giovedì 29 novembre 2018

2 Dicembre 2018 – I Domenica di Avvento – Anno “C”


“Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,25-28.34-36).
Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta, vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano, dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio d’uomo” viene conferito da Dio, il “Vegliardo”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso, alla sua persona divino-umana, Gesù ha inteso spostare l’attenzione dei contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un figlio d’uomo) umile e sofferente, al servo di Jahweh di Isaia, immagine che meglio lo descriveva nella sua missione redentrice del genere umano: rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”, che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” deve essere infatti l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata conferita una personale missione da compiere. Tutti infatti siamo chiamati a vivere qualcosa di grande, a dare alla nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il mondo.
Qualunque obiettivo vero, grande, potente, ha però un suo costo impegnativo: la vita stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più fragili, guardando questa nostra investitura dalla prospettiva delle difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà, sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano qualunque corso di catechesi, ogni incontro di spiritualità; sono onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento, siano al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di catechesi in un’altra sede, in quel Centro di spiritualità, al quale non posso sottrarmi! E poi, quanto facciamo qui è troppo elementare, poco istruttivo, non mi attira, non vedo “carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre “ispirazioni”, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella giusta attesa della venuta di Dio.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).

Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il verbo “pregare”, in greco “deomai”, significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per la nostra casa, il luogo dove Dio ci ha chiamati; dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là seguendo gli inviti di celebri santoni; più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.


giovedì 22 novembre 2018

25 Novembre 2018 – XXXIV Domenica del T.O.: Cristo Re dell’Universo


“Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” Gv 18, 33b-37.

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Gesù Cristo Re dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re, tra Pilato e Gesù. Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio davanti a Pilato.
Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo!
Nella sua carriera politico militare, ne aveva visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli hanno consegnato e che ora gli sta davanti è davvero singolare, unico: si definisce re!
A lui non interessa affatto la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria; l'unica sua attenzione è di non andare ad alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei.
Durante la scena del processo, così come descritta dai vangeli, c’è un particolare che va sottolineato: Pilato continua ad entrare all’interno del palazzo e ad uscire di fronte alla folla.
Da un lato è attratto da Gesù (entra), perché ne sente la verità e la bellezza. Ma dall'altro teme i Giudei (esce); teme le conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio, l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza.
Un po’ come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità di una cosa, ma sappiamo che aderirvi significa diventare impopolari; sentiamo la passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo che dovremmo cedere su certe posizioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci; sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le conseguenze.
Insomma, di fronte a queste situazioni come ci comportiamo? Pilato, ci dice il vangelo “se ne uscì”; preferì non approfondire la questione, preferì rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere.
E noi? Esattamente come lui! Ci barcameniamo, preferiamo tenere il piede su due staffe.
Al che Gesù ci dice: “se vi accontentate delle carrube dei porci (Lc 15,15) e non cercate, non desiderate qualcosa di meglio, non posso farci niente. Se vi basta il superfluo, le cose terrene, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare, mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la voce interiore che vi invita a darvi da fare seriamente, a desiderare di più, io non posso farci nulla.
Però da quello che scegliete apparirà quanto valete come uomini”.
Pilato dunque, ad un certo punto, chiede a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?” (v. 33).
La domanda ha il tono di una presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della Palestina, tu di dove sei re?”.
Pilato è interessato soltanto al ruolo sociale: “Sei per caso un nobile, un personaggio importante, un dottore della legge, uno scriba, uno che ha studiato molto?”
Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi ha potere.
Ma Gesù parla di un altro mondo; Pilato non può neppure immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
E Gesù di rimando: “Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto?” (v. 34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta cioè di farlo uscire dalla spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, che desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla paura di compromettersi, preoccupato per le conseguenze politiche che deriverebbero da una sua decisione veramente libera. Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così.
Pilato, re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. La sua risposta è banale, distratta, superficiale: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?” (v. 35).
Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi.
E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma, “chiunque è dalla verità” (v. 37), non può far finta di niente, non può stare tranquillo.
Non lo possiamo più neppure noi. Per questo dobbiamo cercare; dobbiamo aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni di vita, anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; anche quando ci accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo, perché solo così potranno riemergere quelle emozioni, quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti dentro di noi.
Non esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano.
Non esiste la libertà in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché liberate.
Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà.
Pilato si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle, risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei fatti.
“Il mio regno non è di questo mondo…” (v. 36).
Gesù e Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari diversi. Per Pilato “regno” vuol dire esercito, armi, potenza e territori.
Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio di sé, essere liberi di amare, di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non dipendere passivamente dagli altri.
A volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e questo ci rende impossibile l’incontrarci con lui.
“Dunque tu sei re?”, insiste Pilato (v. 37), nascondendo dentro di sé un sorriso di commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare, e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei qui incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, potrebbe salvarti! Sei proprio senza attenuanti!”.
E Gesù: Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (v.37).
Pilato si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo pur ritenendolo innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una folla assetata di sangue: pur di salvare la sua “ragione di stato”, si sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma non sa come uscire da questo imbroglio.
“Chi è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. “Gesù” è la nostra ovvia risposta.
Ed è la verità! Ma è una verità incomprensibile per chi guarda solo con occhi umani: per i Romani arrogarsi il titolo di re è motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettavano.
Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna; Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro Salvatore, il nostro Maestro.
È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re” di noi stessi, della nostra anima. Purtroppo per noi non è un’impresa semplice; essere re, dominatori incontrastati del nostro cuore, non è certo cosa facile se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, vergogna, aggressività.
Come possiamo definirci re, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come possiamo definirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo definirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo di non fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se sistematicamente ci inganniamo, nascondendoci per paura la verità? 
Ma chi comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è il nostro regno.
Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla e amministrarla come si deve? 
Chiudiamo per un istante gli occhi e riviviamo mentalmente le ultime ore di Gesù: un Re innalzato sul patibolo, inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e nemici; privato della sua reputazione, della sua credibilità, di quella fama di santità che faceva accorrere le folle piene di ammirazione; privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava aiuto, salvezza; privato della vita, di quella esistenza qui sulla terra, a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare in Lui il simbolo della nostra liberazione totale, della sua vittoria estrema sul mondo.
Appunto perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non commiserazione.
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero, maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che distrugge la nostra felicità. Fissando questa nostra libertà, guardiamo tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi.
Sì, perché noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e pensare di noi.
Siamo schiavi del successo evitando qualunque sfida del bene, per paura e ignavia.
Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine interiore.
Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Questi siamo noi.
Alla fine dell’anno liturgico, facciamo un bilancio serio e onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, Colui che ha conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore, ha attirato a sé tutto e tutti. Amen.


giovedì 15 novembre 2018

18 Novembre 2018 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,24-32).

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano, è vero, della fine di “un mondo”; ma non della fine “del mondo”.
Il testo di oggi parte improvvisamente dal v. 24 del capitolo 13 di Marco: Gesù, riferendosi ad un discorso già iniziato col versetto 1 dello stesso capitolo, lo completa e lo chiarisce; ecco l'antefatto: un discepolo, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito, estasiato, convinto come tutti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire; in altre parole, che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio impedisce la comunione vera tra Dio e gli uomini (Dio era presente solo nel Sancta Sanctorum, il cui accesso era negato ai fedeli).
Il tempio è distrutto, non serve più, perché ora Dio si è fatto presente con Gesù nella storia umana.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti (Mc 13,22). È un avvertimento. Il male c’è nella storia. Tocca a noi affrontarlo e combatterlo: dobbiamo essere noi a farcene carico in prima persona, per poterlo riscattare sulla croce, ed essere poi associati alla risurrezione.
E arriviamo al vangelo di oggi, che prosegue sullo stesso tema: “Dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio, di cui aveva già parlato) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli si riferisce semplicemente a quelle espressioni religiose molto presenti nella storia dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava in Jahweh l’unico Dio. Ma se andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane (sole, luna, stelle) sono destinate a cadere giù definitivamente: quel tipo di religione pagana, cioè, finirà, perderà il suo splendore e l’idolatria entrerà in crisi. Prima però è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). In altre parole: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo, alla paternità dell’unico Dio, tutta questa pseudo-religiosità è destinata a scomparire.
Ecco perché “le stelle cadranno” (Mc 13,25); meglio: “gli astri si metteranno a cadere”: il verbo greco indica un cadere continuo): ma qui non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti costruite dall’uomo di ogni tempo; quel cadere di continuo, attualizza l’azione fino al presente; e ciò vale anche per i potenti, per i principi, per i re, cioè per tutte quelle persone che si ritenevano e si ritengono “divine”, intoccabili, uniche: di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo, tutti subiranno la stessa tragica fine.
Un versetto di Isaia, esattamente il 12 del c. 14, ci aiuta a capire meglio questa profezia nel suo vero significato. Scrive il profeta: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che arrogandosi la condizione divina, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità.
E cosa dice Isaia di lui? “Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli nell’Ade, letteralmente nello Sheol, il regno dei morti!
Un concetto ripreso anche dalle parole poste sulla tomba di Alessandro Magno: “Basta questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Tutta la potenza sterminata di quell’uomo è finita sotto due metri di terra!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio; esattamente come avviene nella trasfigurazione in cui nella nube la voce dice: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). In altre parole: mentre “gli astri, le stelle” cadono, il Figlio dell’uomo “sale”, si innalza sulle nubi.
È una realtà, una regola, che trova la sua conferma sempre, in ogni tempo: ogni volta che cade, che viene meno un regime ingiusto, un potere disumano, la dignità dell’uomo, l’Uomo in quanto tale, si afferma, si nobilita. La caduta di un sistema oppressore o di una ideologia iniqua, di qualunque genere essi siano, è una liberazione per l’uomo. Pertanto non ci sarà una seconda venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma un nuovo risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco sono delle persone come il Battista: riferendosi a lui infatti dice: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Sono cioè quelle persone che diventano “messaggeri” di vita piena, i messaggeri umani di Dio: gli angeli non trasmettono una dottrina ma un’esperienza: essi quindi sono quelle persone che hanno già conosciuto Dio, che l’hanno già sperimentato nella loro vita e sono quindi in grado di comunicarlo agli altri. Saranno essi che “riuniranno gli eletti” (Mc 13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene del prossimo.
Pertanto: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno dai loro “cieli”, tutti quelli che hanno combattuto per alimentare la Vita, per farne fare esperienza agli altri, saliranno in cielo, vivranno in eterno.
Ebbene: cosa può dirci di particolare questo vangelo?
Dobbiamo saper valorizzare gli eventi contrari che ci capitano nella vita, perché essi si trasformeranno in una occasione positiva per noi, un’occasione da non perdere. In questo modo troveremo sempre la forza di fare anche quelle scelte che non vogliamo o abbiamo paura di fare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento. Può sembrare la fine, ma al contrario è la venuta in noi del Figlio dell’uomo, la nascita cioè di quella parte di noi molto più vera, più autentica, quella parte che altrimenti non avrebbe mai potuto nascere.
Perché è il Signore che guida le vicende umane, anche le più contrastate e penose, e lo fa seguendo il suo disegno di salvezza.
Noi nella vita tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, coltiviamo dei sogni; cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci prefissiamo e, per farlo, impieghiamo tutte le nostre energie.
Questo è sicuramente un bene: ma in tutto questo nostro attivismo, ci ricordiamo di Dio? Ci ricordiamo che lui ha un ruolo fondamentale nella nostra vita? Certo, i suoi interventi sono imprevedibili, si attuano all’improvviso, nella sorpresa, in tempi assolutamente non sospetti; ma questo è l’unico modo che gli rimane per agire, visto che noi siamo sempre super impegnati, avendo già pianificato ogni momento, ogni attimo della nostra vita. Del resto per farci capire qualcosa che altrimenti non vogliamo capire, l’unico modo è sorprenderci, darci all’improvviso anche qualche sberla per indurci a pensare, capire, rimediare.
Quando il buio si fa più fitto e il male raggiunge il suo parossismo, noi non dobbiamo disperare: sappiamo infatti che il sole sorge dopo le tenebre della notte, che la raccolta dei frutti avviene dopo la fatica della semina. Per questo dobbiamo andare avanti con coraggio e fiducia senza mai arrenderci, con un occhio al presente e l’altro puntato verso la meta.
Allora, quando stiamo bene, quando tutto va per il verso suo, viviamo questi momenti con intensità, con umiltà; e ringraziamo Dio.
Quando tutto ci crolla addosso, viviamo queste nostre sconfitte non come un castigo, ma come un’occasione, una spinta energica, per ricominciare; e ringraziamo Dio.
Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è vita, viviamola e ringraziamo Dio; quando la morte ci tocca da vicino, quando capiamo di essere arrivati al capolinea, viviamo dignitosamente quei momenti tremendi; e ringraziamo Dio.
Viviamo insomma tutta intera la nostra vita, ringraziando Dio per ogni singolo istante che ci concede, per poter godere meritatamente di questo suo dono. Amen.


giovedì 8 novembre 2018

11 Novembre 2018 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


“Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (Mc 12, 38-44).

Gesù si trova nel tempio. E guarda, osserva quello che gli accade intorno. E commentando ciò che vede, impartisce una profonda lezione di vita.
“Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti…”. Al tempo di Gesù, tutti indossavano il tallit, una specie di scialle, per andare nel tempio a pregare; quello degli scribi però si distingueva dagli altri perché era molto ampio, lungo e sontuoso. Era impossibile non notarlo, non ammirarlo. Un simile abbigliamento, da solo, qualificava già la persona che lo indossava, ne stabiliva l’alto grado sociale, ne sottolineava le cospicue possibilità finanziarie; essi camminavano lentamente tra la folla, per “ricevere saluti nelle piazze”, per essere ammirati, riconosciuti, temuti; incutevano, nella gente semplice che incontravano, un senso di inferiorità, di soggezione, di sudditanza. Nelle sinagoghe ovviamente avevano un posto riservato, un posto d'onore, di fronte a tutta l'assemblea. Promettevano preghiere e sostegno spirituale alle vedove, che nella società di allora costituivano l’elemento più debole, più sfruttato. In realtà la promessa di difenderle era solo un pretesto per spillare loro quattrini, spogliandole di quei miseri averi che le mantenevano in vita. Insomma erano delle persone poco raccomandabili, questi scribi: pieni di loro stessi, erano tutta e sola apparenza.
“Essi riceveranno una condanna più grave”. Gesù non ha pietà per questo genere di falsari della vita, della religione e del culto, per questi amanti dell'apparire, della pubblica ostentazione delle loro “sontuose vesti”, della loro facciata, del loro apparente benessere, della loro inesistente superiorità. Personaggi che la gente ammira e invidia comunque; personaggi che amano fare notizia, apparire sempre sulle prime pagine dei giornali: sono in pratica gli “scribi” del ventunesimo secolo, quelli che la gente comune ritiene “fortunati” perché hanno tutto dalla vita, quelli che “possono”, gli “arrivati”, i “potenti”, quelli del “lei non sa chi sono io!”
Il mondo è pieno di questi “vip”, miseri commedianti della vita, affamati di “divismo”, che barattano la loro dignità pur di “apparire”, di esibirsi nei salotti televisivi, nelle manifestazioni mondane, cercando ad ogni costo l’applauso mediatico, l’ammirazione di quella massa decerebrata che li adora, ammaliata dal fascino fasullo della loro immagine! Una pletora di personaggi che si illudono di essere insostituibili alla cultura, opinionisti “di tendenza”, sostenitori di qualunque iniziativa trasgressiva, parolai insulsi dei vari salotti televisivi: il gossip che li riguarda è ormai diventato l’animatore assoluto di trasmissioni pomeridiane al limite di una vomitevole idiozia, unico nutrimento culturale e spirituale per la gente d’oggi.
Siamo purtroppo caduti tutti decisamente in basso! Ci lasciamo abbagliare non dalla Luce vera, ma da fuochi fatui, e non ci rendiamo conto che in realtà, dietro una facciata splendida, spesso si cela un abisso di solitudine, un cumulo di cattiverie, di vuoto, di violenze, di lacerazioni interiori. Anche noi, piuttosto che dal calore dell’Amore divino, ci lasciamo sedurre dal gelido scintillio di una vita senza senso! 
Noi “scribi” di oggi siamo infatti disponibili a tutto, arriviamo a qualunque compromesso spirituale, a condizione che la nostra immagine esteriore sia sempre affascinante, luminosa, attraente; purché il nostro nulla, il nostro vuoto di personalità, di amicizia vera, di amore, trapeli agli altri. Siamo uomini di cartapesta, autentici pupazzi, fenomeni da baraccone.
Ce ne rendiamo anche conto, ma ci sta bene così: non vogliamo cambiare, non vogliamo metterci veramente in gioco. Dimostriamo di non aver capito che essere individui veri, genuini, protagonisti aperti alla vita, non vuol dire stare sopra gli altri, apparire, essere osannati, ma essere sé stessi, essere i primi in basso, nell’umiltà; vuol dire fare il bene nel silenzio, senza guardare ai riconoscimenti, agli applausi degli altri; vuol dire primeggiare nella carità, nell’amore. Eppure solo un’esistenza di basso e umile profilo interiore ci renderà primi, vincitori della buona battaglia, benvoluti agli occhi di Dio, fortunati beneficiari della Vita.
Essere vivi vuol dire avere occhi luminosi, sentimenti fluidi; vuol dire ascoltare gli altri con interesse, dire soltanto ciò che ha un senso e non è banale; vuol dire che facciamo spazio per gli altri, che ci sentiamo a nostro agio con le persone più umili; che non abbiamo bisogno di attaccare il prossimo, né di difendere la nostra reputazione; di non assecondare la voglia di elevarci sopra gli altri, sopra i nostri fratelli. Soprattutto vuol dire non inseguire il successo ad ogni costo, ricorrendo a mezzi meschini, come giudicare malignamente, screditare, demolire la dignità della gente. Un percorso purtroppo che talvolta è molto familiare anche per noi: tentiamo cioè, anche noi, di costruire la nostra gloriosa facciata sulle rovine morali dei nostri fratelli. Ma è veramente triste ricorrere a tanta meschinità per ottenere onori, gloria, consensi!
L'egoista (lo scriba, il narcisista) è uno che si preoccupa soltanto della propria immagine; l'uomo di fede invece si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'apparire e del buon nome; l'uomo di fede invece crede nella vita dello Spirito che lo inabita. La sua preoccupazione non è risultare gradito ad ogni costo, ma sviluppare il divino, lo Spirito che abita nella sua anima.
Agli scribi Gesù dice: “Guai a voi, guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità” (Mt 23,27-28).
Ciò che fa infuriare maggiormente Gesù è che queste persone false, non sono persone anonime, insignificanti; sono “scribi”, sono gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio, i custodi e amministratori della legge. Sono persone che parlano continuamente di Dio, che hanno sempre il consiglio pronto su come ci si deve comportare, su cosa si deve fare; persone che si vantano di saper interpretare la volontà di Dio, ma che lo fanno soltanto per gli altri. Hanno sempre in bocca il nome di Dio, ma il loro cuore è vuoto, arido. Lo conoscono benissimo con la mente, ma lo ignorano totalmente nel cuore.
Un atteggiamento purtroppo molto comune: possiamo infatti sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarci ogni mese, essere insomma “uomini di chiesa”; ma se il nome di Gesù non ci fa sussultare l'anima, se le sue parole non ci fanno vibrare il cuore, se il suo pensiero non ci trasmette desiderio di verità e di ricerca, in una parola se non ci “prende”, se non ci appassiona l'anima, a che ci serve tutto quello che sappiamo, che ce ne facciamo di tutte le nostre conoscenze?
Ebbene, sono proprio questi sedicenti “uomini di Dio”, questi “scribi e farisei”, le persone che Gesù considera false, senza fede, eretiche e ingannatrici. E a tutti noi dice: “State attenti”, non fatevi ingannare: chi ama Dio, non si vede dal vestito o dalla tonaca; da come si esibisce nel tempio, da come predica bene o dal colore dello zucchetto. Chi ama veramente Dio si riconosce dalle opere, dalla coerenza con cui vive, dalla forza d'animo, dall'amore e dalla bontà che gli traspare luminosa dagli occhi e dal cuore.
Concluso questo sfogo contro gli scribi, nauseato, irritato per il loro comportamento, Gesù va a sedersi in prossimità dell'ingresso del tempio, dove stazionavano gli incaricati alla raccolta delle offerte libere. Era lì che i ricchi, con grande sfoggio, contrattavano con i sacerdoti l'entità delle loro cospicue donazioni, accolte dai suddetti con soddisfatti sorrisi di compiacimento; ed era sempre lì che i poveretti, in particolare le povere donne, disponendo di somme molto esigue, erano costretti a subire dagli stessi un malcelato biasimo e disprezzo.
Essere vedove, all’epoca, significava essere senza reddito, senza un minimo di sostentamento: le donne non lavoravano, erano costrette a vivere di elemosina, di carità, di quel poco che altri donavano loro. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli sempre affamati da nutrire.
Probabilmente i pochi spiccioli offerti dalla vedova notata da Gesù, costituivano l’intera somma della sua giornata di elemosina. Agli occhi superficiali e boriosi degli addetti, quella donna non offre praticamente nulla, una cosa irrisoria, un'inezia. Ma agli occhi profondi e misericordiosi di Gesù, quella donna offre il massimo, tutto quello che possiede, tutto quello di cui dispone, tutto di tutto. Il criterio di valutazione di Dio è molto diverso dal nostro. Dio non vuole mai “qualcosa” di noi, Dio vuole “tutto” di noi. Dio non vuole da noi “cose”; vuole soltanto noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Egli vuole che noi, per Lui, ci mettiamo completamente in gioco. Vuole che noi per Lui, cambiamo radicalmente il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di credere; vuole che diamo un ordine diverso alle nostre priorità.
Se non fosse stato per lo sguardo amorevole di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna. Quello che per gli addetti al culto era dozzinale, insignificante, senza valore, per Lui non lo era affatto. Perché anche le cose più umili, più insignificanti, al suo sguardo acquistano valore, lucentezza, splendore!
Gesù ha sempre amato gli umili; ad essere suoi discepoli non ha certo chiamato i sacerdoti del Tempio, né i ricchi farisei, né gli scribi, i sapienti di allora. Gesù ha scelto invece persone di poca cultura, dei pescatori un po’ rozzi, a volte di testa dura e ostinati (come Pietro). I “grandi” maestri dell’epoca lo avranno sicuramente commiserato per questa sua scelta così scombinata. Ma Lui sapeva quel che voleva, Lui vedeva dentro: quelle persone avevano poco o nulla, è vero; ma erano pronte a dare tutto quello che avevano.
Agli occhi di Dio tutto si trasforma: il nostro buio e le nostre sofferenze, in Lui acquistano luce e gioia; la nostra povertà, per Lui è inestimabile ricchezza; il nostro nulla, per Lui è un tesoro prezioso. Ai suoi occhi, il tanto è nulla, il niente è tutto!
Scegliamo allora la vita e non la morte: noi siamo “vita”! Accettiamo la nostra realtà, la nostra vita: noi siamo così, con la nostra storia, le nostre origini, la nostra infanzia, le nostre radici; se vogliamo essere qualcos’altro da quello che siamo, non potremo che fallire. Partiamo da noi: siamo unici; non siamo come nostro padre, né come nostra madre, né come gli altri: spetta solo a noi compiere quel viaggio dentro di noi, per essere ciò che veramente siamo, per essere come Dio ci ha creati. Scegliamo l’amore: facciamo vivere il nostro amore.
L’amore di Dio vive in noi: conosciamolo, sperimentiamolo, usiamolo verso di noi e verso gli altri, con misericordia, tenerezza, compassione.
Scegliamo di donarci piuttosto che di venderci: realizziamoci nel dono di noi stessi. La nostra vita ha bisogno di essere data, versata, spesa per una grande causa: solo allora ci sentiremo al servizio del mondo e di Dio; solo allora saremo utili e, vivere, acquisterà finalmente il suo senso autentico e profondo. Amen.



giovedì 1 novembre 2018

4 Novembre 2018 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12,28-34).

Il “sapiente” di turno, uno scriba che forse voleva saggiare la preparazione di Gesù, o forse mosso anche da sincera voglia di sapere, gli rivolge una domanda secca: fra tutti i precetti della Legge di Mosè, qual è il primo, quello più importante? Da notare che i rabbini avevano condensato la Legge di Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa (“non devi…”), considerati lievi, e 248 in forma positiva (“devi…”), che erano invece ritenuti gravi. Una giungla di prescrizioni, tra le quali anche i più esperti studiosi della Torah, come gli scribi, si muovevano con difficoltà.
Gesù di rimando lo lascia di stucco, lo prende in contropiede: gli ripete prontamente quella stessa professione di fede deuteronomica che lui, da buon israelita, aveva il dovere di recitare tutti i giorni, più volte al giorno. Una professione di fede chiara, intoccabile, intramontabile, un po' come il Padre Nostro per noi Cristiani: Il primo comandamento è: Shemà Israel, ascolta Israele; il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”.
Sono parole semplici, ma di grande interiorità, con le quali si proclama e si riconosce la stretta relazione del popolo d’Israele con il suo Dio, la sua appartenenza a Lui, anzi l'appartenenza reciproca: siamo del Signore e il Signore è nostro Dio. Forti di tale convinzione gli Israeliti rinunciano a rendere qualunque forma di culto alle divinità pagane, dedicandosi interamente al loro Dio e all'osservanza della sua Legge. Perché solo affidandosi esclusivamente a Lui, sanno di non aver bisogno più di nulla da nessun altro.
Un concetto valido e universale: ma Gesù non si ferma qui. Egli va oltre; vuole integrare l’antica legge, completandola, mettendosi sulla linea della grande tradizione profetica e rabbinica: “Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi”.
Il comandamento dell'amore è fondamentale, unico: prima di tutto l’amore a Dio, indiscutibilmente; poi l’amore verso il prossimo. Il primo non può esistere separato dal secondo.
Pur rimanendo distinti, i due comandamenti si intrecciano, si richiamano a vicenda. Non possiamo amare Dio, se non amiamo anche quelli che Egli ama. Se ci impegnassimo ad amare Dio soltanto, escludendo il nostro prossimo, la nostra relazione con Dio sarebbe semplicemente falsa, inesistente e quindi illusoria. Se investissimo ogni nostra energia nell'amare gli uomini, fossero pure i più bisognosi, i derelitti, gli abbandonati, escludendo espressamente Dio dal nostro orizzonte, il nostro rapporto con loro sarebbe semplicemente esibizionismo, voglia di emergere, amore non genuino. Ogni nostro gesto di amore nei confronti del prossimo è autentico soltanto se è mosso anche dall’amore verso Dio. L’amore è unico, inscindibile.
Shemà Israel, ascolta Israele”. Da questa solenne esortazione Gesù prende lo spunto per rivelarci quel rapporto totalizzante con Dio e con il prossimo, che Egli condensa in un’unica parola: amore.
“Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze”. Non c’è possibilità di fraintendimenti: il “cuore, l'anima, le forze” non sono tre facoltà separate, ma costituiscono l'uomo nella sua completezza: il “cuore” è il centro profondo della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l'“anima” indica la sua intera esistenza permeata dal divino soffio vitale; le “forze” dicono anche il coinvolgimento della totalità del suo corpo vivente, di tutte le sue energie e risorse fisiche.
In pratica Dio non si accontenta di una parte soltanto: soltanto di quella spirituale oppure di quella materiale. Egli vuole che l’uomo sia tutto suo, completamente, esclusivamente suo. Non gli basta di essere servito, onorato, pregato: Egli vuole anche che l’uomo lo ami, e non di un amore qualsiasi, ma di un amore esclusivo, completo.
Ecco: la novità e l'originalità di Gesù sta nell'avere rivelato e insegnato l'unità, l’inscindibilità dei due comandamenti dell'amore; e sta anche nel fatto, che nessuno è mai riuscito a viverli in maniera così perfetta di come ha fatto Lui. La novità sta anche nel fatto che un tale amore, impossibile alle sole nostre forze umane, ci viene trasmesso gratuitamente da Gesù e dal Padre attraverso il dono del loro Spirito. Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo significa chiedere proprio tale capacità d'amare.
La religione di Gesù, dunque, è la religione della sicurezza, non della paura; la religione della fiducia, non del timore; la religione del cuore e non delle pratiche esteriori. Ma prima di tutto è la religione dell'amore, in quanto in essa noi scopriremo sempre di più che Dio ci ama di un amore infinito, pieno di tenerezza, di bontà, di misericordia, di fiducia. Perché Dio è Amore; e anche noi, nel nostro piccolo e con tutti i nostri limiti, siamo chiamati a diventare amore. Gesù, infatti, nella pienezza della sua missione, non si accontenta di dire: Ama il prossimo come te stesso, come puoi o come vuoi; ma ci invita ad amare secondo la misura del suo Cuore: “Amatevi gli uni gli altri, come Io vi ho amati”. E Lui non ha posto limiti, ci ha amati offrendo tutto sé stesso per noi, fino al sacrificio della sua vita. Ecco, questo deve essere “il nostro” comandamento, il comandamento “nuovo” omologato da Gesù stesso.
Certo, parlare di amore è abbastanza facile. Ma l'amore non lo si pratica con le parole, con i grandi discorsi, con programmi grandiosi: l’amore si esercita con i fatti. Anzi dobbiamo imparare a parlare poco, a non esibirci, a non pubblicizzarci in iniziative straordinarie, ma a compiere invece molte piccole azioni di amore autentico, generoso, disinteressato; verso tutti, ma con particolare attenzione verso le persone che hanno più bisogno, anche quelle che non ci sono simpatiche o verso le quali non ci sentiamo portati. Gesù ci ha detto di amare perfino i nemici... “perché se amate coloro che vi amano, che merito ne avete?”
Se vogliamo intraprendere la strada dell'amore, non dobbiamo riempirci la bocca di belle parole, ma dobbiamo riempire la nostra vita di fatti concreti. Dobbiamo prendere coscienza che, nonostante tutto ciò che ci ha detto Gesù e che noi stessi conosciamo quasi a memoria, è molto facile sbagliare e peccare contro la carità e l'amore del prossimo. È infatti soprattutto verso il prossimo che noi siamo peccatori. Basti pensare alle mancanze che facciamo con le persone che ci sono più vicine, in casa nostra, nel lavoro, nelle relazioni con gli altri: egoismo, parole, giudizi, critiche. In fondo anche le divisioni, i giudizi cattivi, i protagonismi all’interno della nostra chiesa, della parrocchia, sono peccati contro la carità, contro l'amore. E dire che Gesù ci aveva raccomandato solo questo! Lo aveva anzi posto come nostro “distintivo”: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
Allora, non basta la preghiera, non basta la messa domenicale, la comunione, le elemosine, la caritas... Dobbiamo amare veramente. È la cosa più bella, più facile, più vera: basta provarci ogni giorno. E la preghiera, la messa, la comunione ecc. saranno non il punto di arrivo, ma il punto di partenza per chiedere a Dio di aiutarci a diventare sempre più innamorati di Lui e più caritatevoli verso il prossimo.
Certo, per imparare ad amare ci vuole tutta una vita. Ma possiamo farcela; possiamo amare dell'amore che abbiamo ricevuto e che ha trasfigurato il nostro cuore.
Lasciamoci amare da Dio; Dio ci ama tantissimo. Ci ama senza condizioni, senza possesso, senza fragilità. Ci ama non perché siamo meritevoli, ci ama non perché siamo buoni: è Lui infatti che, amandoci, ci rende buoni e meritevoli. È Lui che ci rende capaci di amore, di luce, di pace, di essere “dono”, di donare, di contrastare la logica di questo mondo.
È difficile, è vero: abbiamo l'impressione di nuotare controcorrente. Ma l'esempio di tanti santi ci deve confortare.
Recitiamo ogni sera quella bella preghiera della nostra infanzia: “Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità…; per amor tuo amo il prossimo mio come me stesso…, perdono le offese ricevute… Signore, che io ti ami sempre più”. Ripetiamola così, umilmente, semplicemente: come l’abbiamo fatto da piccoli, come l’hanno fatto i nostri genitori, i nostri nonni. Perché la cosa più bella che possiamo fare nella nostra vita è amare Dio, amare i nostri fratelli: perché questo ci rende persone di luce, di gioia, di pace; persone che fanno trasparire anche dal proprio volto una pallida sembianza della bontà di Dio. E la gente ha proprio bisogno di questo! Solo di questo, della bontà e dell’amore di Dio. Amen.




giovedì 25 ottobre 2018

28 Ottobre 2018 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” (Mc 10,46-52).

Il brano del vangelo di oggi si apre con una strana particolarità. Gesù e i suoi, giunti a Gerico, immediatamente ne escono (Mc 10,46). Uno si aspetta che succeda qualcosa di importante in quella celebre città, un tempo vanto degli ebrei (con Giosuè dovettero abbatterla per entrare nella terra promessa), ma nulla. Marco non dice una parola. Gesù, con i discepoli e la folla al suo seguito, entrano da una porta ed escono dall’altra. Soltanto nell’uscire dalla città, Gesù incontra “il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco”.
Gerico, col tempo, era molto cambiata dalla città simbolo di vittoria, di successo, di liberazione che era; era diventata zona residenziale delle autorità e dei potenti della vicina Gerusalemme i quali, opprimendo la popolazione, l’avevano ridotta a terra di sopraffazione, molto simile all’Egitto dei tempi dell’Esodo: non per nulla Marco, per descrivere l’uscita di Gesù, utilizza l’identico verbo di allora (ekporeuoménu), che richiama l’evasione da una situazione di prepotenza, di soprusi, di angherie. Simbolo di questa circostanza è appunto il nostro cieco: solo che in questo caso la liberazione non è stata tanto materiale quanto spirituale: l’oppressore di oggi non si trova più all’esterno, ma all’interno; il nemico è dentro di lui, è la cecità del cuore, il suo non voler riconoscere Gesù per quello che veramente è (il “Rabbunì” e non il “figlio di Davide”).
Con Gesù, sottolinea Marco, oltre ai discepoli, c’è “molta folla”: non dice “che lo seguivano”; fa semplicemente notare che “erano” con Lui: Gesù in pratica ha tantissima gente intorno, gente che lo accompagna ma che non lo segue, per cui in realtà è come se fosse solo (soltanto il cieco, una volta guarito, lo seguirà). Del resto tra le due azioni c'è una differenza sostanziale: “accompagnare” implica un senso di provvisorietà, che poi è la nostra, quello più comune: “finché mi fa comodo ti faccio compagnia, ti accompagno; poi vedrò!”. “Seguire” invece comporta stabilità: “Io starò sempre con te, qualunque cosa accada”: è una scelta più impegnativa che richiede molta determinazione.
A questo punto Marco si sofferma sulla scena del figlio di Timeo, Bartimeo.
Nel vangelo sinottico di Matteo, sempre all’uscita da Gerico, sono due i ciechi “seduti lungo la via” (Mt 20,30); Marco invece scrive di uno solo: per lui il fatto storico passa in secondo piano rispetto al significato del miracolo.
Forse proprio per questo, ci spieghiamo perché Marco identifichi il cieco, prima in greco con “il figlio di Timeo”, e poi in aramaico con Bartimeo, (“Bar-timeo”= “figlio di Timeo), un falso nome proprio, che ripete lo stesso concetto. Penso infatti che ricorrendo allo stratagemma del nome fittizio, Marco voglia qui sottolineare che non si tratta di una persona storica, ma di un personaggio qualunque, un personaggio simbolico: tutti cioè possiamo riconoscerci in Bartimeo, tutti possiamo essere ciechi come questo poveretto. Non per nulla il termine greco “timeo” significa sia rispettabilità, onore, gloria, che paura incertezza, insicurezza: pertanto dire “figlio di timeo”, equivale a dire “figlio della gloria, degli onori, della rispettabilità”, oppure “figlio della paura, dell’incertezza, dell’insicurezza”.
Nel primo caso abbiamo un uomo che dipende totalmente dalla gloria, dall’orgoglio: né più né meno come i due apostoli che pretendevano di “Sedere alla destra e alla sinistra” (Mc 10,37) di Gesù solo per raccogliere onori, gloria, rispettabilità: solo che vivere bramando, cercando, desiderando, onori e gloria, è un vivere alla cieca, da inconsapevoli. Nel secondo caso, “figli della paura”, significa vivere avendo timore di tutto; significa cioè vivere nello sgomento, essere insicuri, non avere né fede né certezze; e allora è davvero la fine: il risultato è sistematicamente negativo: perché se abbiamo paura di essere rifiutati, noi ci isoliamo; se abbiamo paura di rimanere delusi, di sbagliare, di non riuscire, non inizieremo mai nulla; se abbiamo paura di non piacere, finiremo, pur di piacere a tutti, di stravolgere la nostra personalità, di diventare persone “altre” da quelle che siamo; se abbiamo paura di cambiare e di evolvere, rimarremo sempre gli stessi, ossia delle persone mediocri costantemente insoddisfatte.
Marco è un grande cesellatore: usa una terminologia che apre grandi spazi alla meditazione: così il cieco è un mendicante che siede “lungo la strada” (Mc 10,46). Perché proprio “lungo la strada”? In fin dei conti poteva essere ovunque! Cosa vuol dirci Marco con “lungo la strada”? Se prendiamo la parabola del seminatore, leggiamo che il seme che cade “lungo la strada” viene divorato dagli uccelli (Mc 4,4). Nello spiegare poi la parabola chiarisce che “quelli lungo la strada sono coloro nei quali la parola è seminata; appena la odono, viene subito Satana e la porta via” (Mc 4,15). Ora, sappiamo che Satana è il potere, l’ambizione, la superbia, l’orgoglio. Per cui possiamo benissimo stare sempre insieme a Gesù, come gli apostoli; possiamo andare a messa tutti i giorni, possiamo dire tutti i rosari di questo mondo, ma se lo facciamo per farci vedere, per superbia, per orgoglio, non serve a niente; possiamo fare tutto il bene che vogliamo, ma se lo facciamo per sentirci migliori, più bravi, più impegnati, in una parola superiori agli altri (che magari pure giudichiamo), allora siamo “lungo la strada”: noi, cioè, il vangelo lo ascoltiamo anche, ma poi entra in gioco Satana e tutto finisce lì: il seme della Parola non ci entra dentro, non attecchisce, non porta frutto.
Inoltre, il cieco è “seduto”: cioè è fissato, bloccato, fermo nelle sue idee: è convinto di capire, è certo di vedere, di sapere, ma in realtà è cieco, perché “lungo la strada”, il male (Satana), ha annullato la sua conoscenza; è quindi un “mendicante”: è costretto cioè a dipendere dagli altri, non è autonomo; è uno che non sa camminare con le sue gambe, uno che è indeciso, che chiede sempre agli altri: “Cosa devo fare? Cosa è giusto? Vado bene così?”; uno senza iniziative, che da solo non va da nessuna parte.
Ancora: il cieco sente passare “Gesù Nazareno” (Mc 10,47). Tutti sapevano che Gesù era di Nazaret, che bisogno c’era di specificarlo? Nazaret si trovava in Galilea e la Galilea era una terra di ribelli, di rivoltosi, era il luogo in cui si concentravano i rifugiati politici; era il luogo in cui essi si nascondevano e tendevano agguati ai Romani. Dire “Nazareno” equivaleva pertanto definirlo un “galileo”, era come dargli del rivoluzionario, del ribelle, del sovversivo. E infatti il cieco chiama più volte Gesù “Figlio di Davide” (Mc 10,47-48): un titolo con cui allora si identificava il Messia davidico, che come Davide, sarebbe venuto con la forza, con la potenza, con le armi, con l’esercito: uno con il mandato di sconvolgere gli equilibri esistenti, imponendo il suo potere.
Il grande re Davide infatti aveva sì unificato le Dodici tribù d’Israele, ma lo aveva fatto in un tremendo bagno di sangue; al punto che volendo costruire il tempio (si sentiva in colpa verso Dio!), il Signore si oppone: “Tu no, hai le mani sporche di sangue per costruire il tempio” (1Cr 22,8). Era insomma un uomo spietato e frivolo. Chi è accecato dall’ideologia (religiosa o no) non vuole la vita ma la morte, l’eliminazione degli altri. Il fanatico vede solo la “sua” religione, il “suo” guru, le “sue” idee: gli altri sono tutti da eliminare.
Il cieco dunque, sentendo la presenza di “Gesù Nazareno”, dimostra di avere di Lui una conoscenza errata: per questo “incomincia a gridare”: chi è infatti che “grida” nei vangeli? Quelli che sono posseduti da uno spirito immondo! Il cieco, con le sue convinzioni, è posseduto dal demonio, è un fanatico, ha cioè un’idea sbagliata di Dio. Per questo è cieco. Quindi egli non chiede a Gesù di guarirlo ma di aver pietà di Lui (Mc 10,47-48): è ancora “seduto”, fermo nella sua mentalità e vede Gesù solo come il Messia antico; in pratica gli dice: “Sono cieco perché ho peccato (essere malati significava essere peccatori), per questo non avrò la resurrezione; tu Messia, abbi pietà di me e concedimi la resurrezione”. Egli non vede in Gesù colui che è amore, misericordia, compassione, ma solo colui che può condannare o salvare. È cieco: non ha ancora visto chi sia realmente Gesù. Sente di essere bisognoso, sente che è un mendicante, ma non ha ancora capito il suo problema. Egli non conosce la sua malattia, e quindi non può guarire: bisogna darle un nome, e solo allora sarà possibile lavorare per la propria guarigione.
Quando Gesù dice: “Chiamatelo!” e lo vanno a chiamare, egli getta via il mantello (Mc 10,50), getta via cioè quello che era prima, getta via la sua mentalità, le sue idee preconcette; è qui che si concretizza la sua “chiamata”, attraverso la rottura col passato: infatti “balza in piedi” come uno che ci vede, e come uno che ci vede “va da Gesù” (Mc 10,50); il quale gli chiede: “Che cosa vuoi che ti faccia?” (Mc 10,51). È la stessa domanda rivolta a Giacomo e Giovanni nel vangelo di domenica scorsa (Mc 10,36). Solo che allora Gesù non poté fare nulla per loro; qui invece sì. Come mai a volte Gesù non ci ascolta? Perché non ci concede sempre quello che gli chiediamo? Semplicemente perché chiediamo cose che non ci può dare. Chiediamogli le cose giuste e le avremo. Qui l’uomo cieco chiede a Gesù la fede, la fiducia, chiede insomma di cambiare. E questo Gesù glielo può dare. Ma se noi gli chiediamo una vita ricca e fortunata, se gli chiediamo che ci faccia questo o quel miracolo, che ci risolva questo o quel problema, le difficoltà della vita quotidiana, allora gli chiediamo cose che Lui non può darci: perché Dio non ci sostituisce nel fare ciò che tocca fare a noi.
Se invece noi chiediamo a Dio il desiderio e la forza di cambiare vita, di migliorare, questo Lui ce lo può dare. Se gli chiediamo la forza di affrontare le contrarietà, o il coraggio per scegliere la via tortuosa che porta a Lui, o la luce per illuminare questo nostro cammino, Lui ce li può dare. Se gli chiediamo il fuoco, l’ardore, l’entusiasmo, per poter perseverare fino alla fine del nostro percorso di cristiani, Lui ce li può dare.
Giunto ai piedi di Gesù, il cieco non grida più; non chiama più Gesù “figlio di Davide”, ma “Rabbunì”, “Mio Signore, mio Maestro”: usa cioè una confidenziale espressione aramaica con cui ci si rivolgeva a Dio (la stessa usata dalla Maddalena in Gv 20,16, la mattina di Pasqua, quando riconosce Gesù). Egli in questo momento ha gli occhi aperti: non vede più nella sua mente il falso Gesù, il messia davidico, ma vede davanti a sé il vero Messia, il Figlio di Dio; non gli chiede più di avere pietà di lui, ma finalmente: “Che io riabbia la vista, che io riabbia la mia fede”. E Gesù gliela concede. È il miracolo.

E Marco conclude commentando: “E subito egli ci vide e prese a seguirlo per la strada” (Mc 10,52).
Gli altri, la folla, accompagnano Gesù; solo lui, il cieco guarito, lo segue: perché ora lui vede chiaramente chi è Gesù. Prima non lo vedeva, pensava di seguire Gesù, ma si ostinava a seguire un messia, figlio di David, che non era Gesù. Molte persone vanno in chiesa e pregano, ma non pregano il Dio di Gesù, non lo vedono, non lo riconoscono, sono ciechi: si definiscono cristiane, ma il vangelo che seguono non scuote minimamente le loro convinzioni, le loro idee, il loro credo; non le ispira, non le guida in ciò che fanno, in ciò che sentono, in ciò che vivono.
Sono tanti ciechi, sono tanti Bartimeo: hanno bisogno di guarire per poter finalmente “vedere” il Dio di Gesù: un Dio che si aspetta da noi di essere riconosciuto e amato; un Padre sempre pronto ad accoglierci e a guarirci dalla nostra deviante cecità; un Dio Amore che illumina, sorregge e guida in ogni momento il nostro cammino, la nostra vita; un Dio che ci chiede soltanto di amarlo, umilmente e sinceramente, coinvolgendo in questo nostro amore anche tutti i nostri fratelli. Amen.



giovedì 18 ottobre 2018

21 Ottobre 2018 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo. Egli disse loro: Che cosa volete che io faccia per voi? Gli risposero: Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” 
(Mc 10,35-45).

Gesù, mentre prosegue il suo cammino verso Gerusalemme, cerca di istruire, di preparare i suoi discepoli alla tragica conclusione della sua missione terrena, descrivendone sempre più apertamente i particolari. I discepoli però dimostrano ancora una volta di non comprendere le sue parole: per loro Egli è e resta il messia, l’inviato di Jahweh, con il compito di ristabilire, di ricompattare il regno d’Israele, riportandolo allo splendore del periodo Davidico.
Non capiscono, non vogliono capire: e anche questa volta prevale in loro l’idea della restaurazione politica guidata da Gesù; niente quindi di più naturale che due dei dodici discepoli, si avvicinino a Lui per fargli delle richieste personali in vista della sua affermazione gloriosa. Si tratta di Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo: due personaggi piuttosto singolari, tanto da venire soprannominati i “Boanerghes”, i figli del tuono, grazie alla loro indole collerica, ambiziosa, prepotente, suscettibile, sempre pronta alla rissa. E lo dimostrano subito con il tono perentorio con cui si rivolgono a Gesù: “Noi vogliamo che tu ci faccia”. “Noi vogliamo”: non esprimono un desiderio, il loro è un ordine; non chiedono umilmente, ma vogliono, esigono, pretendono. Non accettano opposizioni.
Un comportamento decisamente agli antipodi rispetto a quello di Gesù. Egli è paziente, ascolta tutti, cerca sempre di capire, di risolvere qualunque problema, di infondere coraggio e speranza nei bisognosi; quando deve comunicare cose importanti, si ripete, spiega e rispiega in maniera che tutti comprendano. E nonostante la presunzione dell’approccio, anche questa volta Egli offre ai suoi interlocutori ampia disponibilità: “Cosa volete che io faccia per voi?”.
Aveva appena finito di dire: “Vado a Gerusalemme, forse mi prenderanno; me la faranno pagare; forse mi uccideranno; ho paura ma devo andare; statemi vicino, aiutatemi”, e dai due si sente ordinare: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37).
C’è proprio da rimanere sconcertati, allibiti: i due dimostrano chiaramente di non aver ascoltato per nulla le parole di Gesù, di non aver capito nulla dei suoi timori, delle sue preoccupazioni; dimostrano insomma di non essere per niente interessati del suo domani.
Ebbene, c’era di che spazientirsi, ma Gesù risponde pacatamente: “Voi non sapete ciò che domandate”. Non lo dice con disprezzo; la sua è una triste e amara constatazione. “Voi siete completamente fuori strada”. In effetti, un giorno Gesù avrà accanto a sé due persone, uno a destra e uno a sinistra, ma non appartengono al gruppetto dei suoi: sono soltanto due ladroni condannati a condividere con lui il supplizio della croce. Ma questo i figli di Zebedeo non lo sanno e non lo vogliono sapere; sono troppo concentrati nella visione politica della missione di Gesù, nonostante le sue ripetute dichiarazioni del contrario; dimostrano di essere degli illusi irrecuperabili, convinti come sono, che Gesù vada a Gerusalemme non per morire, ma per governare, comandare, dirigere il popolo: con loro due ovviamente ad occupare i posti di comando più prestigiosi, al suo fianco. Non hanno capito niente, perché non lo hanno ascoltato veramente: hanno sentito la sua voce ma non le sue parole; ne hanno solo travisato il significato.
Tant’è che quando Gesù chiede loro: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono stato battezzato”, cioè: “potete seguire fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, il mio destino e la mia missione?”, essi gli rispondono: “Sì, certo! lo possiamo”. Poveri illusi! Continueranno a cullarsi nei loro sogni di potenza e di gloria fino al momento dell’arresto di Gesù, quando improvvisamente si scontreranno con la realtà: “Tutti, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). La loro presunzione, le loro promesse di fedeltà assoluta e di coraggiosa condivisione dei pericoli, si dissolve in un momento come neve al fuoco.
Poi Gesù prosegue: Si, il calice mio lo berrete... e il battesimo lo riceverete..., ma non come pensate voi. Io non sono come Voi continuate a vedermi”.
“Bere il calice” era una tipica espressione ebraica che indicava la morte con il martirio. Essi pertanto accettando di berlo fino in fondo, si dichiaravano pronti anche a morire per il “loro” potente Messia; ma non per un Gesù solo, debole e indifeso.
Accortisi di quanto stava succedendo davanti a loro, dice il Vangelo, gli altri dieci discepoli si indignano con Giacomo e Giovanni; si adirano non per il modo impertinente con cui i due si sono rivolti a Gesù, ma perché stanno cercando di assicurarsi per il domani quella posizione di prestigio, cui tutti segretamente aspiravano. Questa ambizione peraltro non ci deve meravigliare più di tanto, visto che fino a poco tempo prima stavano discutendo animatamente tra di loro su chi fosse “il più grande”: e purtroppo dove c’è ambizione, ci sono divisioni, contrasti, lotte, scontri.
A questo punto Gesù si rende conto che deve chiamarli nuovamente a sé; con grande pazienza deve spiegare ancora una volta il vero motivo della sua missione. Li aveva già chiamati all’inizio della sua attività missionaria: ora li deve richiamare, per far capire loro che quel “vieni e seguimi” di allora non era finalizzato ad una passeggiata in comitiva, ma comporta un radicale e continuo “cambiamento di mentalità”; comporta l’abbandono della rigidità del proprio pensare; richiede cioè di entrare dentro sé stessi, per dare un nome, il vero nome, a tutto ciò che coltiviamo nella mente e nel cuore.
Per essi, sicuramente, la prima chiamata è stata soltanto motivo di autocompiacimento: si sono cioè sentiti gratificati nella loro ambizione, nel loro desiderio umano di emergere. Gesù non li rimprovera ora per questo; ma li porta a ridimensionare drasticamente il loro “ego”, a guardare con umiltà gli eventi della vita, il loro significato reale e profondo. E spiega: “Chi vuol essere grande sia servitore, e chi primo, ultimo”. Ecco, con due sole parole, “servitore” e “ultimo” smonta tutti i loro sogni di grandezza; due parole che ben meritano una spiegazione: il “servitore” (“diàconos”) è colui che serve gli altri volontariamente e con piacere; non è costretto, ma spontaneamente si mette a disposizione del prossimo. Lo fa per amore, per passione, per condividere con i bisognosi la gioia che sente dentro di sé. “Servire” è dunque fare gratuitamente ciò che procura gioia ad altri. Essere “ultimo”, poi, (in greco “doùlos”, lo schiavo), significa conformarsi al gradino più basso della servitù. Significa in pratica non di essere “schiavi” nel senso corrente del termine, ma di considerarci come se fossimo tali, cioè all’ultimo posto: e questo non perché siamo indegni o non valiamo niente; non perché siamo dei sottomessi senza iniziative, delle persone insignificanti: ma perché, se ci sentiamo ultimi, sappiamo che tutti gli altri sono sopra di noi, che tutti gli altri meritano onore e rispetto più di noi. I “capi delle nazioni”, chi sta ai posti d’onore, invece, non si comportano così: essi si ritengono i “primi” in assoluto, considerano tutti gli altri inferiori a loro, li guardano con disprezzo, con sopportazione, con arroganza.
E Gesù conclude: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Qui Gesù parla di “riscatto”: era il “lytron”, la somma che bisognava pagare per riscattare dalla schiavitù una persona, oppure la cifra che la famiglia doveva corrispondere ai creditori per riscattarsi dai debiti, o il prezzo da liquidare ai vincitori per far rimettere in libertà i loro cari catturati in battaglia.
Gesù dunque si fa uomo come noi, per pagare con la sua vita il “lytron”, il riscatto per la vita di “molti”, per l’umanità intera. E per questo sacrifica, come sottolinea qui il testo, la sua “psyché”: mette cioè sul piatto del riscatto la sua vita, la sua “vitalità”, la sua energia, la sua forza, la sua fiducia in Dio, la sua conoscenza del Padre: in una parola, tutto quello che lui ha lo investe per liberarci, per affrancarci, per toglierci dalle nostre prigioni e dalle nostre schiavitù, per ripagare tutti i nostri debiti; è venuto su questa terra e ha speso tutta la sua vita, perché noi potessimo essere liberi, dimostrando con ciò quanto grande fosse il suo amore per noi.
Questo dunque ci insegna Gesù nel vangelo di oggi: che anche noi dobbiamo amare, servire umilmente i nostri fratelli: dobbiamo cioè mettere a loro disposizione non solo ciò che abbiamo, ma anche e soprattutto ciò che siamo. E lo dobbiamo fare con gioia, consapevoli che in questo modo saremo utili, faremo del bene; la nostra vita, ciò che siamo, diventerà la “vita” dei fratelli bisognosi: noi cioè rinasceremo in loro per diventare vita, gioia, serenità. Solo così esprimeremo totalmente le nostre potenzialità. Perché per i nostri fratelli sofferenti e bisognosi, per i nostri cari, per gli amici, per i conoscenti, in una parola per il nostro “prossimo”, che noi ci siamo o non ci siamo non è la stessa cosa: perché la nostra presenza o la nostra assenza determina nella loro vita un radicale cambiamento! Penso che il momento peggiore nella vita di un uomo sia quello in cui si rende conto di condurre una esistenza inutile, un’esistenza senza ideali, senza alcun senso; una vita arida, improduttiva, senza linfa, che non serve a nulla: a che pro allora vivere una vita che non è vita? Altra cosa invece è vivere per donare, vivere per amare; vivere per far vivere gli altri, mettendo a loro disposizione l’amore, la carità del nostro cuore: un amore, una carità, che di volta in volta si trasformano in tenerezza, conoscenza, festa, unione, silenzio, preghiera. Come ci ha insegnato Gesù. Amen.