giovedì 25 ottobre 2018

28 Ottobre 2018 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” (Mc 10,46-52).

Il brano del vangelo di oggi si apre con una strana particolarità. Gesù e i suoi, giunti a Gerico, immediatamente ne escono (Mc 10,46). Uno si aspetta che succeda qualcosa di importante in quella celebre città, un tempo vanto degli ebrei (con Giosuè dovettero abbatterla per entrare nella terra promessa), ma nulla. Marco non dice una parola. Gesù, con i discepoli e la folla al suo seguito, entrano da una porta ed escono dall’altra. Soltanto nell’uscire dalla città, Gesù incontra “il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco”.
Gerico, col tempo, era molto cambiata dalla città simbolo di vittoria, di successo, di liberazione che era; era diventata zona residenziale delle autorità e dei potenti della vicina Gerusalemme i quali, opprimendo la popolazione, l’avevano ridotta a terra di sopraffazione, molto simile all’Egitto dei tempi dell’Esodo: non per nulla Marco, per descrivere l’uscita di Gesù, utilizza l’identico verbo di allora (ekporeuoménu), che richiama l’evasione da una situazione di prepotenza, di soprusi, di angherie. Simbolo di questa circostanza è appunto il nostro cieco: solo che in questo caso la liberazione non è stata tanto materiale quanto spirituale: l’oppressore di oggi non si trova più all’esterno, ma all’interno; il nemico è dentro di lui, è la cecità del cuore, il suo non voler riconoscere Gesù per quello che veramente è (il “Rabbunì” e non il “figlio di Davide”).
Con Gesù, sottolinea Marco, oltre ai discepoli, c’è “molta folla”: non dice “che lo seguivano”; fa semplicemente notare che “erano” con Lui: Gesù in pratica ha tantissima gente intorno, gente che lo accompagna ma che non lo segue, per cui in realtà è come se fosse solo (soltanto il cieco, una volta guarito, lo seguirà). Del resto tra le due azioni c'è una differenza sostanziale: “accompagnare” implica un senso di provvisorietà, che poi è la nostra, quello più comune: “finché mi fa comodo ti faccio compagnia, ti accompagno; poi vedrò!”. “Seguire” invece comporta stabilità: “Io starò sempre con te, qualunque cosa accada”: è una scelta più impegnativa che richiede molta determinazione.
A questo punto Marco si sofferma sulla scena del figlio di Timeo, Bartimeo.
Nel vangelo sinottico di Matteo, sempre all’uscita da Gerico, sono due i ciechi “seduti lungo la via” (Mt 20,30); Marco invece scrive di uno solo: per lui il fatto storico passa in secondo piano rispetto al significato del miracolo.
Forse proprio per questo, ci spieghiamo perché Marco identifichi il cieco, prima in greco con “il figlio di Timeo”, e poi in aramaico con Bartimeo, (“Bar-timeo”= “figlio di Timeo), un falso nome proprio, che ripete lo stesso concetto. Penso infatti che ricorrendo allo stratagemma del nome fittizio, Marco voglia qui sottolineare che non si tratta di una persona storica, ma di un personaggio qualunque, un personaggio simbolico: tutti cioè possiamo riconoscerci in Bartimeo, tutti possiamo essere ciechi come questo poveretto. Non per nulla il termine greco “timeo” significa sia rispettabilità, onore, gloria, che paura incertezza, insicurezza: pertanto dire “figlio di timeo”, equivale a dire “figlio della gloria, degli onori, della rispettabilità”, oppure “figlio della paura, dell’incertezza, dell’insicurezza”.
Nel primo caso abbiamo un uomo che dipende totalmente dalla gloria, dall’orgoglio: né più né meno come i due apostoli che pretendevano di “Sedere alla destra e alla sinistra” (Mc 10,37) di Gesù solo per raccogliere onori, gloria, rispettabilità: solo che vivere bramando, cercando, desiderando, onori e gloria, è un vivere alla cieca, da inconsapevoli. Nel secondo caso, “figli della paura”, significa vivere avendo timore di tutto; significa cioè vivere nello sgomento, essere insicuri, non avere né fede né certezze; e allora è davvero la fine: il risultato è sistematicamente negativo: perché se abbiamo paura di essere rifiutati, noi ci isoliamo; se abbiamo paura di rimanere delusi, di sbagliare, di non riuscire, non inizieremo mai nulla; se abbiamo paura di non piacere, finiremo, pur di piacere a tutti, di stravolgere la nostra personalità, di diventare persone “altre” da quelle che siamo; se abbiamo paura di cambiare e di evolvere, rimarremo sempre gli stessi, ossia delle persone mediocri costantemente insoddisfatte.
Marco è un grande cesellatore: usa una terminologia che apre grandi spazi alla meditazione: così il cieco è un mendicante che siede “lungo la strada” (Mc 10,46). Perché proprio “lungo la strada”? In fin dei conti poteva essere ovunque! Cosa vuol dirci Marco con “lungo la strada”? Se prendiamo la parabola del seminatore, leggiamo che il seme che cade “lungo la strada” viene divorato dagli uccelli (Mc 4,4). Nello spiegare poi la parabola chiarisce che “quelli lungo la strada sono coloro nei quali la parola è seminata; appena la odono, viene subito Satana e la porta via” (Mc 4,15). Ora, sappiamo che Satana è il potere, l’ambizione, la superbia, l’orgoglio. Per cui possiamo benissimo stare sempre insieme a Gesù, come gli apostoli; possiamo andare a messa tutti i giorni, possiamo dire tutti i rosari di questo mondo, ma se lo facciamo per farci vedere, per superbia, per orgoglio, non serve a niente; possiamo fare tutto il bene che vogliamo, ma se lo facciamo per sentirci migliori, più bravi, più impegnati, in una parola superiori agli altri (che magari pure giudichiamo), allora siamo “lungo la strada”: noi, cioè, il vangelo lo ascoltiamo anche, ma poi entra in gioco Satana e tutto finisce lì: il seme della Parola non ci entra dentro, non attecchisce, non porta frutto.
Inoltre, il cieco è “seduto”: cioè è fissato, bloccato, fermo nelle sue idee: è convinto di capire, è certo di vedere, di sapere, ma in realtà è cieco, perché “lungo la strada”, il male (Satana), ha annullato la sua conoscenza; è quindi un “mendicante”: è costretto cioè a dipendere dagli altri, non è autonomo; è uno che non sa camminare con le sue gambe, uno che è indeciso, che chiede sempre agli altri: “Cosa devo fare? Cosa è giusto? Vado bene così?”; uno senza iniziative, che da solo non va da nessuna parte.
Ancora: il cieco sente passare “Gesù Nazareno” (Mc 10,47). Tutti sapevano che Gesù era di Nazaret, che bisogno c’era di specificarlo? Nazaret si trovava in Galilea e la Galilea era una terra di ribelli, di rivoltosi, era il luogo in cui si concentravano i rifugiati politici; era il luogo in cui essi si nascondevano e tendevano agguati ai Romani. Dire “Nazareno” equivaleva pertanto definirlo un “galileo”, era come dargli del rivoluzionario, del ribelle, del sovversivo. E infatti il cieco chiama più volte Gesù “Figlio di Davide” (Mc 10,47-48): un titolo con cui allora si identificava il Messia davidico, che come Davide, sarebbe venuto con la forza, con la potenza, con le armi, con l’esercito: uno con il mandato di sconvolgere gli equilibri esistenti, imponendo il suo potere.
Il grande re Davide infatti aveva sì unificato le Dodici tribù d’Israele, ma lo aveva fatto in un tremendo bagno di sangue; al punto che volendo costruire il tempio (si sentiva in colpa verso Dio!), il Signore si oppone: “Tu no, hai le mani sporche di sangue per costruire il tempio” (1Cr 22,8). Era insomma un uomo spietato e frivolo. Chi è accecato dall’ideologia (religiosa o no) non vuole la vita ma la morte, l’eliminazione degli altri. Il fanatico vede solo la “sua” religione, il “suo” guru, le “sue” idee: gli altri sono tutti da eliminare.
Il cieco dunque, sentendo la presenza di “Gesù Nazareno”, dimostra di avere di Lui una conoscenza errata: per questo “incomincia a gridare”: chi è infatti che “grida” nei vangeli? Quelli che sono posseduti da uno spirito immondo! Il cieco, con le sue convinzioni, è posseduto dal demonio, è un fanatico, ha cioè un’idea sbagliata di Dio. Per questo è cieco. Quindi egli non chiede a Gesù di guarirlo ma di aver pietà di Lui (Mc 10,47-48): è ancora “seduto”, fermo nella sua mentalità e vede Gesù solo come il Messia antico; in pratica gli dice: “Sono cieco perché ho peccato (essere malati significava essere peccatori), per questo non avrò la resurrezione; tu Messia, abbi pietà di me e concedimi la resurrezione”. Egli non vede in Gesù colui che è amore, misericordia, compassione, ma solo colui che può condannare o salvare. È cieco: non ha ancora visto chi sia realmente Gesù. Sente di essere bisognoso, sente che è un mendicante, ma non ha ancora capito il suo problema. Egli non conosce la sua malattia, e quindi non può guarire: bisogna darle un nome, e solo allora sarà possibile lavorare per la propria guarigione.
Quando Gesù dice: “Chiamatelo!” e lo vanno a chiamare, egli getta via il mantello (Mc 10,50), getta via cioè quello che era prima, getta via la sua mentalità, le sue idee preconcette; è qui che si concretizza la sua “chiamata”, attraverso la rottura col passato: infatti “balza in piedi” come uno che ci vede, e come uno che ci vede “va da Gesù” (Mc 10,50); il quale gli chiede: “Che cosa vuoi che ti faccia?” (Mc 10,51). È la stessa domanda rivolta a Giacomo e Giovanni nel vangelo di domenica scorsa (Mc 10,36). Solo che allora Gesù non poté fare nulla per loro; qui invece sì. Come mai a volte Gesù non ci ascolta? Perché non ci concede sempre quello che gli chiediamo? Semplicemente perché chiediamo cose che non ci può dare. Chiediamogli le cose giuste e le avremo. Qui l’uomo cieco chiede a Gesù la fede, la fiducia, chiede insomma di cambiare. E questo Gesù glielo può dare. Ma se noi gli chiediamo una vita ricca e fortunata, se gli chiediamo che ci faccia questo o quel miracolo, che ci risolva questo o quel problema, le difficoltà della vita quotidiana, allora gli chiediamo cose che Lui non può darci: perché Dio non ci sostituisce nel fare ciò che tocca fare a noi.
Se invece noi chiediamo a Dio il desiderio e la forza di cambiare vita, di migliorare, questo Lui ce lo può dare. Se gli chiediamo la forza di affrontare le contrarietà, o il coraggio per scegliere la via tortuosa che porta a Lui, o la luce per illuminare questo nostro cammino, Lui ce li può dare. Se gli chiediamo il fuoco, l’ardore, l’entusiasmo, per poter perseverare fino alla fine del nostro percorso di cristiani, Lui ce li può dare.
Giunto ai piedi di Gesù, il cieco non grida più; non chiama più Gesù “figlio di Davide”, ma “Rabbunì”, “Mio Signore, mio Maestro”: usa cioè una confidenziale espressione aramaica con cui ci si rivolgeva a Dio (la stessa usata dalla Maddalena in Gv 20,16, la mattina di Pasqua, quando riconosce Gesù). Egli in questo momento ha gli occhi aperti: non vede più nella sua mente il falso Gesù, il messia davidico, ma vede davanti a sé il vero Messia, il Figlio di Dio; non gli chiede più di avere pietà di lui, ma finalmente: “Che io riabbia la vista, che io riabbia la mia fede”. E Gesù gliela concede. È il miracolo.

E Marco conclude commentando: “E subito egli ci vide e prese a seguirlo per la strada” (Mc 10,52).
Gli altri, la folla, accompagnano Gesù; solo lui, il cieco guarito, lo segue: perché ora lui vede chiaramente chi è Gesù. Prima non lo vedeva, pensava di seguire Gesù, ma si ostinava a seguire un messia, figlio di David, che non era Gesù. Molte persone vanno in chiesa e pregano, ma non pregano il Dio di Gesù, non lo vedono, non lo riconoscono, sono ciechi: si definiscono cristiane, ma il vangelo che seguono non scuote minimamente le loro convinzioni, le loro idee, il loro credo; non le ispira, non le guida in ciò che fanno, in ciò che sentono, in ciò che vivono.
Sono tanti ciechi, sono tanti Bartimeo: hanno bisogno di guarire per poter finalmente “vedere” il Dio di Gesù: un Dio che si aspetta da noi di essere riconosciuto e amato; un Padre sempre pronto ad accoglierci e a guarirci dalla nostra deviante cecità; un Dio Amore che illumina, sorregge e guida in ogni momento il nostro cammino, la nostra vita; un Dio che ci chiede soltanto di amarlo, umilmente e sinceramente, coinvolgendo in questo nostro amore anche tutti i nostri fratelli. Amen.



giovedì 18 ottobre 2018

21 Ottobre 2018 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo. Egli disse loro: Che cosa volete che io faccia per voi? Gli risposero: Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” 
(Mc 10,35-45).

Gesù, mentre prosegue il suo cammino verso Gerusalemme, cerca di istruire, di preparare i suoi discepoli alla tragica conclusione della sua missione terrena, descrivendone sempre più apertamente i particolari. I discepoli però dimostrano ancora una volta di non comprendere le sue parole: per loro Egli è e resta il messia, l’inviato di Jahweh, con il compito di ristabilire, di ricompattare il regno d’Israele, riportandolo allo splendore del periodo Davidico.
Non capiscono, non vogliono capire: e anche questa volta prevale in loro l’idea della restaurazione politica guidata da Gesù; niente quindi di più naturale che due dei dodici discepoli, si avvicinino a Lui per fargli delle richieste personali in vista della sua affermazione gloriosa. Si tratta di Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo: due personaggi piuttosto singolari, tanto da venire soprannominati i “Boanerghes”, i figli del tuono, grazie alla loro indole collerica, ambiziosa, prepotente, suscettibile, sempre pronta alla rissa. E lo dimostrano subito con il tono perentorio con cui si rivolgono a Gesù: “Noi vogliamo che tu ci faccia”. “Noi vogliamo”: non esprimono un desiderio, il loro è un ordine; non chiedono umilmente, ma vogliono, esigono, pretendono. Non accettano opposizioni.
Un comportamento decisamente agli antipodi rispetto a quello di Gesù. Egli è paziente, ascolta tutti, cerca sempre di capire, di risolvere qualunque problema, di infondere coraggio e speranza nei bisognosi; quando deve comunicare cose importanti, si ripete, spiega e rispiega in maniera che tutti comprendano. E nonostante la presunzione dell’approccio, anche questa volta Egli offre ai suoi interlocutori ampia disponibilità: “Cosa volete che io faccia per voi?”.
Aveva appena finito di dire: “Vado a Gerusalemme, forse mi prenderanno; me la faranno pagare; forse mi uccideranno; ho paura ma devo andare; statemi vicino, aiutatemi”, e dai due si sente ordinare: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37).
C’è proprio da rimanere sconcertati, allibiti: i due dimostrano chiaramente di non aver ascoltato per nulla le parole di Gesù, di non aver capito nulla dei suoi timori, delle sue preoccupazioni; dimostrano insomma di non essere per niente interessati del suo domani.
Ebbene, c’era di che spazientirsi, ma Gesù risponde pacatamente: “Voi non sapete ciò che domandate”. Non lo dice con disprezzo; la sua è una triste e amara constatazione. “Voi siete completamente fuori strada”. In effetti, un giorno Gesù avrà accanto a sé due persone, uno a destra e uno a sinistra, ma non appartengono al gruppetto dei suoi: sono soltanto due ladroni condannati a condividere con lui il supplizio della croce. Ma questo i figli di Zebedeo non lo sanno e non lo vogliono sapere; sono troppo concentrati nella visione politica della missione di Gesù, nonostante le sue ripetute dichiarazioni del contrario; dimostrano di essere degli illusi irrecuperabili, convinti come sono, che Gesù vada a Gerusalemme non per morire, ma per governare, comandare, dirigere il popolo: con loro due ovviamente ad occupare i posti di comando più prestigiosi, al suo fianco. Non hanno capito niente, perché non lo hanno ascoltato veramente: hanno sentito la sua voce ma non le sue parole; ne hanno solo travisato il significato.
Tant’è che quando Gesù chiede loro: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono stato battezzato”, cioè: “potete seguire fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, il mio destino e la mia missione?”, essi gli rispondono: “Sì, certo! lo possiamo”. Poveri illusi! Continueranno a cullarsi nei loro sogni di potenza e di gloria fino al momento dell’arresto di Gesù, quando improvvisamente si scontreranno con la realtà: “Tutti, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). La loro presunzione, le loro promesse di fedeltà assoluta e di coraggiosa condivisione dei pericoli, si dissolve in un momento come neve al fuoco.
Poi Gesù prosegue: Si, il calice mio lo berrete... e il battesimo lo riceverete..., ma non come pensate voi. Io non sono come Voi continuate a vedermi”.
“Bere il calice” era una tipica espressione ebraica che indicava la morte con il martirio. Essi pertanto accettando di berlo fino in fondo, si dichiaravano pronti anche a morire per il “loro” potente Messia; ma non per un Gesù solo, debole e indifeso.
Accortisi di quanto stava succedendo davanti a loro, dice il Vangelo, gli altri dieci discepoli si indignano con Giacomo e Giovanni; si adirano non per il modo impertinente con cui i due si sono rivolti a Gesù, ma perché stanno cercando di assicurarsi per il domani quella posizione di prestigio, cui tutti segretamente aspiravano. Questa ambizione peraltro non ci deve meravigliare più di tanto, visto che fino a poco tempo prima stavano discutendo animatamente tra di loro su chi fosse “il più grande”: e purtroppo dove c’è ambizione, ci sono divisioni, contrasti, lotte, scontri.
A questo punto Gesù si rende conto che deve chiamarli nuovamente a sé; con grande pazienza deve spiegare ancora una volta il vero motivo della sua missione. Li aveva già chiamati all’inizio della sua attività missionaria: ora li deve richiamare, per far capire loro che quel “vieni e seguimi” di allora non era finalizzato ad una passeggiata in comitiva, ma comporta un radicale e continuo “cambiamento di mentalità”; comporta l’abbandono della rigidità del proprio pensare; richiede cioè di entrare dentro sé stessi, per dare un nome, il vero nome, a tutto ciò che coltiviamo nella mente e nel cuore.
Per essi, sicuramente, la prima chiamata è stata soltanto motivo di autocompiacimento: si sono cioè sentiti gratificati nella loro ambizione, nel loro desiderio umano di emergere. Gesù non li rimprovera ora per questo; ma li porta a ridimensionare drasticamente il loro “ego”, a guardare con umiltà gli eventi della vita, il loro significato reale e profondo. E spiega: “Chi vuol essere grande sia servitore, e chi primo, ultimo”. Ecco, con due sole parole, “servitore” e “ultimo” smonta tutti i loro sogni di grandezza; due parole che ben meritano una spiegazione: il “servitore” (“diàconos”) è colui che serve gli altri volontariamente e con piacere; non è costretto, ma spontaneamente si mette a disposizione del prossimo. Lo fa per amore, per passione, per condividere con i bisognosi la gioia che sente dentro di sé. “Servire” è dunque fare gratuitamente ciò che procura gioia ad altri. Essere “ultimo”, poi, (in greco “doùlos”, lo schiavo), significa conformarsi al gradino più basso della servitù. Significa in pratica non di essere “schiavi” nel senso corrente del termine, ma di considerarci come se fossimo tali, cioè all’ultimo posto: e questo non perché siamo indegni o non valiamo niente; non perché siamo dei sottomessi senza iniziative, delle persone insignificanti: ma perché, se ci sentiamo ultimi, sappiamo che tutti gli altri sono sopra di noi, che tutti gli altri meritano onore e rispetto più di noi. I “capi delle nazioni”, chi sta ai posti d’onore, invece, non si comportano così: essi si ritengono i “primi” in assoluto, considerano tutti gli altri inferiori a loro, li guardano con disprezzo, con sopportazione, con arroganza.
E Gesù conclude: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Qui Gesù parla di “riscatto”: era il “lytron”, la somma che bisognava pagare per riscattare dalla schiavitù una persona, oppure la cifra che la famiglia doveva corrispondere ai creditori per riscattarsi dai debiti, o il prezzo da liquidare ai vincitori per far rimettere in libertà i loro cari catturati in battaglia.
Gesù dunque si fa uomo come noi, per pagare con la sua vita il “lytron”, il riscatto per la vita di “molti”, per l’umanità intera. E per questo sacrifica, come sottolinea qui il testo, la sua “psyché”: mette cioè sul piatto del riscatto la sua vita, la sua “vitalità”, la sua energia, la sua forza, la sua fiducia in Dio, la sua conoscenza del Padre: in una parola, tutto quello che lui ha lo investe per liberarci, per affrancarci, per toglierci dalle nostre prigioni e dalle nostre schiavitù, per ripagare tutti i nostri debiti; è venuto su questa terra e ha speso tutta la sua vita, perché noi potessimo essere liberi, dimostrando con ciò quanto grande fosse il suo amore per noi.
Questo dunque ci insegna Gesù nel vangelo di oggi: che anche noi dobbiamo amare, servire umilmente i nostri fratelli: dobbiamo cioè mettere a loro disposizione non solo ciò che abbiamo, ma anche e soprattutto ciò che siamo. E lo dobbiamo fare con gioia, consapevoli che in questo modo saremo utili, faremo del bene; la nostra vita, ciò che siamo, diventerà la “vita” dei fratelli bisognosi: noi cioè rinasceremo in loro per diventare vita, gioia, serenità. Solo così esprimeremo totalmente le nostre potenzialità. Perché per i nostri fratelli sofferenti e bisognosi, per i nostri cari, per gli amici, per i conoscenti, in una parola per il nostro “prossimo”, che noi ci siamo o non ci siamo non è la stessa cosa: perché la nostra presenza o la nostra assenza determina nella loro vita un radicale cambiamento! Penso che il momento peggiore nella vita di un uomo sia quello in cui si rende conto di condurre una esistenza inutile, un’esistenza senza ideali, senza alcun senso; una vita arida, improduttiva, senza linfa, che non serve a nulla: a che pro allora vivere una vita che non è vita? Altra cosa invece è vivere per donare, vivere per amare; vivere per far vivere gli altri, mettendo a loro disposizione l’amore, la carità del nostro cuore: un amore, una carità, che di volta in volta si trasformano in tenerezza, conoscenza, festa, unione, silenzio, preghiera. Come ci ha insegnato Gesù. Amen.


giovedì 11 ottobre 2018

14 Ottobre 2018 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


“Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17-30).

Il vangelo di oggi racconta di un uomo. Un uomo ricco, un uomo senza nome, come lo sono tutti i ricchi del vangelo, va da Gesù. Anzi: gli corre incontro; dimostra di provare nel suo cuore un grande desiderio di conoscerlo, è molto motivato. È alla ricerca di qualcosa che gli manca, sente che nella vita c'è un di più da raggiungere. Fosse stato felice, soddisfatto di come viveva, sicuramente non si sarebbe dato così tanto da fare, non avrebbe corso. Ma egli sente un grande vuoto dentro di lui.
E quest'uomo s'inginocchia come si faceva una volta con i personaggi illustri, con i maestri di vita: il gesto di inginocchiarsi rivela infatti la sincerità di voler sapere, di imparare, evidenzia l'umiltà e la disponibilità dell’animo a ricevere consigli. Egli chiama Gesù “buono”, senza accorgersi che questo complimento tradisce in lui una certa “captatio benevolentiae”, il desiderio cioè di riuscirgli subito simpatico, di farsi benvolere, tanto che Gesù quasi si indispettisce: “Perché mi chiami buono?”. “Non adularmi, non farmi troppe moine, troppi complimenti gratuiti”. Gesù si schermisce di fronte a tanto entusiasmo. “Nessuno è buono, se non Dio solo”. La sua è una risposta un po’ sibillina: potrebbe essere fraintesa: non è anch'Egli Dio? mette forse in dubbio la sua bontà? No, le sue parole vanno oltre il senso immediato; egli vuole praticamente metterci in guardia dalla nostra faciloneria di dare troppo credito al primo arrivato; di affidarci acriticamente a qualunque “predicatore di verità”: “Nessuno è buono…”. In altre parole, vuole aprirci gli occhi: “non dovete prendere per oro colato tutto ciò che i vari “guru”, i vari santoni vi predicano; non dovete dipendere completamente da gruppi “speciali”, da leader invasati, da movimenti, associazioni, che propongono idee più sante del vangelo stesso. Dovete essere adulti; non comportatevi da neonati deboli e fragili, che dipendono in tutto dalla mamma. Avete un cervello, conoscete me e i miei insegnamenti, ragionate e agite di conseguenza”.
L’uomo del vangelo esterna dunque a Gesù il suo problema: che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”: e la risposta di Gesù è immediata: “devi semplicemente osservare i miei comandamenti, nient’altro!”. Beh, tutto qui? L’uomo si sente sollevato: sa di essere in regola, di essere osservante, è una cosa che ha sempre fatto: “Maestro tutte queste cose le ho fatte fin dalla mia giovinezza”. E non lo dice per vantarsi: è uno che parla seriamente, onestamente, con umiltà. Non si tratta di un megalomane, di uno sbruffone; è una persona che sta cercando veramente qualcosa di più, che vuole veramente placare la sua sete di vita, di vivere ad alta quota; è uno con una grande anima, e se si butta ai piedi di Gesù è per avere un consiglio, per dirgli che non è soddisfatto di quanto gli altri maestri gli hanno insegnato; non lo hanno convinto nel cuore.
Gesù stesso rimane colpito da tanta determinazione: si ferma e lo fissa (il verbo greco “emblepsas” dice letteralmente gli “penetra dentro”, lo scruta nel profondo, per sincerarsi della sua buona fede. Capisce che il brav’uomo aveva sì osservato quanto la legge gli chiedeva, ma nella sua scrupolosità non si era mai chiesto “come”, con che animo, con quale spirito l’avesse fatto!
E Gesù, nella sua infinita misericordia, “lo amò”: non perché fosse stato bravo, non perché fosse stato veramente osservante e avesse agito con rettitudine, ma “lo amò”, lo sentì vicino al suo cuore, perché capì che il poveretto non aveva capito l’essenziale, era uno sprovveduto, uno che nella sua vita aveva sbagliato tutto anteponendo una sterile osservanza dei regolamenti ad un comportamento basato sulla carità e l’amore. “Lo amò” per dimostrargli che quanto gli avrebbe chiesto subito dopo, richiedeva certamente una pari osservanza dei comandamenti, ma fatta questa volta con uno spirito completamente diverso; “lo amò”, perché capì di avere davanti a sé un poveretto che viveva auto compiacendosi dei suoi meriti, dei suoi credo, delle sue impostazioni di vita, tutte cose però che, fatte come lui le faceva, non erano in grado di trasmettergli gioia, serenità, soddisfazione interiore.
E proprio perché lo ama, Gesù gli offre la possibilità di abbandonare queste sue aspirazioni “esteriori”, dedicandosi ad un totale profondo servizio di Dio.
“Una cosa sola ti manca” (Mc 10,21) gli risponde infatti Gesù. Parole la cui versione italiana non rende esattamente il senso del testo greco, che letteralmente dice: “L’uno ti manca (En se usteréi)”, che ha un altro significato; se infatti noi diciamo: “Ti manca soltanto una cosa”, la frase acquista un valore positivo, come se Gesù gli facesse un complimento: “Sei davvero bravo! Fai un altro piccolo sforzo e ci sei!”. Ma non è così! Le parole di Gesù, in realtà, si rifanno ad un modo di dire del mondo ebraico: ad uno che immeritatamente si vantava di una certa quantità, per esempio 10, 100, 1000, la risposta che veniva data era appunto “ti manca l’uno”; cioè se si toglie l’uno (l’unità iniziale), l’importo intero si annulla, rimangono solo tanti “zero”; un risultato che non vale assolutamente nulla. Per cui Gesù dicendo: “Ti manca l’uno”, è come se dicesse: “Ti manca tutto; tu pensi di avere meritato tanto con il tuo comportamento, ti sei anche impegnato, ma l’hai fatto solo superficialmente, per apparire, per abitudine; non hai operato con lo spirito giusto, non ti ritrovi nulla. Per cui se vuoi veramente meritare la vita eterna: Va', vendi quello che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”.
Una condizione drastica, sconvolgente. Una doccia fredda. Il nostro uomo rimane sconcertato, perplesso, sorpreso. Non se l’aspettava: se Gesù si fosse fermato a qualcosa di ragionevole, di attuabile, certo, egli era prontissimo a fare di più. Ma quando gli viene imposto di spogliarsi di tutti i suoi averi (era molto ricco!), ossia di dare un taglio netto al suo presente, di fare un salto nel vuoto, decisivo e senza ritorno, non se la sente; rinuncia, e se ne va triste.
Ma perché Gesù è tanto severo ed esigente con lui, pur amandolo? Perché questo è l'amore del Maestro. È l’amore speciale con cui Egli tratta i suoi discepoli, quelli che vogliono seguirlo senza voltarsi indietro, quelli che lavorano tutto il giorno nella sua vigna sopportando il caldo torrido del giorno, senza avanzare alcuna pretesa. Gesù scorge le potenzialità che queste persone hanno dentro, e le chiama non a divertirsi, ma a prestare un faticoso servizio; Egli le “advocat”, le “convoca” una per una; le ama dando loro la grazia speciale della “vocazione”: “Tu hai qualcosa di grande, di speciale, dice ad ognuna. Abbi fiducia in ciò che senti dentro. Tu puoi volare molto in alto, non accontentarti di strisciare per terra; rischia, buttati, segui di slancio ciò che io ti suggerisco, lascia il facile, scegli il difficile, entra tra i “chiamati” a lavorare esclusivamente per me, vivi nel mio amore e il mio amore ti trasformerà”.
Non si tratta quindi per Gesù di essere troppo esigente con quell’uomo: è un invito che ripete continuamente a tutti, anche a noi: chiaramente non intende certo obbligare nessuno a “vendere” tutti i beni materiali, a disfarsi di ogni possibile ricchezza: qui Egli allude ad un altro genere di “ricchezze”, altrettanto umanamente ambite, ma che finiscono per schiavizzarci, per inibire qualunque nostro tentativo di andare verso di Lui: come l’attaccamento morboso alle cose di questo mondo, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, alla nostra mentalità deviata, alla doppiezza, alla falsità, alla lussuria, e via dicendo.
Una prospettiva sicuramente difficile, ma non impossibile: un invito soprattutto che non giustifica alcun rifiuto da parte nostra. Purtroppo però anche noi, come l’uomo del vangelo, gli giriamo le spalle; e ce ne andiamo tristi: ci rendiamo conto di sbagliare, ma giudichiamo le sue condizioni troppo pesanti, rischiose, difficili; la paura, l’indolenza, lo sgomento ci frenano: un conto è camminare tranquillamente, senza farci mancare nulla, magari cercando anche di migliorarci, di fare le cose per bene, un altro è invece dover fare un salto di qualità impegnativo e traumatico.
Gesù aveva visto sicuramente qualcosa di grande in noi, aveva fatto dei progetti su di noi. Per questo ci ha invitato a seguirlo. Noi abbiamo inizialmente aderito al suo appello, ma poi non abbiamo avuto il coraggio di alzare le vele e di “prendere il largo”. Più che a Gesù abbiamo detto “no” a noi stessi: ci siamo accontentati dei nostri traguardi mediocri e infruttuosi. Potevamo vivere al suo fianco alla grande; potevamo vivere esprimendoci “divinamente”; potevamo volare ad alta quota, ma per paura, per ignavia, per pigrizia abbiamo scelto la polvere. Una scelta infelice che ci condizionerà tutta la vita. Una spina costante che ci logorerà l’anima. Potevamo essere aquile, seguire il richiamo del cielo, librarci liberi verso il sole, raggiungere le più alte vette immacolate; abbiamo invece preferito il basso profilo della serpe, strisciare tra le sterpaglie della pianura, ammirare il cielo da lontano, nascosti tra le aride pietraie.
Purtroppo ci sono cristiani che pensano ancora di garantirsi il Regno di Dio facendo beneficienza, facendo offerte alla Chiesa, partecipando a manifestazioni religiose, facendo tante buone azioni, tante preghiere, conducendo una vita “onesta”: un po' come sono soliti fare con la raccolta dei “bollini” al supermercato o dal benzinaio: se raggiungono un certo punteggio, se riempiono tutte le caselle vuote della tessera, hanno “diritto” al premio. Semplice ed elementare. Ma con Gesù non funziona così: il Regno dei cieli non è e non sarà mai un diritto, ma va meritato proprio spogliandoci completamente delle nostre “ricchezze”, del nostro “io”; perché, dice Gesù, per quanti sono “attaccati”, legati”, alle loro “ricchezze”, al loro mondo, ai loro amici, alle loro feste, alle loro idee, al loro egoismo, non solo è difficile entrare nel Regno, ma impossibile; addirittura: “È più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Ora, pur ammettendo una possibile errata trascrizione del termine greco “kàmilos” (=gomena, grossa fune con cui si ormeggiano le navi) con “kàmelos” (=cammello), la forza dell’esempio iperbolico di Gesù rimane invariata: per chi è “ricco” di mondanità entrare nel regno di Dio è assolutamente impossibile, esattamente come è impossibile che una “gomena” o un “cammello” passino per la cruna di un ago. Gesù è chiarissimo, le sue sono argomentazioni inoppugnabili.
Del resto un attaccamento smodato alla mentalità di questo mondo, non solo non ci salva, ma non ci fa neppure vivere; perché diventa una autentica schiavitù dello spirito, in grado di inibire ogni nostra positiva iniziativa. Diventiamo cioè succubi del pensiero dominante di una società ormai atea, dei suoi costumi, delle sue ideologie, delle sue prevaricazioni, delle sue insanabili anomalie.
Ci sono persone che nella loro vita passano spasmodicamente da una “ricchezza” all'altra: donne disponibili e disinibite, abitazioni sontuose, automobili fuori serie, impieghi sempre più esclusivi, posizioni sociali sempre più prestigiose. Inseguono, passo dopo passo, traguardi ambitissimi ma effimeri, instabili, transitori: sperperano insomma la loro vita nel rincorrere un qualcosa di logorante, che in prospettiva si rivelerà completamente inutile, non varrà nulla, non assicurerà nulla, non darà mai alcuna felicità duratura.
Cerchiamo allora di non farci mai fagocitare da questo demone del “possesso”: perché solo se resisteremo nella nostra umile “povertà” al seguito di Gesù, potremo un giorno ottenere la Pace, la Felicità, l’Amore autentico: quella totale simbiosi con Lui che non avrà mai fine. Amen.




giovedì 4 ottobre 2018

7 Ottobre 2018 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario


“All’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due ma una sola carne” (Mc 10,6-8).

Sono parole davvero rivoluzionarie per quel tempo: riconoscono cioè pari dignità e diritti alle donne, ponendole sullo stesso piano del maschio. Dette subito dopo il tentativo dei farisei di mettere Gesù alla prova, di sconfessarlo, con la questione sulla liceità del “ripudio”, sono parole pesanti, programmatiche, che meritano una nostra attenta lettura.
Prima di tutto qui Gesù non dice che i due “saranno un’unica cosa”: perché se così fosse, se le due persone semplicemente si fondessero, una delle due scomparirebbe, verrebbe soffocata, fagocitata, “mangiata” dall’altra. Una “carne sola” (in ebraico “basar ehad”, cioè una carne “unita”) indica invece la completezza di una unione, una unione che raggiunge il “livello creativo” di Dio, che trascende di molto quello semplicemente materiale. Se i due non trovano questa unità, totalizzante e profonda, significa che tra loro non c’è un vero rapporto, non c’è “unione”, non c’è quell’amore autentico, quell’incontro profondo tra i due, maschio e femmina, contemplato nel progetto iniziale di Dio.
“Essere uno”, “essere una sola carne”, inoltre, non vuol dire neppure “uni-formarsi” all’altro, nel senso di compiere le stesse cose, di fare le identiche scelte, di inibire la propria personalità; l’unione vera è tutt’altro, è “com-unione”, alleanza con l’altro; è compenetrazione di sentimenti, di cuore, di due “persone”. Perché solo così, maschio e femmina “uniti”, potranno realizzare, completare, dare un senso al loro progetto di vita.
Che è anche il progetto di Dio. Tant’è che ogni elemento è predisposto anche morfologicamente a questa unione e integrazione, in modo da eliminare automaticamente qualunque sostituzione di genere, qualunque confusione di ruolo e di immagine: il maschio deve essere maschio, la femmina deve essere femmina. Questa è la famiglia: ognuno con un suo ruolo preciso, secondo le leggi immutabili iscritte nella natura umana. 
Così per esempio nell’educazione dei figli: il papà non può essere la mamma e la mamma non può essere il papà. È quindi assurdo ipotizzare una “famiglia” con due “genitori” dello stesso sesso. La donna, nella famiglia, è colei “che c’è”, colei che è sempre presente, che avvolge, che custodisce, che ama, che protegge. L’uomo è invece colui che fa', che costruisce, che ha il compito di mettere il figlio davanti alle proprie decisioni, alle proprie responsabilità, alla gestione della propria libertà. Il padre inserisce il figlio nella società e lo costringe a confrontarsi con gli altri suoi pari; gli insegna le regole, il confronto, il rispetto per gli altri.
Sono ruoli diversi che richiedono entità diverse. Ecco perché in casa, in famiglia, non possono esserci confusioni: né due papà né due mamme; ecco perché il riconoscimento legale in questo senso, sostenuto oggi anche da molti cristiani e cattolici, è puro squilibrio, coercizione della natura, incoscienza; è un “accostamento” di due entità diverse, mai una loro “unione”.
Inutile girarci intorno: il papà è il papà e la mamma è la mamma: nessun surrogato, nessun miscuglio contro natura, perché la differenza c’è, eccome!
Questa è l’unione che, come dice Gesù, l’uomo non deve “separare”: perché questa appartiene al progetto iniziale di Dio.
Se l’uomo separa il rapporto fisico, la propria soddisfazione sessuale e ideologica, dall’amore oblativo, dalla condivisione più profonda dei sentimenti, dalla stima, dalla comprensione, dal valore della fedeltà, dal progetto di procreare nuove vite, se altera insomma questi componenti essenziali dell’unione maschio e femmina, allora i due individui staranno anche insieme, ma non saranno mai “uno”, non saranno mai “uniti”; il loro innaturale e sterile progetto di vita contiene già “in nuce” una loro insanabile “divisione”, è cioè già minato in partenza da un mortale divorzio mentale. Perché se vengono a mancare questi elementi, tutto il castello umano crolla, tutto viene meno, non esiste più alcuna base su cui costruire: ci sarà solo uno “stare insieme” aleatorio, vuoto, spiritualmente squallido, senza alcun vitale contenuto.
Allora, contrariamente ai farisei che si preoccupavano soltanto di conoscere quali fossero i motivi leciti per ripudiare la moglie, gli sposi cristiani devono lavorare continuamente sulla loro unione matrimoniale, devono costruirla, fortificarla, difenderla, in modo che il loro amore, curato e perfezionato, assomigli sempre più a quello vero, a quello di Dio, al suo Amore ineffabile.
L’amore di due creature, sinceramente dato e ricevuto, è meraviglioso! Vivere questo amore riempie il loro cuore, la loro vita, fa vibrare la loro anima; per amore sono pronti a rischiare tutto, a cambiare radicalmente l’esistenza, le proprie vedute, le proprie convinzioni; perché amare veramente significa lasciarsi travolgere da quella spirale magnetica, potente e inarrestabile, che li attrae trasformandoli in una sola “unica carne”.
In questa nostra società mondana e trasgressiva dobbiamo essere convinti che l’amore vero esiste ancora: molti purtroppo lo ritengono impossibile, superato, e ricorrono a surrogati, si accontentano di ripieghi. No: non solo è ancora possibile amare ed essere riamati veramente, ma è soprattutto possibile imparare ad amare sempre più e sempre meglio, come Gesù ci ha insegnato.
Il suo concetto di “amore” infatti necessita di un esercizio permanente: non è un dono, non cade spontaneamente dal cielo, ma deve essere quotidianamente conquistato, perfezionato, cresciuto, accudito, fortificato. Bisogna soprattutto imparare a riconoscerlo e a distinguerlo da quello illusorio e falso, da quell’amore che oggi, apertamente camuffato, viene contrabbandato da una mentalità deviata come genuino, lecito, decisamente intrigante.
Il vangelo di oggi infine ci porta ad un’ultima riflessione: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”.
Dopo la catechesi sul matrimonio, il testo del vangelo introduce il tema dei bambini.
Forse è un caso, o forse no, ma l’aver inserito a questo punto il discorso su di essi, acquista un significato molto particolare: perché quando la simbiosi marito-moglie si spezza, sono sempre i frutti della loro unione, i figli, i bambini, a subirne le più drammatiche conseguenze.
Checché ne dicano gli esperti, sono essi che subiscono un trauma interiore difficilmente superabile: perché, nonostante le assicurazioni, nonostante le dimostrazioni d’affetto, essi si sentiranno sempre e comunque rifiutati, messi da parte, tagliati via, estirpati dal loro habitat naturale che è la famiglia, da una vita in comune col loro padre e la loro madre.
I bambini sono l’immagine emblematica della fiducia, della speranza, del bisogno di accoglienza, del potersi gettare tra le braccia materne e paterne, le uniche in grado di offrire loro attenzioni incondizionate, sicurezza, tranquillità, perdono, misericordia, dolcezza, amore vero. E Gesù ne approfitta per darceli come esempio da seguire, come innocenza da riconquistare.
Ridiventiamo allora anche noi come bambini: rifugiamoci anche noi, come loro, tra le braccia del nostro Padre celeste. Con Lui, ancorché “adulti” peccatori, disincantati e scettici, provati dalla vita, sofferenti, stanchi, delusi, non dobbiamo più aver paura; con Lui saremo a casa, saremo accettati per quello che siamo, purificati dalle nostre miserie.
Lui ci aspetta con le braccia spalancate. Braccia che danno Vita, le sue; braccia che proteggono, che danno sicurezza, perdono, che allontanano ogni pericolo, ogni male, ogni nemico; braccia sempre pronte a sorreggere la nostra umana debolezza, a farci rialzare dalle nostre cadute; braccia tra le quali un giorno potremo trovare la Pace senza fine, la gioia dell’Amore eterno. Amen.



giovedì 27 settembre 2018

30 Settembre 2018 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

“Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (Mc 9,38-43.45.47-48).

Per inquadrare bene le proteste che Giovanni, uno dei dodici, rivolge a Gesù anche per conto degli altri, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più vicini a Gesù, non erano riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino. Figuriamoci come rimasero quando un tizio qualunque, uno che addirittura non apparteneva al gruppo che seguiva Gesù, c’era riuscito, eccome! Cosa non fa la gelosia! Cosa non fa pensare l’invidia: volevano intervenire immediatamente per impedirglielo, per farlo smettere. Già soltanto l'averlo pensato, però, mette in evidenza quanto i discepoli fossero ancora lontani dalla logica del “servizio”; erano purtroppo ancora succubi di quella mentalità degli israeliti che pretendevano di avere in esclusiva il monopolio della salvezza.
Un po’ come succede spesso anche a noi, nonostante siano trascorsi da allora oltre duemila anni: le nostre petulanti pretese hanno più o meno lo stesso sapore: “Ma come, noi che andiamo sempre in chiesa, che ci sforziamo di osservare le leggi di Dio, che non rubiamo, non uccidiamo, siamo trattati da Dio come tutti gli altri; anzi a volte Egli dimostra di amare maggiormente proprio quelli che ne combinano di tutti i colori! Questo non è giusto!”.
Se meditiamo però le parole che Gesù pronuncia nel vangelo di oggi, entriamo decisamente in crisi: praticamente demoliscono questo nostro vittimismo, questo nostro distorto modo di pensare.
È una mentalità che ci ha sempre posto al di sopra degli altri: lungo i secoli, infatti, la chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: rimanerle al di fuori era impossibile salvarsi. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè al suo interno, aveva la possibilità di essere alla fine accolto tra gli eletti: in pratica la salvezza era riservata ai soli “battezzati”: i cristiani cattolici si sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. Le parole del vangelo di oggi ci invitano invece ad essere meno trancianti, più cauti nei nostri giudizi: “Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40). Cosa vuol dirci qui Gesù? In sostanza, ci invita a non lanciare giudizi preconcetti, proprio perché le persone, nei riguardi di Dio, possono comportarsi in maniera diversa: ci sono quelle che lo combattono apertamente, che gli sono ostili, che si schierano decisamente contro di Lui e della sua Chiesa; ma ci sono anche dei non “battezzati”, di persone cioè che non praticano, che dimostrano pubblicamente di non appartenere al “gruppo” dei suoi “discepoli”, che tuttavia in cuor loro lo ammirano e apprezzano il suo vangelo.
L’appartenenza ad una presunta “élite” privilegiata, non deve mai condizionare i nostri criteri di giudizio. Dio non è una “esclusiva”, un “privilegio” riservato a qualche movimento; “avere fede” in Lui non si può dimostrare vantando una certa “iscrizione”, appartenendo ad un certo gruppo; la fede è una espressione dell’anima, dello spirito, una adesione amorevole e incondizionata a Gesù e al suo vangelo, che porta a viverli coerentemente, ad operare di conseguenza. Gesù ha abolito decisamente il criterio di scelta: “Soltanto quelli dei nostri”.
In altre parole, quando un giorno lo incontreremo, Egli non verificherà certo se abbiamo il regolare “badge” che ci identifica come cattolici; non ci chiederà sicuramente se abbiamo militato in qualche associazione prestigiosa, se ci siamo distinti in dotte disquisizioni, se ci siamo impegnati in qualche rinomato movimento carismatico; al contrario vorrà sapere cosa abbiamo fatto di buono per gli altri, come siamo messi dentro, con la nostra anima; vorrà sapere se abbiamo amato i nostri fratelli, se li abbiamo trattati con carità. Gesù non ha mai chiesto a nessuno: “Tu sei dei miei? Sei cattolico? Da dove vieni? Di che nazionalità sei?”. Al contrario chiederà: “Hai operato veramente il bene, hai amato sul serio, sei stato disponibile, accogliente, con tutti, hai ascoltato e praticato i miei insegnamenti?”. A quanti risponderanno positivamente, egli di sicuro dirà: “Dio è in te, tu sei benedetto! Entra nel mio regno”. 
Gesù in pratica oggi ci dice che Dio è disponibile per tutti, che appartiene a tutti, anche a quanti non appartengono al nostro “gruppo”, anche a chi non si definisce cristiano; il Bene è anche fuori della chiesa, perché chiunque fa il bene è legato a Dio: “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, per salvarsi, per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio, di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo spirito” (Gv 3,8). Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte venga, la verità è originata dallo Spirito”. Dovunque c’è il bene, dovunque c’è qualcuno che ama, dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto, lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Purtroppo la nostra società è ancora molto lontana da Gesù: la corruzione dilaga, la verità latita, la menzogna e l’inganno la fanno da padroni; non esiste l’ascolto, il rispetto, l’amore. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la faziosità, il preconcetto assoluto. Assistiamo ad una tendenziosa legittimazione dell’egoismo, del crimine, della violenza, dell’imbroglio. Non serve fare delle ricerche: le pagine di cronaca quotidiana, i media dell’informazione, ce ne offrono un continuo, triste, desolante florilegio.
Troppo spesso noi cattolici ci comportiamo irrazionalmente, siamo come tanti bambini capricciosi: solo quello che facciamo noi va bene, solo se viene fatto come lo facciamo noi è perfetto; solo il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro punto di vista è quello giusto. Solo il nostro Dio è quello vero!
Dobbiamo invece ascoltare tutti, avvicinarli con rispetto, confrontarci con loro e capire le loro ragioni. La religione (etimologicamente da “re-ligo” = legare insieme strettamente) dovrebbe aiutarci proprio a questo: legare insieme tutte le esperienze di vita, trovare ciò che abbiamo in comune, trovare ponti, collegamenti, riferimenti, illuminarci su ciò che unisce e su ciò che divide, per trovare una prospettiva condivisa.
Dobbiamo arrivare a pensare che le stesse cose possono essere fatte in modi diversi dai nostri, ottenendo lo stesso risultato. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli, l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere pensate e affrontate in modi diversi. E non è detto che uno sia migliore o peggiore dell’altro; che uno sia giusto e l’altro sbagliato, che uno sia buono e l’altro cattivo: si tratta semplicemente di percorrere strade diverse per raggiungere un medesimo traguardo. E questo dovrebbe bastarci.
Il vangelo passa poi a parlare dello scandalo, di questa “pietra d’inciampo” come viene definito altrove. Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di camminare. “Scandalo” quindi per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con il sesso; più genericamente è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di procedere nel nostro retto cammino.
E qui Gesù, per eliminarne ogni possibile causa, porta alcune soluzioni drastiche: sono esempi estremi, che ovviamente non vanno attuati alla lettera, ma capiti nel loro profondo significato dimostrativo. In pratica egli vuol dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male, che ti impedisce di proseguire nel tuo cammino di vita, che non ti rende libero, che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo, eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Ogni scelta importante comporta infatti un “taglio”, un cambiamento radicale, una netta inversione di rotta, una soluzione che sia in grado di modificare, recidere, neutralizzare ciò che al momento è negativo, fa male; da qui l’importanza del discernimento, dell’esame personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
Le scelte vitali straziano quasi sempre il cuore, l’anima, proprio per la loro inevitabilità: non è possibile transigere, non è possibile giocare in termini di “salvezza”: quando bisogna operare, quando è necessario incidere, bisogna farlo. Anche senza anestesia: certamente non è piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere risoluti, decisi e fermi, altrimenti ci si perde, si opta per il nulla, per la perdizione eterna. “Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna…”. Chi ha orecchi da intendere, intenda. Amen.



giovedì 20 settembre 2018

23 Settembre 2018 – XXV Domenica del Tempo Ordinario


“Partirono di là e attraversarono la Galilea, ma non voleva che alcuno lo sapesse, perché istruiva i suoi discepoli” 
(Mc 9,30-37).

Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
“Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione” (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarebbe stato “il più grande” nel nuovo regno di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue spiegazioni. Sono completamente “fuori”.
Gesù, che pensa sempre in positivo, finge di interpretare il loro parlottio come un semplice scambio di opinioni, di amichevoli riflessioni su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghìzomai”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo; quando invece la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa, un autentico “dialalèo”; in questo modo egli vuol evidenziare i due modi diversi di affrontare il discorso: Gesù è mosso dall’amore, e con amore si rivolge a loro; i discepoli invece nei loro discorsi dimostrano tutta la loro ambizione, la voglia di successo, un desiderio smodato di gloria mondana. Una differenza abissale di mentalità, che essi, colti in fallo, dimostrano di avere in parte percepito, per cui, dice il vangelo, non rispondono: “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente e di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre la loro discussione: essi infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”: due situazioni diverse, perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se per la discussione dei discepoli uno solo può diventare il “più grande”, per lui, al contrario, tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo”, non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo schiavo no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, l’umiliarci, l’esaurirci fino quasi a morire per “servire” gli altri; non vuol dire obbedire sempre e comunque passivamente, stare sempre zitti, essere accondiscendenti sempre, in qualunque caso, soprattutto quando non dovremmo, quando la coscienza ci impone di fare chiarezza per il bene di altri. Insomma non si deve accettare di essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare: si cadrebbe in una forma di spiritualità esasperata, inutile, dannosa. Significherebbe non considerare la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una creatura importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei loro confronti; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi non avere potere. Il vero potere è amare: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: dominerebbe gli altri, li terrebbe in pugno, sottomessi, li manipolerebbe.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non si relaziona con loro, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere, esercitandolo unicamente su noi stessi: per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare il nostro potere per questo, equivale solo a comportarci esattamente come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.



giovedì 13 settembre 2018

16 Settembre 2018 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario


“E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,27-35).

Il viaggio verso Gerusalemme è iniziato, e durante il cammino che lo porta nei villaggi intorno a Cesarea di Filippo, Gesù parla con i suoi discepoli. Egli Sa di essere “qualcuno” per la gente; sa di essere sulla bocca di moltissime persone; sa che in giro si parla molto di lui; è naturale quindi che il discorso cada sulla sua persona, sull’opinione che la gente ha di lui.
“Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”.
Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Ora, se per gli scribi, per i capi del Tempio, per i farisei, Gesù è un demonio, un belzebù, un “posseduto”, per le persone umili che lo hanno avvicinato, è un profeta, un uomo buono, uno “in gamba”. Non sanno bene chi egli sia, ma per loro è decisamente un personaggio carismatico; anche se non hanno capito la grande novità della sua missione, lo considerano comunque uno all’altezza dei grandi profeti.
Ma Gesù non si accontenta delle chiacchiere, vuole andare più a fondo, vuol sapere quello che “loro” pensano di lui, se almeno loro lo hanno veramente capito, e riformula la domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”. Essi infatti erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli; ad essi egli aveva più volte parlato di sé e della sua missione. Ora vuole una verifica.
Prontamente interviene “o Petròs”, il Pietro: Marco, quando lo chiama così, con l’articolo, lo fa per evidenziare la sua testardaggine, la sua ottusità; quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, l’innamorato di Gesù, lo chiama con entrambi i suoi nomi: “Simon Pietro” è pertanto l’apostolo che ama, che crede, anche se la sua fede non è ancora perfetta, se è ancora dubbiosa; “il Pietro” invece, è la pietra, l’ostinato, colui che vuole imporre a tutti le sue idee, e quindi è ostile, contrario, anche con Gesù.
Da notare che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è lui che prende la parola, parla e sentenzia per tutti. Si fa portavoce del pensiero altrui, considerandolo a priori condiviso con il suo.
Egli dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: entrambi vogliono dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una considerazione: Pietro doveva sapere perfettamente che il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gente comune, con il popolino, con gli emarginati. Ora, gli era successo di vedere Gesù accompagnarsi normalmente con questa gente? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana, quando invece il Messia avrebbe dovuto combatterli e distruggerli i pagani? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Ebbene, nonostante tutto ciò Pietro non aveva capito: egli era stato testimone di queste cose, aveva visto con i suoi occhi le fondamentali diversità tra come doveva essere il Messia biblico e come si comportava Gesù, senza che neppure un minimo dubbio si insinuasse nella sua mente. Egli infatti aveva sì guardato tutto con gli occhi, ma non con quelli del cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere bene quando invece si è ciechi.
Alla domanda di Gesù, dunque, Pietro ripete letteralmente l’appellativo tradizionale del Messia ebraico (l’unto, il Cristo), dimostrando chiaramente in questo modo di non conoscerlo, di non saper spiegare chi egli fosse realmente. Per Pietro il Cristo, il Messia, rimane colui che divide i buoni dai cattivi, gli ebrei dai non ebrei, i meritevoli dai non meritevoli: ma un Messia così è totalmente l’opposto di Gesù, il Figlio di Dio che insegna e pratica l’amore per tutti.
Egli infatti continua a definirsi semplicemente il “Figlio dell’Uomo”, non il Cristo, non il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. Un’espressione sconvolgente. Gesù, Figlio di Dio, lui stesso Dio, non si identifica come il Cristo, il Messia, l’unto delle Scritture, ma semplicemente come “uomo”, “un figlio d’Uomo”.
Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, completamente umano”. Noi pensiamo che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, “in-umani”. Ma qual è invece il “modello di Dio” che Gesù personalmente ci ha documentato? Forse il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo ferito (Lc 10,29-37). L’essere “divino” pertanto non è assolutamente proporzionale a quanto preghiamo, ma a quanto sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai un Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo un Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, che non sono assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che tu possa immaginare”.
In pratica quindi non ci limiteremo a spiegare ai nostri fratelli quant’è bello, quant’è appagante il Cielo; ma insegneremo loro come lo possono raggiungere agevolmente con le loro ali, per goderlo all’infinito. Non esibirsi in grandi disquisizioni teologiche, dunque, ma praticare umilmente la carità: questo è l’amore vero, autentico.
Per molte persone amare significa invece possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché sei come me, pensi come me, ti comporti esattamente come me; ti amo perché stai con me, sei legato a me, mi riami e sei d’accordo in tutto con me”. Ma questo non è l’amore: l’amore è volere sinceramente il bene, il meglio per l’altro, chiunque egli sia, qualunque sia il suo pensiero.
Dopo la dichiarazione di Pietro, Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità, una “imitazione” di Cristo, molto rigida e impegnativa. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio soltanto per espiare i nostri peccati, soffrendo in maniera disumana. Nella sua opera redentrice sono state messe in risalto soprattutto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso atto d’amore di un Padre che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per restituire all’uomo la sua originale dignità; lo stesso amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità a noi, come unico esempio di Vita.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? I “tre giorni” vanno interpretati con la cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a decomporsi e a perdere i suoi tratti fisionomici, sopraggiungeva la morte, definitivamente, senza speranza. Lazzaro di Betania infatti era morto già da quattro giorni all’arrivo di Gesù (Gv 11,39): da qui il disappunto dei parenti per il suo ritardo.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il patibolo, legati alla vita terrena di Gesù, non hanno più alcun potere su di lui. Egli poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma in quanto Vita, una volta morto avrebbe vinto Lui, perché la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù non ha bisogno di tempo per risorgere: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da notare l’osservazione di Marco: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti ma cerca di isolare Gesù per impedire che gli altri sentano i loro discorsi e si scandalizzino: “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu! Qui ti sbagli!”. Egli dimostra qui tutta la sua ostinazione, la sicurezza di un presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu, caro Gesù, che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde a tono, rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che non riesce ad andare oltre il pensiero degli uomini! Sei semplicemente come Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario per definizione, colui che in tribunale rappresenta l’accusa; qui Pietro è un satana perché si oppone a Gesù, ai suoi piani di salvezza, gli sbarra la strada, lo vuole costringere a sottomettersi alla sua volontà. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”; doveva cioè rispettare esattamente l’ordine datogli al momento della chiamata: “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù, non il contrario.
Quindi rivolto ai discepoli e alla folla dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Un invito che in passato veniva posto a giustificazione di una spiritualità basata sulla sofferenza, per la quale seguire Gesù significava esaurirsi, distruggersi, punirsi, rinunciare a qualunque soddisfazione (“rinnegare sé stessi”) e quindi soffrire. Più si amava la sofferenza, più si amava la propria “croce”, più si era votati alla santità. Quindi per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose belle e gratificanti della vita: ricchezze, comodità, divertimenti, viaggi, spettacoli, amore, coccole; bisognava rinunciare all’affermazione della propria personalità, annientare qualunque rigurgito di orgoglio, autodistruggersi, procedere con lo sguardo rivolto costantemente al suolo, consapevoli della propria nullità.
Ma questa non è la strada indicata da Gesù, non sta qui il Dio da seguire: il Dio da imitare, da raggiungere, è il Dio dell’uomo realizzato, dell’uomo nella pienezza della sua personalità, è il Dio della vita, della festa, della gioia, della felicità umana, dell’amore: Egli è venuto non per deprimere questa umanità, già così tanto caduta in basso, ma per esaltarla, per guarirla, per espanderla spiritualmente, per fortificarla.
Ma cosa significa allora “rinnegare sé stessi?”. Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù soltanto la possibilità di conquistare potere, prestigio, forza, autorità, benessere personale.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente per tutti: una volta incontrato Gesù sulla propria strada, una volta trovata la Vita, trovato Colui che ci riempie l’anima, dobbiamo decidere se accettare il suo invito speciale, se seguirlo oppure no, valutando dubbi, paure, tornaconti umani, progetti di vita; perché una volta deciso, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il nostro “destino” in una scelta di vita ben ponderata, matura, libera. Sono infatti le decisioni ferme, convinte, sofferte, che determinano la qualità della nostra vita. È il nostro decidere che ne inizia la formazione, la realizzazione passo dopo passo: perché siamo convinti che quella e null’altra è la “nostra” strada. Soprattutto per la vita “consacrata” (preti, frati, suore) scegliere un percorso così impegnativo, voler seguire una “vocazione” così vincolante e selettiva, senza una scelta ponderata, una decisione consapevole, convinta, significa votarsi ad un fallimento assicurato; significa procedere trascinandosi ai margini della vita. “Pretendere” poi un sovvertimento del Vangelo per poter tornare sui propri passi, sconfessare la propria decisione, tradire la bellezza di una scelta iniziale entusiasmante, è sinonimo di insipienza, di immaturità, di caducità mentale.
Del resto, qualunque decisione implica sempre una rinuncia; la vita ci prospetta una vasta gamma di possibilità, alle quali dobbiamo in gran parte rinunciare. Non possiamo fare tutto, e quindi dobbiamo accantonare ciò che riteniamo superfluo, non importante, vitale, e scegliere ciò che invece giudichiamo essenziale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Per trovare la Vita vera, dobbiamo perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo lasciare quella falsa. Amen!