo tener conto anche di altre considerazioni più tecniche.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che ha molto a cuore il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, con annessi e connessi. Egli infatti riporta sempre puntualmente gli interventi che Gesù fa a questo proposito: come per esempio nel capitolo 12, in cui parla della insensatezza di quell’uomo molto ricco che pensa solo ad aumentare le ricchezze fino all’inverosimile, rimandando continuamente nel tempo la possibilità di godersi la vita, senza capire che nessuno è padrone del tempo; per lui la ricchezza è garanzia di felicità, ma egli “muore” da subito, infelice, perché troppo attaccato ai soldi, perché fonda la sua vita soltanto sull’avere e non sull’essere.
Sempre lui, Luca, ritorna sul tema della ricchezza in questo capitolo 16, con il testo di oggi e con quello di domenica prossima, in cui leggeremo la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro.
Ora, il contrasto ricchezza-povertà era una questione sociale di grande attualità anche ai tempi di Gesù. Il termine di riferimento era il “Mammona”, cioè la ricchezza, che veniva comunemente distinta in ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Ma per Gesù non c’è distinzione: la ricchezza è sempre, in ogni caso, “disonesta” (“adikia” in greco); per Lui l’arricchimento è sempre ingiusto, perché chi “accumula” solo per sé, inevitabilmente “sottrae” a qualcun altro: e questo si chiama “egoismo”.
Se però scendiamo un po’ più in profondità, vediamo che il termine “Mammona”, tradotto con “ricchezza”, in ebraico contiene la stessa radice di “amen”, un termine che conosciamo bene e che vuol dire “così sia”: un termine che introduce il significato di accettazione, di benestare, dell’augurarsi un qualcosa di sicuro, di certo; un termine insomma che dà sicurezza, su cui si può contare. E cosa c’è nella vita di veramente certo, cos’è che dà fiducia, che infonde sicurezza? Certamente, come abbiamo visto, non è il denaro, non l’accumulo di beni, non le ricchezze: pensare infatti che i beni materiali procurino felicità, è pura illusione. Allora, qual è la cosa che ci dà tranquillità, su cui possiamo contare, quella cosa che possiamo procurarci tramite il “mammona”, la ricchezza, vivendo cioè con la mentalità di questo mondo? Solo l’amicizia, la “filìa”. Ce lo dice chiaramente il testo: “mammona”, la ricchezza, che in sé è sempre “disonesta”, deve servirci solo per procurarci “degli amici” (fìlus), “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Attenzione però: chi sono questi “amici” in grado di accoglierci nelle “dimore eterne”? Certamente nessun amico “fisico”, umano, materiale, può farlo. Solamente un amico “spirituale”, un amico sincero e fedele in qualunque frangente, un amico cui sta a cuore la salvezza della nostra anima: un amico che si chiama “la nostra fede”, “il nostro credo”; insomma, l’unico e vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne”, è Dio stesso.
In questo mondo possiamo dunque farci un solo “amico” che manterrà ogni sua promessa, un “amico” che ci salverà, che ci toglierà da ogni delusione: Dio.
Per noi cristiani la vera ricchezza è Dio, il vero “amico” è Lui, è la fede in Lui, l’abbandono in Lui: con Lui, la morte, il crollo di ogni nostra certezza materiale, non è più un dramma, ma sarà il mezzo per prendere il definitivo possesso della Vera Ricchezza, quella che non viene mai meno, quella che niente e nessuno potrà mai distruggere.
“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?” (Lc 16,10-12)
Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una fedeltà speciale nel molto. La fedeltà è unica. Ma come possiamo definirla? È una virtù, una dote, un “modus operandi” che trova le sue radici nella legge morale, e risponde alla ferma convinzione che la nostra unica, autentica ricchezza, è Dio. Se non possediamo questa “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “disonesti” verso di Lui e verso i fratelli, nel poco come nel molto. Perché, “non potete servire Dio e mammona”.
In altre parole, solo servendo Dio possiamo vivere affrancati dalla schiavitù di mammona, del denaro che produce ricchezza: ne facciamo uso, certamente, ma non ci attacchiamo ad esso, non è il nostro Dio, non rappresenta per noi la certezza, l’assoluto. Solo così Dio è il “nostro Dio”; solo così il nostro cuore diventa “generosità”, “servizio”, “agape”; solo così rimarrà aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo, e solo così un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita. Dio, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenza, di essere imperdibile e irrinunciabile: vivere con Lui significa tranquillità, serenità, beatitudine, gioia vera, Vita!
Noi però, nostro malgrado, continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, buon nome, prestigio, carriera, riconoscimenti sociali, potere): siamo purtroppo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezze, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; per essi siamo spesso disponibili a vendere anche l’anima. Viviamo una non vita in continua tensione, con la paura di perderli, questi beni; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “Mammona” non è un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, che ci rende la vita, di per sé meravigliosa, sterile, vuota, arida, invivibile. Amen.



giovedì 12 settembre 2019

15 Settembre 2019 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario


“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare… perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,1-32).

Quello di oggi è un “pezzo” classico del vangelo: una pagina che tutti conoscono, in cui tre parabole, dette “della misericordia”, dominano la scena; parabole delle quali tutti, ma proprio tutti almeno una volta, ne abbiamo sentito parlare.
Il testo inizia dicendo che i pubblicani e i peccatori si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Uno pensa: “Beh, le autorità religiose saranno contente che Egli riesca ad attirare gli ultimi, i lontani, soprattutto i peccatori”. E invece no. I farisei e gli scribi, le autorità, “mormorano”; cioè giudicano, disprezzano il comportamento di Gesù; Lo odiano talmente, come si evince dal testo, che evitano perfino di nominarlo: si riferiscono a lui chiamandolo: “Costui”.
Ebbene, è proprio “per loro”, i custodi del tempio, che Gesù racconta queste parabole: sappiamo infatti che i farisei e gli scribi costituivano la “crema” spirituale del popolo; attraverso preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile nel seguire tutte le norme religiose, anche le più piccole, si ritenevano santi e migliori degli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori: gente che essi non solo non avrebbero mai fatta entrare in chiesa, non solo non l’avrebbero mai assolta, ma l’avrebbero volentieri distrutta, fatta sparire dalla faccia della terra: ovviamente in nome di Dio!
D’altronde si rifacevano alle Scritture, alla loro religione, che in proposito erano abbastanza chiare: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati (Cfr. Is 13,9; Sal 139,9).
Proprio per certi estremismi umani la religione spesso rischia di essere pericolosa: perché mentre Dio è disceso sulla terra per incontrare gli uomini, facendoci capire che possiamo incontrarlo sempre proprio qui, tra gli uomini, la religione al contrario per incontrare Dio, sale nell’alto dei cieli, allontanandosi dagli uomini, con il rischio di non incontrarlo mai. Saranno infatti proprio i “religiosi” che condanneranno a morte Gesù. Perché dove non c’è amore per il prossimo, per i fratelli sfortunati, sicuramente non c’è neppure Dio.
Tutta la vita di Gesù ce lo insegna: Egli infatti si intrattiene continuamente proprio con quella gente che le autorità religiose, Bibbia alla mano, avrebbero voluto solo eliminare. Per loro, il fatto che Gesù “mangiasse” con chiunque era una provocazione troppo grave, insostenibile, impensabile: nel mondo palestinese, infatti, il cibo era servito in un unico piatto dal quale tutti si servivano con le mani, per cui “mangiare insieme” significava condivisione, “comunione di vita”; Gesù al contrario condividendo il cibo con persone impure, toccando il cibo, lui stesso diventa impuro (l’impurità si trasmetteva con il contatto), e quindi Dio non è con Lui, poiché Dio non si concede mai agli impuri; Dio si dà solo ai puri, ai santi. Una mentalità discriminante che è arrivata fino a noi: “Tu sei puro? Sì? Allora puoi andare in chiesa, puoi avvicinarti a Dio, ecc.”. “Tu non sei puro? No? Allora non puoi avvicinarti a Dio. Sei una persona condannata, destinata all’inferno per i tuoi peccati: Dio ti respinge, non sa che farsene di uno come te.
Solo però che il Dio del Vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Nel Vangelo è proprio Gesù che va dagli ultimi, dai peccatori, dai disgraziati. Ed è ovvio: Gesù va da chi ne ha più bisogno, non fa distinzioni tra buoni e cattivi, va da tutti, a condizione che siano disponibili ad accoglierlo.
Pertanto, se la “religione” dice: “Dio ce l’hai, se te lo meriti. Se sei bravo, se sei puro, se righi dritto, perché solo così Dio è con te”, il Vangelo dice un’altra cosa, esattamente il contrario: “Non devi essere puro per avere Dio. È il suo amore, la sua accoglienza che, resoti conto della tua miseria, ti rende puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia... accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.
È dunque proprio per far capire questa novità, a quei tempi impensabile, che Gesù racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto in questa terra per cercare proprio chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente gratuito di amore, di misericordia.
Mi soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”.
Ebbene: quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello maggiore, invidioso, sottomesso al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi” di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato un capretto...”. Ma i capretti, per tutti quegli anni, erano già tutti a loro disposizione!
La religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di sé.
La parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia.
La parabola parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è, o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri lavastoviglie, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché qualcuno ci ami!
Da un’indagine risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa, soffrono di “figliolite” acuta: credono, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di loro. Sorge il dubbio che siano loro ad aver bisogno di lui.
I due figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”, un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Il primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!”.
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo: non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia.
La loro diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella, che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione. “Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia.
Il minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa: è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose per tutti.
I due fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia? Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene con te; perché tratti “tuo figlio” esattamente come me?”.
“Con le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no, è comunque un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo. Non sappiamo infatti se egli sia andato con le prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di noi!
Cosa c’è dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame.
Ma il padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si è mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore si comportava da semplice esecutore? Non si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione, d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo interpella, visto che anche lui era parte in causa?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è successo!?”. Per forza, erano ciechi!
È chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri, di suo figlio!
L’unica cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà al figlio solo “cose” materiali, vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozioni, vitalità, niente di sé stesso da passargli. È il fallimento dell’educazione.
Molti genitori riempiono i loro figli di “cose”: di giocattoli, di vestiti, di telefonini, di soldi, di divertimenti; ma tutto questo non può sostituire la cosa più importante che è l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di momenti esclusivi con lui, di abbracci. Ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze, di sentimenti. Ha bisogno di entrambi! L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso un padre può sostituire la madre, come nessuna madre può sostituire un padre. Inutile cercare oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità!
I genitori a volte dicono spazientiti: “Mio figlio ha tutto!”. È vero, perché gli danno tutto di materiale, ma non gli trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di emozioni.
Sotto questo profilo, possiamo definire la parabola del figliol prodigo, la parabola del non detto”, della non comunicazione; in essa, dopo la richiesta iniziale del figlio minore, nessuno parla: per metà racconto nessuno dice nulla, nessuno si rivolge a qualcun altro. Solo alla fine parlano tutti: il minore riconosce il suo errore, esprime il suo pentimento, rivela la sua fame d’amore; il padre parla e si commuove: esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perdere suo figlio; anche il maggiore parla: della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello. Ma forse è troppo tardi!
È un po’ il quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”, quando, invece, ci sono un sacco di cose che non vanno: parole che non vengono dette, che rimangono dentro; emozioni che non vengono espresse, che restano ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza, ma spesso non se ne parla, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità di tutti, “per il bene dei figli”, si dice, è sempre meglio non parlarne, è meglio fingere che tutto vada bene! Salvo poi, quando i problemi esplodono, cadere tutti dalle nuvole: “Com’è potuto succedere? Come mai? Chi l’avrebbe mai pensato?”.
I problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è che la parabola ha una svolta? Quand’è che tutto cambia? Quand’è che in quella famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi iniziano a parlarsi e l’amore prende il sopravvento.
Così vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori questi sentimenti, discutiamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamolo apertamente. Infatti il minore e il padre, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore, nel racconto, non è ancora guarito, ma si capisce che ha iniziato un suo nuovo percorso di vita! Amen.



giovedì 5 settembre 2019

8 Settembre 2019 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,25-33).

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò che dice e di ciò che fa. Lo vogliono seguire per questo, solo che non sanno bene cosa voglia dire “seguire” Gesù.
Essere infatti entusiasti di Gesù e seguirlo, sono due cose molto, ma molto, diverse tra loro. Un conto è ammirarlo, un altro è seguirlo: perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa dover tirare conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione severa, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno, scambiato tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce ormai imminente, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a brontolare, hanno insomma di che lagnarsi della situazione. Un borbottio che progressivamente cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti che iniziamo con entusiasmo un certo percorso, salvo poi ad abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori, è vero: nella vita tutto è difficile, fino a quando, mettendoci impegno, tutto diventerà più facile! Dobbiamo però capire che se ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere” contro ogni difficoltà, perdiamo tutto, ci troviamo senza più nulla in mano, anche quel poco che avevamo conquistato, senza poter più raggiungere alcun obiettivo. Diventiamo insomma come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Ora, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre ecc.”), non potremmo assolutamente attribuirla a Gesù. Ma dice proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma ha usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato, “miseo”, in greco significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, a scanso di equivoci, va detto prima di tutto che, in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare” qualcuno, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro. Anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci hanno donato, poiché nulla, vita compresa, ci era dovuto! Gesù qui si riferisce non ad un “sentimento”, ma ad un “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere, che ci renda veramente “liberi”. Per dirlo, ha usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per farci capire quanto sia importante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, essere completamente “libero”. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Egli usa il verbo “odiare”, un verbo di “contrasto, per dirci chiaramente che in certi momenti non possiamo scendere a patti, a compromessi: dobbiamo rifiutare qualunque soluzione alternativa, e dobbiamo farlo in modo radicale, deciso, risoluto.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che si presta ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stàuros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno”, “prendere” volontariamente, o “bastàzo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù.
Non significa, poi, dover subire passivamente, da rassegnati, obtorto collo, le sofferenze, le disgrazie, le malattie, i dolori che la vita ci riserva; ma vuol dire accettare gioiosamente, volontariamente, e quindi liberamente, qualunque contrarietà come conseguenza della nostra adesione a Cristo, ivi compresa la progressiva distruzione da parte del mondo della nostra personalità, delle nostre scelte, della nostra reputazione: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”.
La croce altro non è quindi che accettare le discriminazioni per il nostro voler vivere il “Regno di Dio” già su questa terra: un vivere, in altre parole, come ha fatto Gesù, comportarsi “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del pensiero comune; in particolare: “condivisione” e non accumulo, “uguaglianza” e non prestigio personale, “servizio” e non sopraffazione. Solo se avremo un cuore veramente libero dalle pastoie del mondo infatti potremo veramente amare Dio e il prossimo, metterci umilmente a servizio degli altri disinteressandoci del giudizio della gente: perché perdere la loro stima non significa perdere la nostra dignità: spesso, anzi, proprio per non perdere la dignità, dobbiamo rinunciare ai riconoscimenti del mondo! Amen.


giovedì 29 agosto 2019

1° Settembre 2019 – XXII Domenica del Tempo Ordinario


“Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti! Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,1.7-14).

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben visto per questo, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di nuovo: in particolare a coloro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a coloro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli. L’andare a “pranzo” da questa gente, significa però per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali il suo cibo, il suo nutrimento spirituale, i suoi insegnamenti, la sua Parola: un cibo ben più importante di quello materiale.
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto. Di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale era invitato anche il rabbi o il predicatore di turno. Il testo ci fa notare che in quel caso, trattandosi della casa di un capo dei farisei, oltre alla gente comune, dovevano essere presenti anche altre persone importanti, degne di riguardo.
Da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù si serve di questo particolare per la sua catechesi: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Egli osserva la scena, e nota la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Più o meno quello che succede di solito anche ai nostri giorni.
È chiaro che Gesù qui trova lo spunto nei comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: era tipico di quella società classista, di quella cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Cosa propone allora Gesù, anche per noi? Una cosa molto semplice: scegliere di non mettersi al posto d’onore, ma in un posto qualunque. E con questo Egli intende condannare gli eccessi, non tanto il giusto riconoscimento degli onori, del prestigio, dell’importanza di una persona: tant’è vero che aggiunge subito: “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
Inoltre, Egli approfitta per condannare anche quella “modestia” affettata con cui uno volutamente si mette all’ultimo posto, una modestia un po’ pelosa, di dubbia origine, tipica di molte persone, che in realtà non è altro che la “maschera” della superbia: “vorrei essere più di te ma non posso, non ci riesco, per cui assumo un tono dimesso, modesto, come se la cosa non mi interessasse”. È l’atteggiamento tipico di quelle persone che fingono, loro malgrado, di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, di essere umili, di considerarsi “gli ultimi”.
Mettersi all’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, non è scritto da nessuna parte nel vangelo; ma al contrario vuol dire darsi da fare per questo genere di persone, cercare di creare una società nuova, in cui non ci siano più “emarginati”.
La differenza è minima ma sostanziale: dobbiamo metterci cioè all’ultimo posto non perché ci sentiamo ultimi, ma perché non ci sentiamo “superiori” degli altri. In altre parole dobbiamo metterci all’ultimo posto perché siamo convinti che tutte le persone, tutti i presenti, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. Una società fraterna, d’amore, può sussistere solo se tutti si considerano e sono considerati uguali.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Legare la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché in realtà, dentro di noi, in fondo, in fondo, siamo delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine esteriore, per quanto grandiosa, può renderci felici: non lo può per definizione! Perché la felicità nasce solo dal nostro concreto vissuto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci appariranno sfocati, scontornati, eliminati, distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento. Allora dobbiamo reagire: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie.
Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?
Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata: Regno dei cieli, infatti, è percepire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore, quelle che riflettono l’amore di Dio. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli è dispensare presenza, affetto, amore ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza desiderare, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e senza valore. Regno dei cieli è sentirci parte integrante ed essenziale di questo mondo, esattamente come si sente un figlio, parte integrante di una famiglia vera, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre. Perché tutto questo è “normalità”, un soffio soprannaturale di Dio che nasce in noi con noi. Purtroppo è “crescendo “che la società ci fagocita, inducendoci proditoriamente ad abbandonare questo “regno dei cieli”. Sapientoni del nulla, legislatori microcefali, si affannano nel sostenere che tutto ciò è soltanto una grande “balla”, un miraggio per deficienti, una “illusione” insulsa per preti, suore, gente esaltata. Ma noi, in cuor nostro, sappiamo che non è così!
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).
Anche qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non inviteremo certamente chiunque incontriamo per strada. Non è questo che Gesù vuol dire. Inviteremo, piuttosto, soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli.
Il principio fondamentale che Gesù vuole trasmetterci è che non dobbiamo impostare i nostri rapporti secondo il famoso “do ut des”, io ti faccio dono di qualcosa per avere da te un contraccambio. Questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali: le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrirci in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, non sulla base dell’utile che possiamo ricavare.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce dall’amore, dalla gratuità. Fare qualcosa per interesse non produce gioia, soddisfazione, libertà, ma solo il calcolo, l’ansia, l’attesa di un riconoscimento, di un ricambio materiale, di uno sterile scambio di favori. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: per cui, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati e gioiosi, sappiamo già come comportarci. Amen.